CAPITOLO 8
L’evoluzione della struttura proprietaria delle
società quotate
8.1
L’assetto proprietario delle società in Europa: i casi
dell’Italia e della Francia
Un ulteriore effetto della quotazione riguarda il cambiamento della struttura proprietaria delle aziende che, in linea di massima, prima dell’ingresso sul mercato, si presenta fortemente concentrata nelle mani di una o poche persone per poi andare incontro a una maggiore diversificazione. È interessante verificare l’evoluzione del rapporto tra l’azionista che esercita il controllo nel periodo pre-IPO e gli altri azionisti intervenuti con la quotazione197.
L’ammissione in Borsa rappresenta un evento di svolta per la struttura proprietaria di un’impresa: nell’allocazione delle azioni, l’emittente può favorire piccoli o grandi investitori, a seconda dell’obiettivo in termini di ripartizione della proprietà. I piccoli investitori, che dispongono di quote modeste, sono interessati esclusivamente a massimizzare il rendimento dato il rischio del loro portafoglio; essi, infatti, non hanno alcun potere di influenzare le scelte del management e, allo stesso tempo, non hanno incentivi a monitorare l’operato dei manager essendo soggetti al fenomeno del free
rider198. Per contro, i grandi investitori che possiedono una quota consistente del capitale, hanno un maggiore incentivo a svolgere un ruolo attivo a livello decisionale.
197
A questo proposito, occorre mettere in evidenza la difficoltà di individuare presso alcune aziende un gruppo di controllo ben definito.
198 In generale, il problema del free rider si afferma quando i singoli individui sono tentati di nascondere
le proprie preferenze per evitare di pagare il prezzo di un bene, scaricandolo su qualcun altro: ciò si verifica se altre persone desiderano consumare quel bene pubblico e quindi si sa che si potrà beneficiare ugualmente dello stesso, senza essere costretti a pagare. In questo ambito invece, il problema del free rider fa riferimento al fatto che i piccoli investitori pensano che altri soggetti si occupino del controllo e quindi non si conducono tale monitoraggio.
Paesi con sistemi legislativi diversi, nonché con una cultura imprenditoriale differentemente evolutasi nel tempo, presentano fenomeni distinti in relazione alla distribuzione delle quote e all’eventuale ripartizione tra proprietà e controllo (prima e dopo la quotazione). In Europa e in particolar modo in Italia, Germania e Francia, si riscontra una proprietà molto concentrata, a differenza dei paesi anglosassoni in cui la proprietà è diffusa199 e in cui, solo raramente, si rintracciano casi di controllo di diritto200 o di fatto201.
È opportuno precisare alcuni concetti: per proprietà si intende il diritto di ottenere una quota dei cash flow prodotti dall’impresa, mentre per controllo si intende la possibilità di influire sulle decisioni dell’impresa durante le assemblee generali dei soci202. Il mantenimento del controllo di un’impresa si può avere ricorrendo a meccanismi che garantiscono il controllo di diritto senza un corrispondente impegno nella proprietà: l’emissione di diverse categorie di azioni (tra le quali quelle prive del diritto di voto), per mezzo di strutture piramidali o grazie alle partecipazioni incrociate (cosiddette cross-shareholding), ovvero la detenzione reciproca di partecipazioni da parte di due società. Un azionista pertanto potrebbe occupare una posizione di vertice, pur non disponendo di quote azionarie così rilevanti203. Dalla disgiunzione tra proprietà e controllo possono scaturire rilevanti costi di agenzia204.
Nel caso di Dual Class Structure (DLS), ovvero affiancando alle azioni ordinarie altre categorie di titoli privi di diritti di voto, l’azionista di controllo mantiene azioni con diritto di voto, mentre le altre tipologie di titoli vengono riservate agli investitori esterni. In Francia emerge la regola del diritto del doppio voto (droit de vote double) secondo la quale le azioni apportano un doppio voto dopo averle tenute per 2, 3, 4 anni, in base alle condizioni previste dagli statuti delle società.
In una struttura piramidale il soggetto che ha la maggioranza proprietaria di una società a monte riesce indirettamente a controllare una società a valle. Il rapporto tra
199 La gestione dell’impresa viene affidata a uno o più funzionari-manager, indipendentemente dal fatto
che essi siano o meno azionisti (Spaventa L., 2002).
200
Ai sensi dell’art. 2359 CC, il controllo di diritto si ha quando una società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria di un’altra società.
201 Ai sensi dell’art. 2359 CC, il controllo di fatto invece si ha ogni qualvolta una società dispone di voti
sufficienti a esercitare un’influenza dominante nell’assemblea dei soci.
202
Il consiglio di amministrazione si occupa di definire, nell’interesse degli azionisti, le strategie di sviluppo della società e ad esso spetta il dovere di controllo e di indirizzo del management.
203 Spaventa L. (2002). 204
diritti di controllo e diritti ai dividendi è tanto più alto quanto è più lunga la catena205. Infine, nelle cross holding un’azienda possiede direttamente o indirettamente il controllo di altre società.
Faccio e Lang (2002)206 hanno rilevato che la DLS è usata da poche aziende in Belgio, Portogallo, Spagna, ma da circa il 66,07%, dal 51,17% e dal 41,35% delle imprese rispettivamente in Svezia, Svizzera e in Italia. Le strutture piramidali e le
cross-holding sono impiegate per controllare le società quotate, in media ciascuna per il
19,13% e per il 5,52% dei casi.
Poiché la quotazione rappresenta un fenomeno straordinario nella vita di una società, che richiede l’adeguamento delle strutture, nonché il rispetto di tutta una serie di requisiti, risulta interessante andare a verificarne l’impatto sull’assetto proprietario in termini di ripartizione tra proprietà e controllo. Una prima importante decisione per l’emittente riguarda la percentuale del capitale da rendere pubblico, oltre al prezzo di collocamento e alle eventuali categorie di soggetti speciali a cui rivolgersi e riservare eventualmente all’ingresso in azienda.
La Porta, Lopez-de-Silanes e Sheifer (1999) sono stati tra i primi a documentare che la struttura fortemente diffusa era difficile da realizzare e non si sarebbe affermata ampiamente. Altri studi tra i quali si possono ricordare quelli di Shleifer e Vishny (1997) e Claessens et al. (2000) hanno verificato, inoltre, che il modello a proprietà diffusa di Berle e Means (1932) non è così ricorrente neppure presso i Paesi più sviluppati.
A questo proposito, Faccio e Lang (2002) hanno evidenziato che le società a proprietà diffusa (widely held) rappresentano il 36,93% del campione e sono per lo più localizzate in Gran Bretagna e in Irlanda, mentre le aziende a controllo “famigliare” costituiscono il 44,29% e sono presenti soprattutto nell’Europa continentale207.
205 Il blockholder controlla per esempio il 51% dell’azienda A che a sua volta possiede il 51% della
azienda B che detiene il 51% della C (e così via). In questo modo il soggetto al vertice della piramide possiede la maggioranza dei diritti di voto di tutte le aziende della piramide con un progressivo piccolo investimento in ognuna delle imprese in fila. Nella B per esempio possiede il 26% dei diritti sui cash flow, mentre nella C il 13,27% e così via.
206 Essi hanno condotto un’analisi sull’ultimate ownership e control di circa 5000 società appartenenti a
13 nazioni dell’Europa occidentale
207
Inoltre si osserva che le strutture a proprietà diffusa sono particolarmente comuni per le grandi aziende e per le imprese del settore finanziario, mentre una proprietà più concentrata si riscontra per le imprese industriali e di più piccole dimensioni. Inoltre, in alcuni Paesi, è ancora molto forte il potere e il ruolo dello Stato che è in grado di controllare significative quote di grandi aziende.
Tabella 5. Le principali tipologie di ultimate ownership in alcuni Paesi europei.
Country Number of Firms Widely held Family State
France 607 14.00 64,82 5,11 Italy 208 12,98 59,61 10,34 Germany 704 10,37 64,62 6,30 Austria 99 11,11 52,86 15,32 Portugal 87 21,84 60,34 5,75 Irland 69 62,32 24,63 1,45 UK 1953 63,08 23,68 0,08 Total 5232 36,93 44,29 4,14
Fonte: Faccio e Lang (2002)
Come si nota dalla tabella la bassa presenza di widely held firms si rinviene per la Germania, l’Austria e l’Italia. L’Inghilterra e l’Irlanda sono i due paesi che denotano una minore interferenza da parte dello Stato, che, per contro, nell’Europa continentale, controlla anche più del 10% di alcune società in Austria, Finlandia (15,76%), Italia e Norvegia (13,09%).
Con riferimento ai diritti sui cash flow si nota un leggero scostamento (in media per l’intero campione l’ultimate ownership controlla il 34,64% dei diritti sui cash flow e il 38,48% dei diritti di voto) che evidenzia una parziale separazione tra proprietà e controllo (panel B).
Tabella 6. Ripartizione dei diritti di voto e dei diritti sui cash flow
Panel A: Control rights Country Number of Firms Mean Standard Deviation Median France 604 48,32 25,55 50,00 Italy 204 48,26 21,00 50,11 Germany 690 54,50 28,70 50,76 Austria 95 53,52 22,77 54,70 Total 4806 38,48 26,10 30,01
Panel B: Cash-flow rights Country Number of Firms Mean Standard Deviation Median France 604 46,68 26,69 48,98 Italy 204 38,33 25,13 39,68 Germany 690 48,54 31,46 48,89 Austria 95 47,16 23,52 50 Total 4806 34,64 26,76 25,90
Fonte: Faccio e Lang (2002)
Infine, se si prende in considerazione l’indice che rapporta i diritti di cash flow a quelli di controllo in media, per il campione, si aggira intorno allo 0,868: i Paesi che presentano i valori più bassi sono la Svizzera (0,740), l’Italia (0.743) e la Norvegia (0,776), mentre la Spagna (0,941), il Portogallo (0,924) e la Francia (0,930) presentano i valori più alti.
8.2
La corporate governance delle aziende italiane e
francesi: studi ed evidenze empiriche
8.2.1
Il caso dell’Italia
Prima di passare ad analizzare nel dettaglio le caratteristiche delle strutture proprietarie delle aziende italiane è opportuno illustrare brevemente i modelli di amministrazione e di controllo che le stesse società possono adottare. Nel 2003 è entrata in vigore nell’ordinamento italiano la riforma sulle società di capitali, che ha costituito uno sforzo di adeguamento con il panorama internazionale.
I tre obiettivi principali perseguiti consistono nel rafforzamento della trasparenza, dell’autonomia privata e della flessibilità. Quanto al primo obiettivo, si è cercato di attribuire una maggior responsabilizzazione agli amministratori mediante una meccanismo di irrigidimento della disciplina208; in secondo luogo, la disciplina tende a valorizzare la libertà dell’imprenditore di scegliere gli strumenti ritenuti più congrui per perseguire gli scopi aziendali209. Infine, con riferimento all’autonomia privata, la riforma italiana non prevede un unico modello di governance, ma accanto a quello tradizionale introduce altri modelli di amministrazione e controllo mutuati da esperienze straniere, che le società possono adottare alternativamente al primo, ovvero, il dualistico (two-tier), di ispirazione franco-tedesca, e il monistico (one-tier), di ispirazione anglosassone210.
La riforma ha modificato anche la struttura del modello tradizionale composto dall’assemblea, dall’amministratore unico (o consiglio di amministrazione, a cui si aggiungono eventuali organi delegati), dal collegio sindacale e, infine dai revisori contabili (o società di revisione). Oggetto di modifica è l’organo amministrativo per il quale si prevede la presenza di particolari requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza. Esso è responsabile della predisposizione degli indirizzi strategici ed organizzativi finalizzati al perseguimento dell’interesse sociale, nonché della definizione di un sistema di controllo interno attraverso la fissazione delle linee di sviluppo e la verifica periodica della sua adeguatezza. Il collegio sindacale, in qualità di
208
Il principio di trasparenza si manifesta essenzialmente nell’obbligo posto a carico degli amministratori di “agire in modo informato” e, contribuendo, di fatto, a ridefinire i rapporti reciproci tra i componenti dell’organo amministrativo (Presidente del CdA, amministratori delegati e amministratori privi di poteri). Viene fatto un esplicito richiamo alla “diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e delle loro specifiche competenze” e non più al principio generico della diligenza del mandatario.
209 Agli imprenditori viene riconosciuta la possibilità di optare per la formula giuridica più idonea al
conseguimento dei propri interessi.
210
organo di controllo, ha la funzione di vigilanza del rispetto della legge e dello statuto, dell’osservanza dei principi di corretta amministrazione e, in particolare, dell’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società211. Infine, il controllo contabile è stato attribuito in via esclusiva a un revisore esterno, spodestando il collegio sindacale di tale originaria attività.
Il modello dualistico si caratterizza per la presenza del “Consiglio di Gestione” e del “Consiglio di Sorveglianza212”, nominato dall’assemblea e a cui spetta il compito di eleggere i membri costituenti l’organo amministrativo.
Il modello monistico si presenta, a livello organizzativo, come quello più semplificato: è prevista infatti una ripartizione delle funzioni tra l’assemblea e il consiglio di amministrazione a cui si affiancano eventuali organi delegati.
Il consiglio di amministrazione nomina, fra i componenti che non siano investiti di funzioni gestorie e che possiedano particolari requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, i componenti del comitato per il controllo sulla gestione213 che opera come un organo collegiale analogo al collegio sindacale. In questo modello, i responsabili del controllo sulla gestione sono parte attiva e protagonisti della stessa, in quanto partecipano alle scelte inerenti ad essa attraverso deliberazioni consiliari.
Con la riforma, il controllo contabile è stato attribuito al revisore (o società di revisione) determinando una scissione fra controllo contabile e controllo di legalità ed efficienza della società. A tutela dell’imparzialità dell’organo revisore, il potere di nomina è rimesso all’assemblea214.
Passando ora allo studio delle caratteristiche degli assetti proprietari, le società italiane si contraddistinguono per la concentrazione della proprietà nelle mani del singolo primo azionista (o di una coalizione di azionisti). In effetti, l’analisi di Barontini e Caprio (2002) evidenzia che il valore mediano della percentuale di capitale controllata dal principale azionista è pari al 53% e che, nel 90% dei casi, egli possiede una percentuale del capitale superiore al 29%. A questo proposito, Rigamonti (2007) fa
211 Analogamente all’organo amministrativo, anche per il collegio sindacale sono previsti particolari
requisiti di eleggibilità.
212
Il consiglio di sorveglianza ha le medesime funzioni di vigilanza e responsabilità del collegio sindacale, ma ad esso sono riconosciute alcune funzioni che, nel sistema ordinario, spettano invece all’assemblea dei soci.
213 Contrariamente al consiglio di sorveglianza, al comitato per la gestione spettano solo alcune funzioni
del tradizionale organo di controllo, a cui si aggiungono ad alcune funzioni che gli sono attribuite dal consiglio di amministrazione soprattutto con riguardo ai rapporti con la società di revisione.
214 L’attività di revisione aziendale prevede l’attività di controllo contabile e la formulazione del giudizio
notare che la proprietà concentrata delle aziende italiane nel periodo pre-IPO, spesso viene mantenuta anche in seguito all’ingresso in Borsa215: la dinamica del controllo nelle aziende quotatesi rimane pressoché il medesimo anche dopo un decennio. Per il 75% delle aziende il controllo rimane invariato e l’iniziale ultimate owner è sempre il soggetto che conserva la maggioranza dei diritti di voto, mentre un cambiamento si verifica per circa il 23% delle aziende analizzate entro i primi tre anni immediatamente successivi all’ingresso in Borsa. Il 2% delle aziende fallisce.
Tabella 7. Dinamica del controllo.
No control changes 74,9% Control changes 22,7% Failures 2,4%
Total 100,0%
Fonte: Rigamonti S. (2007)
L’entrata sul listino di Borsa permette al proprietario iniziale di vendere e collocare le azioni con l’intento di diversificare il proprio portafoglio e ottenere cash, sia per finanziare gli investimenti futuri che per ribilanciare la struttura finanziaria dell’impresa. In ogni caso, sebbene la quota di partecipazione di questi soggetti si affievolisca, i diritti di voto detenuti dall’ultimate shareholder sono ancora elevati. Dalla tabella sottostante n. 3 emerge infatti che l’ultimate shareholder mantiene ancora la maggioranza dei voti e nel 27% dei casi controlla almeno i 2/3 dei diritti di voto.
Se il controllo crea valore, poiché fornisce il diritto di decidere circa l’allocazione delle risorse dell’impresa, si dovrebbe osservare un premio significativo in occasione del trasferimento del controllo per il pacchetto di maggioranza e un premio per le azioni con diritto di voto rispetto a quelle senza tale diritto. Per l’Italia, l’evidenza empirica mette in luce un forte valore del controllo. Prima dell’introduzione della normativa
215 Tale tendenza mette in risalto la volontà del gruppo di comando di detenere più del 50% del capitale
anche in seguito alla quotazione che può costituire una strategia cautelativa nei confronti di eventuali scalate ostili.
Tabella 3. I diritti di voto dell'ultimate shareholder.
Total sample Non financial Mean 52,8% 52,5% Median 53,7% 53,7%
Firms whose ultimate shareholder controls 2/3 of voting rights
27,5% 26,6%
sull’OPA, il trasferimento del pacchetto di controllo avveniva mediamente ad un valore superiore del 40% circa rispetto al prezzo di mercato, relativo alle azioni “di minoranza”216.
Così, i benefici privati derivanti dal controllo possono motivare e spingere i proprietari originari a mantenere una partecipazione elevata esercitando un’influenza determinante217.
Da uno studio condotto da Giudici et al. (2001) risulta che alla data del prospetto informativo la quota globalmente posseduto dagli azionisti con oltre il 2% è nettamente superiore al 90%. Rigamonti (2007) afferma che prima della IPO, l’ultimate owner controlla in media più del 70% dei diritti di voto: soltanto nel 24% dei casi di IPO analizzati, avvenuti tra il 1985 e il 2005, l’ultimate shareholder non deteneva la soglia partecipativa che gli consentiva di esercitare la maggioranza dei voti.
È interessante andare ad identificare la tipologia dell’ultimo azionista di maggioranza: come prevedibile, in Italia al primo posto si ritrova la famiglia (tabella n. 3). Il 70% delle aziende sono infatti dominate dalle famiglie fondatrici, mentre nel 15% dei casi è lo Stato a svolgere il ruolo di ultimate owner (si rileva inoltre che il settore pubblico è particolarmente presente in ambito bancario e assicurativo). Rigamonti ha inoltre verificato che il 56% delle aziende interessate da un rinnovamento della loro struttura proprietaria sono imprese a impronta familiare e nel 18% dei casi la famiglia abbandona completamente il controllo.
Un aspetto, in parte sorprendente per il panorama italiano, sottolineato da Rigamonti
216 Barontini R. 217
Bebchuk 1999
Tabella 8. Tipologia dell'ultimate shareholder.
Frequency distribution
Total sample Financial Non Financial
Family 70,1% 33,3% 75,7% Financial intermediary 3,2% 24,2% - Widely-held company 2,0% 3,0% 1,8% Foreign company 1,6% - 1,8% State 15,1% 36,4% 11,9% VC 8,0% 3,0% 8,7% Total 100,0% 100,0% 100,0% Fonte: Rigamonti S. (2007)
(2007)218, riguarda la presenza di venture capitalist in quasi il 9% delle società non finanziarie del campione che si sono quotate, che nel caso italiano rappresenta una percentuale elevata.
Questi dati sottolineano il fenomeno della concentrazione delle partecipazioni nelle mani di pochi soggetti. La quota posseduta dal mercato, ovvero dal pubblico (minore del 2%), secondo Giudici, con la quotazione, sale e si attesta intorno al 33%-37%.
Andando a verificare la composizione del gruppo di controllo è possibile rilevare un eventuale turnover dello stesso: Giudici et al. (2001) rilevano che il 5% del campione non presentava una struttura di controllo formalmente definita già prima della quotazione, mentre l’8% delle aziende ha conosciuto un turnover completo del controllo a seguito dell’ingresso sul mercato, e, nell’87% dei casi, il controllo è rimasto nelle mani degli azionisti che lo detenevano già prima della quotazione.
Per quanto riguarda la separazione tra diritti di voto e sui cash flow, i dati di Rigamonti evidenziano che l’indicatore scaturente dal loro rapporto non aumenta nel corso del tempo, mentre la discrepanza esistente tra media e mediana suggerisce che la maggioranza delle imprese non si preoccupa di dissociare i cash flow dai diritti di voto: pertanto, la separazione della proprietà dal controllo ricorre solo per una minoranza di società. Questo era particolarmente evidente negli anni Ottanta mentre oggi è meno accentuato.
8.2.2
Il caso della Francia
Nell’ordinamento francese è prevista una bipartizione in merito ai sistemi di amministrazione e controllo.
La maggior parte delle società francesi ha adottato lo schema tradizionale à conseil
d’administration (one tier board structure) in cui si ha il Conseil d’Administration,
composto da un minimo di 3 membri a un massimo di 24, e il Président Directeur
Général (PDG)219 . Il PDG fino al 2001 sintetizzava in un’unica persona sia la posizione del CEO (amministratore delegato) che dipresidente220; con la nuova legge, detta NRE,
218 Può rappresentare un dato non atteso tenendo in considerazione il cammino evolutivo industriale
dell’Italia, nonché il sottosviluppo del mercato finanziario italiano rispetto ad altre piazze molto evolute e dinamiche che già dagli anni ’80 hanno conosciuto l’intervento di VC e altri investitori istituzionali.
219 La legge su le Nouvelles Régulations Economiques, nota più comunemente come, la loi NRE, si fonda
un’esigenza di trasparenza dell’informazione e stabilisce che le societaà francesi quotate dovranno presentare, nei loro rapporti annuali, parallelamente alle informazioni contabili e finanziarie, anche i dati sulle conseguenze ambientali e sociali delle loro attività.
220
invece, le due funzioni si possono dissociare. Secondo la legislazione societaria francese, il PDG è eletto dal Conseil d’Administration che a sua volta è nominato dagli azionisti221. Al Consiglio sono attribuiti i “pouvoirs les plus étendus pour agir en toute
circostance au nom de la société”: ad esso spettano infatti le decisioni importanti e i
controlli sulla direzione. Si tratta di una competenza di natura generale e di tipo gerarchico, che lascia alla sua discrezionalità l’esercizio di tutti i poteri che ritiene necessario esercitare.
In alternativa le aziende francesi possono optare per una struttura duale, il two-tier
board, che prevede un Directoire e il Conseil de surveillance, mentre l’assemblea
costituisce l’organo centrale della società, rappresentativo degli interessi dei soci. Il
Directoire riunisce i poteri di amministrazione attiva e di direzione ed è costituito da un
minimo di due a un massimo di cinque direttori interni che sono nominati dall’organo di controllo. Il Conseil de Surveillance invece, designato dall’assemblea degli azionisti è revocabile ad nutum dagli stessi, ha il compito di eleggere i membri del Directoire, stabilirne la remunerazione e controllarne l’operato.
Il controllo contabile è affidato, in entrambe le strutture sopra descritte, ai
commissaires aux comptes. L’ordinamento francese sembra quindi essere stato più
attento ad evitare perpetrazione di commistioni fra i due organi societari operativi, riconoscendo all’assemblea dei soci il potere di revoca del Directoire al fine di non incorrere in revoche da parte del Conseil de Surveillance mosse più da contrasti interni o di opinione che da un effettivo malfunzionamento dell’organo di gestione222.
Passando ora alle caratteristiche dell’assetto proprietario,in Francia, come in Italia, si riscontra l’esistenza di gruppi, di un elevato peso dello Stato e di un forte ruolo della famiglia.
Belletante e Paranque (1998), con la loro ricerca, confermano la relazione esistente tra la dimensione delle aziende e la propensione alla quotazione in Borsa: come prevedibile, solo l’1% delle PMI è quotato, contro il 12% delle grandi imprese. Questa situazione è dovuta anche all’elevata incidenza del costo del processo di quotazione che risulta più penalizzante per le piccole imprese. Inoltre, si osserva che le PMI quotate solo raramente ricorrono al mercato finanziario per indebitarsi a medio o lungo termine
essendo responsabile delle operazioni quotidiane dell’azienda, così come delle decisioni strategiche di lungo periodo.
221 Nella pratica, spesso accade che il PDG selezioni lui stesso i membri del board, scelta poi
successivamente ratificata dagli azionisti.
222
attraverso l’emissione di prestiti obbligazionari dato l’elevato costo medio da pagare. Roosenboom P. (2005) segue l’approccio basato sui costi di agenzia: questi ultimi costituiscono un fenomeno consistente soprattutto laddove le istituzioni accordano una protezione legale più bassa agli azionisti di minoranza223. Egli si occupa della struttura proprietaria di un campione di 299 aziende francesi che intraprendono l’IPO tra gennaio 1993 e dicembre 1999.
Roosemboom evidenzia che al fine di limitare il potere di un manager-proprietario nei confronti dei piccoli azionisti potrebbe essere utile nominare un consiglio di amministrazione indipendente224 che monitori le loro azioni. Occorre segnalare però la difficoltà di instaurare un simile meccanismo all’interno delle aziende coinvolte in un’IPO. Gli azionisti di minoranza non possono esercitare nessuna reale influenza sui soggetti indipendenti che esercitano i loro compiti presso il consiglio di un’azienda quotando, dato che essi sono soggetti ai problemi di free-riding che inibiscono loro il coordinamento delle loro azioni in rapporto al proprietario.
Roosenboom vuole individuare le determinanti della struttura del consiglio di amministrazione di un’azienda al momento dell’IPO e ricorre anche al test del modello di negoziazione proposto da Hermalin e Weisbach, secondo il quale qualora un
owner-manager che avesse un potere contrattuale più elevato (perché per esempio possiede più
azioni o ha una più lunga carica), l’indipendenza del consiglio di amministrazione conoscerebbe un declino.
Hermalin e Weisbach (1998) nello sviluppo del modello strutturale del CdA si sono occupati in particolare del bilanciamento tra il potere del CEO e del board, rilevando una relazione inversa tra il potere di negoziazione del CEO e l’indipendenza del board
of directors.
In tale modello i CEO vorrebbero evitare il controllo da parte dei direttori indipendenti che realizzano un’attiva ispezione della loro attività. Una spiegazione alternativa, che si ispira alla teoria dei costi di agenzia, afferma che una contrazione della proprietà del CEO abbassa i suoi incentivi ad agire nell’interesse degli azionisti esterni. I due modelli, bargaining e agency models, giungono a due conclusioni diverse. L’agency theory predice una relazione inversa tra la proprietà del CEO post-IPO225.
223 La Porta et al. (1999). 224
Esso è costituito da un largo numero di direttori indipendenti che non hanno alcuna relazione famigliare o lavorativa con i proprietari.
225 Nonostante ciò, i numerosi studi che hanno adottato come prospettiva quella di agenzia, hanno inoltre
Il bargaining model assume invece una relazione non lineare solo se il CEO non possiede il pieno controllo, grandi azionisti non manager nella fase pre-IPO (come VC) possono negoziare con l’owner manager sul numero dei direttori indipendenti. Tale azione opera come un bilanciamento dell’accordo manageriale e previene un ulteriore declino della frazione dei direttori indipendenti all’interno del CdA.
Con riferimento alla struttura del board Roosemboom osserva quanto segue:
La dimensione media del board si aggira intorno a 5 unità, da un minimo di 3 a un massimo di 15 membri. Quando le aziende adottano la struttura duale la dimensione del C.d.A. è determinata come somma dei membri del Directoire e del Conseil
d’Administration. Il 49% circa dei membri sono soggetti interni mentre il 34% da
direttori indipendenti che non vantano alcun rapporto con gli altri membri. Per
shareholder representatives si intendono quei direttori indipendenti che rappresentano
gli azionisti non amministratori come venture capitalist, società commerciali e investitori istituzionali). Essi in media costituiscono il 13,5% del C.d.A.; per quanto riguarda i VC directors che perseguono gli interessi degli eventuali Venture Capitalist intervenuti per supportare l’azienda finanziariamente essi rappresentano circa il 6,5%.
declinata attraverso tutti i livelli di proprietà dei manager (Beatty, Zajac,1994).
Tabella 9. Caratteristiche della struttura del consiglio di amministrazione
Board structure Mean Min Max Board size (#) 5,30 3,00 15,00 Inside directors (%) 46,88 0,00 100,00 Indipendent directors (%) 34,21 0,00 75,00 Shareholder representatives (%) VC directors (%) 13,45 6,50 0,00 0,00 100,00 83,33 Fonte: Roosenboom (2005)