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Academic year: 2021

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4.1. Il mito di Fedra e Ippolito nel Novecento.

Dopo aver preso in esame le complesse e articolate declinazioni assunte dal fenomeno della riscrittura della tragedia antica nella seconda parte del Novecento nel panorama artistico internazionale, senza prendere in considerazione rigide restrizioni geografiche e culturali, questa ultima sezione si propone restringere il campo di analisi concentrando l’attenzione su alcune importanti produzioni teatrali inglesi, variamente legate alle operazioni di rivisitazione del patrimonio letterario della classicità.

Prima di affrontare questo percorso di analisi, è tuttavia necessario tenere presente un’importante considerazione che riguarda specificamente il teatro inglese. Infatti, anche se in tale ambito nel secondo Novecento si registra un numero elevato di rifacimenti di opere tragiche greche e romane, il fenomeno della riscrittura dei classici antichi non tocca livelli di diffusione paragonabili a quelli raggiunti ad esempio da quei nuovi soggetti politici sorti dopo il crollo dei domini coloniali. Questo aspetto caratteristico del contesto britannico emerge con ancor maggior evidenza se posta a confronto con l’uso ‘massiccio’ dei referenti della tradizione classica nei contribuiti artistici proposti da quelle realtà emergenti che si è soliti definire post-coloniali che fanno dell’appropriazione e della rielaborazione del patrimonio letterario della cultura egemone un elemento programmatico della propria politica culturale che si propone di ritagliare un proprio spazio, erodendo in modo lento ma inesorabile, il secolare predominio delle élites occidentali. Pur tenendo presente questa premessa, l’analisi che seguirà intende prendere in esame alcuni dei rifacimenti più significativi che ruotano attorno alla vicenda mitica di Fedra e Ippolito che nei secoli si è imposta come vero e proprio archetipo della storia della letteratura. Dal punto di vista cronologico, questa breve lista - introduttiva alla vera e propria analisi testuale - di versioni legate alla figura di Fedra, si limita al solo Novecento - escludendo quindi precedenti illustri, da Racine a Swinburne, - mentre il contesto geografico assunto come oggetto di analisi è circoscritto nell’area di lingua inglese, con una particolare attenzione per il Regno Unito, ma con alcune brevi incursioni anche negli ambiti irlandese e

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americano. Una volta stabiliti i termini del campo di indagine prescelto, è possibile rintracciare nel corso del XX secolo numerose rielaborazioni del mito in questione che fanno riferimento a due modelli classici principali, uno greco, l’Ippolito di Euripide, scritto e portato in scena per la prima volta verosimilmente intorno al 428 a, C., e l’altro latino rappresentato dalla Fedra di Seneca di cui non si conosce la datazione precisa.

Il primo rifacimento novecentesco è rappresentato dalla tragedia Autumn Fire (1924) dello scrittore irlandese T.C. Murray che ripropone lo schema tradizionale del triangolo amoroso che coinvolge il capofamiglia di nome Owen, suo figlio Michael e la giovane seconda moglie del padre Nance, perdutamente innamorata del figliastro. A partire dalla trama convenzionale del mito, l’autore movimenta l’azione introducendo un quarto personaggio costruito sul modello di un’altra eroina del mito greco, Elettra, che in questa versione prende il nome di Ellen, figlia e futura erede di Owen. La giovane fomenta la gelosia del padre diventando la vera causa delle disgrazie che colpiranno la sua famiglia e la porteranno alla rovina. All’incirca nello stesso periodo in cui Murray porta in scena la sua tragedia, il drammaturgo americano Eugene O’Neill traduce e adatta nel 1925 una rielaborazione dell’Ippolito, intitolata Desire under the Elms, che nel 1958 sarà trasposta per il cinema da Irwin Shaw, con la regia di Delbert Mann. Sia nella versione teatrale che in quella cinematografica, il motivo dell’incestuosa attrazione sessuale fra i due protagonisti del dramma si lega saldamente ad un altro nucleo tematico rappresentato dall’ossessione per la terra e per la ricchezza. Questa contaminazione tematica rispetto all’originale ha l’effetto di capovolgere la caratterizzazione tradizionale del personaggio di Ippolito che nei precedenti classici era rappresentato come un giovane casto e totalmente disinteressato ai beni materiale e al potere. Ancora per quanto riguarda la prima parte del secolo è necessario citare fra le varie versioni del mito anche un adattamento dell’Ippolito di Euripide tradotto e realizzato dalla poetessa americana H.D. che nel 1927 propone l’opera Hippolytus Temporizes.

Spostandoci in epoca più recente, anche nella seconda metà del secolo è possibile rintracciare alcuni adattamenti di grande importanza. In primo luogo, troviamo

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una significativa versione filmica del mito di Fedra, intitolata Phaedra e realizzata nel 1962 dal regista americano Jules Dassin il quale ponendosi sulla stessa lunghezza d’onda dalla già citata opera cinematografica di O’Neill approfondisce la tematica della bramosia di proprietà e di ricchezza, e mette in atto un’operazione di attualizzazione della vicenda mitologica rappresentando l’antico personaggio di Teseo come un ricco armatore greco di nome Thanos. Anche la figura di Ippolito è radicalmente rivisitata. Il protagonista maschile diventa un giovane e debole intellettuale che rifiuta le avances della matrigna perché omosessuale. Le trasformazioni apportate dal regista Dassin alla trama tradizionale non riguardano soltanto una diversa caratterizzazione dei personaggi, ma anche l’inserimento di una tematica di esplicita denuncia sociale che si concentra soprattutto sulla condanna dello sfruttamento dei lavoratori e della concentrazione di immani ricchezze nelle mani di pochi potenti magnati, come avviene ad esempio nell’episodio dell’affondamento di una delle navi di Thanos che provoca la morte di numerosi membri dell’equipaggio e che mette in luce la superficialità delle vicende dei ricchi personaggi a confronto con il dramma delle famiglie che hanno perso i loro cari.

Anche il poeta e drammaturgo Tony Harrison si è interessato del mito di Fedra e Ippolito realizzando una propria personale rielaborazione, Phaedra Britannica, che l’autore stesso riconduce non tanto ai modelli greci e latini, quanto alla celebre versione francese di Racine del 1677. Questa scelta di rielaborare un classico della tradizione si pone in perfetto accordo con uno degli assunti fondamentali della poetica dell’autore il quale nel corso della sua lunga carriera artistica ha in molti casi riscritto testi classici.1 Il drammaturgo ha esplicitamente definito il suo interesse ricorrente e quasi ossessivo per il patrimonio teatrale classico come il fondamento dal quale ripartire per dare vita ad una nuova forma di teatralità in netta contrapposizione con le attuali tendenze del teatro

1 Fra le numerose rivisitazioni del patrimonio dell’antichità classica realizzate da Tony Harrison è necessario annoverare le seguenti opere: l’adattamento della Lisistrata di Aristofane Akin Mata del 1964, The Oresteia, basata sulla trilogia di Eschilo, portata in scena al National Theatre nel 1981,

The Trackers of Oxyrhynchus (1988) che prende spunto da un frammento di un’opera satirica

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contemporaneo.2 Il dramma di Harrison ha esordito nel 1975 al Old Vic Theatre dove è stato portato in scena dalla compagnia teatrale del National Theatre della quale faceva parte anche la celebre attrice Diana Rigg. Tony Harrison riscrive la vicenda tradizionale ambientando il mito antico nell’India del XIX secolo durante la dominazione inglese, con il risultato di legare la rielaborazione del mito a tematiche tipicamente post-coloniali di condanna del dominio britannico sulle colonie.

Anche in ambito irlandese si registra la presenza di un’importante versione del mito di Fedra. Si tratta dell’opera drammatica di Brian Friel intitolata Living

Quarters, after Hippolytus e portata in scena per la prima volta nel 1977 all’ Abbey Theatre di Dublino. L’opera che fin dal titolo nella dicitura “after

Hippolytus” dichiara la sua volontà di rielaborazione radicale della fonte antica, descrive la vicenda della famiglia del comandante Frank Butler, che per anni ha prestato servizio nell’esercito irlandese. Di ritorno a casa dopo una lunga missione diplomatica nel Medio Oriente, il protagonista, che corrisponde al personaggio di Teseo nella versione classica, scopre che la moglie di trent’anni più giovane e il figlio, nato dal suo precedente matrimonio, hanno avuto una relazione durante il periodo della sua assenza e decide di suicidarsi sparandosi un colpo con il suo fucile. Il dramma di Friel segue la trama della tragedia euripidea solo sommariamente. La vicenda mitologica dell’amore incestuoso di Fedra per il figliastro passa anzi in secondo piano e i fatti, che nelle versioni tradizionali rappresentavano il nucleo stesso dell’azione drammatica, sono presentati come già avvenuti in un passato che lo spettatore è chiamato a ricostruire inferendo quanto precedentemente avvenuto dalle battute dei personaggi e ricomponendo i frammenti della trama che si susseguono in modo caotico senza seguire un preciso ordine cronologico. Il rifacimento del drammaturgo irlandese si presenta nella forma di una riproposizione a posteriori dei fatti che hanno portato alla tragica morte del comandante. In un’atmosfera che sembra quasi confondersi col sogno

2 Cfr. Sara Soncini, ‘Rewriting the Greeks in the Contemporary British Drama. The Metatheatre of Timberlake Wertenbaker and Tony Harrison’, in (Dis)Placing Classical Greek Theatre, edited by Savas Patsalidis and Elisabeth Sakellaridou, Thessaloniki, University Studio Press, 1999, pp. 79-81.

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nonostante l’ambientazione apparentemente realistica, i protagonisti cercano di ricostruire le circostanze che hanno causato il suicidio di Frank Butler, agendo come se si trattasse delle prove per la messinscena di uno spettacolo, rispettando le indicazioni così come sono riportate nel libro affidato all’oscuro personaggio del Sir, la cui funzione nella dinamica dell’azione drammatica è difficilmente identificabile. I critici hanno proposto svariati tentativi di interpretazione del ruolo di questo personaggio che di volta in volta hanno identificato con la figura di una sorta di ‘creatore’ che guida dall’esterno l’evolversi della vicenda, col coro della tragedia antica, col corrispondente scenico dell’autore e così via. Tutti i personaggi che compaiono nel dramma sono rappresentati alla ricerca di quel momento fatale del passato che ha determinato l’esito tragico della vicenda, una sorta di punto di non ritorno che ha inevitabilmente compromesso il corso degli eventi e a partire dal quale cercare di dare un senso e trovare una spiegazione razionale a quanto è avvenuto all’interno della famiglia,3 indagando le possibili alternative a cui un diverso comportamento avrebbe potuto portare. Fatta eccezione per il comandante Butler che con la sua scelta di suicidarsi infrange le imposizioni che la sua parte gli impongono, gli altri protagonisti, imprigionati nel proprio ruolo determinato dalla fonte classica cercano anche se in modo fallimentare, di sfuggire al proprio destino. Friel intreccia al materiale tratto dal racconto mitologico antico una fitta rete di richiami metateatrali in cui la tragedia di Fedra e Ippolito sembra inserirsi come un play-within-the-play che i personaggi si mostrano riluttanti a recitare. Il drammaturgo sfrutta questa struttura per prendere in esame la tematica che può facilmente riallacciarsi alla tipica poetica pirandelliana4 dell’identità e delle sue complesse stratificazioni psicologiche, sociali e culturali.5

Risalendo ancora cronologicamente il XX secolo fino ad arrivare agli ultimi due decenni del Novecento, si impongono sulle scene inglesi di questi anni due

3 Elmer Andrews, The Art of Brian Friel. Neither reality Nor Dreams, Houndmills and London, Macmillan, 1995, pp. 138- 143.

4 Il riferimento più calzante è in questo caso l’opera di Pirandello Sei personaggi in cerca di

autore.

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Marianne McDonald e Michael Walton (editors), Amid our Troubles. Irish Versions of Greek

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rifacimenti - che vedremo nel dettaglio nei capitoli successivi - legati più o meno direttamente al mito di Fedra e Ippolito, portati in scena da due drammaturghe di primo piano nel panorama teatrale londinese, Timberlake Wertenbaker e Sarah Kane, le cui produzioni, pur muovendo da presupposti profondamente diversi fra loro, ci permettono di rintracciare quegli aspetti che abbiamo individuato come tratti caratteristici del fenomeno della riscrittura dei testi tragici classici nella contemporaneità. La scelta di affrontare in maniera più approfondita questi due drammi fra i tanti connessi al personaggio mitico di Fedra è determinata dal concorrere di un insieme di motivi. In primo luogo, si tratta di due autrici che ci permettono quindi di prendere in esame lo sviluppo di una delle dimensioni più significative di questo fenomeno, rappresentata dalla prospettiva femminista, nel passaggio fra gli anni Ottanta del Novecento, caratterizzati da una vocazione esplicitamente politica di diretto coinvolgimento dell’intellettuale nelle questioni dell’attualità, e l’ultimo decennio del secolo durante il quale si registra un netta inversione di tendenza che prende la forma di una ferma presa di distanza nei confronti dell’atteggiamento ideologico degli anni precedenti.6 Inoltre, questi due drammi ci offrono numerosi spunti per analizzare concretamente alcuni tratti peculiari che si collocano alla base delle operazioni di appropriazione del patrimonio letterario della tradizione da parte della contemporaneità, mediate attraverso le tendenze tipiche del teatro postmoderno con la sua attenzione per la dimensione fisica del corpo, lo sfruttamento intensivo del metateatro e l’esasperata frammentazione che porta all’esplosione della forma tradizionale.

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4.1 Timberlake Wertenbaker – The Love of the Nightingale.

Timberlake Wertenbaker, drammaturga di origini americane cresciuta in Europa, nella regione francese dei Paesi Baschi, nei pressi di Saint-Jean de Luz, risiede stabilmente a Londra, che ha eletto come sede della sua attività di autrice di teatro. Wertenbaker nel corso della sua carriera teatrale ha sempre dimostrato un forte interesse non soltanto per il fenomeno della riscrittura in generale, interessandosi di opere sia di autori del passato, che del presente, 7 ma anche e soprattutto per la rivisitazione del teatro classico, portando in scena l’adattamento dell’Ecuba di Euripide nel 1995, la propria traduzione dei Tebani di Sofocle nel 1992, o ancora realizzando una versione radiofonica della vicenda mitologica di Deianira, moglie del celebre eroe greco Eracle nel 1999.

The Love of the Nightingale occupa una posizione di primo piano in questa

prospettiva della riscrittura del teatro antico da parte della drammaturga inglese che rivisita in maniera originale il materiale del mito greco, intrecciando l’azione drammatica originale con riferimenti e richiami all’attualità. L’attenzione rivolta al contesto contemporaneo si orienta in direzione delle tematiche che sono al centro della riflessione artistica dell’autrice e attraversano trasversalmente tutta la sua produzione teatrale. In primo piano, si colloca la questione delle problematiche di genere, che deriva direttamente dalla formazione di ambito femminista dell’autrice, associata a una profonda riflessione sulla violenza e sulle dinamiche del potere politico nei suoi risvolti più brutali e aggressivi. Su questa base tematica che Wertenbaker condivide con gran parte della critica femminista, l’autrice inserisce un notevole elemento di originalità rappresentato dall’indagine delle capacità espressive e comunicative della lingua, vero nucleo tematico del suo testo. L’opera ha esordito sotto la direzione della regista Garry Hynes con la collaborazione della Royal Shakespeare Company, ed è stata portata in scena per

7 Nel corso delle sua carriere teatrale la drammaturga ha tradotto e riproposto per il pubblico inglese opere come Mephisto della regista francese Ariane Mnouchkine (portato in scena in traduzione della Royal Shakespeare Company nel 1986), Leocadia di Jean Anouilh del 1987,

False Admissions; Successful Strategies; La Dispute: Three Plays by Marivaux nel 1989, Filumena di Eduardo de Filippo nel 1998.

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la prima volta nel 1988 al teatro The Other Place di Stratford–upon-Avon per poi essere trasferita al Barbican di Londra nella piccola sala del Pit. Si tratta di una rappresentazione drammatica del mito di Filomela e Procne, priva della tradizionale divisione in atti e articolata in ventuno scene. In questo rifacimento moderno si mescolano due fonti antiche principali, la tragedia di Sofocle – oggi andata in gran parte perduta – intitolata Tereus 8 e portata in scena verosimilmente

fra il 430 e il 416 a.C., e l’episodio delle Metamorfosi di Ovidio che offre la trattazione letteraria più completa del mito nell’antichità.9 Nella versione di Ovidio, che probabilmente ha come fonte di riferimento proprio il testo di Sofocle oggi perduto, il sovrano della Tracia Tereo, dopo aver sconfitto i nemici di Atene, ottiene in sposa come ricompensa la figlia del re ateniese, Procne, che porta con sé a vivere in Tracia e dalla quale ha un figlio di nome Iti. Dopo cinque anni di lontananza dalla casa paterna, Procne chiede al marito di portare in Tracia l’amata sorella minore Filomela. Durante il viaggio di ritorno in patria, Tereo, innamorato non corrisposto di Filomela, abusa della fanciulla e infierisce sulla giovane tagliandole la lingua in modo che non possa denunciare alla sorella la violenza subita. Mentre la giovane è tenuta segregata in una caverna, il re rientra in Tracia e comunica alla moglie la morte della sorella. Nel frattempo, Filomela dalla sua prigionia ricama una tela sulla quale raffigura la violenza e la successiva mutilazione delle quali è stata vittima, e che riesce a far pervenire alla sorella per informarla dell’accaduto. Le due donne cominciano progettare la loro vendetta contro Tereo, che portano a compimento durante i riti annuali in onore di Dioniso uccidendo il figlio di questo, Iti, e dando da mangiare il corpo del figlioletto al marito ignaro. Nel momento in cui l’uomo è posto di fronte alla realtà dei fatti, cerca di uccidere le due sorelle, ma viene trasformato insieme alle due donne in uccello, Procne in rondine, Filomela in usignolo e lo stesso Tereo in un upupa.

8 I frammenti superstiti della tragedia di Sofocle sono raccolti in S. Radt Tragicorum Graecorum

Fragmenta, Vol. 4: Sophocles, Goetting, Vandenhoeck & Rupercht, 1977. Per i tentativi di

riscostruzione della trama della tragedia si vedano Akiko Kiso, The Lost Sophocles, New York, Vantage Press, 1984, e Dana Ferrin Sutton, The Lost Sophocles, Lenham, University press of America, 1984.

9 L’episodio del mito di Filomela e Procne si trova nel libro VI delle Metamorfosi. Si veda la seguente edizione consultata: Ovidio Publio Nasone, Metamorfosi, BUR, Biblioteca Universale Rizzoli, 2004.

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Wertenbaker segue nelle linee generale il racconto così come ci viene narrato nelle Metamorfosi di Ovidio, ma introduce alcuni importanti cambiamenti a livello della trama. In primo luogo, sfruttando l’espediente metateatrale del

play-within-the-play inserisce all’interno della vicenda principale una rappresentazione

drammatica di secondo grado della tragedia di Euripide Ippolito che arricchisce di significato la scena dell’innamoramento di Tereo per la giovane Filomela, la quale partecipa con grande trasporto emotivo alla rappresentazione augurandosi di vivere con la medesima intensità quello stesso sentimento che nella finzione scenica ha sopraffatto la protagonista femminile Fedra. Un’ulteriore innovazione introdotta dalla drammaturga riguarda le modalità con cui Filomela comunica alla sorella la violenza subita. In questo caso scompare l’espediente della tela ricamata e si inserisce al suo posto un mimo realizzato con tre bambole nude a grandezza naturale mosse da Filomela che riproducono l’abuso del quale si è macchiato il marito di Procne ai danni della giovane. Inoltre, per suscitare una più profonda e immediata condivisone della vicenda delle due sorelle da parte degli spettatori, l’autrice sceglie di eliminare la scena di ‘cannibalismo’ in cui Tereo a sua insaputa si nutriva delle carni del figlio Iti, trasferendo piuttosto il carico di brutalità che questo episodio porta con sé dai personaggi femminili al protagonista maschile, accusato con orrore dalla moglie di essere la causa vera e unica di quella spaventosa catena ormai inarrestabile di violenza10. L’autrice arricchisce la vicenda mitica anche di un nuovo personaggio femminile, Niobe, una schiava sopravvissuta alla conquista della sua isola natale da parte degli ateniesi e incaricata di accompagnare Filomela nel suo viaggio alla volta della Tracia per raggiungere la sorella. Il ruolo di Niobe non si limita ad occupare una posizione marginale all’interno della vicenda, ma anzi svolge una funzione di grande rilevo nelle dinamiche dell’azione scenica. In primo luogo, rappresenta una delle numerose voci di donna che compaiono nel testo e contribuisce quindi a definire le innumerevoli sfaccettature dell’universo femminile che si pone al centro del

10 Procne nella scena n° 20 si rivolge al marito dicendo: “You bloodied the future. For all of us. We don’t want it”, p. 47. Tutte le citazioni tratte dall’opera si riferiscono alla seguente edizione: Timberlake Wertenbaker, ‘The Love of the Nightingale’, in The Love of the Nightingale and The

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testo. In secondo luogo, la figura di Niobe nel ruolo di spettatrice presente sulla scena assolve una funzione paragonabile a quella del coro andandosi ad affiancare ai due gruppi per così dire ‘ufficiali’ – il coro maschile e quello femminile – e rappresentando in quest’ottica un’altra possibile modalità di reazione di fronte alle tragiche vicende delle quali è testimone e che l’autrice intende mettere in questione facendo appello agli spettatori reali perché elaborino una risposta alternativa a quella di silenziosa complicità con chi esercita la violenza.

I cambiamenti apportati dall’autrice al testo antico non si limitano soltanto a considerazioni legate alla trama della vicenda, ma riguardano soprattutto trasformazioni relative al significato generale dell’opera. Le modifiche più sostanziali si orientano soprattutto in direzione di uno spostamento della prospettiva in direzione dell’assunzione pressoché esclusiva del punto di vista dei personaggi femminili. Nel caso del rifacimento di Wertenbaker, l’universo soggettivo delle due protagoniste rappresenta il fulcro dell’azione drammatica che si incentra sulle tematiche della violenza e della ‘spoliazione’ inflitte dalla società patriarcale all’universo femminile tanto nel passato, quanto nella contemporaneità. Un’immediata controprova di questo netto cambiamento di prospettiva è rappresentato dal fatto che con tutta probabilità nella versione antica il titolo dell’opera corrispondeva in origine al nome il protagonista maschile Tereo, che era quindi a tutti gli effetti l’ eroe tragico della vicenda, mentre nel caso del testo moderno questa caratteristica viene meno e anzi proprio sulla figura del protagonista maschile si concentra tutta la carica di negatività della vicenda. L’autrice inquadra l’opera all’interno di una complessa e articolata struttura metateatrale che contribuisce a determinare la natura essenzialmente dinamica della performance che riflettendosi su se stessa svela l’inevitabile influenza esercitata dai consolidati schemi di ricezione e rappresentazione del patrimonio letterario tradizionale decostruiti attraverso la parodia, la struttura fortemente interrogativa che implica il costante appello diretto allo spettatore. Questi aspetti si associano immediatamente a quelle tendenze che sono alla base di un approccio tipicamente postmoderno al teatro. Uno di questi orientamenti è rappresentato dalla continua mescolanza e collisione di esperienze e riferimenti

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fra i più disparati, ottenuta attraverso la sovrapposizione di generi e stili diversi che creano un effetto di abbassamento ironico della fonte antica. Un caso emblematico che registra efficacemente questa tendenza è rappresentato dalla scena dell’intermezzo lirico recitata dal coro femminile che prelude alla conclusione della vicenda.11 In questo caso, la serie martellante di domande che le donne si pongono su temi di una tale gravità da non riuscire nemmeno a trovare i termini adatti per dare forma verbale a questa serie di atrocità, il testo compie una sorta di accelerazione temporale, attraversando gli anni fino a ricongiungersi in maniera anacronistica con la contemporaneità tracciando un immediato parallelismo fra narrazione mitica e contesto attuale che permette di riadattare la vicenda antica in modo tale che i suoi contenuti possano risultare validi anche per il pubblico dei giorni nostri.12 La stessa giustapposizione di elementi eterogenei si ripropone negli snodi narrativi di massima tensione in cui l’autrice gioca con l’accostamento fra momenti di forte impatto emotivo e la logica fredda e tagliente dei ragionamenti di alcuni personaggi, - come avviene ad esempio, nella scena 13 in cui si assiste alla contrapposizione fra le grida strazianti di Filomela e l’accettazione rassegnata della propria condizione da parte di Niobe - dando forma ad una complessa stratificazione in cui si scontrano emozioni e dura critica sociale che impongono allo spettatore di fruire dell’esperienza teatrale tanto attraverso la razionalità della riflessione, quanto mediante la condivisione dei sentimenti. Maya Roth nella sua analisi dedicata all’analisi di The Love of the Nightingale chiarisce con efficacia questo aspetto tipicamente postmoderno dell’opera:

[…] Thus guided by the principles of feminist adaptations and postmodern storytelling rather than ancient tragedy’s unities, Wertenbaker dramaturgy connects seemingly disparate experiences, exploring the dispersal of power and hierarchies of difference. She also mixes poetry, cool distance, harrowing violence and parody, thereby

11 Scena n° 20, pp. 45-46.

12 Ad un certo punto dell’intervento del coro, le donne abbandonano all’ambito mitico a partire dal richiamo al tema della guerra universalmente presente nella storia dell’uomo, facendo riferimento ad alcuni episodi del contesto contemporaneo: “Why are races exterminated? Why do white people cut off the words of blacks? [...] Why are little girls raped and murdered in the car parks of dark cities?”, scena n° 20, p. 45.

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evoking and deconstructing a reverence for ancient myth and classical styles.13

Come l’analisi dell’opera che seguirà cerca di mettere in luce, è proprio la struttura metateatrale, mediata attraverso l’influenza delle tendenze postmoderne della convivenza e della sovrapposizione di elementi eterogenei e inconciliabili, a rappresentare il punto di incontro nel quale si intrecciano da un lato la prospettiva femminista rivolta a riappropriarsi del patrimonio letterario tradizionale ponendo in primo piano la questioni delle differenze di genere, e dall’altro la riflessione morale nella quale l’opera coinvolge lo spettatore nella prospettiva di un teatro di chiara ispirazione civile che vuole proporsi come spazio preposto per interrogarsi sulla propria responsabilità morale e come strumento di indagine sul potere tirannico e sulla violenza che esso produce.

Per quanto concerne l’aspetto del metateatro, Timberlake Wertenbaker costruisce la propria versione del mito antico realizzando una fitta rete di richiami e riferimenti che chiamano in causa in modo autoreferenziale i meccanismi di rappresentazione scenica, come la duplicazione del pubblico – quello in scena e quello reale in platea - la riproposizione di intere scene osservate da prospettive diverse, l’espediente di coinvolgere direttamente gli spettatori chiamati a interrogarsi sul proprio ruolo di testimone delle vicende, dando un contributo attivo al dibattito etico che il testo intende proporre attraverso il mito. Questi elementi di dichiarata natura metateatrale emergono nei momenti di snodo e di maggior tensione dell’azione. Fra questi episodi quello che riveste il ruolo di maggior importanza è senza dubbio la messinscena dell’Ippolito in corrispondenza della scena V con la quale l’azione principale instaura un rapporto di tensione dialettica che si rinnova nel corso di tutto il testo e di cui avrò modo di parlare a lungo successivamente perché mi permette di svelare i meccanismi di parodizzazione adottati dall’autrice per mettere a nudo attraverso lo strumento del capovolgimento ironico, le limitate capacità di indagine critica dei personaggi. Successivamente, si assiste all’introduzione di una seconda rappresentazione di

13 Maya Roth, ‘The Philomela Myth as Postcolonial Feminist Theater: Timberlake Wertenbaker’s

The Love of the Nightingale’, in Sharon Friedman, Feminist Theatrical Revisions of Classic Works: critical essays, McFarland, 2008, pp. 43-59.

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secondo grado, quella dello spettacolo muto realizzato dalla giovane protagonista per denunciare la violenza della quale è stata vittima. Infine, un terzo episodio che compare nell’opera nella scena 13, in corrispondenza del momento dello stupro di Filomela raccontato indirettamente da Niobe, svela in maniera esplicita la natura metateatrale del testo di Wertenbaker concentrando l’attenzione sul ruolo dello spettatore nella sua funzione di testimone delle vicende tragiche. In questo caso, la scelta dell’autrice è quella di non rappresentare direttamente sulla scena l’abuso subito dalla protagonista, percepito dagli spettatori soltanto attraverso le grida strazianti della donna, mentre Niobe racconta la sua terribile esperienza di sopravvissuta alla brutale conquista da parte degli ateniesi della sua terra. Questa scelta ha l’effetto mantenere l’attenzione su Filomela creando un effetto di immediatezza emotiva che attiva un senso diverso da quello della vista tradizionalmente coinvolto nella rappresentazione realistica, quello dell’udito costringendo lo spettatore ad ascoltare nella concretezza dei fatti “unwanted truth reverberating through time”14. In questo modo lo spettatore vivendo sulla propria pelle il crescente disagio prodotto dal fatto di trovarsi costretto ad assistere ad un atto di brutale violenza che si consuma in sua presenza e diventando quasi complice nella sua impotenza dell’indifferenza rassegnata di Niobe, è direttamente chiamato in causa a giudicare in maniera critica non soltanto quanto avviene sulla scena, ma anche l’atteggiamento di connivente passività dietro il quale si fa schermo la donna. È come se le affermazioni di Niobe15 che si rivolgono direttamente al pubblico, imponessero allo spettatore di interrogarsi sulle proprie reazioni di fronte a quanto è costretto a udire, chiedendo a se stesso se davvero condivide quella posizione di sotterranea complicità con l’autore della violenza. Il saggio di Maya Roth è ancora una volta essenziale per comprendere questo aspetto della performance:

14 Scena n° 8, p. 19.

15 Niobe: […] Power is something you can’t resist…oh dear, oh dear, she shouldn’t scream like that. It only makes it worse. Too tense. More brutal. […]; scena n° 13, p. 30. Secondo Roth, questo passaggip del testo impone allo spettatore di porsi delle domande sul proprio ruolo di testimone. È come se attraverso le parole della donna, Wertenker chiedesse a se stessa e al suo pubblico: “Siamo d’accordo con lei? Siamo anche noi complici?; Cfr. Maya Roth, op. cit, p. 48.

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By disrupting the onstage presentation of events and continuing the traumatical event audibly, Wertenbaker pulls audience members into the action, theatrically compelling us to participate in making meaning of the action as it happens, in effect subjectifying us in performance. As much as we are active participants in the theatrical meaning-making, however, we are also complicit in our inaction, one of the recurrent critiques of this play about doing and saying nothing when people are abused. We stay in our seats, obeying the rules of this social order (here, the theater) while screams for help in the social, not just representational, space go unaided, we become yet another in the string of witnesses (chorus members, soldiers, companions) who in Wertenbaker’s rendering of the myth do nothing, say nothing, to stop the chain of violence they see in motion.16

Il coinvolgimento emotivo determinato dalla sovrapposizione fra il racconto dell’esperienza di violenza e assoggettamento vissuta da Niobe e le grida di aiuto di Filomela costringe lo spettatore a compiere un ulteriore passo in avanti. Non soltanto attraverso l’udito fa propria l’esperienza di dolore e sofferenza della protagonista, ma l’evocazione stessa dello stupro come crimine di guerra che attraversa indifferentemente tutte le epoche lo costringe a storicizzare quel riferimento tracciando un parallelo con la propria situazione presente.17

L’inserto metateatrale che sfrutta con maggiore efficacia l’espediente del

play-within-the-play, intrecciando alla vicenda del mito di Filomela e Procne una

rappresentazione di secondo grado tratta da un’altra tragedia dell’antichità classica, l’Ippolito di Euripide, sommariamente messo in scena nella parte iniziale dell’opera, si colloca nel punto dell’azione in cui Tereo rientra ad Atena per scortare la giovane Filomela in Tracia dove la attende la sorella Procne, che giace sola e malata nel palazzo del marito.18 In questo caso, il fine della struttura metateatrale dell’episodio è quello creare una parodizzazione delle modalità di ricezione del testo antico, inevitabilmente compromesse da tutte quelle

16

Maya Roth, op.cit, p. 47. 17

In questo contesto, è necessario tenere presente il riferimento nel periodo in cui Wertenbaker esordisce con la sua opera, alla cosiddetta Dirty War in Argentina fra il 1976 e il 1983 in cui questa pratica era comunemente diffusa, ma anche in tempi più recenti, in occasione di produzioni successive del testo di Wertenbaker, al caso della guerra nell’ex Iugoslavia dove lo stupro era adottato in modo sistematico come arma di pulizia etnica

18 Per l’analisi degli aspetti metateatrali di questa scena si veda il seguente saggio da cui sono tratte le successive riflessioni relative all’episodio: Sara Soncini,‘Rewriting the Greeks in Contemporary British Drama: The Metatheatre of Timberlake Wertenbaker and Tony Harrison’ , in (Dis)Placing

Classical Greek Theatre, edited by Savas Patsalidis and Elisabeth Sakellaridou, Thessaloniki,

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incrostazioni ideologiche imposte dalla cultura dominante nel corso dei secoli, chiamando ancora una volta lo spettatore a riflettere sul proprio ruolo nell’elaborazione del significato dell’opera. Durante la rappresentazione, i personaggi della tragedia assumono il ruolo di spettatori della messinscena andando in tal modo a creare un duplice livello di ricezione delle vicende rappresentate, che coinvolge su piani diversi sia il pubblico fisicamente presente sulla scena, sia gli spettatori che assistono allo spettacolo dalla platea. Il re e la regina di Atene nel loro ruolo di spettatori, assolvono la funzione di spiegare all’ospite barbaro Tereo le convenzioni tipiche del genere tragico attraverso notazioni e commenti che sono rivolte nello stesso tempo anche al pubblico contemporaneo,19 ma che nella maggioranza dei casi si riducono a luoghi comuni – mai dimostrati – che banalizzano i contenuti profondi della tragedia antica. L’autrice mette in atto un’esplicita parodizzazione che si riflette sui personaggi stessi, descrivendo i membri dell’audience in scena come inattendibili e inaffidabili. Questa caratteristica emerge con chiarezza dall’atteggiamento del sovrano ateniese il quale si augura che la rappresentazione teatrale lo aiuti a prendere la decisione giusta nell’accordare il suo consenso per la partenza di Filomela alla volta della Tracia. In un primo momento, facendo riferimento alla battuta dell’Ippolito in cui il coro dichiara infausta e fatale la partenza del protagonista in seguito allo scontro furioso col padre Teseo, il re Pandion si dichiara contrario a lasciare partire la figlia la quale, però si prende gioco della superstizione paterna riuscendo a convincere il sovrano a consentire il suo viaggio per raggiungere la sorella Procne. Grazie ad un capovolgimento ironico dell’episodio, nell’evolversi della vicenda sarà proprio questa decisione a dimostrarsi altrettanto fatale per Filomela così come lo era stato per il giovane Ippolito.

19 Alcuni esempi significativi di questo aspetto della rappresentazione possono essere rintracciate nella scena n° 5: il re cerca di mitigare la condanna rivolta da Tereo alle tematiche delle tragedie che a suo avviso offrono un’inaccettabile giustificazione del vizio, sostenendo che “Perhaps they only show us the uncomfortable folds of the human heart” (p. 10); mentre qualche battuta più oltre la Regina invita l’ospite straniero a rivolgere la propria attenzione alle parole pronunciate dal coro: “Listen to the Chorus. The playwright always speaks through the chorus.” (p. 11).

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Lo stesso procedimento di parodizzazione dei personaggi coinvolge non soltanto le figure marginali dei sovrani di Atene, ma caratterizza anche i protagonisti principali e in particolare il personaggio di Tereo. Mentre assistono alla rappresentazione della tragedia, Filomela si schiera dalla parte di Fedra condividendo le ragioni dell’amore assoluto che dominano l’eroina, mentre Tereo, inorridito dalla passione deviata della protagonista per Ippolito, parteggia istintivamente per il personaggio maschile condannando gli effetti devastanti del desiderio amoroso. L’identificazione di Tereo con Ippolito si rivelerà apertamente ironica dal momento che sarà proprio il sovrano della Tracia ad essere trascinato nel baratro della violenza dalla passione per Filomela proprio come era avvenuto per Fedra. Sarà lo stesso Tereo nella scena XIII, in cui confessa il proprio amore per la sorella della moglie, a cercare di sfruttare a proprio vantaggio questa sovrapposizione con l’eroina della tragedia euripidea,20 facendo leva su un’improvvisa inversione dei ruoli assunti nella scena precedente che, disconoscendo quelle prese di posizione, parodizza inevitabilmente la pretese integrità morale di Tereo.

Come appare evidente, questi personaggi sono accomunati da una totale inattendibilità: ogni loro affermazione viene capovolta ironicamente e smentita nelle scene successive. Le stesse sorelle protagoniste della vicenda non sono affatto estranee a questa condizione perché anch’esse vittime dell’incapacità a comprendere la realtà che le circonda e a decifrare i messaggi dell’imminente catastrofe che si sta per abbattere su di loro. Se infatti, da un lato, Procne è incapace di ascoltare gli avvertimenti del coro, dall’altro, la stessa Filomela nell’ingenuità della sua esuberante giovinezza non percepisce fino al momento fatale della violenza i segnali sempre più espliciti dell’interessamento di Tereo nei suoi confronti.

Questo stesso aspetto coinvolge direttamente anche il coro che, mettendo in questione un’altra delle convenzioni sceniche fondamentali del teatro antico, si dimostra completamente inaffidabile tradendo in questo modo la funzione di testimone delle vicende tragiche che la tradizione comunemente gli assegna.

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Questa inattendibilità si manifesta per quanto riguarda il coro maschile, nella rinuncia a esercitare la propria responsabilità morale di fronte alla violenza di Tereo ai danni di Filomela, limitandosi al ruolo di spettatori passivi della violazione della giovane protagonista.21 In modo diverso, anche il coro femminile non può essere assunto né come punto di vista affidabile né come garanzia di una plausibile interpretazione della vicenda come invece vorrebbe la regina. In più occasioni il coro composto dal seguito di Procne dichiara la propria incapacità ad esprimersi che si manifesta come vera e propria ‘carenza linguistica’. Questo avviene sia nella scena IX in cui il coro delle donne cerca invano di mettere in guardia Procne dall’imminente sciagura, senza tuttavia riuscire a trovare le parole per avvertire la donna, 22 che anzi le tacita con durezza accusandole di parlare a sproposito. Fra i due gruppi di donne, l’ignara Procne da un lato, e il coro dall’altro, si viene a creare un’invalicabile barriera linguistica - prodotta proprio da questa mancanza di corrispondenza fra parole e realtà - che interrompe il flusso della comunicazione portando all’inevitabile fallimento di ogni tentativo di espressione autentica fra i personaggi. Questa stessa condizione di incomunicabilità fra Procne e il suo seguito si era già delineata in una scena precedente (scena IV) in cui la donna nel suo isolamento nella reggia del marito Tereo, lontana dagli affetti più cari, si domanda con insistenza dove fossero finite tutte le parole che un tempo la legavano alla sorella Filomela e che ora sembrano improvvisamente scomparse, allontanandola sempre di più dalla realtà circostante che le appare ostile e con la quale non riesce ad instaurare alcun tipo di legame proprio per questa sua incapacità a trovare i mezzi linguistici per esprimerla. La stessa situazione si viene a creare verso la conclusione dell’opera in corrispondenza dello stacco lirico che precede l’ultimo scontro fra le due sorelle e Tereo che porterà alla tragica conclusione della vicenda. Anche in questo caso, il coro femminile attraverso una serie martellante di domande lasciate senza

21 “We are here only to observe, journalists of an antique world, putting horror into words, unable to stop the events we will soon record”, (scena 6, p. 14).

22 Hero: “[...] I doubt my knowledge it disintegrates into a senseless jumble of possibilities, a puzzule that will not be reassembled, the spider web in which I lie, immobile, and truth paralysed”. Helen: Let me put it another way: I have trouble expressing myself. The world I see and the words

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risposta23 lamenta una dolorosa mancanza di parole per esprimere il proprio sgomento e gridare il proprio orrore di fronte alle brutture del mondo. Questa dolorosa povertà linguistica non si traduce mai in una rinuncia alla volontà di continuare a interrogare la realtà, accontentandosi di assistere e osservare passivamente,24 ma anzi diventa pretesto per elaborare nuove forme di espressione. Questa condizione di inattendibilità del coro che dovrebbe invece porsi tradizionalmente come testimone credibile della vicenda capace in virtù del suo punto di osservazione privilegiato, di riportare i fatti in maniera fedele giudicandoli dall’esterno, si ripercuote sul pubblico ‘reale’ che non può in alcun modo identificarsi col suo corrispondente in scena, costringendolo in tal modo a prendere in esame le modalità di ricezione ed esperienza emotiva delle vicende che prendono forma di fronte a lui. L’abdicazione dalla propria funzione morale di giudizio sulle vicende da parte del coro che può manifestarsi – per ragioni profondamente diverse - come esplicita connivenza con la violenza esercita da Tereo da un lato, oppure come dolorosa e impotente limitazione delle proprie possibilità espressive vissuta dalla controparte femminile, lascia questa posizione vacante. Di fronte a questa situazione, lo spettatore reale è chiamato non soltanto a riflettere sul peso della responsabilità che il suo ruolo di fruitore della storia tragica gli impone, ma anche a sostituirsi effettivamente al coro come testimone delle vicende, interrogandosi sulla passività della ricezione e sui limiti ideologici imposti dalla complicità con il potere politico che caratterizzano l’atteggiamento del suo corrispondente scenico, e sulla necessità di formulare una risposta diversa. Questa complessa struttura metateatrale che caratterizza il rifacimento di Wertenbaker attrae l’attenzione dello spettatore contemporaneo sull’importanza del suo contributo nel definire l’orizzonte di significato di un testo, dando forma concreta attraverso le diverse modalità di ricezione di una performance, sempre inevitabilmente condizionate dalle differenze di genere, classe e cultura, all’interpretazione di un’opera.

23 Hero: “Without the words to demand. Helen: Or ask. Plead. Beg for. [...]” (scena 20, p.45). 24

Hero: “We can ask. Words will grope and probably not find. But if you silente the question. Iris: Imprison the mind that asks. Echo: Cut out its tongue.” (scena 20, p. 45.)

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Il terzo e ultimo episodio che più esplicitamente sfrutta i meccanismi autoreferenziali del metateatro è incentrato sulla messinscena del dumb show da parte di Filomela che fa rivivere la dolorosa vicenda di violenza e di mutilazione muovendo le sue marionette. In questo particolare snodo dell’azione l’attenzione si sposta dalla presa in esame del contributo dello spettatore nella costruzione del significato di un’opera teatrale nel momento della rappresentazione scenica, alla figura stessa dell’autore coinvolto nel medesimo processo di problematizzazione della definizione dei ruoli e delle funzioni nel momento della resa scenica e della fruizione di un testo. Come spiega con grande chiarezza Sara Soncini nel suo saggio dedicato all’analisi degli aspetti metateatrali che caratterizzano la produzione artistica di Timeberlake Wertenbaker, il ruolo dell’autrice si riflette nella figura di Filomela.25 Così come la protagonista del mito si affida allo strumento della rappresentazione scenica per raccontare alla sorella la sua dolorosa vicenda di violenza, allo stesso modo la funzione principale assolta dal drammaturgo nel momento della creazione di un’opera d’arte è proprio quella di narrare delle storie suscitando grazie al genere drammatico reazioni e interrogativi nello spettatore nei confronti di quanto viene rappresentato sulla scena. Wertenbaker assume il personaggio di Filomela come simbolo della propria condizione di autrice di teatro in un mondo tradizionalmente dominato dagli uomini. In quanto donna che scrive per il teatro, la drammaturga di fronte alla condizione di marginalizzazione alla quale la società maschile ha da sempre relegato l’universo femminile, avverte la necessità di ricercare vie espressive alternative rispetto a quelle prescelte dagli autori uomini, rivolgendo il proprio interesse nei confronti di quelle modalità di comunicazione legate alla dimensione non-verbale della performance che abbiamo individuato come uno degli aspetti definitori del fenomeno di rivisitazione del teatro antico nella contemporaneità. Questa volontà di indagare diversi modi di rappresentazione da parte dell’autrice si manifesta proprio nell’episodio dello spettacolo silenzioso messo in scena da Filomela in cui la donna resa muta dalla violenza maschile, utilizza tutto il proprio

25 Cfr. Sara Soncini, ‘Rewriting the Greeks in Contemporary British Drama: The Metatheatre of Timberlake Wertenbaker and Tony Harrison’ , cit., p. 76.

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corpo per esprimersi e comunicare con la sorella, superando in tal modo la condizione di forzato mutismo che rappresenta lo stato di subordinazione e isolamento che è stato per secoli imposto alle donne anche e soprattutto nell’ambito elitario della produzione culturale e artistica:

[…] Wertenbaker employs Philomele’s performance reflexively, to explore possible modes of representation and, like the other women artists before her, she struggles to take possession of language in a culture where women’s voices have been reduced to silence for too long. Through the emblematic figure of Philomele, Wertenbaker reflects on her liminal condition as a women writer at the end of the millennium. 26

Proprio quel corpo nei secoli posseduto e abusato dagli uomini diventa il luogo eletto della rivalsa e del riscatto, grazie al quale è possibile riappropriarsi finalmente di quella possibilità di espressione sempre negata e con il quale compensare la perdita della propria voce, vissuta dall’universo femminile come vero e proprio ‘esproprio’27 delle proprie capacità di comunicare e farsi comprendere. L’importanza di questa tematica all’interno dell’opera di Wertenbaker emerge soprattutto dalla scelta dell’autrice di rappresentare direttamente la scena della mutilazione di Filomela, in netta contrapposizione con l’episodio immediatamente precedente della violenza carnale del quale invece, come abbiamo visto, viene data una rappresentazione indiretta e mediata attraverso il racconto di Niobe. Nella scena XV, la ribellione di Filomela rappresenta una vera e propria minaccia per Tereo, il quale dopo lo stupro, per evitare di essere pubblicamente messo a nudo in tutta la sua bieca meschinità dalla denuncia della protagonista, deriso e colpito nel vivo della sua mascolinità,28 esercita sulla giovane un secondo atto di violenza, quello della

26

Sara Soncini,‘Rewriting the Greeks in Contemporary British Drama: The Metatheatre of Timberlake Wertenbaker and Tony Harrison’, cit., pp.76.

27 David Ian Rabey nel suo saggio dedicato a Timberlake Wertenbaker parla di dispossession, per indicare una delle tematiche di maggior spicco nella poetica della drammaturga, ma difficilmente traducibile che ho scelto di rendere con i termini ‘esproprio’ o ‘spoliazione’; Cfr. David Ian Rabey, ‘Defining Difference: Timberlake Wertenbaker’s Drama of Language, Dispossession and Discovery, Modern Drama, 34.I (March 1991): 22-34.

28 “[…]despite my fear, your violence, when I saw you in your nakedness I couldn’t help laughing because you were so shrivelled, so ridiculous and it is not the way it is on the statues?”, scena 15, p. 35.

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mutilazione, negando brutalmente alla donna ogni possibilità di parlare come unico modo per poter riaffermare la propria virilità messa in discussione. Questa privazione essenzialmente linguistica della quale è vittima Filomela è assunta all’interno dell’opera come simbolo della condizione di obbligata marginalizzazione connaturata nella condizione femminile stessa, e si manifesta all’interno come concreta mancanza delle parole per esprimersi, oltre che come costrizione al silenzio, che in modi diversi accomuna le protagoniste della vicenda. Proprio il silenzio rappresenta uno degli elementi costitutivi di questa profonda riflessione affrontata dall’autrice – soprattutto a partire dalla seconda parte del testo in cui diventa quasi ossessivo il riferimento al fallimento dei comuni mezzi di comunicazione verbale - sui temi della capacità comunicativa del linguaggio, della sua inadeguatezza, del divario incolmabile fra il significato delle parole e la realtà che queste stesse parole intendono definire. Come abbiamo già avuto modo di vedere, tutti i personaggi femminili che compaiono sulla scena sono in qualche modo privati della loro capacità di farsi comprendere. Questo aspetto si impone con immediata evidenza nel caso di Filomela, fisicamente ridotta al silenzio dalla mutilazione della lingua, ma è possibile rintracciare i tratti di una medesima condizione di forzato silenzio anche per le altre protagoniste. Procne, che vive uno stato di allontanamento fisico e geografico dai suoi affetti più cari, sradicata dalla sua terra natale e costretta ad un doloroso isolamento in un paese straniero e ostile del quale non riesce neppure a comprendere la lingua, lamentando l’assenza di qualcuno con cui poter parlare, si trova completamente sprovvista di qualsiasi strumento verbale per definire e relazionarsi con la realtà circostante, incapace perfino di comunicare con il suo stesso seguito, quasi fosse venuta meno ogni corrispondenza fra a parole e cose:

Procne: […] Everything that was had a word and every word was

something. None of these meanings half in the shade, unclear.

Iris: We speak the same language, Procne.

Procne: The words are the same, but point to different things. We aspire to

clarity in sound, you like the silences in between. 29

29 Scena n° 4, p. 7.

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Il coro femminile a sua volta, si dimostra totalmente incapace di comunicare con la protagonista e tanto meno di mettere in guardia Procne dal pericolo imminente al quale la sorella sta per andare incontro, ma i suoi avvertimenti sono fraintesi dalla donna che liquida le parole del seguito come nonsense.30 La stessa condizione di relegazione al silenzio è condivisa anche dalla Regina, madre delle due protagoniste, la quale a differenza del marito, re Pandion, è perfino privata del nome, ma non è neppure minimamente presa in considerazione nella decisione del sovrano di dare in moglie la figlia Procne a Tereo come ricompensa per l’aiuto militare dato dal re tracio nella guerra contro i nemici di Atene, alla quale si fa riferimento nella scena iniziale dell’opera. Non ultima per importanza, questa condizione di mutismo fisico o metaforico, imposta dagli uomini all’universo femminile nella sua totalità, coinvolge direttamente anche il personaggio di Niobe, per la quale il silenzio rassegnato rappresenta la sola possibilità di sopravvivenza in un mondo dominato dalla brutale violenza maschile della quale è stata vittima durante la conquista da parte degli Ateniesi della sua isola natale come racconta alla fine della scena XIII, fra le grida di disperazione di Filomela, mentre fuori dalla scena si consuma la violenza di Tereo. Niobe nel suo pragmatismo che per molti versi sfiora un amaro cinismo, cerca di consigliare Filomela di assecondare i desideri di Tereo, utilizzando proprio la parola chiave del testo:

Niobe: Don’t be so mighty, Philomele. You are nothing now. Another

victim. Grovel. Like the rest of us.

Philomele: No.

Niobe: Be careful. Worse thing can happen. Keep low. Believe me. I know. Keep silent.

[…]

Niobe: […] she has lost her words, all of them, now she is silent. […]

Perhaps she likes being silent. No responsibility.31

Il motivo del silenzio rappresenta l’arena nella quale il tema del linguaggio si incontra con la dimensione apertamente femminista dell’opera di Timberlake Wertenbaker e che più da vicino si lega al contesto dell’attualità, proprio perché

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Scena n ° 9, pp. 20-21 (mia corsivazione). 31 Scena n° 15, p. 34.

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la condizione di silenzio condivisa dalle protagoniste dell’opera coinvolte nella ricerca di nuove soluzione espressive per dar voce alla propria esperienza, non è altro che il silenzio della soggiogazione imposto per secoli all’universo femminile dalla società patriarcale. La lingua diventa lo specchio in cui si riflettono i rapporti di forza che dominano all’interno della società riproducendo quelle stesse relazioni di potere imposte dai gruppi dominanti. Questa corrispondenza fra linguaggio verbale e potere si pone come ostacolo per poter affrontare i temi dell’oppressione e della violenza nei confronti di quei gruppi marginalizzati, – come è possibile utilizzare quella stessa lingua informata dall’ideologia dominante per denunciare il potere stesso? – ma allo stesso tempo apre alla ricerca di nuove vie espressive.32

Questa prospettiva di analisi fornisce allo spettatore la chiave per comprendere e collegare l’epigrafe tratta da un poema della poetessa Eavan Boland33 e posta in calce del testo pubblicato, e una delle scene più significative, ma anche una delle più oscure se non viene posta in relazione con il macrotesto circostante. Si tratta della scena VIII in cui il coro maschile in modo apparentemente slegato dagli episodi sia precedenti che successivi, propone una definizione del significato del mito, ricostruendo la radice etimologica della parola che originariamente significava ‘discorso pubblico’.34 Questi due riferimenti al significato del mito riflettono le diverse modalità di espressione che contrappongono l’universo maschile che si affida agli strumenti delle razionalità e della verifica della realtà sulla base di prove incontrovertibili, dimostrate dell’esperienza sensibile, al mondo femminile che si rivolge invece agli strumenti della rivelazione non verificabile del mito. Se da un lato, il coro maschile si presenta come testimone oggettivo degli eventi e si sente quindi, proprio per questa sua posizione di pretesa autorevolezza, legittimato ad esprimersi in maniera diretta ed esplicita

32 Queste riflessioni sul legame fra lingua e potere dominante sono elaborate nell’intervento di Susan Bassnet: ‘Politics of Location’ in Elaine Aston and Janelle Reinelt, The Cambridge

Companion to Modern British Playwrights, Cambridge, Cambridge University Press, 2000

(Cambridge Companion to Literature, XX).

33 “Listen this is the noise of myth. It makes the same sound as shadow, Can you hear it?” tratto da Eavan Boland, ‘Listen. This is the noise of myth’ in The Journey and Other Poems, Manchester, Carcanet, 1987, pp. 47-49.

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scegliendo la via del “public speech”, l’unica possibilità che le donne riescono a ritagliare per far sentire la propria voce è quella di affidarsi al suono impercettibile prodotto dall’ombra. Attraverso questa suggestiva immagine sinestesica, l’autrice intende descrivere proprio quel silenzio che rappresenta la condizione di dolorosa limitazione per le donne, ma che allo stesso tempo può essere anche assunto dall’universo femminile come proprio strumento di espressione alternativa di fronte alla negazione di ogni altra via di comunicazione all’interno di una società prettamente maschile. I personaggi femminili sulla scena, così come gli spettatori che assistono alla rappresentazione imparano ad ‘ascoltare’. Si tratta di un verbo chiave dell’opera, che come abbiamo visto nella scena 13 – “an other way of speaking” come lo definisce Jennifer Wagner35 - può costituire un modo per superare l’incapacità connaturata nelle parole di definire la realtà per chi è capace di leggere fra i silenzi che si intrecciano a quelle stesse parole. Ed è proprio ciò che fanno le due sorelle protagoniste dell’opera di Wertenbaker riuscendo a comunicare attraverso il linguaggio del corpo necessariamente chiamato in causa dall’imposizione del silenzio, superando le limitazioni imposte dai comuni mezzi di espressione verbale e creando una nuova, personale lingua attraverso la quale interrogare e rapportarsi alla realtà. Questa volontà di affrontare direttamente la tragicità della propria condizione da parte delle due sorelle, rifiutando ogni atteggiamento di passiva e rassegnata complicità con il potere tirannico, ma anzi cercando con tenacia un modo per far sentire la propria voce, ci conduce direttamente alla scena conclusiva dell’opera in cui si assiste al dialogo finale fra la protagonista Filomela, ormai trasformata in usignolo, e il piccolo Iti ucciso dalla furia vendicativa delle due donne. La donna invita il nipote a porle delle domande segnando in tal modo il passaggio che consente allo spettatore di affrontare un’ultima cruciale riflessione su un aspetto che è stato sotterraneamente presente in tutto il corso dell’opera, quello cioè delle necessità di continuare a interrogare e mettere in questione il mondo che ci circonda, dimostrando la propria indignazione di fronte agli orrori della

35 Cfr. Jennifer Wagner,‘Formal Parody and the Metamorphosis of the Audience in Timberlake Wertenbaker’s The Love of the Nightingale’, Papers on Language and Literature 31.1 (1995); 227-254.

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guerra e della violenza senza avere paura di guardare negli occhi la sofferenza nascondendosi dietro lo schermo della rassegnazione e della passività. La frase finale del testo che si conclude con l’ultima, emblematica domanda di Iti - “What is right?” - che rimane senza risposta, proprio perché indirettamente rivolta al pubblico chiamato a cercare in se stesso il significato profondo della domanda, conduce lo spettatore dentro il cuore del dibattito etico e morale che l’autrice ha cercato di delineare con la sua originale rielaborazione del mito. Wertenbaker anche se lascia senza risposta le domande che induce a porsi, ritaglia comunque uno spazio per quanto ristretto per la speranza suscitando nel suo pubblico una necessaria riflessione sui dei termini ai quali sia ancora possibile pensare ad un futuro da trasmettere alle nuove generazioni. L’apparente sospensione di senso con cui l’opera di Wertenbaker sembra chiudersi, cerca in realtà di ipotizzare una possibilità di continuare a sperare in un futuro migliore che non può prescindere dall’indagine attenta e vigile della realtà, il mantenimento e la coltivazione di un rapporto di iterazione con l’altro da sè e l’assunzione della differenza come categoria positiva che permette agli uomini di ripensare i termini delle proprie relazioni con l’altro andando a scalfire quella pretesa di assoluta coesione dell’ideologia delle classi dominanti. Filomela con la sua insaziabile sete di conoscenza, che con la sua instancabile curiosità per il mondo rappresenta la marca caratteristica del personaggio nel corso di tutta la vicenda, mette in atto una di radicale messa in questione dei termini restrittivi di definizione dell’esistenza all’interno di un processo di ricreazione e rigenerazione che impone un necessario cambiamento della propria prospettiva di osservazione36 come unica possibilità per il genere umano di ricostruire su nuove fondamenta le basi dell’esistenza, interrompendo quella spirale di violenza che domina le vicende umane. Soltanto l’indagine attenta delle realtà attraverso l’atto di porre domande senza mai accontentarsi di osservare passivamente ciò che avviene intorno a noi, può rappresentare l’arma efficace da contrapporre agli effetti di

36 Philomele: “I like the nights and my voice in the night. I like the spring. Otherwise, no, not much, I never liked birds but we were all so angry the bloodshed would have gone on forever. So it was better to become a nightingale. You see the world differently.” (scena n° 21, p. 48, mia corsivazione)

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imbarbarimento disumanizzante dell’abuso e della violenza. In questa prospettiva, Maya Roth ancora una volta fa luce sui meccanismi che governano l’operazione di riscrittura del mito antico proposta da Wertenbaker:

The Love of the Nightingale engages myth as an act of cultural resistance

and political testimony from the margins, opening up ancient stories so that different “unwanted truths” may reverberate. So that we can hear difficult speech – of bodies, taboo topics, oppressed cultures, human need and injustice – to create a social, civic space for rethinking ethics and politics. 37

37 Maya Roth, op. cit., p. 51.

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4.2. Sarah Kane – Phaedra’s Love.

Un secondo esempio ancora una volta legato alla vicenda mitica di Fedra e Ippolito, che svolge un ruolo di primo piano nel panorama delle riscritture delle opere tragiche antiche nella seconda metà del Novecento è rappresentato dall’opera Phaedra’s Love della giovane drammaturga Sarah Kane, morta suicida nel febbraio del 1999, all’età di ventotto anni.

L’autrice, nata a Kelvedon Hatch in Essex nel 1971, ha studiato drammaturgia all’Università di Bristol e ha cominciato giovanissima a collaborare con il Royal

Court dove ha esordito all’età di ventitre anni, quando ancora era una sconosciuta

studentessa appena uscita da un Master in scrittura drammatica all’Università di Birmingham, con l’opera-scandalo Blasted, portata in scena nel 1995. Questa produzione ha sollevato uno sdegnato coro di critiche unanimi e di stroncature senza appello da parte di tutti i più importanti critici teatrali di quegli anni, s scandalizzati dal carico di violenza gratuita esibito in maniera esplicita e con quasi compiaciuto sadismo dalla giovane autrice. A partire da questo burrascoso esordio l’autrice Sarah Kane si è guadagnata la fama di essere uno dei drammaturghi più contraddittori e controversi che si siano affacciati sulle scene inglesi degli ultimi decenni del XX secolo, nonostante la giovane età e il numero esiguo di testi teatrali prodotti, fra i quali si collocano, oltre ai già citati Blasted e Phaedra’s

Love, Cleansed, che ha esordito al Royal Court nel maggio del 1998, Crave,

rappresentato al Traverse Theatre di Edinburgo nell’agosto dello stesso anno, ed infine 4.48 Psychosis andato in scena postumo.

La produzione teatrale di Kane è comunemente associata al fenomeno del cosiddetto in-yer-face theatre come spiega il critico Aleks Sierz, che nella sua opera dedicata alle nuove tendenze che si sono manifestate in ambito teatrale negli anni Novanta38 descrive Sarah Kane come uno dei maggiori esponenti di questa nuova corrente artistica portatrice di un nuovo tipo di sensibilità che propone un modo radicalmente nuovo di pensare i termini dell’esperienza teatrale. Aleks

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Sierz nella parte introduttiva del suo saggio propone una chiara definizione di questo genere teatrale apertamente aggressivo e provocatorio che fa leva sulla dimensione delle sensazioni che toccano nel vivo delle sue emozioni più intense tanto lo spettatore quanto l’interprete impegnato sul palcoscenico, provocando un vero e proprio ‘sobbalzo’ allo stesso tempo fisico ed emotivo, che “takes the audience by the scruff of his neck and shaker it until it gets the message”.39 I contributi teatrali che si associano a questa linea di tendenza si propongono letteralmente di ‘strappare’ il pubblico alle tradizionali modalità di fruizione della rappresentazione scenica utilizzando a tale scopo una serie di strategie che creano una situazione di profondo turbamento e allarme nello spettatore, investito e aggredito con violenza dall’estrema audacia sperimentale che queste opere esprimono, recidendo di netto quelle convenzione alle quali il pubblico era comunemente abituato. In particolare, nel caso di Kane, l’attenzione della drammaturga si concentra su uno degli elementi cardine della tragedia classica, la cosiddetta “catarsi”. Secondo la tradizionale definizione data da Aristotele nella

Poetica, la natura catartica della tragedia classica si manifesta come forma di

‘purificazione’ che esercita sullo spettatore un effetto di sollievo e di liberazione dalle due emozioni alla base del genere tragico antico e vissute con grande intensità nel corso dello spettacolo, la pietà (eleos) nei confronti di chi soffre senza colpa, e la paura (phobos) che un destino simile possa capitare anche a lui. Nella produzione drammatica di Sarah Kane questo assunto tradizionale viene completamente stravolto. Di fronte ad un testo come Phaedra’s Love, lo spettatore al termine della messinscena non avverte nessun senso di sollievo dalle emozioni forti che ha provato nel corso della rappresentazione e al contrario non si sente affatto ‘purificato’, ma piuttosto sempre più invischiato in quell’inquietante sequenza di orrori e atrocità di cui è stato testimone.

L’assalto alle convenzioni tradizionali, prima fra tutte la dimensione della catarsi, costituisce uno degli assunti centrali dell’in-yer-face theatre, come spiega ancora una volta Sierz:

39 Aleks Sierz, op. cit. p. 5.

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