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III. LA MACCHINA DEI SOGNI

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Academic year: 2021

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III. LA MACCHINA DEI SOGNI

III.1.- FESTA DI TEATRO

Negli anni settanta Cuticchio memore degli incontri giovanili, in cui viene a conoscenza di altre tradizioni e realtà molto simili alla sua con cui dialoga e condivide saperi, matura la convinzione che la sua realtà di puparo e cuntista dovesse superare la condizione di marginalità. Presa coscienza che l’opera dei pupi e il cunto non sono realtà isolate né forme teatrali inferiori è incoraggiato a ridiscutere il rapporto con il territorio palermitano facendosi presenza attiva e interlocutore dialettico con le amministrazioni locali.

La peculiarità di figlio d’arte credevo presupponesse un riconoscimento almeno locale della sua storia e della sua tradizione e un maggior sostegno sociale.

Io:«Senza nulla togliere al tuo percorso di sperimentazione ed elaborazione, mi chiedo se al livello di riconoscimento sociale sei stato avvantaggiato nella tua attività»

Mimmo:« Quando io ho cominciato era un periodo di tristezza, io sono nato dopo la morte, per cui non si può dire che Mimmo Cuticchio ha ereditato la storia di suo padre […]. Quando per la prima volta nel ’71 sono andato al Comune a chiedere aiuto mi hanno detto “non ci sono fondi per queste cose, qua c’è la domanda vediamo se possiamo darle un sussidio”.Poi ho chiesto al signore del Comune cosa significava “sussidio” e mi ha detto “ sa, ci sono molte mamme che non riescono a comprare il latte per i bambini, ci sono dei poveri che non riescono ad avere una casa per dormire, ci sono quelli che non riescono a mangiare e il Comune gli dà qualche buono, quindi lei faccia la domanda, se viene accettata glielo dico subito; me lo fanno sapere dal Gabinetto del Sindaco, può essere una cosa da venti/trenta mila lire per un anno”. Allora mi pare che costasse cinquecento lire la carta bollata, e poi avrei dovuto raccogliere i pezzi d’appoggio, cioè l’affitto locale, insomma tutte queste cose qua. Mi sono fatti i calcoli, tra carta bollata, fotocopie e stare un anno appresso a tutte queste cose per avere le trenta mila lire non avrebbe pagato niente. A parte questo mi sono sentito umiliato quando mi è stato detto che il mio non è teatro, anzi mi hanno detto che per queste cose non ci sono fondi. Poi sono andato all’AGIS di Palermo, dove c’era un avvocato fascista a cui mi raccomandai, visto che io ero scritto all’AGIS. Mio padre mi ci scrisse quando avevo quattordici anni per avere il diritto alla riduzione, noi avevamo il 40% di sconto per i lavoratori girovaghi; praticamente sono iscritto all’AGIS dal ’63. Quando negli anni settanta/ottanta cerco di darmi aiuto so che a Roma il ministero dà un contributo ai fratelli Pasqualino, Fortunato e suo fratello Pino.

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Pino lavorava nella sede della Democrazia Cristiana, Fortunato invece lavorava in televisione come scrittore, presentava cose in televisione, era legato molto ai preti alla chiesa ecc., erano tutti e due democristiani. In un incontro a Roma per uno spettacolo all’Accademia Filarmonica Romana, vengo a sapere che questi signori prendevano settanta milioni dal Ministero. E io dicevo “ ma come io che vengo da una tradizione, che sono giovane, che sto continuando l’attività di mio padre non devo prendere una lira?”. Vado all’AGIS e chiedo “ potete aiutarmi a fare la domanda al ministero, visto che sono scritto all’AGIS?”. E questo mi fa “ma io mi meraviglio che lo Stato dia dei soldi a questi pupari che lei mi nomina”,e io “scusi avvocato, perché?” e l’avvocato “perché lei l’opera dei pupi la vuole ritenere teatro?”. Io allora non potevo difendermi, già avevo capito delle cose sul teatro però non avevo la forza di controbattere con un avvocato di settanta anni circa e ancora l’avvocato” ma l’opera dei pupi è una cosa così, dove ci va la gente dei vicoli, ci va qualche ubriacone, magari lo stesso puparo se gli scappa fa un peto senza problemi, tutti sputano per terra”. Mi ha fatto una descrizione dell’opera dei pupi umiliante. A me non risultava perché nel teatro di mio padre il locale era povero ma era ricco di tutto, di gente che conviveva, che parlava, che veniva due ore prima a prendersi il posto, era una specie di punto di riferimento per la gente. Poi mio padre metteva dei cartoncini al muro dove ci scriveva “vietata la bestemmia”, “vietato sputare a terra”. Insomma io me lo ricordo un posto povero ma pulito, perché mia madre lo teneva pulitissimo, quindi questo signore quando mi diceva ‘ste cose io piangevo internamente però avevo la rabbia di non poter reagire. Il Comune mi diceva che per queste cose non c’erano soldi, quello dell’AGIS che avrebbe potuto aiutarmi facendomi una lettera di raccomandazione, di segnalazione al Ministero mi diceva che il mio non è teatro. Quindi vedi in quale situazione io ho cominciato, altro che figlio d’arte e tradizione. Oggi molti pensano che io sono uno conosciuto, che lavoro, che a me mi chiamano, che io sono figlio d’arte, che io ho la tradizione, ma questi non sanno l’umiliazione che io ho subito nella mia terra. Da quando cominciai a muovermi l’umiliazione continua, il disprezzo, l’emarginazione, l’abbandono, altro che figlio d’arte e tradizione. Io poi, studiando, attraverso le conoscenze dei libri, di altre culture del mondo e poi attraverso la conoscenza diretta ho capito il patrimonio che avevo in mano, e là l’ho difeso bene, ho imparato a leggere e a scrivere e a parlare e quando mi sono sentito pronto per parlare ho sempre parlato davanti a tutti e non ho mai avuto paura di parlare con nessuno perché io parlo solo se una cosa la so, se una cosa l’ho letta e l’ho studiata».1

Nel 1977 costituisce l’Associazione Figli d’arte Cuticchio che accorpa la compagnia omonima. Volto nuovo che gli permette di ottenere delle sovvenzioni per continuare la propria attività artistica autonomamente, legata al repertorio tradizionale e allo stesso tempo proiettata verso la

1

Dialogo con Mimmo Cuticchio, del 28 luglio 2004, a Polizzi Generosa. La stesura completa dell’incontro è riportato in appendice.

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sperimentazione. Il passaggio dall’attributo famiglia d’arte a quello di Associazione figli d’arte è un atto di volontà teso a rinnovare la natura del proprio riconoscimento sociale e culturale.

A differenza dei precedenti pupari Mimmo Cuticchio si pone quindi criticamente nei confronti delle istituzioni con cui dover discutere le modalità e le ragioni di esistenza del suo mondo teatrale. Non esiste più il contesto sociale ottocentesco che rafforzava la vitalità dei pupari e cuntisti e ne costituiva il sigillo dell’identità sociale e che, a dispetto delle censure istituzionali, garantiva la realtà dei teatrini e dei cuntisti.

Consapevole della diversa sensibilità socio-culturale, non vuole relegare il suo teatro nell’ambito del consumo occasionale e nostalgico2.

«Oggi non si riesce a capire la differenza tra folklore e folklorismo, ma non la gente comune ma i giornalisti, i critici. Se ti devono buttare nel folklorismo con il sole, la pasta con le sarde e il mare lo fanno senza badare a spese. Magari ti vogliono inserire tra i beni della collettività. Il turista che viene in Sicilia ti viene a vedere assieme al mare, alla pasta alla norma, alla ricotta salata, al cielo azzurro. Non lo fanno per male. Magari parlassero di folklore così come ha significato originario la parola, cioè “il sapere del popolo”. La dicono senza capire che dire oggi folklorismo equivale al significato del periodo fascista, per dire che il popolo è contento, che il popolo nel tempo libero canta, balla e suona. Questo è folklorismo: fare spettacolo di se stessi, far capire alla gente che tutto è bello, balli e canti. In realtà i canti della tradizione, i balli, i riti vengono dalla campagna, come vengono dal mare e vengono dai bisogni fisici, spirituali, pratici, oggettivi della vita quotidiana, per esempio il bisogno di fare una buona pesca e un buon raccolto, oppure pensa alle lamentele e al pianto per determinate perdite, catastrofi ecc. Perché non dimentichiamo che ci sono stati periodi, anticamente, dove le donne lavoravano la campagna e venivano sfruttate molto, per esempio famose in Calabria e in Sicilia le donne incinte che dovevano andare in campagna a lavorare ecc. Ma se noi oggi andiamo in Vietnam vediamo le donne di tutte le età lavorare, specie di sirene mezze in acqua e mezze fuori, che lavorano nelle risaie, nei laghi, nelle lagune ecc. Quindi altro che canti d’amore e di gioia, erano canti di sofferenza, magari gioiosi ma per esorcizzare la sofferenza; là ci sarebbe tutto da dire e da ricominciare. Questo è un punto importante per me, che uno capisca che se parla con me sa che io ho origini popolari, che ho la forza della tradizione la cui vivacità è inculcata in me che, pur essendo oggi uno che studia e continua a farlo, ha dentro le vene, nel sangue, nel corpo, nella testa tutti gli spostamenti visionari e poetici che sono quelli che danno poi la vita e la vivacità all’azione stessa sulla scena».3

2

Cfr.F.FERRARI,Guida al teatro italiano contemporaneo, Milano, 1980; A.ATTISANI, Teatro come differenza, Ravenna, 1988

3

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L’opera dei pupi e il cunto non sono solo sopravvivenze, residui di un passato, ma sono mestieri completi e poetiche artistiche. Devono, secondo Cuticchio, recuperare uno statuto d’arte poiché ogni elemento del teatro, dalla panca di legno della scena allo spettacolo vero e proprio, è parte di una poetica teatrale in senso più ampio. Teatrino dei pupi, dunque come baluardo di antiche storie narrate da secoli, ma soprattutto laboratorio culturale4 da cui scaturiscono altri repertori, materia narrativa attuale e originale, fatta per la grande scena teatrale e per un pubblico differenziato. L’energia comunicativa della tradizione orale diviene motivo di riflessione: questo teatro orale oltre che “sopravvivere” può rinascere sotto altre forme? è capace di dialogare con il presente?5. Se l’innovazione performativa e drammaturgica è interna ai modi e allo spirito delle arti dell’opera dei pupi e del cunto, l’attuazione di progetti teatrali e culturali più ampi non può compiersi del tutto dentro lo spazio del teatrino. Voler innovare il proprio patrimonio giustifica, infatti, il desiderio di confrontarsi e progettare con altre arti tradizionali e artigianati antichi, e con gli artisti che arricchiscono il microcosmo del teatro di figura e della narrazione orale6.

Come teatrante giunge alla comprensione che per una palingenesi e rivalutazione delle sue arti è necessario socializzare ciò che egli ha maturato in privato: la poetica teatrale ‘è’ aldilà di ogni scansione temporale e spaziale. Infatti parallelamente allo studio di nuovi spettacoli Cuticchio cerca di concretizzare un dialogo, avviato in gioventù, con narratori, musicisti, artigiani, danzatori, artisti di strada di ogni origine e peculiarità.

«Quando io avevo tredici - quattordici anni avevo scoperto i burattini della famiglia Ferraiolo della Campania, mi pare che sono di Salerno, li ho visti a Spoleto nel ’63. Già allora avevo scoperto un altro mondo. Uscito dalla Sicilia avevo capito che non c’erano solo i pupi siciliani che io avevo visto sempre da

4

Cfr. FERRARI, in Op. cit.: «[…] avallare un antagonismo fra Laboratorio e Spettacolo significa ghettizzare

deliberatamente una fascia dell’attività teatrale, significa ignorare (o, peggio, limitare pesantemente) la capacità/volontà della ricerca di realizzare una propria socializzazione prima, cioè “al di qua”, delle mediazioni “industriali”»,

5

L’opera dei pupi e il cunto. Una tradizione in viaggio (Convegno “Una scuola per pupari e cuntisti”),a cura di M.

CUTICCHIO, (Quaderni di teatro L’isola da svelare, VIII), Palermo, 1997; Convegno I sentieri dei narratori, Polizzi Generosa- 30-31 Luglio 2004, trascritto in Appendice.

6

Cfr. A.ATTISANI,in Teatro come differenza, Ravenna, 1988: «Il passato si esprime in forma compiuta attraverso la professionalità e il nuovo non ha ancora trovato un’altra dimensione. Questi problemi potranno essere affrontati solamente quando l’esperienza degli sperimentatori isolati sarà raggiunta da una consapevolezza collettiva».

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bambino, al massimo avevo visto i pupi catanesi oltre a quelli palermitani ma non sapevo che esistessero altre forme espressive di questo settore. Quando a Spoleto scopro i burattini mi faccio amico i figli dei Ferraiolo e con alcuni ragazzi miei coetanei ogni giorno andavo a vedere gli spettacoli. Avevo scoperto che anche loro facevano la lamiera per i rumori come facciamo noi per il diavolo, la pipa con la pece greca per fare i fuochi e tutti i rumori, di tempeste, di venti, di demoni, di pioggia e di cose che io non ho mai più visto; loro avevano una bella tradizione di tutte le storie di pulcinella, nel senso che avevano un patrimonio probabilmente legato all’ottocento. E per me quel piccolo boccascena di un metro e sessanta era l’universo, era come guardare dentro un buco e vedere un mondo. Poi scopro le marionette dei Cola di Milano e quelli di Torino e poi quello che è rimasto dei più vecchi allievi dei Podrecca, e i fantocci di Trieste. Allora là ho cominciato a capire che c’era un mondo! Man mano che crescevo e viaggiavo la mia curiosità era di andare e conoscere, poi mi leggevo i libri, mi leggevo gli articoli e poi mi vedevo i film e questo mi ha fatto capire che c’era un universo. Venticinque anni fa ci incontravamo con Otello Sarzi, il famoso burattinaio di Reggio Emilia che ora non c’è più, Ugo Sterpiniugo, con gli Accettella di Roma, con gli Zampillo di Napoli, poi i Lavasio di Bergamo, e tutti quelli dei vecchi paesini di Firenze, come Fiorenza Beldini. Ci incontravamo e si chiacchierava, e insomma uscì fuori questa parola “teatro di figura”, si cominciò a ipotizzare che il nostro si potesse chiamare “teatro di figura”. Dicevamo che l’opera lirica ha un suo settore, e così il balletto classico, il balletto moderno, il teatro di prosa, il teatro per ragazzi e siccome a noi non andava di definirlo teatro per ragazzi, o per adulti perché ci sono spettacoli di burattini per tutti i tipi di gente, allora abbiamo ipotizzato una parola tipo “ teatro con figure”. Anzi Fiorenza Beldini disse che anche il cunto è teatro di figura. A me piaceva questa definizione perché riuscire a fare un teatro con le parole, stimolando l’immaginario di chi ascolta mi fa piacere»7.

La fase successiva è quindi creare uno spazio di comunicazione reale fra tradizioni e un luogo di incontro critico fra professionisti, intellettuali, appassionati e pubblico.

Tra gli anni settanta e gli anni ottanta svolge un’indagine nella città di Palermo, durante la quale scopre decine di luoghi (antichi conventi chiusi, giardini incolti, magazzini in disfacimento, ecc.) di cui non si occupa più nessuno. Nonostante le riluttanze del Comune, che non concede sovvenzioni, né convenzioni, e le pretese di singoli privati, l’attività culturale dell’Associazione continua.

Con la collaborazione e il sostegno dell’amico Salvo Licata, drammaturgo e giornalista palermitano, e di un gruppo di volontari, Mimmo intraprende una lotta per il recupero e la gestione di questi luoghi potenzialmente adatti ad ospitare i suoi lavori.

7

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Nel 1984 organizza, come lui la definisce, una «festa di teatro e teatro festa»8: la prima edizione del festival La Macchina dei Sogni.

L’inaugurazione e lo svolgimento dell’intera manifestazione avvengono nei due teatrini della famiglia Cuticchio (l’Ippogrifo di Giacomo Cuticchio, in Vicolo Ragusi, e il Santa Rosalia di Mimmo, in Via Bara all’Olivella) e nella prima sede del Museo delle Marionette, al Palazzo Fatta in Piazza Marina. Come “restituzione” alla maestria del padre Giacomo, ancora in vita, e come riconoscimento di una storia privata di tradizione, poesia e racconti, nasce questa prima edizione. Proprio il padre di Mimmo, Giacomo Cuticchio, partecipa con due spettacoli, “La morte di don

Buoso e don Chiaro” e “La morte di Milone”. Il primo è ripreso in video, costituendo un

documento sulle tecniche di animazione dell’opra9. Il secondo invece ricorda un momento particolare della carriera personale del padre: cinquanta anni prima Giacomo, davanti ad una commissione di pupari, affronta con successo la “prova d’arte”10, proprio con lo spettacolo “La

morte di Milone”, ottenendo il suo primo mestiere.

All’insegna della memoria l’ «album di famiglia» del figlio d’arte accompagna l’intera manifestazione.

Continuare a praticare un mestiere antico sembra un fatto naturale per un figlio d’arte, poiché l’immaginario individuale e il bagaglio mnemonico di Mimmo sono indissolubilmente legati all’immaginario di un mondo teatrale orale quotidiano.

L’inevitabile senso d’appartenenza ad un tessuto sociale, certamente ha segnato il suo profilo poetico, ma non ha limitato né frenato l’impulso al cambiamento. Ciò vuol dire che, se in parte è

8

La macchina dei sogni. Palermo 1984-1993. Dieci anni di teatro da strada di figura e di oggetti,a cura di Mimmo

Cuticchio, (Quaderni di teatro L’isola da svelare, V), Palermo, 1993

9

Invito all’Opera dei Pupi, il mare, i vicoli, i tetti, i mercati, il teatro. Ideazione e regia di Mimmo Cuticchio, Associazione “Figli d’Arte Cuticchio”, 1998.

10

La macchina dei sogni. Palermo 1984-1993. Dieci anni di teatro da strada di figura e di oggetti,a cura di Mimmo Cuticchio, (Quaderni di teatro L’isola da svelare, V), Palermo, 1993, :«A misurare la fondatezza della sua vocazione c’era allora una commissione di pupari, convocata dal padre, Girolamo come il nipote ma detto zu Mommu. Il quale, in caso di responso positivo, avrebbe dovuto sborsare il denaro per acquistare, tutto per Giacomo, un mestiere, ossia l’insieme di paladini, fondali, macchine sceniche, per poter esercitare. Il responso fu positivo».

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naturale che un figlio d’arte continui il mestiere del padre e dei predecessori, non è scontato il modo in cui questo avviene11. È proprio nella modalità di prosecuzione che si distingue la pratica di Mimmo: mutamento e sperimentazione sono proiettati al nuovo, che ‘sta’ nell’antico.

La prima edizione, nata per e con Giacomo Cuticchio, costituisce l’esito di un lento processo di recupero, emotivo e critico, del punto di origine della propria storia.

In gioventù, a causa di conflitti di natura generazionale, Mimmo decise di allontanarsi dal mestiere paterno, con il desiderio di sperimentarsi altrove. Il disagio di fronte ad «una realtà sempre più estranea ai valori della cultura popolare»12 avevano condotto il padre a modalità di “sopravvivenza” che, per il figlio, erano riducenti e ingiuste per un teatro di «verità e poesia»13. Il suo distanziamento non è ripudio impulsivo dell’autorità paterna e di un’educazione, strutturata e rigorosa, improntata all’assoluto rispetto per la tradizione. Ma è attraverso il distacco che nutre l’idea che per attuare una metamorfosi è necessario riattraversare “ciò che è stato” per poterne, in seguito, testimoniare la profondità.

La vitalità di certi slanci innovativi implica un’apertura all’esterno, stabilendo un discorso interindividuale e collettivo. Focalizzato il punto di origine, oggi, con spirito antico e nuovo, Mimmo si interroga, insieme con altri teatranti, sul perché continuare a narrare e rappresentare; ascolta le esperienze distanti e diverse per arricchire il suo repertorio, per consegnare storie ed ereditarne altre.

Nell’evento che «si costruisce con Giacomo e attorno a Giacomo»14 si sviluppa il dibattito sull’identità e le necessità del teatro orale tradizionale e quello non istituzionale in genere.

11

Cfr. FERRARI, Op. cit.: «Ricercare significa “fermarsi” sugli strumenti con cui normalmente si produce, tentare di modificarli o di sostituirli integralmente (e quindi, in primo luogo, di negarli). Ricercare comporta dunque una riflessione, uno straniamento: si guarda l’oggetto come se fosse la prima volta; si rifiuta (o meglio, si analizza dall’esterno) ogni “consuetudine” con esso, cioè ogni modo precostituito di fruirlo»,

12

Mimmo Cuticchio (a cura di), Invito all’Opera dei Pupi, il mare, i vicoli, i mercati, i tetti, il teatro. Associazione “Figli d’Arte Cuticchio”, 1998; Cfr. Mimmo Cuticchio (a cura di), Guida all’Opera dei Pupi, venticinque anni di

attività del Teatro dei Pupi S. Rosalia, Palermo, 28 Luglio 1973- 28 Luglio 1998, Associazione “Figli d’Arte

Cuticchio”; Valentina Venturini (a cura di), Dal Cunto all’Opera dei Pupi, il teatro di Cuticchio, Dino Audino Editore, Roma, 2003; Roberto Giambrone (a cura di), I sentieri dei narratori, Associazione “Figli d’Arte Cuticchio”, Palermo, 2004.

13

Mimmo Cuticchio (a cura di), Invito all’Opera dei Pupi, op.cit.

14

Salvo Licata, L’isola da svelare, La Macchina dei sogni, Palermo 1984-1993, dieci anni di Teatro da strada di figura

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Prendendo spunto da una memoria privata, artisti ed intellettuali, in seminari e convegni, affrontano il tema della situazione contemporanea e delle prospettive dell’Opera dei pupi. Tradizione e distanziamento critico si confrontano in questo primo evento, il cui senso si esprime nella natura informale ed emotiva.

Mimmo crea un tempo di comunicazione interna ed esterna alla sua tradizione, che caratterizzerà anche le successive manifestazioni. Come spesso ha voluto sottolineare, l’evento-festa della

Macchina dei Sogni non è «Né festival, né rassegna. Piuttosto un ritrovarsi tra amici artisti»15 Il ritrovarsi spontaneo ed umano di teatranti, e non, risponde a necessità di confronto, di superamento di etichette e gerarchie, di discussione sul senso delle tradizioni oggi.

L’incontro in un luogo ufficioso mette in evidenza, inoltre, l’estraneità di istituzioni e amministrazioni che, incapaci di valutare la profondità di un patrimonio immateriale come il teatro orale, spesso seguono la logica del consumo e del provvisorio.

Il discorso-dibattito sorto in questa edizione va specificandosi nel corso delle successive edizioni. Parimenti alla riflessione continua anche la testimonianza viva di narratori e teatranti di figura storici16

La storia di questa manifestazione rivela molti degli aspetti che qualificano la pratica di Mimmo: il recupero del passato per il suo rinnovo, la riflessione non del singolo ma di una comunità di artisti e la trasmissione di una tecnica e di un sapere, attraverso laboratori e seminari17.

15

Cfr. Cuticchio, Op. cit. in L’isola da svelare, La Macchina dei sogni, Palermo 1984-1993, dieci anni di Teatro da

strada di figura e di oggetti, Quaderno di Teatro n. 5, Associazione “Figli d’Arte Cuticchio”

16

Paolo Puglisi e Totò Spataro, cuntisti della vecchia generazione nel 1985, Otello Sarzi, famoso burattinaio di Reggio Emilia, con i suoi burattini a guanto e a bastone e Nicola Furiati (erede degli storici pupari napoletani donna Peppa e Salvatore Petito), con le storie di Pulcinella nel 1986, Ciro Perna (unico puparo napoletano), la “Marionettistica dei fratelli Napoli” di Catania, i pupari Rocco Lo Bianco e Nino Canino, appartenenti alla tradizione della famiglia Greco (la stessa in cui si formò Giacomo Cuticchio) e Giuseppe Argento nell’edizione del 1992. 17

Cfr. L’opera dei pupi e il cunto. Una tradizione in viaggio (Convegno “Una scuola per pupari e cuntisti”), cura di

(9)

Nonostante La Macchina dei sogni sia stata ritenuta dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo una manifestazione di interesse nazionale, l’associazione Cuticchio non riesce ad assicurarsi una continuità nella sua terra.

«Senza la garanzia di un luogo, senza la certezza di un contributo, dice Mimmo, non si può

programmare, non si vive. Noi abbiamo l’esempio dei festival europei con cui siamo collegati. E lì le garanzie ci sono tutte. Parallelamente alla normale attività, si può tutto l’anno lavorare alla successiva edizione. Da noi non si possono prendere impegni nel tempo»18

Il “calvario” burocratico si ripresenta ogni anno, poiché gli spazi ottenuti con tante riserve in realtà non sono agibili ed hanno bisogno di essere risanati; così con il gruppo di volontari, che ormai da anni lo accompagna, Mimmo effettua vere opere di ristrutturazione, rendendo possibile le diverse edizioni. Accade ad esempio per l’antico giardino del Marvuglia ottenuto dall’associazione nel 1987, per tre anni. Di proprietà del Comune di Palermo questo lembo del parco della Favorita negli anni cinquanta, viene trasformato in parco giochi, prendendo il nome di “Città dei ragazzi”. L’incuria e il disinteresse contribuiscono al disfacimento del giardino, che viene aperto all’associazione Cuticchio solo poche settimane prima dell’inizio della IV edizione della Macchina

dei sogni.

L’incertezza dell’esito rende più vigoroso lo spirito del “collettivo solidale” che nel frattempo è cresciuto attorno a Mimmo: teatranti, tecnici e volontari vivono, ormai, questa festa del teatro «come occasione giocosa di resistenza civile»19.

L’opera di riassestamento se non di una vera e propria riesumazione, porta alla riscoperta, sotto rifiuti e costruzioni posticcie, dell’antico giardino settecentesco collegato, da camminamenti segreti, con la Palazzina Cinese (sede del Museo Pitrè).

Due temi in particolare nascono e si sviluppano in questi tre anni:

18

Cfr. La macchina dei sogni. Palermo 1984-1993. Dieci anni di teatro da strada di figura e di oggetti,a cura di

Mimmo Cuticchio, (Quaderni di teatro L’isola da svelare, V), Palermo, 1993 19

Cfr.La macchina dei sogni. Palermo 1984-1993. Dieci anni di teatro da strada di figura e di oggetti,a cura di

(10)

«C’è magia più grande del teatro?», «Esiste ancora una piazza? Uno spazio umano per incontrarsi e comunicare?»

Spettacoli, seminari, installazioni e mostre attraversano con visioni sonore, allestimenti scenografici e tecniche di movimento sperimentali, gli elementi “magici” del discorso teatrale. I coefficienti di cui è contraddistinto il teatro hanno una propria ispirazione che giunge a compimento nella fusione e nell’intreccio con gli altri elementi.

Ciò che è avvenuto per e nel Giardino del Marvuglia è una questione che travalica il semplice recupero e restauro, e riguarda più onestamente il problema di creare uno spazio, nel rispetto delle sue caratteristiche materiali, adeguato alle esigenze sociali di una comunità.

Nella storia della Macchina dei sogni si manifestano due forme di disorientamento: uno è legato all’avventura teatrale (incontri, scambi, emozioni, espressioni) e l’altro appartiene al mondo burocratico e amministrativo.

Il primo è uno smarrimento tra linguaggi non necessariamente riconoscibili ma comunicativi: teatro come luogo della significazione dell’impossibile e dell’immaginario. È nella logica teatrale che “canonicità” ed “eccezionalità” trovano il loro equilibrio20.

La strana ed enigmatica logica burocratica, invece, con difficoltà, e spesso riluttanza, dialoga con movimenti culturali autonomi e spontanei, accentuandone il senso di impotenza.

Il discorso sociale sul teatro, avviato da Mimmo, si specifica anche nella valorizzazione di espressioni teatrali considerate minori e marginali.

Nella storia del teatro è costante il tentativo di attribuire contenuti diversi alla parola teatro e in continuità con i saperi precedenti, nello sforzo di dare definizioni alle sue varie espressioni21. Ma uno degli elementi di maggior fascino del teatro è proprio il senso di transitorietà che esso comunica. Sarebbe illusorio concepire uno spettacolo o una performance come un prodotto duraturo, definito, ripetibile nel tempo allo stesso modo. La pregnanza e l’intensità di un evento

20

Cfr. J. BRUNER, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Torino, 1992.

21

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teatrale si esprime prima di tutto nella sua precarietà e provvisorietà, nel nascere e nel morire nello stesso momento.

Nella realtà dei fatti si tratta spesso di gestire una “teatralità” e la langue delle sue espressioni. Nel rapporto con amministrazioni e legislazioni di pertinenza, subendo logiche di produzione ed etichette ghettizzanti, le teatralità “minori” rischiano di perdere vigore e creatività, e ancora peggio, una “possibilità” di esistenza.

Il festival della Macchina dei sogni dedica molto spazio agli “artisti di strada”, la cui dicitura è semanticamente più eloquente che “teatro di strada”: la langue di uno stile teatrale è legata a chi la pratica e la vive22.

L’insistenza sul tema dell’identità del microteatro e della sua precarietà, come problema sociale, evidenzia l’urgenza dell’argomento.

La “gioiosa resistenza civile” rischia di trasformarsi in risentimento e indignazione per non poter garantire un appuntamento ormai apprezzato e atteso dalla gente. L’impaccio organizzativo vissuto dall’associazione Cuticchio, motivo di laboriosità progettuale, diviene il quadro speculare della condizione d’incertezza della tradizione dell’Opera dei pupi e di fatti il tema delle prospettive del teatro epico cavalleresco attraversa costantemente le varie edizioni.

La Macchina dei sogni intanto prosegue il cammino di conoscenza delle diverse poetiche teatrali,

di singoli o di gruppi, con cui condividere e sperimentare nuove prassi di espressione sociale. Nascono metafore accattivanti: teatro come viaggio della perdita, della trasformazione e come viaggio della conoscenza.

«Quello del viaggio è un tema narrativo e rappresentativo antico quanto il mondo. Nella cultura occidentale, figlia di quella greca classica, da Ulisse in poi i viaggi non si contano più. Il viaggio in senso stretto e in senso simbolico (c’è chi il viaggio lo compie dentro se stesso) […]».23

22

Cfr. CUTICCHIO in Quaderni di Teatro V, Op. cit. :«Angeli che regalano un po’ di felicità per pochi spiccioli, attori

che si caricano il teatro sulle spalle, un mondo poetico e creativo che sfugge ad ogni catalogazione, o forse è più giusto dire che di esso non si occupa nessuno»,

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La figura di Ulisse è emblematica di per sé ed è simbolica nel percorso personale di Mimmo: abbandonare il consueto, il “familiare”, per conoscere l’ignoto. Alla fine del viaggio in realtà non c’è rivelazione di ciò che era sconosciuto ma ciò che si stava cercando, è un ritrovamento e un completamento di se stessi.

La ricerca appare una necessità ma il bisogno di innovarsi per distinguersi non riduce il desiderio di riflettersi ancora in altri volti e linguaggi. Dall’incontro e dallo scambio fra teatranti scaturisce un’analisi interna al mondo teatrale stesso: cosa avvicina o accomuna pratiche tradizionali e teatro di ricerca? Cosa fa dialogare specificità diverse?.

«Teatro d’animazione, da strada, di pochi mezzi, di pochi attori? Quello che si fa alla Macchina dei sogni è tradizione?, è avanguardia? O non è un teatro di pura invenzione, essenziale e creativo? Non è un teatro che vuole attingere una sua verità poetica? E ancora: ha senso contrapporre tradizione e ricerca, quando l’appropriazione della tradizione postula studio, “ricerca”? Quando la tradizione –se indagata- offre risorse di assoluta potenza espressiva, che ce la rendono “contemporanea”?»24.

III 2. XXI EDIZIONE DELLA MACCHINA DEI SOGNI, POLIZZI GENEROSA

La ventunesima edizione del festival La Macchina dei sogni si svolge dal 15 al 31 Luglio 2004, a Polizzi Generosa (PA), paesino situato nel Parco delle Madonie. Si legge sulla brochure del programma della manifestazione:

«Nonostante le innumerevoli trasformazioni che nei secoli le arti sceniche hanno affrontato, subendole o producendole, fino al rischio di snaturare la funzione stessa del teatro nell’epoca della comunicazione globale, l’esigenza dell’uomo di raccontare non è mai venuta meno. Il narratore incarna questa esigenza, il suo corpo è lo strumento per la trasmissione, da una civiltà all’altra, dei valori fondanti dell’individuo. Per

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Cfr. LICATA in Quaderni di Teatro V op. cit

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questo motivo, si potrebbe dire che il narratore è un autentico “patrimonio vivente dell’umanità” e come tale andrebbe salvaguardato e incoraggiato»25.

In continuità con le precedenti manifestazioni, anche quest’anno il fulcro dell’evento continua ad essere la riflessione, il dibattito, l’apertura ad espressioni diverse, il coinvolgimento attivo del territorio. La comunità dei teatranti partecipi, guidata da Cuticchio, si esprime, in sintonia con studiosi e ricercatori, sulla natura e la complessità della narrazione, proponendo i propri repertori in un intreccio di stili26. L’eterogeneità delle presenze segue una costante idea di fondo di Mimmo: tradizione e innovazione, ricerca e documentazione (nel senso di conservazione), fanno parte del medesimo processo di realizzazione sociale del discorso teatrale, ed espressivo in genere. Infatti,

«mettendo a confronto le nuove generazioni di artisti con alcuni tra i maggiori maestri e studiosi dell’area del Mediterraneo»27, Cuticchio chiarisce un preciso intento.

Il tema specifico di questa Macchina dei sogni è «I sentieri dei narratori»: un viaggio il cui punto di partenza è il Cunto della tradizione siciliana e le sue trasformazioni fino ai giorni nostri. Parallelamente agli spettacoli28 e al Convegno, che si svolge a conclusione della rassegna, Cuticchio propone un laboratorio per giovani attori, la prima settimana, e uno per teatranti professionisti, dal 22 al 25 luglio. Se il Convegno si rivela, in seguito, un simposio, più che un momento accademico e didascalico, il laboratorio per teatranti professionisti, a cui ho modo di partecipare come auditrice, è il luogo della pratica, della discussione sulle modalità di trasmissione di un sapere (quello della narrazione orale) e sulle strategie della narrazione stessa.

«Nonostante le innumerevoli trasformazioni che nei secoli le arti sceniche hanno affrontato, subendole o producendole, fino al rischio di snaturare la funzione stessa del teatro nell’epoca della comunicazione globale, l’esigenza dell’uomo di raccontare non è mai venuta meno».29

25

Cfr. CUTICCHIO, Brochure della ventunesima edizione La Macchina dei sogni.

26

Per un profilo degli artisti partecipanti alla manifestazione cfr. R.GIAMBRONE (a cura di), I sentieri dei narratori, Associazione “Figli d’Arte Cuticchio, Palermo, 2004.

27

Mimmo Cuticchio, cfr. nota 25

28

Per il profilo degli artisti che partecipano al festival rimando a R. Giambrone, Op. cit.

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Mi sembra di poter rilevare in queste parole tre livelli di riflessione, aspetti compresenti dell’attività di Cuticchio. Il primo riguarda la natura metamorfica di qualsiasi “arte scenica”, sia essa tradizionale che contemporanea: la trasformabilità del teatro nel tempo, nonostante esso venga estrinsecato in teorie e pratiche storicamente determinabili30. Al di là di poetiche e tradizioni circoscritte la sua identità non può essere definita una volta per sempre.

Il secondo livello rimanda al rapporto tra teatro e sensibilità contemporanea. Lo sguardo critico di Cuticchio, non si sofferma semplicemente sulla sopravvivenza o meno della sua arte, in una realtà differente da quella sua di appartenenza, ma cerca formule narrative adatte per un pubblico “globale”.

Il terzo livello, invece, rimanda alla naturalità del raccontare storie31. È attraverso la narrazione che gli uomini creano propri significati sul mondo che li circonda strutturando la propria conoscenza. Mezzo indispensabile, perché tale significazione e organizzazione avvenga, è la memoria.

Io: «Bruner diceva che l’uomo è strutturalmente portato alla narratività; il bambino comincia a parlare non solo per imitazione ma perché ha bisogno di raccontare quello che ha cominciato a vedere, a percepire e a sentire, insomma comincia a costruirsi …

Mimmo: comincia ad avere una sua memoria e a volerla comunicare… Io:…e ad avere un suo montaggio di ricostruzione degli eventi.

Una ricostruzione narrativa della mia esperienza a Polizzi Generosa comincia, di necessità, dalle strategie di una memoria uditiva, visuale, riflessiva e, perché no, emotiva.

30

Cfr. Ferdinando Mastropasqua, ?

31

Cfr. J. BRUNER, che parla di «attitudine o di predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa, in strutture di intrecci […]», in La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Torino, 1992.

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III.3 TEATRO ORALE E TEATRO D’ATTORE

III.3.1 I GIORNO DI LABORATORIO, CHIESA DI SAN FRANCESCO

Il 22 luglio 2004 arrivo a Polizzi Generosa, nella Chiesa di San Francesco dove si sta svolgendo il primo incontro del laboratorio per attori e narratori. La chiesa ospita anche la mostra di inaugurazione del festival: pupi ad altezza naturale, ideati e costruiti da Nino Cuticchio per lo spettacolo Macbeth, per pupi e cuntu di Mimmo, foto-documento delle fasi di costruzione dei pupi, manifesti di precedenti produzioni e libri editi dall’associazione Figli d’arte Cuticchio. Il gruppo degli artisti partecipanti è geograficamente diversificato e vario dal punto di vista esperienziale: burattinai, marionettisti, cantastorie, attori di Commedia dell’arte, scenotecnici, operatori di teatro per ragazzi etc.

Gli spunti di discussione sono tanti e non è facile trarre regole o assiomi “stampabili” per cui cercherò di far chiarezza sui temi sviluppatisi nell’incontro fra Mimmo e il gruppo di artisti32.

Ai quindici presenti Mimmo sollecita la reciproca conoscenza presentando se stessi, la propria attività e le proprie aspettative in modo libero e sincero.

Il tema di fondo è la narrazione e sembra che proprio questa qualifichi, fin dalle prime battute, le modalità di lavoro. Laboratorio della parola e la prima ad essere espressa è quella autobiografica attraverso cui l’individuo (-artista) organizza la propria esperienza affinché sia significativa e “leggibile”. Prima di tutto imparare a narrare “raccontandosi”: la verbalizzazione orale della storia personale diviene il primo campo di analisi sui meccanismi della narrazione teatrale.

Una caratteristica dialogica di Mimmo, aderente proprio al mondo orale di appartenenza è la schiettezza d’approccio, l’uso di ricordi e immagini simboliche per spiegare e commentare.

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Faccio presente che la mia modalità di “registrazione” dell’esperienza è caratterizzata dall’ascolto attento e

dall’annotazione scritta del contenuto del laboratorio. Ho scelto di non utilizzare supporti tecnici per due motivi: uno è per rendere la mia presenza all’interno del gruppo del laboratorio il meno invasiva possibile e l’altro è per sperimentare l’osservazione di un evento in una dimensione di oralità.

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Il mondo dell’immaginazione è spalancato, è completamente aperto ed è per questo che parole, immagini, pensieri figurati si incrociano, si giustappongono nei suoi interventi. La personale attitudine fabulatoria sembra essere valida sia in teatro che nella vita, non per estrinsecazioni istrioniche ma per un acquisito senso della semplicità del “detto”.

Da una parte quindi una narratività in fieri e da consapevolizzare (quella dei partecipanti), dall’altra un bagaglio di storie e di codici da trasmettere e, forse cosa più difficile, da far comprendere.

La regione della narrazione è abitata da molteplici stili e poetiche, ma vi sono modalità, strategie, regole che confermano la narrazione come “fatto” comunicativo prima che fatto prettamente teatrale: parlare in modo chiaro usando significati condivisibili, conoscere le finalità del proprio detto, predisporre il linguaggio per contesti diversi33. Una comunicazione diviene performativa, poetica o teatrale quando si mettono in atto strategie interpretative e stilistiche personali. È su quest’ultimo aspetto che il gruppo esprime molte perplessità. Narrazione come comunicazione e narrazione come performance sono gli ambiti di discussione e confronto durante il laboratorio. Non è ancora chiaro il confine o il rapporto fra le funzioni del narratore nel teatro orale, motivo per cui gli artisti esprimono inquietudini sulla loro identità di teatranti.

La preoccupazione dell’auto-definizione è dettata da un disorientamento di fondo e riguarda il mancato senso di appartenenza ad una tradizione, ad un patrimonio riconosciuto. Non avere un contesto specifico da cui distinguersi è avvertito come un difetto. Lo smarrimento generale del gruppo si estrinseca nella richiesta di un maestro che li guidi a ritrovare il percorso smarrito. Le domande sono esplicative: esiste un contesto? Cosa dobbiamo raccontare oggi? Cosa significa

essere narratore? È possibile imparare i “trucchi” del mestiere? Qual è la differenza fra attore e narratore?.

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Ai loro occhi la tradizione di Mimmo rappresenta la sicurezza del confine, del riconoscimento, e il processo innovativo da lui intrapreso sembra vigoroso ed intenso perché è ben definito ciò che gli sta alle spalle: il contesto tradizionale e il suo patrimonio.

Il senso di isolamento teatrale è acuito, inoltre, dal desiderio di voler raccontare e raccontarsi. Alcuni di questi provengono da esperienze teatrali “d’avanguardia” legate a una tendenza degli anni settanta votata al “recupero delle radici del teatro”: corpo, suono, voce, testo, scenografia e pubblico come evento unico e totale34. Sembra però che questo “recupero” abbia lasciato indietro qualcosa. Infatti questi teatranti, formatisi nella fase di “riteatralizzazione” del teatro, adesso individuano con difficoltà le proprie radici e le intime ragioni dell’essere teatrante; ne consegue una considerazione: un discorso teorico sul teatro non può prescindere da chi lo pratica direttamente.

Queste le premesse emotive dei partecipanti a cui Mimmo tenta di rispondere.

“Le tradizioni esistono perché esiste l’uomo; non esistono perché i tempi cambiano continuamente. Io non volevo superare mio padre ma capire cosa c’era oltre la tradizione che stava morendo”

Da sempre l’uomo ha tentato di formalizzare, circoscrivere e spiegare i pensieri e le azioni del gruppo di appartenenza ed anche le modalità di espressione creativa sottostanno alla stessa logica. È un processo, questo, che serve a comporre una memoria individuale e collettiva e, dinamica più complessa, a creare strumenti atti al superamento stesso delle prassi sociali acquisite.

Conservare e innovare sono azioni profondamente legate, in quanto l’uomo è per natura portato a custodire per andare oltre: ricordare per dimenticare. Fra i due processi vi è un rapporto analogo a quello esistente fra padre e figlio e difatti l’immagine che Mimmo adotta spesso è quella di Icaro e Dedalo: l’uno rappresenta la tradizione, l’altro la sperimentazione. Il sapere di Icaro è la base per il

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Cfr. Giovanni Azzaroni (a cura di), Teatro Eurasiano n. 1, Il corpo scenico ovvero La tradizione tecnica dell’attore, Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1990; Eugenio Barba, La canoa di carta-Trattato di Antropologia teatrale, Il Mulino, Bologna, 1993

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volo del figlio. Se ciò è possibile vuol dire che le tradizioni hanno in sé il germe della relatività e del cambiamento. A dimostrazione di questo Mimmo ricorda:

«L’avanguardia c’è sempre stata, mio padre faceva avanguardia quando rispetto ai pupari prima di lui cominciò a capire che nel dopoguerra bisognava portare anche le donne all’opra dei pupi. Da ragazzo fino ai cinquanta anni era stato nella tradizione ferma nell’’800, poi capì che i tempi stavano cambiando, c’era il cinema nei paesi, arrivò la televisione, e le donne gli chiedevano “ma st’opera dei pupi nuautri nun a putiemu viriri, picchì?” (“ma noi quest’opera dei pupi non la possiamo vedere, perché?) e mio padre cominciò a chiedersi “picchì?”, perché non aprire anche alle donne, quindi fu all’avanguardia. Di mio padre non parlò nessuno che negli cinquanta e sessanta si inventava le “serate speciali” per fare venire le donne, i “matinée”, che faceva con le storie di Giulietta e Romeo, l’Otello, Il Moro di Venezia, e tutte le storie di santi. Di me che ho inserito, per esempio, le mie sorelle nel teatrino dei pupi, tutti i giornali d’Italia, alla fine degli anni settanta, hanno parlato di donne pupare. In realtà di donne pupare già c’era mia madre, donna-pupara, che non solo aveva vissuto e vive ancora nella grande famiglia del teatro dei pupi, ma addirittura lei che non aveva nemmeno scuola è diventata pittrice naif, ma naif spontanea delle stesse scene, fondali e teloni che servivano per il teatro dei pupi; e lei si inserì nella vita di mio padre e diventò allieva e poi maestra di una storia che si andava formando man mano, senza in realtà maestri, perché a mia madre nessuno le ha insegnato a mescolare i colori, “impasta ri cà, impasta ri dà” alla fine si è trovata i suoi colori».35

Come più volte espresso, il percorso sperimentale “imbarcato” da Mimmo ha le sue radici nella tradizione dell’Opera dei pupi, ma è l’intero mondo che ruota attorno ad esso che arricchisce il patrimonio personale: non solo il repertorio di voci e “trucchi” del padre, visto e ascoltato quotidianamente, ma anche le figure e le abitudini del contesto di provenienza e le esperienze fatte fuori il teatrino paterno e il “confine” palermitano. Tutto questo costituisce la memoria di Mimmo dalla quale può attingere per creare.

“Il patrimonio personale permette di rielaborare fino ad arrivare a raccontare la stessa storia

ogni volta come se fosse la prima volta. I trucchi di un teatrante sono il suo patrimonio e non possono essere regalati né insegnati”.

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La questione del patrimonio è espressa qui brevemente ma si intuisce la complessità della sua natura sotto il profilo individuale e tecnico-teatrale, ma soprattutto l’importanza che gli attribuisce Mimmo.

Dal punto di vista personale l’identità di un teatrante non si misura esclusivamente in rapporto all’appartenenza o meno ad una tradizione o “corrente” teatrale, ma in modo più intimo alla sua capacità di ascoltare, sentire, rielaborare e “memorizzare” il reale.

“Al teatrante serve tutto”, dice Mimmo, e per tutto intende il bagaglio dei ricordi, delle esperienze

casuali o strutturate, la pratica giornaliera di una sensibilità comunicativa.

“A un certo punto ho scoperto di aver memorizzato la voce antica e il canto dei carrettieri”.

La casualità della reminiscenza è possibile in qualsiasi momento, nella vita di un individuo, ma nell’esistenza di un teatrante essa deve diventare una risorsa creativa, un elemento poeticamente esprimibile: afferrato un ricordo bisogna riformularlo da funzione mnemonica in tecnica.

Il ricordo riportato da Mimmo è un esempio di come tra le varie tecniche teatrali già acquisite se ne aggiungano altre, ad esempio la funzione comunicativa originaria della voce dei carrettieri rinasce nel teatro di Mimmo come “richiamo” per il pubblico, attratto, per fascinazione, da una voce antica.

La possibilità di utilizzare la propria memoria, riscrivendola continuamente, è la base dell’improvvisazione teatrale36: riordinata e interiorizzata la scatola dei propri ricordi, come segni e immagini, essi vengono ripresi ogni volta che se ne ha bisogno e ogni volta in modo diverso in base al contesto.

La vita mnemonica è soprattutto dinamica intima, quasi fisiologica, dell’individuo-teatrante ed è per questo che non può essere facilmente concessa e “regalata”.

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«Improvvisazione è una parola complicata […]. Ho trovato così un modo semplice di spiegarmela. Immaginiamo che nella mia storia ci siano cento numeri: metto questi numeri in un bussolotto, poi infilo la mano dentro e pesco. Se prendo poniamo il 45, so che per poter raccontare ho anche i numeri dall’1 al 44 e quelli dal 46 al 100. La mia improvvisazione dunque avviene così: inizio dal numero che in quel momento mi viene in mente, che mi piace o che magari ho pensato soltanto un attimo prima; oppure che ho pensato e poi ho deciso di cambiare proprio all’ultimo momento. […]. E allora forse improvvisare è l’insieme delle due cose: averne a mente alcune e inventarne altre», Mimmo Cuticchio in Valentina Venturini (a cura di), Dal Cunto all’Opera dei pupi, Il teatro di Cuticchio, cap.IV Dal

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La visionarietà di un teatrante equivale alla dimensione onirica dell’uomo in generale: un sogno può essere ascoltato ma non fatto proprio, di una visione se ne può cogliere lo spirito e l’efficacia ma non se ne può riprodurre esattamente il disegno.

Il discorso sviluppato da Mimmo sembra negare la possibilità di trasmettere un sapere da parte di un “maestro” (“i trucchi di un teatrante non possono essere regalati né insegnati”), in particolare il riferimento alle modalità “pedagogiche” della sua tradizione, dove l’acquisizione del mestiere avveniva per diretto contatto e in modo esclusivo, ne rinforza la problematicità.

“Sono aperto ma non sto regalando niente. Sono stato già io il ladro, io il registratore”

Mimmo ha imparato a carpire i “segreti” dei suoi maestri silenziosi e solitari, i quali però praticavano giornalmente un’arte, mostrandola nel suo farsi; si è formato all’interno di un mondo “geloso” e protetto la cui poetica era la stessa pratica.

Il “raccontarsi” è un’apertura ai possibili allievi ma non determina la spiegazione della sua arte: non c’è nulla da illustrare ma tutto da decifrare. Le tecniche pratiche della sua tradizione (costruzione di pupi, montaggio di un teatrino etc.) possono essere “ereditate” anche da chi non è figlio d’arte, e sempre con qualche eccezione, ma l’uso di queste per visioni diverse e personali non è “insegnabile”37.

“ In ogni maestro c’è un allievo che vuole rubare più che donare”.

Credo che per Mimmo la parola “maestro” significhi molto se riferita ai codici del contesto di provenienza e oltre la figura del “mastro” sono anche i valori sottostanti ad avere peso. Ma altrettanto la denominazione può non significare nulla se l’accezione è quella del mero riconoscimento di una storia tradizionale, di lui come l’ultimo dei pupari. Questo significherebbe la relegazione a uno spazio di espressione limitante: conservazione e trasmissione di un sapere ma, per Mimmo, la ricerca non ha mai fine. Più che tramandare un patrimonio è necessario, per lui,

37

Cfr. Convegno Una scuola per pupari e cuntisti, Palermo 10-11 Maggio 1997, in L’Opera dei pupi e il cunto, una

tradizione in viaggio, Quaderni di teatro n. 8, Associazione “Figli d’Arte Cuticchio”, Palermo, 1997; Convegno I sentieri dei Narratori, Polizzi Generosa (PA), 30-31 Luglio 2004, in appendice.

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chiarire che è la capacità di crearsi delle strategie di ricerca personali a costituire uno dei fondamenti dell’identità del teatrante, terreno su cui è più facile coltivare un discorso collettivo e di collaborazione: ogni teatrante può dare qualcosa all’altro in una circolarità di saperi.

«Cosa dobbiamo raccontare oggi?», chiedono i partecipanti.

La risposta è: il contenuto del patrimonio personale. Ciò che ogni teatrante ha dentro di sé costituisce materia narrativa e teatrale da comunicare e rappresentare. La riflessione o il suggerimento di Mimmo va però oltre l’autobiografismo, perché ciò che in prima istanza è legato all’intimo sentire del teatrante in un secondo momento, attraverso l’osservazione, il distanziamento e l’adeguamento al contesto, diviene “spettacolo”, performance, evento collettivo38.

Il passaggio dall’interno (personalità del teatrante) all’esterno (contesto) costituisce il nodo del dibattito dei partecipanti. In una graduale specificazione degli strumenti narrativi Mimmo chiarisce la dinamica di questo “spostamento” creativo.

Qual è la differenza fra attore e narratore?.

Il gruppo particolarizza la questione cercando di risolversi in definizioni chiare.

La presunta “differenza” fra le due figure è relativa o meglio non esiste una distanza, poiché ciò che è reale è il corpo sonoro e gestuale e in questo senso il termine “teatrante” è più consono e completo. Non si è solo corpo o solo voce ma “corpo ri-sonante”39 che per mezzo della memoria uditiva e visiva cresce come corpo poetico in grado di far echeggiare ciò che ha raccolto, voci, suoni, gesti e sguardi.

In realtà di fronte alla laboriosa creatività del teatrante, in un gioco tra interno ed esterno, Mimmo preferisce definirsi “artigiano”: un individuo che “costruisce” storie in uno spazio scenico qualunque in cui il pubblico eredita significati, visioni e immagini. Tale spazio scenico equivarrebbe all’antica bottega non come luogo chiuso ed eletto ma come sede laboratoriale.

38

Cfr. F. Ferrari, op. cit.

39

Per la questione dell’attore come “corpo ri-sonante” rimando al concetto di “maschera” nell’antichità analizzato dal Prof. Ferdinando Mastropasqua.

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Fare e farsi spettacolo non è l’offerta di un prodotto “fruibile” e ripetibile ma è l’occasione di sperimentare una comunicazione.

Mimmo prosegue con un ricordo:

«Da piccolo andavo con i compagni sugli scogli per tuffarci nel mare, conoscevamo molto bene i luoghi e sapevamo quindi buttarci da ogni parte e sempre più in alto. Quando veniva qualche ragazzo spaccone, magari più grande, questo pretendeva di dimostrare chissà che cosa; poi all’ultimo momento si ritirava perché aveva paura».

Il fatto è semplice ma in nuce possiede tutti gli elementi del discorso che caratterizza il laboratorio: l’esperienza e la pratica formano una tecnica, la cui consapevolezza permette la scelta di percorsi diversi (uno scoglio più alto da cui tuffarsi) sperimentando altre possibilità.

L’esercizio del “mettersi alla prova” fa sì che la paura del cambiamento diventi tensione creativa. L’immagine del mare, o meglio dell’uomo dentro il mare è metafora costante di Mimmo per spiegare e chiarire la condizione del teatrante-artigiano. In mare si può nuotare o semplicemente galleggiare ma anche affondare; all’uomo di teatro spetta decidere qual è la formula.

III.3.2 II GIORNO, CINEMA CRISTALLO

Da oggi il laboratorio si svolge al Cinema Cristallo di Polizzi. Ancora una volta la volontà di fare e comunicare teatro permette una rinascita, quella dell’ex-cinema, chiuso dagli anni sessanta.

Luogo che, nel corso della manifestazione, non ospiterà soltanto il laboratorio ma sarà ritrovo pomeridiano per spettacoli, racconti, incontri per e con la gente del paese40.

40

Non a caso durante i giorni della manifestazione nasce un’immagine, quella del paese di Polizzi Generosa come “paese-laboratorio”: l’intero tessuto sociale e architettonico del paese viene coinvolto attivamente nella vita del festival, attraverso il recupero di luoghi, privati della loro originaria funzionalità (cinema, chiese, scalinate antiche, palazzi nobili) e con la volontà di far partecipare, con racconti, gli anziani del paese, depositari di storie e fatti d’epoca. È da sottolineare che il coinvolgimento della gente del luogo come fruitori, ma anche come protagonisti della costruzione della manifestazione stessa, è una caratteristica della “socialità teatrale” di Mimmo Cuticchio..

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A questo secondo incontro è presente Roberto Alajmo 41che, con un suo racconto42, inaugura il programma della manifestazione.

Oggi Mimmo chiede di raccontare delle storie, “secondo le proprie capacità umane ed

esperienze”. La richiesta crea molta tensione: è percepibile, nel gruppo, il timore della “prova”.

Poter sfruttare liberamente il proprio “patrimonio” sembra un vantaggio, ma la natura dei quesiti espressi rende la richiesta di Mimmo tutt’altro che semplice.

Forse la prima cosa di cui ci si deve riappropriare non è tanto una tecnica ma la propria emotività. Un teatrante deve imparare a controllare tutto e questo tutto non è soltanto il pubblico, la scena, il testo etc., ma anche e soprattutto il proprio sentire (emozioni e pensieri) ed il proprio corpo. La “prova” da affrontare risuscita nei partecipanti il dilemma sul rapporto tecnico fra narratore e attore. Vorrebbero formalizzare delle strategie e dei codici, catalogare funzioni o “matematizzare” una prassi:

In un racconto quanto posto occupa l’attore e quanto il narratore? Viene prima l’attore o il narratore? qual è lo stile del narratore?

Mimmo semplifica, riportando la discussione alla sua essenza:

«Il teatro è teatro. Non ci sono in realtà generi teatrali, non ci sono tipi di attori, ma teatranti. Bisogna superare queste categorie. Se noi andassimo indietro ritroveremmo Omero, i primi cantori, gli aedi. Tutto torna all’inizio».

Noto che il disorientamento di questi artisti di fronte alla personale crisi di identità e di narratività, è speculare a quello da me provato come spettatrice: cosa mi comunica il teatro? Esistono differenti tipi di teatro e diverse modalità di fruizione?

Stimolata da questa discussione penso al “teatro per ragazzi”, la cui peculiarità molto spesso viene associata alla semplicità e “immediatezza” di linguaggio43, proprio perché rivolto ai più piccoli, a differenza, invece, del teatro “adulto, serio e impegnato”.

Per Mimmo il teatro è per tutti e tutto può essere teatro, se fatto con responsabilità:

41

Giornalista, scrittore, narratore e critico teatrale.

42

Post mortem, Il funerale di Pirandello, Conferenza-racconto di Roberto Alajmo.

43

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«Tutto viene sminuito, i bambini, il teatro, poi si pensa ai burattini, si pensa all’animazione, a queste cose qua come cose minori. Oggi ci sono persone che lavorano nel mondo del teatro per ragazzi, per l’infanzia e per la gioventù. Sono anche persone preparate con responsabilità, perché è una responsabilità lavorare con i più piccoli. Però io continuo a dire che lo spettacolo è per tutti, il teatro è per tutti. Ovviamente ci sono le varie distinzioni però è sempre la stessa cosa, io lo chiamerei, quello dell’infanzia e della gioventù, il “primo teatro”. Bisogna vedere quando uno va a fare un’opera per i giovani che vanno per la prima volta a teatro. Chiaramente tu li devi guidare e questo va nella cura del testo, nell’uso delle parole, nel modo della comunicazione della quale un attore teatrante deve tenere conto, quindi non basta che uno fa uno spettacolo intelligente, e gli riesce bene e per questo è un esperto di teatro per ragazzi. Ogni teatrante dovrebbe imparare a comunicare con il primo pubblico che poi per questo primo pubblico è il primo teatro…altrimenti non va. Se i bambini, i ragazzi, tu riesci a dargli il primo teatro e sai convincerli, non solo quelli ameranno e vedranno il teatro ma forse continueranno ad andarci o farlo da grande. Quindi anche qua purtroppo devo dire che, per la mia conoscenza, c’è tutto un giro di parole, forse anche di soldi, di business. Io mi sono trovato poche volte a fare teatro solo per ragazzi e me lo sono chiesto quando sono arrivato là come parlare, poi ho detto no devo parlare come io parlo agli adulti, soltanto che è inutile che io dico parole difficili da vocabolario che posso usare con gli adulti, perché avendo una cultura un po’ più ampia adesso posso spaziare. Che so, se nei miei racconti parlo di Angelica e ci voglio giocare, essendo lei indiana e dico “balla il Katacali” lo dico a un pubblico adulto ed esperto, quando vado dai bambini non gli vado a dire che Angelica faceva il Katacali, perché i bambini non lo sanno cos’è, allora semmai trasformo dicendo “lei veniva dall’India e conosceva una particolare danza” e intanto faccio un racconto con gli occhi, con le mani, con il corpo e poi magari dico che si chiama “Katacali” ma glielo devo dire in un certo modo. Allora così tu lo puoi fare il teatro per i ragazzi e se i ragazzi alla fine tu li hai convinti perché li hai emozionati, perché li hai fatti ridere, perché li hai tenuti là impegnati ad ascoltare

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una storia, un testo, una drammatizzazione che funziona i ragazzi crescono bene, perché gli hai dato una verità, che è la tua, ma tenendo in considerazione il particolare tipo di pubblico».

III.3.3 SRATEGIE NARRATIVE. PRIMA PARTE

Per dare al gruppo il tempo di concentrarsi Mimmo comincia a dare dei suggerimenti, il primo dei quali costituisce in realtà un atto comunicativo fondamentale.

«Prima di cominciare una narrazione bisogna guardare il pubblico che si ha davanti, capire di che tipo di pubblico si tratta».

L’uditorio è il destinatario della storia narrata e le sue “fattezze” e caratteristiche devono essere considerate ed analizzate dal narratore.

Interviene Roberto Alajmo, che commenta il suo racconto:

“Ho raccontato ciò che ho scritto. Il mio racconto fa parte di una serie di storie “da camino” a cui nel corso del suo svolgimento aggiungo altre storie, altri personaggi. Critico l’enfasi, l’enfisema degli attori d’accademia. Il loro parlare è un rumore che non fa sentire più nulla. Io racconto cercando di sottrarre, conservando però la sporcizia, la “grascia” (la muffa del formaggio). La storia ha bisogno di ossigenarsi, aprirsi per diventare cose diverse, in questo sono molto empirico. All’inizio quando qualcuno si distraeva durante i miei racconti perdevo aderenza, adesso tutte le “sporcature” sono per me falle di possibili aperture, fughe a nuove cose”.

Mimmo: “Un narratore non entra in scena mai con la prosopopea, ma con il rispetto e con il suo

corpo e l’attore non basta. Guai se l’attore si impossessa della narrazione. L’attore mangia il narratore”, perché è la semplicità e la verità della “presenza” ad avviare “la costruzione del labirinto, del racconto e delle immagini”.

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Continua Mimmo:

“Raccontare senza mettere un punto, senza finirla davvero la storia. “Leggere” una storia con i propri valori del momento. Il narratore è in un sentiero e deve raccontare i sentieri con tutto quello che c’è. Il narratore è carta e penna insieme, è teatro come corpo sonoro e struttura fisica. Ciò che esce dalla sua bocca è ciò che deve interessare lo spettatore. Il racconto a memoria non è narrazione. Il narratore arriva con la penna e il foglio bianco per la gente, racconta una storia usando il proprio corpo come teatro. Si può usare l’attore come personaggio in funzione del narratore che è cento attori; l’attore può decidere di narrare e allora è “narrattore”. Il narratore è un compositore, un direttore d’orchestra, dà dei punti di riferimento al pubblico (un sentiero) e poi “suona” il racconto, ma deve conoscere un linguaggio che apra l’immaginario. Come si fa tutto questo? Si torna al discorso del patrimonio personale: tutto quello che capita viene messo dentro. Il lavoro dell’attore non si limita solo alla dizione, poiché deve imparare a muovere la penna vocale: parola chiara, completa, finita perché deve arrivare! È sbagliato parlare prima di aver dato il significato, la parola deve accompagnare l’immaginario dell’ascoltatore. Il rapporto da chiarire è tra il “come dico” e il “cosa dico” e nello specifico tra il significato e il significante».

Le “regole” di una narrazione appaiono semplici e lineari ma è chiaro che per raggiungere una naturalezza scenica bisogna attraversare fasi di natura diversa: rielaborazione del patrimonio personale, osservazione e analisi del contesto di fruizione, traduzione del proprio bagaglio in un linguaggio performativo, consapevolezza dei contenuti, del significato prima che della forma (dizione). Tale pratica in quanto vero e proprio esercizio della sensibilità teatrale è poesia. Il teatrante calibra i vari elementi della sua performance potendo così “giocare” nel e con il racconto, improvvisare ed inventare, prevedere e utilizzare le “interferenze” che possono giungere dal pubblico.

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«Mi annoto tutto. Scrivo copioni che cambio sempre. Prendo appunti, scrivo impressioni, di quello che vedo faccio una sorta di diario. Poi arriva il momento in cui mi fermo per raccontare e qui devo far sentire alla gente le emozioni, l’aria del luogo, i profumi del sentiero che sto attraversando. Con Salvo Licata ho scoperto la scrittura e la lettura e adesso quando preparo un lavoro leggo molti testi, traduzioni, versioni, poi in effetti ho delle difficoltà a montare lo spettacolo per i troppi riferimenti (così mi è successo con lo spettacolo Macbeht) perché se lo spettacolo è una nave, il “cunto” invece è come attraversare il mare a nuoto (il guerriero a mani nude di Franco Ruffini)»44.

Prima del narratore esiste l’uomo che conosce, osserva, annota, interpreta, ascolta, che si costruisce una memoria. Il richiamo all’umano prima che all’artista è importante per la ricerca della verità della finzione. Estemporaneità delle impressioni e catalogazione mnemonica, oralità e scrittura, due momenti apparentemente contradditori ma interni al medesimo processo creativo.

Il primo racconto del laboratorio è una favola popolare napoletana interpretata da Paolo, pulcinella e clown di professione, che, al termine della sua storia, dice:

“Ho cercato una linea che non fosse attoriale ma libera. Ho cercato di eliminare le sovrastrutture con cui di solito lavoro. Ho cominciato a raccontare come narratore, la tecnica è venuta dopo”.

Mimmo: «Hai annunciato che avresti raccontato una storia in napoletano, così ti sei preso tempo

ma allo stesso tempo hai creato una curiosità. Il dialetto è una forma di dizione ed è uno strumento forte di sonorità. Hai usato un canto nella tua narrazione, questo deve essere drammaturgicamente preciso, utilizzato in un dato momento. Il suo uso deve essere cosciente: bisogna sapere di costruire una tensione. Il narratore è al di fuori di tutto, è arbitro e parteggia per tutti e nessuno. Non bisogna dimenticare che le parole sono importanti e in un certo senso le

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Per l’incontro e il rapporto tra Mimmo Cuticchio e Salvo Licata rimando al dialogo tra me e Mimmo, del 28 luglio, riportato in appendice.

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distinzioni bisogna farle. In ogni caso al di là del dialetto e della lingua conta la “verità” da comunicare»

Federica, attrice, interviene:

“La questione delle “formule fisse”, degli “appoggi” è un elemento di ritualità che una tradizione può garantirci così come il possedere un dialetto. Mi manca una tradizione, come faccio a farmene una mia attraverso una poetica?”.

Mimmo: “facendo una tua pratica ti fai la tua tradizione. Si può passare da una tradizione a

un’altra”.

Vincenzo (operatore di teatro per ragazzi):

“Mimmo ha continuato a lasciare le sue orme sulla neve dopo quelle del padre. Per me invece è come se fossi stato buttato in mezzo al deserto e da lì ho cominciato a camminare”.

Bruno (maestro di “guarattelle” napoletane): “anche chi ha una tradizione se la reinventa”.

III.3.4 STRATEGIE NARRATIVE, SECONDA PARTE

Mimmo esplica gli strumenti essenziali di un narratore che è allo stesso tempo regista, drammaturgo e attore. È da sottolineare che parlare di strumenti non è la rivelazione di trucchi e segreti ma una sorta di inquadramento razionale di una performance narrativa.

«Il regista è il poeta, è colui che vuole raccontare qualcosa, colui che dà delle coordinate, che cerca di rendersi conto con chi a che fare, chi ha davanti. Deve possedere lucidità, la capacità della presenza, in questo senso può “perdersi” come attore, come drammaturgo, ma mai come regista-poeta. La parte introduttiva della storia è affidata al narratore-regista che guida lo spettatore all’ascolto della storia di cui esso non sa ancora nulla. Il drammaturgo è il raccoglitore di storie e deve sapere come comunicare con la gente che ha davanti. Deve essere capace di rendere chiaro e comprensibile ciò che sembrerebbe poco limpido e confuso. Un esempio è la tipica frase “cafudda” all’inizio della parte ritmata del cunto. È una parola in dialetto che non

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tutti possono capire ma se ripetuta e sempre nello stesso punto finirà per essere capita anche da chi non è siciliano. A questa figura è affidata la distribuzione e l’interpretazione dei personaggi all’interno della storia e qui è importante il supporto dell’attore e l’uso della tecnica attoriale. L’attore infatti è la tecnica e la dizione ed è lui che sviluppa la parte ritmata di ogni storia»

Entrare in scena come “uno del pubblico”, peculiarità che secondo Mimmo può avere soltanto il narratore- poeta permette di costruire subito un ponte con il pubblico. È un preciso frangente della storia, questo iniziale, in cui l’”ignoranza” del pubblico è l’ignoranza del narratore, una sorta di grado zero della rappresentazione. Come se il poeta cominciasse a scrivere la storia in quel momento stesso e insieme al pubblico. Questo tipo di “entrata” è in realtà una strategia per osservare gli spettatori ed anche l’occasione per creare un’attesa. Una volta entrati dentro la storia (poeta e pubblico), il narratore si fa coordinatore dei personaggi e dei fatti, si fa drammaturgo appunto, che conosce la storia nella sua struttura generale e sa quando fa intervenire l’attore e quando no. Il narratore-drammaturgo dà modo di entrare e uscire dalla storia in qualsiasi momento e senza “traumi”.

Prosegue:

«Non conta come si racconta ma quello che si dice, perché prima di tutto si narra una storia e bisogna renderla credibile. Lo sguardo del narratore è una proiezione, è televisione e radio insieme. Il suono dà movimento alle azioni, crea novità, scoperte. Sì la naturalezza e il dare la sensazione di essere uno fra la gente ma in realtà bisogna sapere più della gente e sorprenderla. Allo schema regista-drammaturgo-attore bisogna aggiungere anche la scelta delle storie. Ognuno sceglie di raccontare le proprie storie. Ognuno sceglie come raccontare, cominciando come interprete, come attore, come narratore o altro ma poi bisogna tornare al narratore perché se si rimane attore o personaggio è difficile uscire dalla storia. Il cuntista della tradizione per finire la

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