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CAPITOLO 2: I

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 2: I

RIFERIMENTI

C

ONCETTUALI E

T

IPOLOGICI

2.1 La questione dei centri storici in Italia.

Il tema del rapporto fra il passato storico più o meno prossimo e le istanze della progettazione contemporanea si presenta, con assoluta necessità e vigore nel caso di studio, come uno dei nodi concettuali fondamentali, che abbraccia le diverse scale d’intervento, da quella urbanistica al singolo manufatto edilizio.

La questione dei centri storici nel nostro Paese ha acquisito grande rilevanza ed i dibattiti che ne sono seguiti hanno contribuito al sorgere, sull’oggetto e sulle modalità degli interventi da attuare, di un nuovo atteggiamento nei riguardi di un problema che ha non solo aspetti tecnici ma anche condizionamenti di tipo politico, economico e sociale.

La tendenza attuale è quella di non considerare più i singoli monumenti: oggetto d’attenzione sono divenuti i tessuti edificati di chiara origine storica, le città, il territorio, tutto ciò che nel complesso può avere un valore storico, artistico, ambientale e naturale.

Facendo un breve excursus dei momenti salienti degli ultimi secoli, si può prendere l’avvio dagli interventi condotti nell’Ottocento su molte città italiane, dove si procedette a grandi demolizioni, adducendo motivi sia di decoro che igienico-sanitari o celebrativi. Esempi famosi furono: Napoli, dopo l’epidemia di colera del 1884, Firenze, relativamente al quartiere del mercato vecchio e Milano, per l’area intorno al Duomo.

Successivamente, tra le due Guerre Mondiali, il regime fascista, soprattutto per motivi propagandistici, si fece portavoce dell’idea del cosiddetto ‘piccone demolitore’; in queste vicende i valori storici vennero sottomessi alla volontà del potere e vennero create grandiose opere, come quelle relative ai Fori Imperiali e l’accesso a Piazza San Pietro. Gli interventi di sventramento condotti costituirono inoltre un’occasione per la collocazione di ceti popolari al di fuori della cinta urbana (le ‘borgate’ a Roma) e contemporaneamente di riqualificazione sociale e terziaria delle parti antiche della città.

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Nel frattempo, il filone urbanistico del Movimento moderno-razionalista, ignorando la problematica del recupero, proponeva in alternativa ai vecchi centri, nuove zone da edificare.

Dopo la Guerra il problema più impellente risultò quello di ripristinare gli svariati beni pregevoli danneggiati o distrutti: venne accettato il principio ispiratore di ricostruire “com’era, dov’era”. Alle aree non rilevanti, si riservò una sensibilità di sicuro inferiore; oltre a proseguire le demolizioni inziate prima del conflitto, anziché rispettare il Piano di Recupero (L.1089 del 1939) ed il Piano Regolatore Generale, introdotto dalla Legge Urbanistica Nazionale (L. 1150 del 10 agosto 1942) che imponeva tempi lunghi, venne istituito lo strumento eccezionale del Piano di Ricostruzione, che consentì nuove edificazioni nel centro come in periferia.

Un tentativo d’indirizzare l’intera materia venne fatto con l’approvazione, nel 1964, della Carta di Venezia, il cui art.1 recita: “La nozione di monumento storico comprende tanto la creazione architettonica isolata quanto l’ambiente urbano o paesistico che costituisce la testimonianza di una civiltà particolare, di un’evoluzione significativa o di un avvenimento storico. Questa nozione si applica non solo alle grandi opere ma anche alle opere modeste che, con il tempo, abbiano acquistato un significato culturale.”

Durante gli anni dell’intenso sviluppo economico, avvenne anche e comprensibilmente lo spostamento di un gran numero di persone dalle zone economicamente deficitarie, verso le grandi città del nord che offrivano la possibilità di un lavoro stabile e ben retribuito. Questo fenomeno, che determinò la nascita della ‘questione dei centri storici’, causò anche la perdita di importanti valori culturali e paesistici, per l’abbandono dei paesi più deboli.

In tale contesto, in risposta alla forza delle dinamiche socio-economiche, si fece strada l’idea che il centro storico si potesse raffigurare come un bene, soggetto alle leggi del mercato, e che di queste leggi bisognasse tener conto per salvare l’aspetto culturale. L’attenzione verso tali problematiche portò a riservare più sollecitudine agli insediamenti abitativi, alle attività economiche che si svolgevano nei rispettivi nuclei ed a concludere che il trasferimento dei residenti e delle loro attività avrebbe determinato la fine di quel piccolo mondo. La conseguenza fu che vennero attivate iniziative di edilizia economica e popolare all’interno dei centri antichi, al fine di

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offrire abitazioni ai residenti più consone alle esigenze dei tempi. Tali conquiste presupponevano un’attenta lettura dell’ambiente edificato, entro il quale avevano avuto origine, si erano formati e stratificati i singoli episodi, che occorreva valutare con estremo scrupolo, al fine di evitare la perdita di valori storici e culturali importanti.

Negli anni ’70 si evidenziò una nuova sensibilità verso le problematiche socio-economiche; l’obiettivo dichiarato non era soltanto la conservazione di un ambiente popolare, ma la conoscenza e la valorizzazione delle relazioni umane, delle attività produttive svolte a favore dei residenti. Dal punto di vista operativo emersero due tendenze: il ‘recupero pesante’ che presupponeva il risanamento di vaste aree degradate con finanziamenti pubblici, il ‘recupero leggero’ che utilizzava stanziamenti pubblici o privati per interventi diffusi.

Venne oltretutto affrontato, con nuova attenzione e coscienza, il problema del fabbisogno abitativo e delle conseguenti modalità per soddisfarlo: in alternativa all’espansione ‘a macchia d’olio’ delle città, sostenuta da una politica semplificata dei meccanismi economici del mercato fondiario, si pensò al recupero dell’esistente coadiuvato da un accorto intervento pubblico sia nella gestione del piano che nell’edilizia abitativa. La normativa italiana, ferma alla Legge Ponte del 1967, introdotta per la salvaguardia dei centri storici, in attesa di successive precisazioni, venne completata con la Legge 10 del 1977, con la quale s’impose il pagamento ai privati degli oneri di urbanizzazione, e la Legge 457/78 che istituì gli strumenti della Zona e del Piano di Recupero.

Gli anni ’80 si sono caratterizzati per dinamiche d’intervento e propagandistiche nuove, volte ad individuare aree di rifunzionalizzazione nelle periferie ed a far nascere una sensibilità collettiva, culturale-professionale, che portasse ad un rinnovata partecipazione dei privati alle nuove esigenze tecnico-finanziarie del mercato edilizio. Nello stesso periodo cessò l’esodo verso le grandi città con la conseguente affermazione dei centri medi, nei quali la qualità della vita si prospettava migliore che nelle metropoli.

Ai giorni nostri la situazione dei centri storici è profondamente mutata, rispetto a quando fu messa in luce circa due decenni fa; le aree centrali delle città sono

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diventate ambite sia per le residenze che per la localizzazione di servizi ed attività varie e le operazioni di recupero hanno messo in moto un processo di riqualificazione, degli edifici e dell’ambiente urbano, esteso e generalizzato. I risultati non sembrano però del tutto positivi: la terziarizzazione prevalente ha portato ad una progressiva diminuzione degli abitanti ed alla quasi totale scomparsa dell’impiego artigianale-commerciale destinato ai residenti, a favore dei settori più forti.

In Sardegna, l'espansione edilizia incontrollata, favorita dalle speculazioni, verso le periferie dei centri urbani e lo spopolamento dei nuclei storici sono stati gli elementi che hanno cancellato una parte della storia e della cultura delle nostre Comunità. Da alcuni anni la Regione ha promosso, seppur timidamente, con fondi propri e Comunitari, un programma di recupero abitativo urbano, favorendo il processo di ripopolamento, promuovendo ed incentivando le attività economiche che nel passato rappresentavano un volano dei centri storici dell’Isola. Nel contempo, sono state messe in atto svariate iniziative nel settore edilizio, sia pubblico che privato, al fine di portare una ventata di modernità nei vari ambiti cittadini; l’atteggiamento complessivo negli interventi sull’esistente è improntato su una nuova coscienza riguardo al bene storico che è salvaguardato, come tale, nella sua essenza, e nelle vicende che ne hanno determinato l’aspetto.

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2.2 La ‘casa a corte’.

La conformazione del sito ha richiesto quasi obbligatoriamente la realizzazione di un ‘vuoto’ centrale attorno a cui ruotasse l’intero intervento e che si configurasse come spazio integrante ed indispensabile per il costruito.

Per questo l’iter progettuale ha avuto come presupposto lo studio e l’evoluzione dei palazzi a corte interna, a partire dalle prime forme individuate fino agli sviluppi più recenti.

La ‘casa a corte’ è la tipologia d’edilizia domestica della famiglia patriarcale, ossia quell'unità che, attraverso un unico accesso dalla strada, rappresentato da un semplicissimo portale, organizza attorno ad uno spazio aperto le singole unità abitative, appartenenti alla stessa famiglia.

La prima civiltà che ci ha lasciato tracce sufficienti per avanzare delle ipotesi sulla nascita di tale filone è quella egiziana, soprattutto in relazione alle pitture riguardanti edifici isolati, chioschi, padiglioni, piscine, il tutto conformato secondo un preciso ordine geometrico scandito dai recinti.

Segni più tangibili si ritrovano a Creta, negli insediamenti della civiltà minoico-micenea (II-I millennio a.C.): sono le costruzioni povere, tipiche della civiltà contadina, successivamente evolutesi nella forma maestosa dei palazzi di Knossos, Hagia Triada e Phaistos.

E’ però in epoca romana che si ha la consacrazione dei due importanti generi di strutture, basate sull’elemento primario della corte: la domus (la casa ad atrio), che costituisce il prototipo della villa e della casa suburbana nell’Europa meridionale e l’insula (palazzo per appartamenti), punto di partenza per il palazzo cittadino, comune alla maggior parte delle città occidentali.

Sebbene i due generi edilizi vengano nella presente trattazione distinti, occorre osservare come l’architettura dei palazzi risulti predominante sulla villa ogni volta che le condizioni politiche rendano necessarie delle strutture che garantiscano sicurezza o una dimora consona alle famiglie che detengono il potere.

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2.2.1 Dalla domus romana alle esperienze mediterranee.

™ La casa ad atrio compare, come tipica casa italica, già nel IV sec. a.C. e consolida, successivamente, nella domus romana, i suoi aspetti fondamentali; è una paradigmatica commistione delle esigenze abitative con quelle razionali del sistema costruttivo in legno, i cui elementi cardine risultano essere il giardino e l’atrio, un nucleo spaziale molto simile al megaron greco, attorno a cui sono articolate le stanze. Le diverse tipologie attestate trovano ragione nella conformazione della copertura, ma tutte sono accomunate dalla presenza del compluvium, l’apertura del tetto in cui le superfici inclinate verso l’interno, riversano l’acqua piovana nella vasca al centro dell’atrio. La pianta, simmetrica secondo l’asse longitudinale, è rettangolare: sui lati maggiori si trovano le piccole stanze da letto (cubicula) e le alae, su quello anteriore e posteriore i vani di soggiorno e di servizio; uno stretto passaggio collega l’atrio col giardino. La suddivisione fra queste due ultime ampie zone si ritrova anche negli alzati, consentendo una gradazione dei volumi e dell’illuminazione.

Con il tempo le abitazioni di proprietà dei signori si evolvono per ostentare il benessere raggiunto, accogliendo i raffinati influssi ellenistici: al posto del giardino si sviluppa il perystilium, cinto di porticati a colonne, sul quale si aprono da ogni lato ambienti di varia grandezza; aumentano di conseguenza le dimensioni ed il numero

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delle stanze (come l’esedra ed il triclinium). Negli ultimi sviluppi, la domus è una casa comoda (raccolta su otto-novecento metri quadri), bellissima e di esclusiva prerogativa dei ricchi cittadini di Roma o dell’opulenta Pompei.

Per completare il quadro, occorre fare un accenno alla villa rustica ed alla villa suburbana, due edifici che i Romani più abbienti hanno nelle proprietà di campagna. La prima viene costruita per tener conto delle esigenze di un’azienda agricola e viene, di solito, destinata ai servi che, sotto la vigilanza del fattore, devono attendere ai lavori agricoli. Nelle tenute più ricche è presente anche la villa suburbana, prossima a quella rustica, ad uso esclusivo del padrone, quando si reca a dimorare nei suoi possedimenti fuori città; è dotata di tutti quegli elementi che possono assicurare un soggiorno confortevole e rilassante: triclini per l’estate, aperti, e per l’inverno, al chiuso, di camere per il riposo diurno, stanze da studio, una piscina per il nuoto, un bagno fornito di calidarium, tepidarium e frigidarium come le grandi terme pubbliche; attorno vi è sempre un terreno adibito in parte ad orti, in parte a parco, con boschetti, siepi, aiuole ben curati e statue, sedili, giochi d’acqua.

Gli esempi più maestosi risalgono all’epoca repubblicana e soprattutto imperiale, quando le accresciute esigenze rappresentative dei proprietari spingono alla creazione di opere grandiose, vaste quasi come centri abitati, arricchite da locali adibiti alle più svariate funzioni, da nuovi elementi architettonici, da portici aperti a mezzogiorno o scavati nel fianco delle colline, da esedre, ninfei, ippodromi, teatri… Nelle epoche successive la tipologia della villa riscuote meno adesioni a causa delle mutate condizioni politico-sociali, che non consentono lo sviluppo di residenze così aperte, specialmente fuori dei centri abitati, essendo esse esposte ai rischi delle incursioni, delle epidemie o di mancanza di qualsiasi sorveglianza.

E’ sembrato quindi opportuno seguire le variazioni che i primi esempi illustri hanno riportato, quasi indipendentemente da una progressione cronologica, in tutta l'area del Mediterraneo, dove l’affermarsi di una comune struttura familiare, di una maggiore stabilità politica e la presenza di analoghe condizioni climatiche, hanno consentito un seguito così ampio al modello in questione.

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Villa Adriana a Tivoli: plastico del complesso, il teatro marittimo. Giardino Stanze d’abitazione Stanze di Corte Legenda

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™ Il patio spagnolo.

Gli esempi più illustri della tipologia edilizia legata alla corte si trovano nel sud della Spagna, nell’Andalusia.

Fin dal tempo dei Romani, i centurioni, inviati per governare le città, costruirono le loro case secondo tale schema; quando gli arabi conquistarono la regione, sposarono la tradizione costruttiva incentrata sui cortili, anche perché in questi luoghi ci si poteva rifugiare per restare all’ombra delle mura imbiancate, tra piante e fiori.

Il patio rappresentava non solo il fulcro della maggior parte delle abitazioni, ma l’elemento qualificante della cultura e dell’intero paesaggio urbano andaluso. Di solito aveva al centro un pozzo che raccoglieva l'acqua piovana, proprietà direttamente mutuata dagli antenati romani; svolgeva una funzione non solo pratica, ma anche estetica o di rappresentanza.

Le testimonianze sicuramente esemplari originali risultano, ancora oggi, quelle della città di Cordoba dove si sovrappongono caratteri romani, islamici, cristiani, secondo un’uniformità ed un gusto del tutto particolari. Si possono contare nella città ben 172 patios, affascinanti cortili fioriti, protagonisti ogni anno, tra fine aprile e maggio, del Festival de los Patios Cordobeses, con spettacoli di cantanti e danzatori di flamenco ed eventi gioiosi e talvolta improvvisati. Uno dei più famosi è quello del Palazzo De Viana, magnifica residenza rinascimentale, risalente al IV secolo, celebre per i suoi dodici bellissimi cortili interni. Passeggiando per le vie strette lastricate del centro cittadino è comunque possibile affacciarsi a curiosare nei patii eleganti, che hanno conservato l’eredità del passato: la fontana al centro, gli ingressi decorati e chiusi da grate in ferro battuto dalle forme più svariate.

L’espressione più completa ed affascinante si raggiunge nell’Alhambra di Granada, la residenza fortificata che gli ultimi principi mussulmani di Spagna costruirono tra il XIII ed il XIV secolo; è costituita da un vasto complesso entro cui sono collocati i vari edifici, ciascuno conformato secondo lo schema rettangolare con corte centrale; il nucleo è composto da una piccola moschea (la Mezquita), da un edificio termale e da varie sale di rappresentanza raccolte attorno a grandi corti (Patio de el Alberca, Patio de los leones..).

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A parte l’interesse per le specifiche realizzazioni, è importante notare come le forme dell’architettura spagnola siano state riprese nell’area mediterranea non solo come spunto decorativo, ma anche nella tipologia, nella persona di architetti e maestranze.

Cordoba, Palazzo de Viana: due vedute dei patii interni.

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™ Le ville toscane e romane.

In Italia, dopo l’epoca romana, le prime dimostrazioni interessanti si hanno in Toscana nel Trecento, nelle ville che inglobano, con sapienza e parsimonia, la residenza, il giardino, i locali per i dipendenti. L'immagine forse più conosciuta della Toscana è quella medicea e rinascimentale-manieristica delle ville e residenze di campagna. La villa medicea di Poggio a Caiano è il primo esempio di architettura rinascimentale che fonde la lezione dei classici (in particolare Vitruvio) con elementi caratteristici dell'architettura signorile rurale. Altro importante manufatto è la villa di Artimino, che domina imponente sul poggio, nella sua struttura squadrata, quasi una fortezza sormontata da una selva di comignoli dalle forme più svariate, da cui appunto il soprannome di "villa dai cento camini".

Si afferma contemporaneamente la tradizione della villa romana che, a partire dagli antichi modelli, si connota in maniera interessante e si pone come capostipite di una nuova concezione della casa, basata sul senso umanistico di una vita agiata, serena, colta. Acquista oltretutto, rispetto ai coevi casi della penisola, un valore monumentale maggiore, strettamente derivato dalla peculiare condizione economica-sociale dei proprietari. Il fabbricato principale, si pone quasi sempre al centro di un’articolata composizione di direttive prospettiche, rimarcate dall’articolazione del giardino circostante, e si eleva su un terrapieno sorretto da muraglioni, in cui si aprono nicchie, grotte, porticati; è interessante notare come si faccia strada una nuova accezione di spazio, molto più libera e spigliata, che informa gli spazi esterni quanto quelli interni, nella ricerca di un continuum inscindibile fra gli ambienti di rappresentanza, le sale sporgenti dal corpo di fabbrica, i saloni con ampie vetrate, ed il parco immediatamente circostante, che viene popolato di statue, fontane, edicole.

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Villa Farnesina, Roma (1508-1511): pianta, vista esterna.

™ Le case a corte nel Salento.

Il paesaggio urbano del Salento è segnato, fin dal XIV sec., da questa formula residenziale, che riflette un continuo processo di adattamento storico e culturale della popolazione al suo ambiente. E’ la tipica abitazione popolare che riporta nei suoi schemi strutturali le esigenze di una comunità rurale, fondata sul nucleo familiare, perno della vita sociale ed economica, che nasce, si evolve autonomamente in un tempo in cui l'agricoltura costituisce l'unica fonte di sostentamento e ricchezza e presenta, per questo, delle peculiarità inconfondibili.

Nella sua forma più semplice ed antica, s’identifica nella cellula unifamiliare, di forma regolare, caratterizzata da un portale d'ingresso sul lato corto che s’affaccia sulla strada principale, da un cortile interno, da una costruzione ad ambiente unico e da un retrostante giardinetto, l’ortale, che suggerisce l'idea che tali costruzioni fossero originariamente allocate in spazi aperti, in nuovi insediamenti e non già in centri urbani dove lo spazio tende a ridursi o a sparire. Il cortile è ovviamente l'elemento principale, concepito come spazio plurifunzionale esterno all'abitazione, che il clima poco rigido consente di sfruttare come luogo di lavoro, deposito e magazzino, ricovero per gli animali, spazio di socializzazione, d'intrattenimento e di gioco.

La casa a corte si trasforma lentamente dalla minima unità produttiva e amministrativa in insediamenti più complessi come la casa plurifamiliare, dietro

Corte centrale

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iniziativa di più famiglie legate da parentela (ad esempio dopo suddivisione del nucleo familiare), da rapporti di buon vicinato, o da interessi comuni. Conseguentemente al miglioramento delle condizioni economiche, l'abitazione viene arricchita con alcune appendici come il vano carraio coperto (suppuertu), che precede il cortile scoperto e lo collega con la strada, e la cucina, oppure sopraelevata e collegata alla corte interna da scale esterne. Anche la tecnica costruttiva si evolve: i portali ad arco, con il simbolo della famiglia del latifondista all’apice, s'impreziosiscono di motivi decorativi in pietra leccese, in linea con le tendenze artistiche-estetiche del tempo, e vengono spesso sormontati da un balcone, il mignano.

Appare abbastanza palese come il mutamento dei tempi comporti per questo genere edilizio la perdita di ambienti specialistici, come la piccola stalla, sistemata nel cortile, a ridosso del muro di cinta; nonostante questo, per le sue caratteristiche, la sua essenzialità, diffusione e peculiarità, rappresenta non solo un patrimonio architettonico da recuperare e valorizzare, ma anche un modello abitativo e sociale ancora valido basato sullo spazio comune, sulla socialità, sullo scambio e sulla condivisione, per sfuggire a quell'isolamento dettato dalle imposizioni della vita lavorativa.

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2.2.2 L’insula romana e le linee evolutive del palazzo cittadino.

™ A partire dal II sec., all’elegante domus dei patrizi, si contrappongono, per soddisfare i bisogni abitativi delle classi medio-basse, i grandi isolati di case d’affitto, le cosiddette insulae, che rappresentano l’evoluzione in senso verticale della domus tradizionale e delle tabernae tabulatae dei commercianti, dotate di soppalco per la dimora del proprietario, evolutesi nei cosiddetti cenacula, gli appartamenti dei piani superiori, dove vivono mediamente 5/6 persone. Tale struttura si sviluppa, con un’altezza che spesso raggiunge i 18 metri (3 o 4 piani), su un’area regolare di circa 300 metri quadri, delimitata da muri perimetrali propri.

E’ costruita in muratura, con cortina in laterizio non intonacata, ed impalcati lignei, in completa economia, in modo da sfruttare al massimo lo spazio disponibile; le fonti letterarie parlano di igiene precarie, di pericolo di crolli ed incendi, d’insostenibile rumorosità; data la mancanza d’acqua e dei servizi più elementari negli appartamenti, l’insula di grandi dimensioni viene a volte dotata al piano terra di infrastrutture comuni: fontana, bagno, gabinetto e lavanderia.

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A partire dal periodo imperiale, vengono costruiti i grandi palazzi di rappresentanza, la cui serie inizia con l’ampliamento da parte di Augusto della casa della moglie Livia, sul Palatino; Tiberio fa erigere la Moles Tiberiana, sul tipo della grande domus con peristilio, e Nerone si dedica alla famosa Domus Aurea.

La struttura più imponente ed interessante è forse la Domus Augustana, l’enorme palazzo che l’imperatore Domiziano volle edificare per sé ed i propri discendenti, a testimonianza del potere e dell’autorità della famiglia. Nel complesso, il cui progetto venne affidato a Rabirio, un espertissimo architetto del tempo, si possono distinguere tre settori, a seconda delle funzioni: la zona di rappresentanza, dove l'imperatore si mostrava ai suoi sudditi e regolava la vita pubblica, la vera e propria Domus, in cui si svolgeva la vita privata dell'imperatore, ed infine lo Stadio, una vasta area occupata da un ippodromo privato in cui si svolgevano gare e corse di carri destinate alla famiglia imperiale e a pochi eletti ammessi a condividere gli spettacoli.

Stanze d’abitazione

Stanze di servizio, negozi Corte

Legenda

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Domus Augustana: planimetria e vista esterna.

™ Le case ad aula su più piani, case nobiliari urbane, costituiscono il tipo dominante tra le residenze medievali. All’interno di un poderoso setto perimetrale, eretto su una stretta pianta rettangolare, i vari livelli, scanditi da impalcati di travi o volte, sono così strutturati: al piano terra il vestibolo d’ingresso, con i portoni sulla strada e sulla corte, al primo piano la sala principale, i piani successivi occupati ancora dai vani residenziali e di servizio, collegati tra loro da scale esterne o interne. Si prosegue dunque, negli stretti lotti edificabili delle città, la tendenza alla verticalizzazione già proposta nell’epoca precedente, accentuandola decisamente. Il palazzo di città si connota come la tipologia principale a partire dal XIII sec., in risposta alle pretese del ceto dominante: un insieme di grandi blocchi rettangolari, in sostituzione delle strette case ad aula su più piani, si articola attorno alla corte centrale, con portici e gallerie che distribuiscono i gruppi di spazi, ordinati per piani; l’elemento di collegamento principale è la scalinata che dalla corte conduce agli ambienti di rappresentanza e d’abitazione del primo piano, nobile; i restanti livelli, collegati da scale interne, servono alle esigenze della famiglia ed al governo della casa. Nell’ambito dello stesso schema, si hanno comunque delle diversificazioni nelle varie regioni, dovute all’influsso reciproco tra architettura municipale e casa privata, conseguente all’identificazione del governo cittadino con l’aristocrazia

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locale. In Toscana, permane il blocco edilizio chiuso come fortezza, rigorosamente chiaro nelle planimetrie ai vari livelli, con un unico accesso al piano terra ed aperture ai piani superiori ordinate con grandi archi di scarico nella parete, sottolineando il carattere difensivo. A Venezia invece, caratteristiche dominanti sono l’apertura verso l’esterno e la tripartizione simmetrica, in facciata come nell’articolazione funzionale degli spazi.

™ Nel Rinascimento si registra un nuovo impulso nell’edificazione di palazzi privati, grazie all’iniziativa dei patrizi che intendevano glorificare la propria vita e la casata.

La tipologia più diffusa è il complesso edilizio chiuso, con corte loggiata centrale, in cui alla ripartizione esterna corrisponde la seguente suddivisione interna: il piano terra destinato al movimento di commercianti, clienti, visitatori, il piano nobile agli ambienti di rappresentanza ed il secondo alla vera e propria residenza della famiglia. L’accentuazione dell’estensione orizzontale, che consente una chiara distribuzione delle funzioni ai vari piani, è accompagnata da una monumentalizzazione, soprattutto in Toscana, che vede il piano terra pressoché privo di finestre ed i piani superiori estremamente regolari, scanditi dalle cornici sotto le aperture.

Il Palazzo Medici (1444-1464) a Firenze è il primo dei grandiosi palazzi che questo periodo produce in così gran numero. La delicatezza e l’esattezza dell’articolazione tipiche del Rinascimento risultano evidenti soprattutto nei cortili interni: a

Palazzo Tolomei, Siena.

Tipico esempio di palazzo toscano: planimetria.

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pianterreno sono circondati da loggiati, i piani superiori sono animati da gallerie aperte, da lesene o da altri elementi che articolano i muri in distinte campate.

A Roma si sviluppa un tipo di cortile più severo, che si struttura sul motivo dell’arco antico romano, i cui sostegni consistono in pilastri con mezze colonne addossate (sistema nel quale i pilastri reggono l’effettivo peso dell’arco, mentre le mezze colone e la trabeazione che corre su di esse hanno scopo esclusivamente decorativo. Esempio classico e Palazzo Venezia, risalente al 1455.

Un compromesso di estremo fascino tra il tipo fiorentino e quello romano fa la sua comparsa ad Urbino: il cortile del Palazzo Ducale (metà XV sec.), ideato probabilmente da Luciano Laurana, serba la leggerezza dei loggiati toscani, ma gli angoli sono accentuati con energia dai massicci pilastri affiancati da lesene, che sostituiscono le leggiadre colonne.

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™ Nell’età barocca, in Italia si segue la scia tracciata nel Rinascimento dal palazzo chiuso con corte interna, che è l’elemento di centralizzazione funzionale, di razionalizzazione degli spazi e dei percorsi (i corridoi si trovano lungo il suo perimetro), garante dell’accessibilità e dell’illuminazione ai vari livelli. Spesso la corte è anche ripetuta, soprattutto nei complessi stretti e lunghi per consentire le aperture necessarie a tutti i vani. La distribuzione degli spazi secondari presenta una certa differenziazione, a seconda delle funzioni, ma segue, in linea di massima, il seguente schema generale: al piano terra si trovano il vestibolo d’ingresso e la scala principale, ubicata di solito su un lato di esso, destinati all’accoglienza ed alla rappresentanza, e gli ambienti di servizio; i vani principali sono al primo piano, o piano nobile, al secondo piano la zona notte, al mezzanino le stanze per la servitù. Si perde quasi completamente l’osservanza della simmetria lungo l’asse principale, che era stata propria del Rinascimento, a vantaggio di un’aggregazione più varia che conserva comunque alcune costanti, come la tradizionale fuga di stanze con assi delle porte coincidenti (enfilades).

Un commento particolare merita il Palazzo Barberini (1625), importante esempio del filone dei palazzi con giardino, nati nel diciassettesimo secolo come sintesi fra i due tipi edilizi dominanti del palazzo di città e della villa di campagna. L’intento iniziale del progettista Carlo Maderno era quello di realizzare un blocco quadrato con un cortile interno ad arcate; durante la progettazione, il cortile è stato abolito e la pianta ha assunto la forma, rivoluzionaria per quell’epoca, ad H. Il porticato d’ingresso ha tre campate in profondità, la cui ampiezza si riduce gradualmente creando una forte concentrazione lungo l’asse principale; da qui si accede ad una sala terrena ellittica che si apre su una lunga scalinata che porta al giardino situato ad un livello superiore

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e collegato anche alla stanza ovale del primo piano; in quest’ultimo si trova, allineato con l’asse principale, il grande salone, di doppia altezza. Il palazzo rivela nel complesso un’interpretazione più dinamica del movimento lungo l’asse longitudinale, diretto verso il giardino, una forte tendenza alla sistematizzazione e un’organizzazione più funzionale.

Palazzo Barberini, Roma: planimetria, veduta esterna.

™ Nel Settecento si continuano a seguire le linee generali già delineate: il palazzo italiano ha già raggiunto nel corso del Seicento la sua piena evoluzione e quindi il Tardobarocco ed il Rococò non offrono alcun contributo tipologico fondamentale. Troviamo comunque un rinnovato tentativo di differenziazione della pianta a seconda delle funzioni ed un nuovo rapporto fra interno ed esterno per cui, al posto dell’asse dominante ed infinito, si ha un più intimo contatto dell’edificio con l’ambiente immediatamente circostante. Questa evoluzione segue un andamento particolare a seconda del sistema sociale e dei differenti Paesi. L’architettura romana perde il proprio slancio creativo e nel panorama italiano spiccano le fabbriche piemontesi, che presentano un’interessante accostamento alle tendenze francesi. Dietro le ininterrotte facciate urbane, si scopre un sontuoso mondo di cortili, scalinate ed interni; l’elemento di passaggio è il tipico androne torinese, che di solito

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ha la forma di un vestibolo a schema centrale e crea un effetto di apertura tra l’ingresso ed il cortile.

Il Palazzo Ghilini, costruito da Benedetto Alfieri ad Alessandria (1730) è forse il più convincente esempio di palazzo cittadino italiano del Settecento. La distribuzione degli spazi interni, risponde all'intento di razionale suddivisione tra ambienti di rappresentanza ed appartamenti privati, nel costituire il nuovo modello di sede nobiliare alessandrina. Occorre ricordare in proposito che l'ampio scalone previsto dal progetto originale nella zona destra avrebbe totalmente negato l'impianto di precisa simmetria oggi invece presente. In facciata sono numerosi i riferimenti alla cultura romana, fatta propria e reinterpretata, dalle mensole alle cartelle, alla nicchia del piano nobile di sapore borrominiano.

Palazzo Ghilini, Alessandria, facciata

™ L’avvento dell’architettura moderna contribuisce sentitamente allo sviluppo della tipologia domestica, secondo uno spirito e con intenti del tutto nuovi: l’attenzione rivolta alla cellula abitativa ed alle diverse modalità di composizione degli ambienti mirano sostanzialmente a creare uno spazio accogliente, dove l’uomo può esplicare al meglio le proprie esigenze. Lo spazio comincia in tale ottica ad essere inteso come un fluire continuo, interrompendo l’uso convenzionale di percorsi

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e mete in termini di passaggi e stanze chiuse e degli schemi ricorrenti come standard cui l’individuo deve adattarsi.

I diversi rappresentanti cercano dunque di dare un senso al nuovo concetto di casa proponendo soluzioni variamente articolate e motivate, che danno vita ad un cospicuo numero di indirizzi architettonici. La carenza ricorrente delle dimore è però ravvisata nella mancanza di forme significative, di riferimenti tipologici: “…favoriscono infatti la vita nello spazio, invece che la vita con immagini…” (da C. Norberg-Schuylz, L’abitare, pp.108).

Oggigiorno si sta in parte cercando di riconquistare la qualità formale-figurale dell’architettura domestica, recuperando nelle proposte, anche estremamente attuali, il repertorio offerto dalla memoria, sia individuale che collettiva.

Il tema della casa a corte interna costituisce una modalità d’intervento molto diffusa, sia come proposta d’espansione nelle periferie cittadine, individuando i tipici isolati con un’interna area verde destinata alle funzioni non risolvibili all’interno degli appartamenti, sia in un ambito densamente edificato come il centro storico; in quest’ultimo caso gli edifici creano una cortina pressoché continua lungo le strade, gli accessi ai vani scala comuni sono per lo più all’interno delle corti ed è presente un percorso di distribuzione anch’esso interno; nei frangenti meno felici le corti si riducono notevolmente per diventare lunghi e stretti cortili, troppo angusti per le altezze degli edifici, con una distribuzione frammentata del verde e degli spazi destinati ai vari usi.

2.2.3 Alcune esperienze locali.

La tipica casa sarda si costituisce come una ripresa particolare della tipologia, basata sulla corte interna, assodata dalla tradizione greco-romana e di tutto quel filone che ha consacrato uno schema adatto alla vita statica, spesso povera, ma ricca di qualità morali. E’ un organismo che cresce con le esigenze, in cui forma e funzione costituiscono un unicum inscindibile, evidenziato palesemente anche all’esterno, dove la terza dimensione è proporzionalmente rispettata in ogni cellula; per questo, soprattutto nella sua accezione più modesta, non si configura, sul nascere, come un

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organismo completo, ma un insieme di ambienti, anche irregolari, che aumentano attorno al nucleo essenziale con al centro il focolare, a seguito delle necessità, della crescita dei figli, in rapporto alla prosperità economica.

Un peso sicuramente rilevante nell’evoluzione hanno avuto le prime forme d’abitazione isolane, che riflettevano lo stato d’animo d’isolamento e paura cui la popolazione era spesso soggetta: sebbene influenzate da fattori esterni hanno determinato lo sviluppo di una forma comunitaria singolare che, con modalità differenti, permane ancora oggi in varie località.

Nei centri di dimensioni maggiori l’elemento ‘corte’ ha seguito un corso che, richiamando le direttive tracciate, ha avuto esiti in parte diversi e più maestosi.

™ Le case campidanesi.

Le esperienze più note e forse più complesse, sono quelle caratteristiche dei centri storici dei comuni distribuiti tra il Campidano di Cagliari ed Oristano, basate sulla tipica corte interna, a cui si accede tramite un ampio portale decorato, a seconda dei casi, con pietra lavorata, mattoni o semplicemente intonacato. Le abitazioni sono impostate su area di forma quadrangolare, allungata in profondità rispetto alla strada, cinte da un alto muro e divise trasversalmente dai corpi di fabbrica, che delimitano il cortile posteriore, coltivato spesso ad orto, da quello principale situato sul davanti, d’accesso al complesso.

Le singole unità, composte da camere affiancate, sono disimpegnate e illuminate da un loggiato (la ‘lolla’), l’elemento più originale, che ha ad un’estremità la cucina, dietro la quale è un disimpegno caratteristico che immette nel patio posteriore, ed il forno. Nel rapporto con il cortile, commisurato sempre al diaframma della parte costruita, sta l’essenza della dimensione familiare: fra il cortile e la ‘lolla’ le donne tessono, ricamano e purgano il grano, i bimbi fanno i primi giochi e si raduna tutta la famiglia al fresco della sera. La tecnica costruttiva, piuttosto elementare, utilizza i locali mattoni di laterizio pieni, vanto, assieme ai coppi, delle fornaci campidanesi.

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Tipica casa campidanese: l’ingresso e la ‘lolla’

™ La corte interna a Sassari.

L’immagine della corte ha sempre fatto parte del panorama urbano sassarese; la sua nascita è strettamente connessa con la conformazione del centro cittadino, che si è sempre presentato come un agglomerato denso d’abitazioni che cercava aria e luce allargando, ogni tanto, le anguste e tortuose vie in spazi un po’ più ampi. Molti studiosi propongono una diretta derivazione dal fenomeno della corte medievale, sia sotto l’aspetto etimologico che economico, poiché sarebbe molto probabilmente legata alla costituzione di consorterie da parte di famiglie strette di vincoli di parentela, di lavoro o vassallaggio. E’ comunque indubbio il valore culturale di un tale spazio cittadino, una sorta di diaframma fra l’intimità domestica e l’ambito pubblico della piazza, in cui “…si raccoglievano le comari del vicinato, si tenevano i circoli nei giorni festivi, s’improvvisavano i balli…” (A. Cesaraccio, Sassari e il suo volto).

E’ oltretutto molto probabile che il primo nucleo di Sassari possa essere riconosciuto nel Pozzo di Villa, la centrale piazzetta rustica su cui si affacciavano umili casette, fra cui la dimora del ‘maiore’, il sindaco del villaggio.

Anche oggi sono ben visibili alcune delle antiche corti, come quelle nel quartiere di San Donato, che hanno conservato quasi invariati sia caratteri topologici salienti, quanto il ruolo dominante nell’anima e nella vita urbane.

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Scorcio di Pozzo di Villa, il punto in cui probabilmente sorse il primo nucleo di Sassari.

Via Corte Larga, nel quartiere San Donato. Veduta aerea del centro storico, attorno al Duomo.

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Strettamente correlata con l’accezione della corte appena presentata, è la presenza, nei principali edifici cittadini, di uno spazio centrale su cui ruotasse l’intera struttura e che può essere visto come l’evoluzione e l’accorpamento delle modeste abitazioni in un unico e più ricco complesso. Caratteristica ricorrente è la mutazione della destinazione del piano terreno in cui, in dipendenza della rarefazione dello spazio edificato, vengono previsti ambienti adibiti a svariati usi delle residenze soprastanti. Uno degli esempi paradigmatici, su cui è stato possibile condurre anche un attento studio, è il Palazzo Ducale, l'esempio più significativo ed importante dell'architettura civile della fine del '700, per la città di Sassari.

Ebbe origine per volere di Don Antonio Manca, marchese di Mores e Vallombrosa, Signore d'Usini e Duca dell'Asinara, che, non sentendosi al sicuro nel suo antico palazzo nobiliare in Piazza Tola, volle edificare una dimora solida e maestosa, isolata dagli altri edifici, sull'area occupata da un palazzo di famiglia e da case di proprietà del Capitolo Turritano e di privati. La costruzione ebbe inizio nel 1775 e fu ultimata nel 1806, quando il proprietario era già morto; il primo inquilino del nuovo Palazzo fu Don Vincenzo, nipote di Don Antonio; successivamente fu abitato da diversi privati. Divenne poi sede della Prefettura e della Amministrazione Provinciale. Infine, nel 1878 il Municipio di Sassari vi trasferì gli uffici, dato che il Palazzo Civico era diventato troppo angusto, e nelle sedute del 28 novembre e del 23 dicembre 1899, il Consiglio Comunale ne decise l'acquisto.

La struttura odierna del Palazzo Ducale non differisce molto da quella originaria: le modifiche apportate, in seguito al 1899, per soddisfare le necessità della nuova destinazione a sede municipale, sono state fortunatamente di modeste entità e tali da permettere di individuare i diversi locali dell’abitazione che il vecchio Duca aveva vagheggiato.

Il Palazzo consta di 3 piani, oltre il seminterrato, insistenti su un’area leggermente irregolare, di circa 1560 mq.; le piante, ai vari livelli, sono strutturalmente quasi coincidenti, diversificandosi unicamente per qualche ambiente creato per le specifiche esigenze della famiglia ducale. L’intera composizione insiste sul cortile, di forma rettangolare, collocato, con sviluppo orizzontale, lungo l’asse di simmetria passante per l’ingresso. In origine era più alto rispetto al livello attuale e, al centro,

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fra gli aranci ed i limoni, aveva un pozzo di forma circolare, contornato da 4 busti in marmo, raffiguranti il Sole, la Luna, la Stella e la Cometa, ed una scultura rappresentante Bacco su una botte, col calice in mano.

Il seminterrato, oggi occupato in parte da sale per adunanze, era adibito a magazzini e ad ufficio di riscossione delle imposte; coloro che si recavano a pagare le decime al Duca legavano i cavalli agli anelli murati nella parte bassa delle facciate laterali. Al centro dell’androne, che occupa un livello intermedio fra il seminterrato ed il primo piano, si innalza una maestosa e scenografica scala a tenaglia, poggiante su pilastri, che, oltre a fornire un collegamento con i piani superiori, è l’elemento caratterizzante dell’intera fabbrica. Il primo piano, a cui si accede, oltre che dal primo pianerottolo dello scalone, anche tramite scalette interne, è oggi destinato all’archivio e ad altri vari uffici; scarse sono però le fonti riguardo l’utilizzo originario. Il secondo piano ospitava gli appartamenti della famiglia ducale ed era, per questo, definito piano nobile, come si può notare da vari ornamenti e decorazioni. Anche oggi è il piano principale, in quanto vi hanno trovato sistemazione il salone consiliare, la sala matrimoni, la sala giunta e gli uffici del sindaco, del segretario generale e del direttore generale.

Al terzo piano molti ambienti sono stati modificati con l’aggiunta di tramezzi, per dar spazio ai nuovi uffici, come si può facilmente constatare dalle brusche interruzioni delle volte. Uno stretto corridoio, sul quale si affacciano i piccoli ambienti di recente ricavati, conduce all’ampia terrazza che conclude il complesso. L’esterno è imponente, per la composizione settecentesca e la scelta del paramento. La fronte principale, rivolta verso la piazza, oggi del Comune, è divisa, orizzontalmente, da fasce marcapiano e scompartita, per tutta l’altezza, da lesene che determinano la scansione delle aperture; queste ultime si differenziano ai vari livelli, contribuendo a creare l’effetto di orizzontalità della parete: quelle del seminterrato sono rettangolari, segnate da semplici mostre e legate con fasce disadorne a quelle del piano sopraelevato; al primo piano si presentano quasi spoglie, se non per un lieve motivo ai lati ed una mensola aggettante, posta superiormente; le finestre del piano nobile, con orecchiette originali, sono sormontate da timpani ricurvi e triangolari, a seconda della posizione occupata nelle varie porzioni di facciata

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definite dalle lesene, quelle dell’ultimo piano, tutte uguali, sono riquadrate da un elegante motivo di gusto rococò, anch’esso originale, ripreso in altre fabbriche. Chiaro è l’intento di evidenziare la zona centrale del prospetto, non in aggetto, ma connotata da particolari elementi e da una minore distanza fra le aperture.

Anche i prospetti che s’affacciano sul cortile interno hanno uno sviluppo regolare ed analogo.

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™ La corte interna ad Alghero.

Fenomeno decisamente analogo, anche se con risultanze ed accezioni in parte difformi per i diversi influssi culturali subiti, è rappresentato dai palazzi di Alghero che sono oggi perfettamente inseriti ed integrati nel tessuto urbano e seguono maggiormente le linee evolutive del filone riguardante i palazzotti nobiliari cittadini. Può essere immediatamente rilevato, anche da un visitatore inesperto dei fenomeni insediativi, la tendenza che anima, nella cittadina in questione, non solo i singoli fabbricati ma anche i ‘vuoti’ del tessuto edilizio: molte piazze, che si configurano come un quadrilatero attorniato da edifici ed aperto solo in corrispondenza delle vie di comunicazione, possono essere lette come la risposta, a scala più ampia, dello stesso intento d’aggregazione che informa le singole unità che su di essa si affacciano. La corte risulta quindi un fenomeno tipico della dimensione privata come di quella collettiva.

Esempio paradigmatico è il Palau de Ferrera, costruito nel XV sec. dal potente feudatario Pedro de Ferrera, marchese di Bonvehì, uno dei vincitori della guerra aragonese condotta nel 1436 contro Nicolò Doria. L’edificio ospitò l’imperatore Carlo V in sosta per due giorni ad Alghero e fu sede del governatore della città e dei vicerè di Sardegna in occasioni ufficiali; nell’800 fu oggetto di sopraelevazione e di ampliamento sul fronte retrostante; nel 1960, fu venduto e convertito in condominio e da allora ha mantenuto la stessa destinazione d’uso.

Collocato ad uno degli angoli dell’antistante Piazza Civica, originariamente su due livelli, è ora composto da tre piani fuori terra, strutturati su una pianta trapezoidale che gravita attorno al cortile interno porticato, con scala scoperta e balconi continui ai piani superiori, quasi completamente occupato oggi da un’insolito giardinetto di bambù; l’ingresso principale, un monumentale portale sormontato da conci a ventaglio, è situato al centro della facciata che prospetta sulla piazza, realizzata, in conci di arenaria a vista squadrata, in maniera molto sobria e lineare, lievemente scandita in orizzontale dalle file di aperture, dalla sottile fascia marcapiano tra il primo ed il secondo piano e dalla gronda in sommità; il piano secondo presenta semplici finestre di fattura moderna, mentre il piano nobile conserva quattro grandi bifore in stile gotico-catalano e all’estremità, due piccole monofore con cornice ogivale.

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Alghero: Piazza Civica antistante il Palazzo de Ferrera.

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2.3 L’Existenzminimum.

Le richieste della committenza di prevedere 15 appartamenti di piccolo taglio, eventualmente accorpabili, hanno inevitabilmente diretto la mia attenzione verso l’analisi e conseguentemente la proposta di unità immobiliari basate sullo ‘spazium minimum’.

La trattazione del problema si apre con un collegamento col passato: è nel Movimento Moderno che il tema comincia ad assumere importanza centrale nelle ricerche architettoniche, direttamente collegato alla necessità di mettere a punto un sistema di conoscenze, il progetto, che rappresenti uno strumento di controllo della qualità, interpretata come idoneità a soddisfare le esigenze dell’utenza, a livello di singolo e di collettività, in un quadro di tendenziale ottimizzazione delle risorse. “…L’architettura moderna si è sviluppata secondo alcuni principi generali: 1) la priorità della pianificazione urbanistica sulla progettazione architettonica; 2) la massima economia dell’impiego del suolo e della costruzione al fine di poter risolvere, sia pure a livello di un minimo di esistenza, il problema delle abitazioni; 3) la rigorosa razionalità delle forme architettoniche, intese come deduzioni logiche da esigenze obiettive; 4) il ricorso sistematico della tecnologia industriale alla standardizzazione, alla prefabbricazione in serie; 5) la concezione dell’architettura e della produzione industriale qualificata come fattori condizionanti del progresso sociale e dell’educazione democratica della città..” (da R. De fusco, Storia dell’architettura contemporanea, p.210).

Sotto la voce ‘movimento moderno’ si può ascrivere un gran numero di contributi individuali e collettivi e non è possibile fissare la sua origine in un preciso ambito topologico o cronologico; appare comunque indubbio che dal 1927 circa iniziò a ravvisarsi un’unitarietà di intenti e risultati, individuando anche un incontro d’esperienze, una comune linea di lavoro fra le persone ed i gruppi di diverse nazioni.

Sicuramente nei primi passi mossi in tale direzione, come i congressi del CIAM del 1929 e 1930, il ruolo riservato al misurabile scientificamente, pur rappresentando una parte consistente delle ricerche, ha spesso ceduto il passo al desiderabile socialmente, più che il progetto di un’abitazione razionale si è cercato il progetto di una società razionale, più che il soddisfacimento delle reali esigenze dell’utenza si è cercata la

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modellazione delle stesse (si può citare, a conferma, la celebre volontà di Le Corbusier di educare all’uso delle “macchine da abitare” i futuri inquilini).

E’ comunque indubbio il tentativo di revisione degli approcci progettuali dominanti e del governo dello spazio urbano, nel desiderio di sperimentare nuovi intrecci tra produzione artigianale-industriale e progettazione architettonica, d’integrare le diverse scale d’intervento e sistematizzare le conoscenze acquisite dalle varie discipline per creare sistemi a base esigenziale e finalizzarli, renderli comunicabili e fruibili dagli attori del processo edilizio; si attivano inoltre nuovi momenti formativi, circuiti di riflessione e di scambio delle idee, giungendo alla definizione di principi dottrinali innovativi.

Le esperienze suddette, per quanto riguarda la dimensione architettonica, hanno il punto focale nello studio della cellula abitativa. La ricerca dei bisogni fondamentali, da soddisfare in modo ‘razionale’ passa per l’individuazione delle esigenze (e dei comportamenti) di un uomo-tipo, di quelle della famiglia, nonché delle funzioni della società. Su tale percorso, che porta a riassumere i bisogni dell’individuo in abitare, lavorare, circolare, ricrearsi, si basa il dimensionamento dell’alloggio e, successivamente, la sua articolazione attorno ai collegamenti distributivi orizzontali o verticali per formare le diverse tipologie di residenze. Gropius precisa: “…Il problema dell’alloggio minimo è quello del minimo elementare di spazio, aria, luce, calore necessari all’uomo per non subire, nell’alloggio, impedimenti al completo sviluppo delle sue funzioni vitali, e cioè un ‘minimum vivendi’ e non un ‘modus non moriendi…’. Il minimo stesso cambia a seconda delle condizioni locali, da città a campagna, e a seconda del tipo di paesaggio e di clima. Una certa cubatura dell’abitazione ha un significato diverso nella vita di una metropoli e nel quartiere periferico, meno densamente popolato…” (da R. De fusco, Storia dell’architettura contemporanea, p.215).

I progettisti definiscono delle misure standard, per gli arredi come per i vari spazi, direttamente derivate dal corpo umano. Per citare Le Corbusier (da l’Esprit Nouveau): “…L’architettura agisce sugli standard. Gli standard sono cose di logica, di analisi, di studio scrupoloso. Gli standard si stabiliscono su un problema ben posto…Lo standard, imposto dalla legge di relazione, è una necessità economica e sociale. L’armonia è uno stato di concordanza con le norme del nostro universo. La

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bellezza domina; essa è di pura creazione umana; essa è il superfluo necessario a coloro che hanno un’anima elevata. Ma bisogna prima tendere allo stabilimento di standard per affrontare il problema della perfezione…” (da R. De fusco, Storia dell’architettura contemporanea, p.226).

Lo stesso architetto dà origine al cosiddetto Modulor, una norma di proporzionalità che riesce a fornire una risposta soddisfacente al problema del dimensionamento, basandosi sull’uomo e sulla dinamica dei suoi movimenti, in alternativa ai sistemi fino ad allora usati proposti, dai Greci fino al Rinascimento (ad esempio la sezione aurea). Si rafforza inoltre il ragionamento sulla razionalità dell’urbanizzazione, utilizzando tipologie d’edifici, correttamente esposti e separati da percorsi gerarchicamente organizzati, caratterizzati da un notevole sviluppo in verticale e dotati di una complessità interna che intende riassumere l’articolazione morfologica e la varietà urbane; nel contempo, predominano, nelle unità immobiliari, schemi progettuali dominati dalla geometria, dalle forme pure e dalla modularità.

Maturano, sulla scia delle tendenze esposte, le esperienze di numerosi architetti razionalisti: Charles Edouard Jeanneret (Le Corbusier), Walter Gropius, Ludwig Mies Vav der Rohe, Jacobus Johannes Pieter Oud, Erich Mendelsohn, Alexander Klein.

In particolare, Le Corbusier espone in ‘cinque punti’ i principi di una coerente progettazione razionale, conseguenti all’impiego delle nuove tecnologie, in particolare del cemento armato, che comporta l’abbandono dei modelli architettonici tradizionali, nati attorno ai sistemi costruttivi della muratura e del legno: 1) uso dei pilotis, che sollevano l’edificio dal suolo, lasciando libera la percorrenza a piano terra, 2) i tetti-giardino, conseguenti all’uso della copertura piana ed al desiderio di creare un suolo artificiale sulla sommità degli edifici; 3) la pianta libera, grazie alla sparizione dei muri portanti ed ai nuovi appoggi puntuali; 4) le finestre a nastro, impensabili in presenza di murature perimetrali portanti; 5) la facciata libera, consentita dall’arretramento dei pilastri.

Rilevanti sono anche i metodi d’indagine proposti da Klein, che introduce come fattore indispensabile per le misure minime, l’aspetto psicologico, in altri termini ‘la qualità della vita’. Negli studi presentati al Congresso Internazionale di Parigi del 1928, espone il suo metodo di ricerca dell’alloggio ottimale suddiviso in tre fasi:

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nella prima, il cosiddetto ‘metodo ai punti’, dopo aver fissato un certo numero di caratteristiche e requisiti, si esegue la comparazione fra quattro soluzioni, due delle quali dello stesso Klein, assegnando a ciascuna dei punti in riferimento ai parametri elencati; nella seconda, ‘il metodo degli incrementi successivi’ vengono aumentati i posti letto, e di conseguenza le misure, in maniera consequenziale ed ordinata, in ciascuna pianta, in modo da formare una sorta di abaco; nella terza, ‘il metodo grafico’, si conduce un’analisi sulle quattro alternative, a partire dai percorsi, le zone d’ombra interne.. che conduce alla scelta della cellula migliore, in termini di funzionalità ed economia.

Altri filoni percorrono strade che iniziano a discostarsi leggermente, pur seguendo i principi fondamentali e forse dimostrandosi più in linea con l’ultima tendenza enunciata: la corrente organica, rappresentata da Frank Lloyd Wright negli Stati Uniti e da Alvar Aalto in Finlandia, pone a fondamento del suo operare la dignità dell’essere umano, un uomo libero, creativo, responsabile, che ha diritto ad uno spazio a scala umana che lo aiuti a crescere, a manifestare le sue potenzialità. Per questo l’architettura si sviluppa dall’interno, dalla vita interiore, che si svolge nello spazio, all’ambiente esterno; è una sola cosa con la natura circostante, è indigena, come rispetta la vita interiore così rispetta la natura che circonda l’opera architettonica, dialoga con essa in continuità spaziale.

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W. Gropius : casa prefabbricata ampiabile studiata per la Kirsch Kupfer und Messingwerke, 1931

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Riferimenti

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