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Je veux lire dans trois jours l’Iliade d’Homère.

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Academic year: 2021

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(1)

La lezione degli antichi nel classicismo francese.

Je veux lire dans trois jours l’Iliade d’Homère.

Pierre Ronsard L’ossessione di Montaigne verso l’antichità classica non è solo la nostalgia di un erudito che

vive protetto dalla sua biblioteca e contempla i fasti di un mondo ormai lontano, ma costituisce l’essenza di un dibattito che animerà la scena francese, coinvolgendo i più illustri ingegni del XVII e XVIII secolo. Già nel 1558, ben prima della pubblicazione degli Essais, Joachim du Bellay cantava ne Les Antiquités de Rome, il divino splendore, la gloria dell’antico e l’orgoglio delle rovine romane:

“Rome fut tout le monde, et tout le monde est Rome. Et si par mêmes noms mêmes chose on nomme, Comme du nom de Rome on se pourrait passer, La nommant par le nom de la terre et de l’onde: Ainsi le monde on peut sur Rome compasser, Puisque le plan de Rome est la carte du monde. Toi qui de Rome émerveillés contemples L’antique orgueil, qui menaçait les cieux, Ces vieux palais, ces monts audacieux, Ces murs, ces arcs, ces thermes et ces temples, Juge, en voyant ces ruines si amples,

Ce qu’a rongé les temps injurieux, Puisqu’aux ouvriers les plus industrieux

Ces vieux fragments encore servent d’exemples.

Regardes après, comme de jour en jour Rome, fouillant son antique séjour, Se rebâtit de tant d’oeuvres divines”.1

Du Bellay celebrava la magnificenza di Roma e tutta la sua grandeur, ricordando che i resti di una così straordinaria civiltà forniscono ancora validi esempi.

E sicuramente la lezione dei classici, recentemente riconsegnata al mondo dagli eruditi della Renaissance, ispira, rinnova e rinvigorisce l’arte, la letteratura e la poesia di tutta Europa. Tuttavia, il Seicento comincia a mostrare i primi segni di insofferenza nei confronti di un’eredità culturale talmente pesante da rischiare di oscurare la produzione originale degli autori moderni.

Du Bellay ammetteva umilmente di non poter raggiungere le vette dei poeti greci e romani e di scrivere solo ciò che la passione animava in lui:

1 Joachim Du Bellay, Les Antiquités de Rome, 26, vv. 9-14; 27, vv. 1-11, (ed. par Jacques Borel, Les Regrets

précedé de Les Antiquités de Rome et suivi de La Défence et Illustration de la langue française, Paris, Gallimard, 1967, p. 44).

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“Je ne veux feuilleter les exemplaires Grecs, Je ne veux retracer les beaux traits d’un Horace, Et moins veux-je imiter d’un Petrarque la grâce, Ou la voix d’un Ronsard, pour chanter mes Regrets. (…) Moi, qui suis agité d’un fureur plus basse, Je n’entre si avant en si profonds secrets. Je me contenterai de simplement écrire Ce que la passion seulement me fait dire,

Sans rechercher ailleurs plus graves arguments”.2

Se le opere degli antichi rappresentano modelli imprescindibili e insuperabili, quanta autonomia creativa rimane ai letterati? Come si può determinare il valore dei testi moderni? È possibile compararli con quelli dell’età classica?

La vivacità intellettuale e la fioritura delle arti e delle scienze nella Francia del Seicento illuminano e rischiarano la cultura europea.

Negli anni Venti del secolo, Parigi sarà un laboratorio editoriale in continuo fermento, “un grand atelier de traductions”3, in cui si susseguono senza sosta pubblicazioni in latino e in francese.

Nel 1635, grazie alla fondazione, dell’Académie Française, la lingua francese potrà aspirare ad avere la stessa dignità letteraria della lingua di Cicerone.

L’intento di Richelieu è infatti quello di “conferire un peso ufficiale alle opere dei grammatici”4 e di fare del francese la “langue du commerçe des idées”.5

L’articolo 24 dello statuto dell’Académie Française, così fortemente voluta dal cardinale, chiarisce perfettamente la lineea ispiratrice di questa fondamentale istituzione:

“La principale funzione dell’Académie sarà quella di lavorare con tutta la cura e la sollecitudine possibile per dare regole certe alla nostra lingua e per renderla pura, eloquente e capace di trattare le arti e le scienze”.6

Il piano dell’Académie per la difesa e il recupero della lingua francese si articola attraverso la realizzazione di quattro opere (Dictionnaire, Grammaire, Réthorique e Poétique) che contribuiscono a stabilizzare una materia “ancora in piena evoluzione”.7

2 Du Bellay, Les Regrets, 4, vv. 1-4; 7-11, (ed. par Jacques Borel, Les Regrets précedé de Les Antiquités de Rome

et suivi de La Défence et Illustration de la langue française, Paris, Gallimard, 1967, p. 71).

3 M. Fumaroli, Les abeilles et les araignées, La Querelle des Anciens et des Modernes. XVII e-XVIII e siècle,

op.cit., p. 13.

4 Les missions. Défense de la langue française, http://www.academie-francaise.fr/linstitution/les-missions.

Traduzione dal francese mia.

5 M. Fumaroli, Les abeilles et les araignées, La Querelle des Anciens et des Modernes. XVII e-XVIII e siècle,

op.cit., p. 13.

6 Les missions. Défense de la langue française, http://www.academie-francaise.fr/linstitution/les-missions.

Traduzione dal francese mia.

(3)

Il pubblico parigino inizia ad avere i testi degli antichi in traduzione, insieme alle altre grandi opere europee, che, gradualmente, passeranno attraverso la nuova lingua dotta, che affiancherà quelle classiche, per poi divenire langue universelle.

Come ricorda Fiorentino, “il decennio 1630-1640 (…) è lo stesso in cui si elaborano le basi della drammaturgia classica”8, in cui si discutono e si ridefiniscono i canoni del gusto e le regole cui attenersi pour plaire.

Contrapponendosi al gioco degli equivoci, alle illusioni e agli equilibrismi, sempre al limite tra il magico e l’onirico, tipici del precedente stile barocco, il classicismo francese recupera la Poetica di Aristotele, che sarà, insieme ai modelli della tradizione greca e latina, l’elemento cardine del dibattito sul teatro e sulla produzione artistico-letteraria.

Seguendo la suddivisione dei generi operata dallo Stagirita, che vede la tragedia al centro della sua trattazione, il Seicento omaggerà gli autori classici, ricercando versioni secondarie e meno note di quegli stessi miti che li avevano ispirati e guidati.

Infatti, come ricorda Aristotele, imitare (µιµέοµαι) è nella natura stessa del poeta tragico, dal momento che “la tragedia è imitazione di un’azione, e di conseguenza, soprattutto di persone che agiscono”.9

Il tragediografo, dunque, in quanto imitatore, deve saper “utilizzare bene la tradizione”, rifacendosi ai poeti antichi. Il filosofo greco aveva ben chiarito la struttura dell’opera tragica, la sua funzione e le condizioni stilistiche necessarie per creare un testo degno di nota.

La Poetica, divenuta in breve tempo la Bibbia del teatro francese, trova piena rispondenza nella Pratique du théâtre di D’Aubignac, che nel 1657, presenta le regole del classicismo seicentesco. La tragedia deve conformarsi ai principi aristotelici: non modificare la trama originiaria, rispettare l’unità di tempo, di luogo e di azione, evitare l’irrazionale e attenersi quanto più possibile ai fatti avvenuti, o al verosimile, “il fondamento di tutte le opere di teatro”:10

8 Francesco Fiorentino, Il teatro francese del Seicento, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 39.

9 La definizione aristotelica è chiara: “ἔστιν τε µίµεσιν πράξεως καὶ διὰ ταύτην µάλιστα τῶν πραττόντων”.

[ARISTOTELE, Poetica, 1450b, 2-3, (trad.it di Guido Paduano, Roma-Bari, 1998, 8° ed. 2009, p. 15).

10 François Hédelin, abbé D’Aubignac, Pratique du théâtre (1657) livre II, 2, chez Jean Frédéric Bernard,

Amsterdam, 1715, p. 65. Traduzione dal francese mia. A proposito del rispetto della trama e della

verosimiglianza, Aristotele nota: “(…) risulta chiaro che compito del poeta non è dire ciò che è avvenuto ma ciò

che potrebbe avvenire, vale a dire ciò che è possibile secondo verosimiglianza o necessità. [...] Se anche gli capita

di rappresentare fatti avvenuti, è ugualmente poeta: niente impedisce (…) che tra i fatti avvenuti ce ne siano alcuni che è verosimile avvengano (…).

[...] Non si possono disfare le trame tradizionali. [...] Nei fatti non deve esserci niente di irrazionale; se non è possibile deve essere fuori dalla tragedia, come nell’Edipo di Sofocle. [...] Si deve preferire l’impossibile

verosimile, al possibile incredibile, e non comporre le storie con parti irrazionali, o almeno lasciarle fuori dalla

trama”. [ARISTOTELE, Poetica, 1451a 36-39; 1451b, 30-32; 1453b, 24; 1454b, 6-7; 1460°, 27-29, op.cit., pp. 19-21; 31; 33, 57. Corsivo mio.]

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“(…) in una parola la verosimiglianza è, per così dire, l’essenza del poema drammatico, senza la quale

non si può né fare né dire niente sulla scena.

C’è una massima generale, che il vero non è il soggetto del teatro, perché ci sono delle cose vere che non devono essere viste e molte che non possono essere rappresentate (…)”.11

La vraisemblance si impone come una esigenza irrinunciabile per la drammaturgia teatrale, sebbene sia spesso in contrasto con la nozione di vero. Eppure, come nota Scherer, non sembrano esserci dubbi:

“Gli autori del classicismo non hanno esitato: ogni volta che si presenta il conflitto, bisogna, dicono, preferire il verosimile al vero. (…) Non hanno osato inventare niente che non apparisse storico.

Forti di un altro dei loro dogmi, quello dell’imitazione degli antichi, i classicisti si rivolgono verso il teatro antico e non vi trovano che soggetti storici o almeno leggendari. [...]

Il verosimile e la storia sono, per i tragici del teatro classico, due potenti divinità ed essi cercano di mettersi in regola con entrambi”.12

Il verosimile deve inoltre incontrare i gusti del pubblico e passare il suo attento vaglio. Ma, come nota Scherer, esiste ancora una certa opacità intorno a questo concetto:

“Il verosimile è ciò che sembra vero, ma a chi? Tra tutte le definizioni di verosimile (…) la più semplice e la più chiara, è quella di P. Rapin: «Il verosimile è tutto ciò che si conforma all’opinione del pubblico»”.13

Conciliare vraisemblance, histoire e goût è impresa ardua.

Tutto dipende dalla prospettiva. Ciò che poteva apparire verosimile per i Greci può non esserlo più per il secolo di Luigi XIV o può essere oggetto di spinose dispute.14

11 Ivi, pp. 65-66. Traduzione dal francese mia. Corsivo mio.

12 Jacques Scherer, La dramaturgie classique en France, Paris, Librairie Nizet, 1966, (ed. 1986), pp. 369-370.

Traduzione dal francese mia.

13 Ivi, p. 372. Traduzione dal francese mia. La citazione di Rapin è tratta da Réflexions sur la Poétique d’Aristote,

I° partie, n. XXIII, p. 53. Lo stesso Corneille, in polemica con i teorici del teatro, lamenta la mancanza di una definizione precisa di alcune regole, soprattutto della vraisemblance: “Bisogna osservare l’unità d’azione, di luogo e di tempo, nessuno ne dubita, ma non è una piccola difficoltà sapere che cosa sia questa unità d’azione e fino a dove può estendersi questa unità di tempo e di luogo. Bisogna che il poeta tratti il suo soggetto secondo il verosimile e il necessario, dice Aristotele, e tutti i suoi interpreti ripetono le stesse parole, che sembrano loro così chiare e intelligibili, al punto che nessuno di loro si è degnato di dirci, non più di lui, che cos’è questo verosimile e questo necessario”. [PIERRE CORNEILLE, Discours de l’utilité et des parties de poème dramatique, Théâtre

complet, tome I°, vol. I, edition du Tricentenaire, Rouen, Publications de l’Université de Rouen, n. 105, 1984, p.

51. Traduzione dal francese mia].

14 Stabilire che cosa è verosimile e per chi genera lunghe polemiche e aspre critiche che investono le pièces

teatrali, da cui gli autori cercano pubblicamente di difendersi.

Basti pensare a Corneille, continuo bersaglio degli attacchi eruditi, soprattutto a causa de Le Cid, dal quale prende avvio la ben nota querelle. Il tragediografo francese risponde alle accuse di Georges de Scudéry, sottolineando non solo il favore del pubblico, che sembra aver apprezzato il suo lavoro, ma anche il plauso della famiglia reale nei confronti del personaggio di Chimène: “Nel fare questa splendida battuta, non vi siete ricordati che Le Cid è stato rappresentato tre volte al Louvre e due volte all’hotel di Richelieu? Quando avete trattato la povera Chimène da svergognata, da prostituta, da parricida, da mostro, non vi siete ricordato che la Regina, le principesse e le più virtuose dame di corte e di Parigi l’hanno ricevuta e vezzeggiata come fille d’honneur?”. [P. Corneille, Lettre apologétique contenant sa réponse aux Observations faites par le sieur Scudéri sur Le Cid, Oeuvres complètes, Paris, Éditions du Seuil, 1963, p. 847.

Traduzione dal francese mia]. Racine, scrive addirittura due prefazioni per la sua tragedia Britannicus, per salvarla da “una quantità di critiche che sembravano volerla distruggere”. [RACINE, (Seconde) Préface, Britannicus, in

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Nonostante le difficoltà pratiche, incontrate dai drammaturghi, i teorici del teatro decreteranno, di fatto, l’onnipotenza15 delle vraisemblances, cui non è possibile rinunciare.

Lo stesso Boileau, nella sua Art Poétique, appare inflessibile:

“Jamais au spectateur n’offrez pas rien d’incroyable: Le vrai peut quelquefois n’ être pas vraisemblable. Une merveille absurde est pou moi sans appas: L’esprit n’est point ému de ce qu’il ne croit pas. Ce qu’on ne doit voir, qu’un récit nous l’expose: Les yeux en le voyant saisiraient mieux la chose, Mais il est des objets que l’art judicieux

Doit offrir à l’oreille et recuter des yeux”.16

Le regole del teatro, consegnate al Seicento dall’auctoritas di Aristotele, non possono essere modificate. Esse sono immutabili.

Boileau riprende Aristotele, sottolineando che, nella tragedia, non c’è posto per fatti poco verosimili o incredibili, e tantomeno per eventi scioccanti o raccapriccianti.

Tutto ciò che può turbare l’equilibrio della pièce e lo spirito degli spettatori deve rigorosamente rimanere hors de scène, riportato da un breve racconto.

Come ricorda Scherer, “la leggenda di Edipo tale quale è stata raccontata da Sofocle e da Seneca è (…) inaccettabile per uno spettatore del XVII secolo”.17

Esiste infatti un’altra regola fondamentale, che i poeti tragici non devono trascurare, quella delle biensèances. Le opere devono rispettare ciò che è socialmente accettabile, ciò che si conviene e che si confà al bon-goût. Vraisemblance e bienséance si legano nell’intreccio del poema drammatico, supportandolo nello sviluppo della trama e dei personaggi.

Scherer, cercando di chiarire le rispettive sfere di influenza, sintetizza perfettamente il ruolo che le due regole sono chiamate a svolgere:

“la verosimiglianza è un’esigenza intellettuale; essa richiede una certa coerenza tra gli elementi della

pièce teatrale, proscrive l’assurdo e l’arbitrario, o almeno ciò che il pubblico considera tale.

La bienséance è un’esigenza morale; richiede che la pièce teatrale non urti i gusti, i precetti, o, se si vuole, i pregiudizi del pubblico. I costumi dei personaggi dovranno evidentemente essere, nello stesso tempo, verosimili e bienséantes”.18

Come nota Genette, vraisemblance e bienséances non si configurano solo come un dispositivo fondamentale per catturare l’attenzione degli spettatori, ma anche come “un corpo di massime e pregiudizi che costituisce contemporaneamente una visione del mondo e un sistema di Racine, Théâtre complet, ed. par Jean Rohou, Paris, Librairie Général Française, La Pochotèque, Le livre de Poche, 1998, p. 289. Traduzione dal francese mia].

15 L’espressione è di Scherer, La dramaturgie classique en France, op.cit., p. 372.

16 Nicolas Boileau, Art Poétique, (1674), III, vv. 47-54, Paris, Librairie Hachette et C., 1881, pp. 27-28. 17 J. Scherer, La dramaturgie classique en France, op.cit., p. 385. Traduzione dal francese mia. 18 Ivi., p. 383. Traduzione dal francese mia.

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valori”.19 La loro interdipendenza, insieme ai modelli degli antichi, rappresenta la cornice all’interno della quale devono muoversi le opere tragiche.

Lo stesso Corneille non dimentica il rapporto che salda le due regole, che non possono esistere l’una senza l’altra:

“(…) oso dire, per definire il verosimile, che è una cosa manifestatamente possibile nella bienséance, e

che non è né manifestatamente vero né manifestatamente falso. (…)

Il verosimile generale è ciò che può fare e che è opportuno che faccia un re, un generale, un amante, un uomo ambizioso. Il particolare è ciò che ha potuto e dovuto fare Alessandro, Cesare, Alcibiade, [e che è] compatibile con ciò che la storia ci insegna delle sue azioni”.20

Tuttavia, come sottolinea Hélène Merlin-Kajman, a causa di una certa vaghezza dei concetti di vraisemblance e bienséances, risulta difficile stabilire che cosa può o non può essere detto:

“(…) Non si è abbastanza sottolineato che questa ossessione è più precisamente legata ai problemi della bienséance, o, si dovrebbe piuttosto dire del decorum, indice dei maggiori sconvolgimenti e delle contraddizioni nell’ordine di «ciò che convine fare» e rappresentare. [...]

Così, quando Cesare prende il potere, conviene a Catone suicidarsi, ma ciò che vale per Catone non vale necessariamente per tutti”.21

È dalla storia e dalla mitologia antica che derivano le trame dei poemi drammatici del classicismo. Tutto dipende dal tipo di personaggio scelto e da ciò che la tradizione ha riportato sulla sua figura.

Le variazioni, rispetto al modello originale, devono essere minime e l’invenzione mai troppo ardita, perché la pièce deve conformarsi al gusto del secolo di Luigi XIV.

Nonostante il pubblico dei teatri mostri di apprezzare opere che, come Le Cid, non soddisfano pienamente le regole, D’Aubignac non intende tollerare defezioni e si esprime in difesa delle bienséances, anche per ciò che concerne le decorazioni che corredano l’opera:

“Innanzitutto bisogna che siano necessarie e che l’opera non possa essere rappresentata senza questo ornamento, altrimenti gli spettacoli non saranno mai approvati, (…).

[...] In secondo luogo, esse devono essere piacevoli a vedersi, perché è da questa grazia che la gente si lascia attirare (…). Bisogna che siano degne e che non turbino in nulla la bienséance pubblica e il pudore, che i più sregolati vogliono conservare almeno in apparenza fino alle scene”.22

D’Aubignac e Boileau si pongono come i custodi di un codice letterario e di una poetica che hanno il loro fulcro nell’antichità e nelle sue regole drammatiche.

Entrambi si rivolgono ad un pubblico colto e raffinato, che deve tuttavia imparare a riconoscere i veri capolavori da pallide imitazioni che ne sovvertono le leggi.

19 Gérard Genette, “Vraisemblance et motivation”, Communications, vol. 11, n. 11, 1968, p. 6. Traduzione dal

francese mia.

20 P. Corneille, Discours de la tragèdie et des moyens de la traiter selon le vraisemblable ou le nécessaire, Théâtre

complet, tome I°, vol. I, op.cit., p. 81. Traduzione dal francese mia. Corsivo dell’autore.

21 Hélène Merlin-Kajman, “Decorum et bienséances au XVIIe siècle”, Camenae, n. 13, Octobre 2012, pp. 6; 9.

Traduzione dal francese mia.

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Un’opera non deve solo piacere e divertire, ma anche possedere contenuti alti, ben organizzati e disciplinati. Il progetto di Boileau è quello di preservare le lettres françaises dall’impoverimento e dalla corruzione cui le condannerebbero i moderni e sancirne definitivamente la filiation avec les classiques anciens23. Per trattare gli argomenti in maniera

conveniente bisogna rivolgersi ai grandi autori del mondo antico:

“Queste grandi bellezze, che noi osserviamo nelle opere degli Antichi, sono come altrettante fonti sacre, dalle quali si alzano lieti vapori, che si spandono nell’anima dei loro imitatori (…)

Così vediamo Erodoto e, prima di lui, Stesicoro e Archiloco, che sono stati grandi imitatori di Omero. [...] Ogni volta che vogliamo lavorare ad un’opera che richiede il grande e il sublime, è bene fare questa riflessione: Come l’avrebbe detto Omero? Che cosa avrebbero fatto Platone, Demostene o lo stesso Tucidide, se si tratta di un argomento storico, per scriverlo con stile sublime?

Perché, questi grandi uomini, che noi ci proponiamo di imitare, (…) ci servono come fiaccole, e ci elevano quasi così in alto come l’idea che noi abbiamo concepito del loro genio, soprattutto se noi teniamo bene a mente questo: che penserebbero, Omero o Demostene, di ciò che dico, se mi ascoltassero? Quale giudizio si farebbero di me?”.24

Gli antichi sono le fonti sacre cui attingere, la vive source25 che infonde forza e vita nelle opere

dei moderni, i giudici ultimi, cui fare appello.

Nello stesso anno in cui Boileau pubblica l’Art poétique e il Traité du Sublime, la rappresentazione dell’Alceste di Quinault e Lully, fornisce una nuova occasione per una querelle, in cui si manifestano critiche e dissapori, che esploderanno più tardi, in maniera più ampia. Molti musicisti lamentano lo strapotere di Lully, mentre Boileau e Racine avrebbero preferito vedere La Fontaine come librettista, al posto di Quinault.

Il testo di Quinault viene criticato proprio per la sua struttura, che, alterando profondamente la trama euripidea, non rispetta le regole del classicismo: Alcesti non è ancora la moglie del re tessalo, ma la sua promessa sposa, Ercole appare nelle vesti di timido innamorato, paralizzato dal forte sentimento che nutre per la giovane e che le nasconde, Admeto deve scontrarsi con un rivale, Lycomede, che sarà da lui ucciso, e che non compare affatto nell’originale greco. Inoltre, il prologo, riassumendo le vicende della tragedia, priva il pubblico del piacere di seguire l’intreccio degli eventi. Il tono generale della pièce si avvicina di più a quello di un idillio pastorale, in cui si cantano piccoli amori campestri e passioni negate.26

23 M. Fumaroli, Le sablier renversé. Des Modernes aux Anciens, Paris, Gallimard, 2013, p. 409.

Come ricorda il critico corso, “il 1674 è l’annus mirabilis per Boileau”, che consolida il suo prestigio, grazie all’incontro con il re e al favore del principe, che gli accorda una pensione e il privilège.

24 N. Boileau, Traité du Sublime ou du merveilleux dans le Discours, traduit du grec de Longin, (1674), Oeuvres

completes di Boileau-Despreaux; contenants ses poésies, ses écrits en prose, sa tradution de Longin, ses letters à

Racine, à Brossette, et à diverses outres personnes, tome II, capp. XI-XII, Paris, chez Mdme Veuve Dabo, Librairie Stéréotype, 1821, pp. 400- 402. Traduzione dal francese mia.

25 L’espresione è di Boileau, ibidem.

26 Nonostante le molte critiche ricevute, l’Alceste, riscuote un grande successo. Non mancano, infatti, i sostenitori

di Quinault e Lully, tra cui, Charles Perrault, che, nel luglio del 1674, pubblica, in difesa dei due autori, La

Critique de l’opéra, ou examen de la tragédie intitulée Alceste. Sia la tragedia di Euripide sia quella di Quinault

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I sostenitori del classicismo e della fedeltà ai modelli antichi, inorriditi dalle ardite invenzioni artistiche di Quinault, troveranno in Racine il loro sostenitore più fidato.

Nell’agosto del 1674, sei mesi dopo la rappresentazione dell’Alceste, il drammaturgo francese mette in scena, a Versailles, uno dei suoi più grandi capolavori, l’Iphigénie.

Racine recupera la trama euripidea, seppur con piccole variazioni, contrapponendo al sacrificio di Alcesti quello della figlia di Agamennone.

Nella sua Préface, esprime tutta la sua ammirazione e la sua riconoscenza verso il tragediografo greco:

“Confesso che gli devo un buon numero di parti, che sono state le più apprezzate della mia tragedia. E confesso, ancora più volentieri, che questa approvazione mi ha confermato la stima e la venerazione che ho sempre avuto per le opere che ci restano degli Antichi.

Ho notato, con piacere, per l’effetto che ha prodotto sul nostro teatro tutto ciò che ho imitato, o di Omero o di Euripide, che il buon senso e la ragione erano le stesse in tutti i secoli.

Il gusto di Parigi si è trovato conforme a quello di Atene. I miei spettatori si sono commossi delle stesse cose che, un tempo, hanno portato alle lacrime la gente più colta della Grecia, e che hanno fatto dire che, tra i poeti, Euripide era estremamente tragico, τραγικώτατος, vale a dire, che egli sapeva suscitare meravigliosamente la compassione e il terrore, che sono i veri effetti della tragedia”.27

Ma Racine non si limita ad elogiare Euripide e a sottolineare il debito nei suoi confronti. Egli invita i critici e i detrattori dell’antico ad analizzare bene i testi, prima di avanzare dubbi e riserve. Spesso, infatti, l’uomo tende a disprezzare ciò che non riesce a capire:

“Consiglio a questi signori di non decidere più, in maniera così superficiale, sulle opere degli Antichi. Un uomo come Euripide meritava, almeno, che lo esaminassero, dal momento che avevano voglia di condannarlo. Dovevano ricordarsi queste sagge parole di Quintiliano: «Bisogna essere estremamente cauti e assai trattenuti dal pronunciarsi sulle opere di questi grandi uomini, per paura che si arrivi, come molti, a condannare ciò che non si comprende»”.28

Il drammaturgo francese riesce, forse meglio di ogni altro, a incontrare il favore degli spettatori e ad osservare le regole del classicismo, senza snaturare la tradizione greco-romana cui si ispira. Il suo più grande vanto è proprio quello di aver potuto seguire le orme dei grandi maestri e “di aver così proposto, in francese, ad un pubblico moderno, un equivalente della tragedia antica (…)”.29

Molti si permettono di giudicare le opere di Omero, Euripide o Seneca senza avere la piena padronanza del greco e del latino, senza quindi poter percepire appieno la loro straordinaria bellezza. “L’opera di Quinault e Lully, Alceste, e la tragedia di Racine, Iphigénie, serviranno Secondo Perrault, ciò che più conta nel teatro, è sorprendere e divertire il pubblico, che sembra aver ben accolto l’interpretazione di Quinault. Le accuse sono state mosse da un gruppo ristretto di eruditi che vivono ancora nell’ombra degli antichi e non riescono ad apprezzare il rinnovamento delle lettres françaises.

27 Jean Racine, Préface, Iphigénie, Racine. Théâtre complet, (ed. de Jean Rohou, Paris, Librairie Général

Française, La Pochotèque, Le livre de poche, 1998, p. 575). Traduzione dal francese mia.

28 Ivi., p. 577. Traduzione dal francese mia.

(9)

dunque da prova per tutti gli argomenti, che, dopo l’inizio del regno di Luigi XIV, Antichi e Moderni avevano portato avanti”.30

Si sviluppa una polemica che vede da un lato, soprattutto, eruditi, teorici e traduttori, impegnati nella celebrazione e nella diffusione dei classici, dall’altro, scrittori, drammaturghi e letterati, che non sono più disposti ad accettare la subordinazione agli antichi e la presunta superiorità delle loro opere rispetto a quelle francesi.

Perrault, attaccato da Racine per la sua diefsa della pièce di Quinault e Lully, oltreché per la sua scarsa competenza linguistica, risponde, rivendicando l’indipendenza dei moderni dai modelli classici e la loro validità sul piano letterario:

“Non credo di essere obbligato, con dispiacere di Quintiliano, ad ammirare tutto ciò che non comprendo nelle loro opere, meno ancora tutto ciò che ne comprendo, dal momento che, tra il gran numero di cose eccellenti che vi si incontrano, se ne trovano alcune altre che non valgono molto, di cui, oggi, sicuramente non ci si vorrebbe servire. È ben vero che coloro che insegnano la giovinezza non sono i soli che professano di adorare gli scritti degli Antichi - dico adorare, poiché, rinunciando a tutti i lumi del loro spirito, trattano come divino tutto ciò che vi leggono, quand’anche non lo comprendano - ma è bene saperne le ragioni.

Gli uni seguono, in questo, l’impressione che hanno ricevuto dai loro Maestri e rimangono sempre allievi, senza imparare nulla. Gli altri conservano un amore per gli Autori che hanno letto da giovani, come per i luoghi dove hanno trascorso i primi anni della loro vita, perché questi luoghi e questi autori rimettono loro nello spirito le idee piacevoli della loro giovinezza (…).

Altri, infine, ancora più diplomatici, (…) per non essere accusati di non stimare che se stesssi e le loro opere, fanno ogni sorta di lodi agli Antichi, per essere dispensati dal farne ai Moderni.

Voi potete forse pensare, Signore, che io sia un libertino, che manca di rispetto a questi grandi uomini, che sono nostri maestri; io li stimo come nessuno, ma non sono convinto che tutte le loro opere siano divine, né esenti da qualsiasi imperfezione, così come non credo che tutto ciò che si fa, ai giorni nostri, sia privo di queste stesse bellezze, che brillano nelle loro opere”.31 La giusta ammirazione per gli Antichi non deve trasformarsi in una venerazione, in una ossessione che impedisce di vedere errori, imprecisioni, contraddizioni.

Non tutto ciò che appartiene al mondo classico, solo per questo motivo, deve essere perfetto e degno di considerazione, né tantomeno, necessariamente superiore alle opere dei moderni. Molti autori francesi sono allo stesso livello di Euripide o di Omero e meriterebbero adeguate attenzioni. Eppure, nonostante i tentativi di Perrault e dei moderni, tutto sembra volgere in favore degli antichi. Infatti,

“Racine e Boileau potevano contare su solidi appoggi, non solo sulla Grande Robe, vicino al Presidente Lamoignon e alla sua accademia, ma anche sul nucleo stesso della corte, sulla famiglia della potente

maîtresse royale, la marchesa di Montespan”.32

30 Ivi., p. 419. Traduzione dal francese mia.

31 Charles Perrault, Lettre à Mr. Charpentier, de l’Académie françoise, sur la Préface de l’Iphigénie de Mr.

Racine, Oeuvres posthumes de Mr. Perrault, de l’Académie françoise avec l’Apologie des femmes, Cologne, chez Pierre Marteau, 1729, pp. 302-303. Traduzione dal francese mia.

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Entrambi godono della più alta stima del re e del suo entourage: nel 1677, potranno vantare la nomina di storiografi ufficiali, posizione di primo piano e di assoluto rilievo nella vita culturale della corte francese.

Il re è sempre più convinto dell’importanza dei classici, anche per l’educazione del Grand dauphin, ad uso esclusivo del quale viene preparata una collana di autori greci e latini, sotto la guida di Pierre Daniel Huet, straordinario teologo e umanista.

La grandezza di Luigi XIV sembra che possa essere esaltata solo dalla cultura classica e dall’immortale tradizione antica, sebbene numerosi membri dell’Académie siano pronti a sostenere che sia invece necessario dare fiducia ai moderni, gli unici in grado di interpretare pienamente il carattere di straordinaria eccellenza del siècle de Louis le Grand.

Sur les épaules de les géants? Fontenelle tra antichi e moderni.

Les anciens, Monsieur, sont les anciens, et nous sommes les gens de maintenant. Molière, Le Malade imaginaire, II, 6. Nonostante l’interesse dimostrato dalla corte e dal pubblico francese per gli antichi, la polemica sull’imitazione dei modelli classici e sulla possibilità di sottoporre a critica le opere di poeti e drammaturghi del passato prosegue intensamente.

Il Seicento affonda le sue radici nel ricco nutrimento dell’antichità, ma le sue fronde si muovono al vento della modernità.

Parallelamente all’affermazione dei canoni del classicismo si assiste al consolidamento delle scienze e del metodo scientifico. Copernico, Galileo, Newton e Cartesio avevano inaugurato l’età moderna, rivoluzionando la prospettiva con cui analizzare il mondo e i suoi fenomeni. Le scoperte geografiche e scientifiche avevano ampliato gli orizzonti conoscitivi, prospettando un futuro modificabile e perfettibile. I moderni rivendicano il bisogno di un uso autonomo, critico e libero della ragione, confidando nelle capacità umane.

Possibile che Omero ed Euripide siano tanto diversi dai poeti francesi? Possibile che l’antichità, da sola, sia sufficiente a giustificare la sconfinata ammirazione degli autori classici e la loro presunta superiorità? I grandi maestri del passato sono davvero così perfetti come la tradizione ce li ha consegnati? In realtà, tutti gli uomini sono accomunati dalla stessa natura, sono dotati di ragione e sono tutti ugualmente fallibili. E sarà proprio questo tratto di umanità e di faiblesse che caratterizza il modo in cui i moderni si rivolgeranno agli antichi.

Nel 1683 escono i Dialogues des morts anciens avec les modernes, di Fontenelle, nipote di Corneille e giornalista del Mercure galant.

In questo testo, una serie di personaggi storici, più o meno illustri, si confrontano e si interrogano sull’amore, sul ruolo della filosofia, sulla morale, sulle passioni e sulla scienza.

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Seguendo l’ipostazione dei Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata, Fontenelle illustra, con squisita delicatezza e acume critico, paure, insicurezze ed errori che viaggiano attraverso i secoli. Emerge un forte intento demistificatorio, spesso velato da una galante e raffinata ironia, volto a smascherare false credenze, imposture e illusioni, che caratterizzano tanta parte del pensiero umano.

L’insolito e strano gioco delle coppie scelte, mette a nudo vanità, superbia, alterigia, incostanza e presunzione degli stessi personaggi, che si raccontano dialogando tra loro.

Ed è così che Fontenelle chiama Omero nel tribunale dei moderni, a render conto, insieme ad Esopo, dei misteri, delle allegorie e delle improbabili storie che si trovano nei suoi poemi:

“Esopo: Che? (…) Quel fulminante Giove, che in un’assemblea di Divinità minaccia d’esterminar l’Augusta Giunone, quel Marte, che sendo da Diomede ferito grida, dite voi, come nove ò dieci mille Uomini, e non opera per un solo, perché in vece di ridurre in pezzi tutti i Greci, si risolve andare à dolersi della sua ferita à Giove, tutto questo è stato buono senza Allegoria?

Omero: Perché nò? Immaginatevi, che lo spirito umano non cerchi ch’il vero? Disingannatelo.

Lo spirito umano e’l falso estremamente hanno simpatia.

Se voi havessimo à dir la verità, e molto ben la mescolassimo con delle favole non piacerà molto di più? Se volete contar favole potranno ben piacere senza contener alcun vero; Così che il vero hà necessità

d’esser improntato con la figura di qualche falsità per esser nelli animi umani dilettevolmente ricevuto;

Mà il falso vi entra colla sua propria figura, ciò succede, perché il luogo del suo natale, e sua permanenza, e ordinaria, a la verità s’è forestiera. Vi dirò di più. Quando io mi fossi di stemperato l’Ingegno ad immaginarmi delle favole Allegoriche, sarebbe potuto ben accadere, che la maggior parte delle genti havessero preso la favola, come una cosa che non fosse troppo stata fuor d’apparenza, & havessero lasciato l’Allegoria, & in effetto, dovete sapere, che le mie Deità tali quali sono, e tutti nella sua parte misteriosi non sono stati trovati ridicoli”. 33

Esopo rimprovera a Omero di aver inventato molte favole e di aver dato un’immagine poco attendibile degli dèi: deboli e vili, irascibili e furiosi, piagnucoloni e pavidi.

Omero si difende, sostenendo che l’animo umano è affascinato da cose false e inventate e, per sua natura, è portato a crederle vere. Il falso avrebbe addirittura una funzione fondamentale nel processo di conoscenza e di apprendimento, dal momento che allieta e facilita la comprensione. Ma, come spiega Pizzorusso:

“Per Fontenelle la favola è qualche cosa di degradante per la ragione, poiché si identifica con il falso: ma l’autore dei Dialogues des Morts vuole soprattutto mostrare il potere del falso sullo spirito umano, che naturalmente lo preferisce al vero”.34

Il filosofo francese si serve del cantore greco per palesare la tendenza che gli uomini hanno a cadere facilmente in inganno, a crearsi miti e chimere, che inibiscono la razionalità, cui

33 Bernard le Bovier de Fontenelle, Dialogues des morts anciens avec les modernes, V, (trad.it di Pazzaglia, Esopo

e Omero, Nuovi dialoghi de’morti, antichi cogl’antichi, antichi co’moderni e moderni fra loro. Coll’aggiunta

delle Sentenze di Plutone, Venetia, presso Steffano Curti, 1686, riprodotto in edizione anastatica, con introduzione

di Riccardo Campi, Modena, Mucchi editore, 1996, pp. 28-29). Corsivo mio.

34 Arnaldo Pizzorusso, Il ventaglio e il compasso. Fontenelle e le sue teorie letterarie, Napoli, Edizioni

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affidare la propria vita. Nella Storia vera, lo stesso Luciano si prende gioco di Omero, da lui incontrato sull’Isola dei Beati, dove trascorre la maggior parte del suo tempo senza far nulla. L’aedo gli confessa di aver composto l’Iliade improvvisando, o meglio, di aver scelto il tema principale, l’ira di Achille, “senza neanche riflettere”.35

Il povero Omero viene addirittura citato in giudizio da Tersite, in collera per essere stato dipinto come orribilmente deforme e privo di valore in battaglia.

La polemica di Tersite prosegue nei Dialoghi dei morti, dove l’eroe etolico, che adesso disputa con il bel Nireo, affida a Menippo il verdetto, accusando Omero di averlo calunniato e apostrofandolo con disprezzo. Il cantore della gloria dei Greci, “quel cieco là”36 è solo un vecchio inutile.

Criticare il padre di tutti i poeti, autore di versi memorabili che celebrano armi e duelli, amori ed eroi, riducendolo alla stregua di un venditore di sogni, la cui fama si basa sulla credulità degli uomini, significa colpire l’antichità e il modello culturale da essa rappresentato.

Ma nell’Ade tutte le differenze si annullano: le ricchezze accumulate in vita, la saggezza o la stupidità, la bellezza o la deformità, l’orgoglio, la fama e gli imperi, sono ormai solo motivo di rimpianto o di contesa. Per Plutone, anche Socrate è un ospite come gli altri, vinto dalle stesse paure nel momento di abbandonare la vita. Il terrore del filosofo è tale che il feroce Cerbero, guardiano degli Inferi, è costretto ad azzannarlo e trascinarlo per farlo scendere.

Luciano sminuisce la figura di Socrate attraverso il curioso e petulante Menippo, che incontra il maestro in compagnia di alcuni giovinetti e lo ritrae come un uomo in realtà sopravvalutato per le sue conoscenze.

Fontenelle, invece, non intende ridicolizzare il filosofo greco, che, nel suo dialogo con Montaigne, rivendica l’uniformità della natura umana:

“Mon: Voi dunque siete il Divin Socrate? quanta consolazione hò di vedervi; Io son novamente venuto in queste parti, ove subito giunto mi son messo à cercarvi. In somma dopò haver ripieno il mio livro del vostro nome, e dei vostri Elogij, posso con voi trattenermi, & apprender come possedeste una virtù si fluida, le di cui vestigie erano così naturali, che erano senza esempio, particolarmente nei secoli felici in cui vivesti.

Soc: Son ben contento di vedere un Morto, che mi pare essere stato un Filosofo; (…) Come va il Mondo? È fors’egli niente mutato?

Mon: Estremamente, à segno che non lo riconoscereste più.

Soc: Me ne son ben accorto. Havevo sempre ben congetturato, che bisognava che divenisse migliore (…).

Mon: Che pretendete dire? Egl’è più stolto, e più corrotto, che sia stato giàmai. […]

35 Luciano di Samosata, Storia vera, II, 20, op.cit., p. 65.

36 Luciano, Νέκρικοι διάλογοι, Dialoghi dei morti, 30, 1. Come ben sottolinea Agnello, l’espressione del greco di

Luciano è significativa: “Ὃµηρος ἐκεῖνος ὁ τυφλὸς” insiste infatti “sulla valenza dispregiativa del pronome dimostrativo e il tono sprezzante con cui Tersite cita Omero, che, in quanto ceco, non avrebbe mai potuto distinguere il bello dal brutto”. [GIACINTO AGNELLO, ΑΓΑΛΜΑΤΑ ΤΗΣ ΕΛΛΑ∆ΟΣ. Antologia di scrittori greci per il ginnasio, Bologna, Zanichelli, 1994, p. 135].

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Soc: (…) Che? Li Uomini (…) non sono in alcuna parte corretti dalle leggerezze dell’antichità? […] E ciò può essere? Mi par, che al tempo mio andassero le cose tutte à traverso, per lo che mi presupponeva che alla per fine riprendessero più ragionevol condotta, dovendo li Uomini approfittarsi dall’esperienza in tanti Anni.

[…] E sopra questo punto, come volete, che li secoli vetusti fossero meglio regolati, che quelli d’ogni giorno.

Mon: […] E su questo passo che non si trovano più Anime vigorose e costanti dell’Antichità de Focioni, degl’Aristidi, de’ Pericli, e finalmente delli stessi Socrati.

Soc: (…) Questo è perché la Natura trovandosi infievolita non hà più quella forza di partorir quelle grand’Anime. E perché se ella non è per anco esausta in niente fuor che in produr Uomini ragionevoli? (…).

Mon: Che loro degradino è questo un punto di fatto. (…)

Soc: Osservate una cosa. L’Antichità è un Obietto d’una particolar specie (…) se avessi conosciuto Aristide, Focione, Pericle e me; poiché volete in questo numero aggregarmi, havresti trovato nel vostro Secolo delle Genti, che ci assomigliavano. (…) Si pongano in posto gli Antiani per abbassare i contemporanei, quando viviamo si venerano li Antichi più che non meritano, & presentemente la Posterità vostra ci stima più che non meritiamo. Mà l’Antichità, Noi, & i Posteri nostri sono realmente eguali. (…)

[…] Mon: Questa distributione d’Uomini ragionevoli, si fa ella egualmente? Mentre che vi potrebbero esser dei secoli, che li uni dagl’altri si differentijno.

Soc: La natura opera sempre con molta regola; mà noi com’ella opera fondatamente non giudichiamo”.37

Socrate, lontano dal mondo dei vivi da secoli, apprende con sorpresa da Montaigne che il presente, lungi dall’essere migliorato, è molto peggiorato rispetto ai tempi antichi, in cui regnavano virtù e saggezza. Il filosofo greco non crede che la natura abbia perduto le sue capacità di generare grandi personalità, dal momento che continua a creare tutto ciò che li circonda. Secondo Socrate, i moderni attribuiscono all’antichità un valore che essa non ha, probabilmente a causa dello scontento che essi provano nei confronti del loro secolo.

In realtà, è possibile trovare anche tra i contemporanei di Montaigne, uomini simili ad Aristide, Focione o Pericle, poiché, sebbene le abitudini e i costumi si trasformino, la natura non è cambiata e non ha mutato il suo corso.

L’antichità non è infallibile né perfetta, ma i vizi e le virtù sono dunque ugualmente distribuiti. Inoltre le conoscenze dei moderni, che si sono arricchite attraverso i secoli, risultano superiori a quelle degli antichi, che non hanno potuto partecipare di ciò che è stato sperimentato dopo di loro. E così bisogna pur ammettere, come farà Erisistrato, che anche i moderni hanno dei meriti:

“Era: Voi mi raccontate cose maravigliose! Il sangue circola ne Corpi? (…)

[…] Erb: (…) Dopo haver una volta ritrovato la circolazione del sangue (…) mi par d’haver rifabbricato tutto l’Uomo. Considerate come la nostra moderna medicina deve sù la vostra haver vantaggi.

Voi vi vantavate di guarire i Corpi umani, quando questi non vi erano appena conosciuti.

Era: Confesso, che i Moderni son Fisici migliori di noi, conoscendo assai meglio la natura, ma non son già migliori Medici ne guariscano le malattie così ben come li antichi le risanavano.

[…] Rispondetemi dunque ad una picciola Questione che voglio farvi. Perché vediamo noi venir giornalmente qui tanti Morti?

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(…) Erb: Può esser che ancora non si sia havuto il modo di porre in uso tutto quello che da poco in qua si è appreso. Mà è però impossibile che non se ne vedano col tempo mirabili effetti”.38

Il medico greco riconosce l’importanza delle scoperte che si sono succedute e che hanno contribuito ad una migliore conoscenza del corpo umano e all’individuazione dei meccanismi che regolano la circolazione sanguigna. Tuttavia, Erisitrato costringe il grande Harvey, che si vanta dei risultati raggiunti dalla sua disciplina, a riconsiderare i limiti della medicina, che, nonostante il perfezionamento delle tecniche, non sempre può vincere le sfide della natura. Eppure, lo scienziato inglese sembra convinto che ancora molto si possa fare e che le ricerche continue porteranno buoni frutti.

Tra i moderni, comincia ad affacciarsi quell’idea di progresso, che riposa sulla fiera consapevolezza di vivere in un’epoca necessariamente migliore della precedente, dal momento che il bagaglio di esperienze, accumulate in secoli di storia, aumenta le abilità e le capacità umane in ogni campo dello scibile. Maria Teresa Marcialis sottolinea efficacemente questo punto:

“La scienza, così, appariva come una costruzione progressiva a cui ogni generazione apportava il suo contributo che si innestava, per successive stratificazioni, al nucleo iniziale.

Gli ultimi venuti erano in tal modo superiori in quanto dotati di maggior sapere dei primi”.39

Il fulgore dell’antichità non deve oscurare la grandeur del Seicento, secolo senza precedenti nella storia francese, che mostra all’Europa intera lo straordinario sviluppo scientifico, artistico e letterario patrocinato da Luigi XIV.40

38 Ivi., Dialogo V, Erasistrato e Erbede, op.cit., pp. 56-58. Corsivo mio.

39 Maria Teresa Marcialis, La disputa sei-settecentesca sugli antichi e sui moderni, Milano, Principato, 1970, p. 9. 40 Nel 1687, con la lettura all’Académie del poema Le Siècle de Louis Le Grand, Perrault, intende rendere

omaggio al re e alla modernità, simbolo distintivo del prospero regno di Francia: “La belle Antiquité fut toujours venerable/Mais je ne crus jamais qu’elle fut adorable./Je voy les Anciens sans plier les genoux/Ils sont grands, il est vray, mais hommes comme nous:/Et l’on peut comparer sans craindre d’estre injuste/Le Siècle de LOUIS au beau Siècle d’Auguste. (…)

Nous verrions clairement que sans temerité/On peut n’adorer pas toute l’Antiquité/ (…). Platon qui fut divine du temps de nos ayeux/Commence à devenir un peu ennuyeux. […] Chacun sçait le decri du fameux Aristote/En Physique moin seur qu’en Histoire Herodote; Ses écrits qui charmoient les plus intelligens/Sont à peine reçûs de nos moindres Regens. (…)/Ils ne voyoit alors que des phantosmes vains./ […] Donc quel haut rang d’honneur ne devront point tenir/dans les fastes sacrez des Siècles avenir,/Les Regniers, les Maynards, les Gombauds, les Malherbes/Les Godeaux, les racans, don’t les écrits superbes;/En sortant de leur veine et dez qu’ils fureut nez/D’un laurier immortel se virent couronnez. […] Les Siècles, il est vray, sont entre eux differens/(…) Mais, si le regne heureux d’un excellent Monarque/Fut toujoûrs de leur prix et la cause et la marque/Quel Siècle pour ses Roys, des hommes reveré/ Au Siècle de LOUIS peut estre preferé?”. [CHARLES PERRAULT, Le Siècle de Louis

Le Grand, in Parallèle des Anciens et des Modernes, en ce qui regarde les arts et les sciences. Dialogues avec le poème du Siècle de Louis le Grand et une épître en vers sur le génie, Génève, Slatkin Reprints, 1979, pp. 79; 81;

84]. Più tardi, nel 1689, Perrault pubblicherà il celebre Parallèle des Anciens et des Modernes, in cui elogia l’ingegno dei moderni che ha portato ad un notevole perfezionamento tecnologico: “È chiaro quindi che la gloria relativa alle prime invenzioni non è così grande quanto si potrebbe immaginare. Ma che proporzione ci può essere tra queste prime invenzioni che derivano necessariamente dall’industria naturale del bisogno e quelle così

felicemente escogitate negli ultimi tempi dalla riflessione e dall’ingegno degli uomini? Prendiamo per esempio la macchina che fa le calze di seta. (…) Se, quando si vedono confezionare a mano delle calze si ammirano tanto l’agilità e la destrezza delle mani dell’operaio, per quanto egli non faccia che una maglia alla volta, quale stupore si non si proverà di fronte ad una macchina che produce cento maglie alla volta, cioè esegue in un solo momento

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Nei Dialoghi dei morti si prefigurano già alcuni temi che Fontenelle riprenderà e arricchirà, pochi anni più tardi, nella sua Digression sur les anciens et les modernes.

Nel 1688, il filosofo francese affronta direttamente la polemica che attraversa il secolo, cercando di portare ordine nel dibattito e illustrando l’evidente contraddizione che vorrebbe gli antichi perfetti e incontestabili, perché dotati di un particolare e irripetibile genio:

“Tutta la questione della preminenza tra gli antichi o dei moderni, una volta compresa, si riduce al cercar di sapere se gli alberi che esistevano un tempo nelle nostre campagne erano più grandi di quelle che crescono oggi. Se erano più grandi, Omero, Platone, Demostene non possono essere eguagliati negli ultimi secoli. Se invece i nostri alberi sono grandi come quelli di una volta, allora noi possiamo eguagliare Omero, Platone e Demostene.

Chiariamo subito questa straordinaria affermazione. Se gli antichi fossero stati più intelligenti di noi,

vorrebbe dire che a quei tempi il cervello era meglio organizzato (…). Ma in virtù di che cosa avrebbe dovuto essere meglio organizzato? Gli alberi sarebbero allora dovuti essere più grandi e più belli, dato

che, se la natura era più giovane e più vigorosa, tanto gli alberi quanto i cervelli avrebbero dovuto sentire l’influsso di questo vigore e di questa gioventù.

Quando gli ammiratori degli antichi ce li indicano come fonti del buon gusto e della ragione, lumi destinati a rischiarare tutti gli altri uomini (…) poiché la natura si è esaurita per produrre questi grandi originali, riflettano almeno un po’: ne parlano come una specie diversa dalla nostra, ma la fisica non va d’accordo con le loro belle frasi. La natura (…) certamente non ha formato Platone, Demostene e

Omero con un’argilla più fine e meglio preparata di quella con cui sono formati i filosofi, gli oratori e i poeti d’oggi”.41

Fontenelle non intende ridurre la querelle, che impegna gli ingegni più alti del secolo, ad una questione botanica, né tantomeno, liquidarla con una battuta di spirito o con una brillante e arguta provocazione. Egli “trasforma una questione di retorica in una questione di fisica. La disputa sulla superiorità degli antichi e dei moderni acquista così il valore di un’esperienza che deve essere verificata mediante il richiamo all’esperienza concreta”.42

L’equazione che bilancia alberi e uomo permette di dimostrare che la natura si presenta sempre uguale a se stessa e che, come gli alberi crescono nello stesso modo in cui crescevano secoli prima, così gli uomini sono ancora costituiti di carne e ossa.

La natura non può aver perduto la sua forza generatrice, dal momento che “è regolata da leggi immutabili che non cambiano a seconda dei tempi storici e delle variazioni dei costumi umani”.43 Non esiste un luogo prescelto o più adatto di altri per la produzione artistica o letteraria.

tutti i diversi movimenti che fanno le mani in un solo quarto d’ora?”. [Ivi., Parallèle des Anciens et des Modernes, Première dialogue, tome I, (trad.it di M.T. Marcialis, Parallelo fra gli antichi e i moderni, in La disputa

sei-settecentesca sugli antichi e sui moderni, op.cit., p. 37).

41 Fontenelle, Digression sur les anciens et les modernes, (ed.it a cura di A. M. Iacono, Digressione sugli antichi

e sui moderni, Roma, Manifestolibri, 1996, pp. 25-27). Corsivo mio.

42 M.T. Marcialis, Fontenelle. Un filosofo mondano, Sassari, Gallizzi, 1978, p. 161.

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Tuttavia, nonostante le idee si diffondano e circolino più o meno uniformemente nei diversi paesi, l’influenza del clima può orientare alcune disposizioni e, in alcuni casi, determinarle fortemente. Da ciò nascono le evidenti differenze culturali:

(…) Ma se gli alberi di tutti i tempi sono egualmente grandi, non lo sono invece gli alberi di tutti i paesi. (…)

Le idee diverse sono come le piante o i fiori che non crescono egualmente bene in ogni tipo di clima.

(…)

In ogni caso è certo che (…) le differenze del clima che agiscono sulle piante devono arrivare fino al

cervello, e produrvi qualche effetto. […] Si dice comunemente che vi siano fra le menti più differenze

che fra i volti. Non ne sono così sicuro. I volti, infatti, pur guradandosi continuamente l’un l’altro non per questo si rassomigliano di più, al contrario delle menti che acquistano somiglianza con il reciproco scambio. (…)

La facilità con cui le menti si formano le une sulle altre, sia pure entro certi limiti, fa si che i popoli non conservino interamente lo spirito originario conseguente al loro clima. (…)

Verosimilmente negri e lapponi non assimilerebbero molto dello spirito greco leggendo libri greci.

Per quel che mi riguarda, propendo a credere che la zona torrida e le due glaciali non sono adatte per le scienze. Fino ad ora queste non hanno superato l’Egitto e la Mesopotamia da un lato, e la Svezia dall’altro. (…) Non so se questi siano limiti imposti dalla natura, né se dobbiamo disperare di poter mai vedere grandi autori lapponi o negri.

Comunque mi sembra che così possa esaurire la grande questione degli antichi e dei moderni.

I secoli non producono alcuna differenza naturale tra gli uomini, il clima della Grecia o dell’Italia, e quello della Francia, sono troppo vicini per produrre una qualche sensibile differenza tra i greci o i latini e noi. (…)

Eccoci dunque tutti perfettamente eguali, antichi e moderni, greci, latini e francesi”.44

Fontenelle riutilizza la teoria dei climi per spiegare l’incapacità di alcuni popoli di produrre oeuvres d’esprit. Luoghi troppo distanti tra loro non possono influenzarsi a vicenda ed è per questo che se i negri o i lapponi leggessero Omero non ne ricaverebbero alcun insegnamento.45 Grecia, Italia e Francia, invece, sono geograficamente vicine e quindi non può essereci molta differenza tra i loro abitanti. Facendo leva sull’universalità delle scienze naturali, Fontenelle cerca di dimostrare che un greco non è poi così diverso da un francese, ma, da questa universalità sono esclusi negri e lapponi, che vivono in aree climatiche estreme e sterili dal punto di vista culturale.

Marcialis difende le posizioni del filosofo di Rouen, che, nonostante esprima dei dubbi riguardo alle effettive disposizioni naturali di chi si trovi fuori dalla parte di mondo che ha sempre prodotto e produce sapere, lascerebbe intravedere speranze di cambiamento:

“In realtà, se è vero che Fontenelle inclina fortemente a credere che gli abitanti della zona torrida non potranno mai approfittare di un’opera educativa, è anche vero che le affermazioni precedenti contengono un esplicito riconoscimento della possibilità umana di superare i condizionamenti naturali,

44 Fontenelle, Digressione sugli antichi e sui moderni, op.cit., pp. 27-31. Corsivo mio.

45 Come ricorda Marcialis, la teoria climatologica ha ancora grande peso nelle discussioni sei-settecentesche. Basti

pensare a quell’influence secrète che Boileau celebra nella sua Art Poétique e che riassume il ruolo della natura nella vita e nella cultura degli uomini: “La nature, fertile en esprits excellents, / Sait entre les auteurs partage les talents”. [Boileau, Art Poétique, vv. 14-15, op.cit., p. 2.]

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climatici e razziali: la cultura può sovrapporsi alla natura e può alterare, se non i visi, certamente le idee degli uomini”.46

Nonostante ciò, nel testo fontenelliano, permane una forte ambiguità.

Gli uomini, in quanto tali, non sono tutti ugualmente fallibili e soggetti all’errore?

Perché allora un negro o un lappone dovrebbero essere così diversi da un greco o da un francese? Come nota la stessa Marcialis infatti:

“L’utilizzazione della teoria del progresso (…) presuppone la fondamentale identità naturale degli uomini. […] Progresso e identità della natura rappresentano le argomentazioni principali su cui i moderni fanno leva per sostenere la loro tesi (…)”.47

Ciò che preme a Fontenelle è dimostrare che i francesi non sono inferiori agli antichi; tutto il resto passa in secondo piano. Nous voilà donc tous perfaitement égaux, anciens et modernes, Grecs, Latins et Français. Non sembra esserci posto per altri popoli.

Certo, gli antichi hanno il merito di aver iniziato e di aver creato le basi della cultura, che in seguito è stata ampliata, ma questo dipende da una condizione storica.

Essi hanno preceduto i moderni e hanno fatto semplicemente quello che avrebbero fatti questi ultimi in una simile circostanza. Ciò non significa che l’eccellenza del mondo classico sia in discussione: senza passato non ci sarebbe alcun futuro.

“È vero che per fare passi avanti occorre spesso uno sforzo maggiore di quanto non ne sia occorso per fare le prime scoperte; ma si è anche più facilitati nel compierlo.

Con la mente già illuminata da queste stesse scoperte (…) abbiamo delle conoscenze ereditate da altri che vanno ad aumentare quelle che nascono in noi e se possiamo così oltrepassare il primo inventore è perché lui stesso ci ha in un certo senso aiutati ad oltrepassarlo. Egli avrà dunque sempre la sua parte di gloria nella nostra opera e se volesse ritirare ciò che gli appartiene non ci resterebbe nulla più che a lui”.48

Bisogna essere riconoscenti agli antichi non solo per l’eccellenza delle loro opere e per la cultura che hanno tramandato alla storia, ma anche e, forse, soprattutto, per i loro errori, che dispensano i moderni dal farne di simili:

“Voglio essere ancora più equanime in proposito, fino al punto di avere comprensione anche dell’infinità di concezioni false che gli antichi hanno avuto, dei cattivi ragionamenti che hanno fatto, delle sciocchezze che hanno detto. La nostra condizione è tale che non ci è mai permesso di giungere d’un colpo a nulla di ragionevole qualunque sia l’argomento. […] Noi siamo in debito con gli antichi perché essi hanno esaurito la maggior parte delle idee false che si potevano produrre. (…)

Lo stesso dicasi per altri argomenti, sui quali diremmo oggi una quantità inverosimile di sciocchezze se non fossero già state dette, e se non ce le avessero, per così dire sottratte”.49

I moderni sono dunque custodi dei grandi modelli greci e latini, così come dei loro errori.

46 M.T. Marcialis, Fontenelle. Un filosofo mondano, op.cit., pp. 71-72.

47 M.T. Marcialis, La disputa sei-settecentesca sugli antichi e sui moderni, op.cit., pp. 10-11. 48 Fontenelle, Digressione sugli antichi e sui moderni, op.cit., pp. 35-37.

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Vues fauste, mauvais raisonnements, sottises, tutto contribuisce ad una migliore e più chiara visione del presente. Fontenelle intende precisare che non deve esserci alcun timore reverenziale nei confronti dei poeti e degli oratori classici, che devono invece essere esaminati e, se necessario, criticati:

“Non è mia intenzione entrare in una critica dettagliata, voglio sottolineare che (…) è importante abbandonare ogni atteggiamento reverenziale verso i loro grandi nomi e non avere indulgenza per i loro errori. In una parola li dobbiamo trattare come dei moderni.

Bisogna essere capaci di dire o sentir dire in modo non edulcorato che in Omero o in Pindaro si può trovare un’assurdità, bisogna avere l’arditezza di credere che occhi mortali possano scorgere dei difetti in questi grandi geni, bisogna poter digerire che Demostene e Cicerone vengano comparati con un uomo che può anche avere un cognome francese, e forse dei natali modesti.

Grande e prodigioso sforzo della ragione”.50

L’ammirazione smisurata nei confronti degli antichi si infrange contro l’evidenza della ragione: infatti, come ricorda Orazio, se è vero che “Omero mostrò le imprese di re e comandanti e le tristi guerre” è altrettanto vero che “di quando in quando il buon Omero sonnecchia”.51 Nessuno è immune da errori, neppure il grande Omero.

E i moderni devono avere il coraggio di riconoscerlo e di ammetterlo.

Solo così sarà possibile uscire dall’impasse della subalternità letteraria e culturale, in cui si trovano i moderni, dettato dalla rigida auctoritas di cui ancora godono i classici. Gli uomini si lasciano confondere facilmente e spesso accettano passivamente tutto ciò che la tradizione ha decretato come degno di lode e di celebrazione.

È per non rimanere imbrigliati in vecchie costruzioni e vecchi dogmi, che impediscono il naturale avanzamento delle scienze e del sapere, che bisogna indagare a fondo imprecisioni e inesattezze presenti nei testi antichi:

“Nulla arresta tanto il progresso delle cose, nulla limita tanto le menti, quanto l’ammirazione eccessiva

per gli antichi. Per il fatto che ci si era consacrati all’autorità di Aristotele e si cercava la verità soltanto

nei suoi scritti enigmatici, e mai nella natura, la filosofia non solo non avanzava in nessun modo, ma era caduta in un abisso di confusione di parole e di idee inintelligibili (…).

E il male è che quando una fantasia di questo genere si insedia fra gli uomini, persiste per lungo tempo. Ci vorranno secoli interi per liberarsene, anche dopo che ne avranno riconosciuto il ridicolo. (…) Secondo ogni apparenza la ragione si perfezionerà e ci libereremo in generale del grossolano

pregiudizio dell’antichità”.52

Fontenelle respinge decisamente il principio dell’auctoritas e della dipendenza pressoché totale dai modelli antichi, che, se cristallizzati e non adeguatamente metabolizzati, più che una risorsa si rivelano giogo e fardello insopportabile.

50 Fontenelle, Digressione sugli antichi e sui moderni, op.cit., p. 49. 51 Orazio, Ars Poetica, vv. 73-74; 359-360. Traduzione dal latino mia.

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Il percorso che guida l’uomo alla verità è lungo e segnato da errori, ma è proprio dalla storia degli errori che nasce nuova conoscenza.

“Ora le stravaganze e gli errori degli uomini sono la materia più vasta e più importante che si offra allo storico: la storia degli errori è un antidoto contro l’errore. […] Fontenelle intende privare gli Antichi di quella parte del loro prestigio e della loro autorità che non resiste all’esame della ragione (…). […] È l’ironia della Digression, che indica nell’autorità (…) l’ostacolo principale al progresso delle cose”. 53 Abbandonare l’ossequio dei classici e cercare di ricostruire le cause degli errori significa decostruire finalmente tutte le assurdità e le mitologie che, da secoli, onubilano e confondono il giudizio dell’uomo. Fontenelle aveva già in parte trattato, nei Dialogues des Morts, il tema del fascino e dell’influenza esercitati dalle favole sull’immaginario collettivo, ma dedicherà a questo argomento un testo specifico, De l’origine des fables, preparato probabilmente intorno al 1690 e pubblicato più di trent’anni dopo, che cambierà la prospettiva con cui rivolgersi alla cultura antica.

Facendo luce sulle idee false, che si trovano alla base dei miti, e su i “meccanismi che hanno dato luogo all’errore”54, è possibile fare luce sulle dinamiche che governano l’animo umano.

“Siamo talmente abituati, durante la nostra infanzia, ai miti greci, che, quando siamo nell’età della ragione, non ci accorgiamo più di trovarli così sorprendenti quali sono.

Ma se riusciamo a liberarci dallo sguardo dell’abitudine, non possiamo che essere turbati dal vedere che tutta l’antica storia di un popolo non è nient’altro che una congerie di chimere, di sogni e di assurdità. […] Nei primi secoli del mondo (…) l’ignoranza e la barbarie dovevano essere ad un punto tale che non siamo quasi più in grado di immaginare. Pensiamo ai Cafri, ai Lapponi, agli Irochesi e, anzi, facciamo attenzione al fatto che questi popoli, che sono già antichi, sono dovuti arrivare ad un qualche grado di conoscenza e civiltà che i primi uomini non avevano. Più si è ignoranti e meno si ha esperienza, più si vedono prodigi.

I primi uomini ne videro dunque molti e, come naturalmente i padri raccontano, ai loro figli, ciò che hanno visto e ciò che hanno fatto, non ci furono che prodigi nei racconti di quei tempi.

Quando raccontiamo qualcosa di sorprendente, la nostra immaginazione si scalda su un oggetto e, da sé sola, si porta ad ingrandirlo e ad aggiungervi quel che ci mancherebbe per renderlo assolutamente meraviglioso (…). Inoltre si è lusingati dai sentimenti di sorpresa e ammirazione che si procurano ai propri ascoltatori e si è a proprio agio ad aumentarli ancora, perché sembra che ce ne torni indietro non so cosa alla nostra vanità.

[…] I racconti che i primi uomini fecero ai loro figli, essendo dunque spesso falsi al loro interno, perché erano fatti per gente incline a vedere delle cose che non esistevano, e soprattutto avendolo esagerato, o in buona fede, come spiegheremo, o in mala fede, è chiaro che erano già guastati alla fonte.

Ma, sicuramente, sarà ancora molto peggio, quando essi passeranno di bocca in bocca; ognuno toglierà qualche piccola parte di vero e ce ne metterà qualcuna di falso, e principalmente di un falso meraviglioso, che è il più gradevole; e forse, dopo un secolo o due, non solo non resterà nemmeno un po’ del vero che c’era all’inizio, ma anzi, mi resterà molto poco della materia del falso originario”.55

53 A. Pizzorusso, Il ventaglio e il compasso. Fontenelle e le sue teorie letterarie, Napoli, Edizioni scientifiche

italiane, 1964, pp. 97; 104; 108.

54 M.T. Marcialis, Fontenelle. Un filosofo mondano, op.cit., p. 184.

55 Fontenelle, De l’origine de fables, Oeuvres complètes, Corpus des oeuvres de philosophie en langue française,

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