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Capitolo II

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Academic year: 2021

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Capitolo II – Torquato Tasso: il genio tra melancolia e paranoia 1. Introduzione

Nel corso del suo girovagare sempre più inquieto per l’Europa, Rousseau era solito portare con sé una copia della Gerusalemme Liberata. La predilezione del ginevrino per il Tasso è cosa ben nota. Tale ammirazione del resto contribuì non poco ad alimentare presso i Romantici il mito dell’epico nostrano. Ma il legame tra i due non si limitava a questo. Nel celebre lamento di Tancredi (strofa LXXVII del Canto XII della Liberata), Jean-Jacques vide addirittura predetto il proprio destino:

Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure, Mie giuste furie, forsennato, errante; Paventerò l’ombre solinghe e scure, Che ‘l primo error mi recheranno inante; E del sol, che scoprì le mie sventure, A schivo ed in orrore avrò il sembiante: Temerò me medesmo, e, da me stesso Sempre fuggendo, avrò me sempre a presso1.

E’ stato giustamente rilevato da Starobinski come in tal modo Rousseau mettesse la propria vita al passato: così predetta, essa era già stata raccontata da qualcun altro, per di più un grande poeta. E’ questo un atteggiamento tipico dell’essere malinconico, che pensa la propria esistenza come già trascorsa, segnata da un

errore irreparabile che si trova a dover scontare2.

Per i lettori di inizio ‘800, tanto Rousseau quanto Tasso divennero icone malinconiche per eccellenza. Ma se il mito del ginevrino fu alimentato dal suo mettersi a nudo (non solo metaforico), la leggenda tassiana visse anzitutto dei numerosi misteri che aleggiavano (e in buona parte ancora aleggiano) attorno alla sua vicenda esistenziale. Chi era dunque Torquato Tasso? Cosa lo condusse ad essere recluso nel 1579 nell’Ospedale di Sant’Anna? Quali le passioni che ne accesero l’animo sino a condurlo alle soglie della follia? La cella che ospitò l’infelice poeta divenne nel corso dei secoli meta di pellegrinaggio per innumerevoli ammiratori. Byron vi si fece rinchiudere e vi rimase per due ore, agitandosi, camminando a grandi passi, colpendosi la fronte o con la testa

1 T. Tasso, Gerusalemme Liberata, Firenze, Barbera, 1895, vol. III, p. 72. 2

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piegata sul petto e le braccia penzoloni3. Ispirato da tale esperienza, ne trasse il

suo Lament of Tasso4.

Il mito romantico vedeva in Torquato l’infelice poeta acceso d’un amore impossibile per Leonora d’Este, sorella del duca Alfonso. Tutto risaliva alla prima celebre biografia tassiana ad opera di Giovanni Battista Manso. Il nobile campano, che ebbe occasione di ospitare il poeta nella propria residenza, sostenne che nelle Rime del Tasso fosse possibile rintracciare tre distinte destinatarie dei suoi versi amorosi, accomunate dal medesimo nome. Oltre alla sorella del duca, v’erano infatti una damigella di corte ed una nobildonna di nome Leonora. In questo gioco di rimandi dal gusto barocco, le altre due non erano che schermi per celare la propria passione proibita e celebrarla in maniera

indiretta5. Sarà poi Giovanni Rosini a difendere il “sistema degli amori” nel XIX

secolo, pur con qualche leggera modifica all’impianto originario6. Fu dunque tale

amore, rivelato al duca d’Este da un amico cui Torquato s’era incautamente

confidato, a perdere il grande epico?7

Alcuni, poco inclini a prestar fede a tali congetture8, fecero di Tasso un eterno

adolescente, animo puro ed ingenuo del tutto inadatto all’infida vita di corte, dove l’invidia e i sotterfugi di cui era destinato a essere oggetto avrebbero finito per perderlo. Era questa ad esempio l’immagine evocata da Giovanni Zuccala,

3

L’aneddoto è riportato da Cabanès, e si basa su quanto riferito dal portiere che accompagnò il grande poeta inglese e rimase poi a spiarlo. Si narra che uscendo Byron gli disse, dandogli la mano: <<Ti ringrazio buon uomo, i pensieri del Tasso stanno ora tutti nella mia mente, e nel mio cuore>>. (Cfr. A. Cabanès, La folie du Tasse, in <<La Chronique Médicale>>, II (1895), pp. 289-297).

4 Cfr. A. Coppo, All’ombra di Malinconia. Il Tasso lungo la sua fama, Torino, Le Lettere, 1997, in

part. p. 216.

5

Cfr. G. B. Manso, Vita di Torquato Tasso, Venezia, Tipografia di Alvisopoli, 1825. La natura agiografica del testo conferisce sin dall’origine alla vicenda tassiana i contorni della leggenda. Il credito di cui l’opera di Manso seguiterà a godere nei secoli seguenti indurrà molti a ritenere veritieri eventi rivelatisi poi inventati di sana pianta.

6 Cfr. G. Rosini, Saggio sugli amori di Torquato Tasso e sulle cause della sua prigionia, Pisa,

Capurro, 1841. Stando a quanto asserito in quest’opera, oltre a Leonora d’Este e alla contessa di Scandiano, Tasso amò in gioventù Laura Peperara. Costei, e non la damigella di corte additata dal Manso, sarebbe la terza donna a cui le poesie d’amore tassiane sono dedicate. Rimane celebre la diatriba di Rosini con Gaetano Capponi, che dopo aver manifestato in privato il proprio appoggio alle teorie dell’amico, si schierò contro di esse per scritto, sostenendo che a perdere Tasso fu la trattativa da lui intavolata (e presto scoperta dal duca d’Este) per passare alla corte medicea (Cfr. G. Capponi, Sulla causa finora ignota delle sventure di Torquato Tasso, Firenze, Pezzati, 1840).

7

A Manso risale anche il racconto di questo episodio. Vista tradita la propria fiducia, Tasso sfidò il confidente a duello. Costui, dapprima rifiutatosi, aggredì poi il poeta alle spalle per le vie di Ferrara, in compagnia dei suoi tre fratelli. Sguainata la spada, Tasso li mise i fuga tutti e quattro, dimostrando un’abilità pari a quella palesata con la penna. L’episodio sarà molto discusso e spesso negato o ridimensionato dai critici dei secoli seguenti, e lo stesso Rosini non è certo che il duello abbia avuto effettivamente luogo.

8 Da segnalare, tra i critici francesi, la netta presa di posizione di Victor Cherbuliez. Smontate le

congetture intorno agli amori tassiani, ricondusse le sventure del grande epico in parte alle debolezze del suo carattere ed in parte ai tempi nefasti in cui gli toccò vivere. (Cfr. V. Cherbuliez,

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per cui Tasso fu una sorta di “promeneur solitaire”, un malinconico amante della

solitudine costretto dalla necessità a farsi cortigiano9. L’amore per la sorella del

duca veniva qui radicalmente negato. Ad essere sottolineata era piuttosto la crudele intransigenza di Alfonso, che traviato nel suo giudizio dalle diffuse maldicenze contro il povero Torquato, attuò la messinscena della sua follia per poterlo legittimamente recludere senza vedere infangato il proprio buon nome. Era questo il secondo polo della leggenda romantica del Tasso, vittima innocente

di un tiranno crudele10.

Angelo Solerti, autore sul finire dell’800 di un’imponente biografia, frutto di un lungo e meticoloso lavoro d’archivio, sostenne infine che furono gli scrupoli religiosi (spinti ad un eccesso patologico) a perdere il grande poeta. Divenuto pericoloso accusatore non solo di se stesso ma anche d’altri presso l’Inquisizione, rischiava di riportare sul ducato estense attenzioni

indesiderate11.

Influenzata e non poco dalle ricerche dedicate a Tasso dagli psichiatri positivisti, l’opera di Solerti chiuse per molti versi un’epoca, e consente per questo di gettare una sguardo retrospettivo sulla vicenda critica tassiana, di cui ho appena accennato per sommi capi alcuni tratti salienti. Nel marasma di ipotesi, suggestioni e leggende che si erano andate accumulando nel corso dei secoli il rischio di smarrire per sempre la

9

Cfr. G. Zuccala, Della vita di Torquato Tasso, Milano, Bocchetto, 1819. Riguardo a questo tentativo di rafforzare un parallelo con Rousseau allora molto in voga, ha giustamente rilevato Giovanni Getto come in Tasso il senso romantico della malinconia sia del tutto assente. Il tema della solitudine, nelle sue opere, rappresenta l’efficace descrizione di una dimensione fondamentale dell’esistenza umana, in cui v’è ben poco spazio per languori romanticheggianti. Più in particolare, fare di Tasso un amante della solitudine significa appiattire la complessità del suo profilo personale. Il suo rapporto con la corte è sempre stato all’insegna dell’ambivalenza. Da un lato luogo di intrighi e maldicenze da cui sognava di fuggire, era dall’altro fonte di svago e conversazione, lenimento irrinunciabile per il suo cupo temperamento atrabiliare. Nell’infinito susseguirsi di fughe e ritorni che costellò la vita di Tasso, non si può non tener conto di questa dinamica di fondo. Per farlo, è necessario evitare di appiattirsi su prese di posizione unidimensionali. (Cfr. G. Getto, Malinconia di Torquato Tasso, Napoli, Liguori, 1979).

10

Come rilevato da Umberto Bosco, Tasso assunse nell’immaginario collettivo più l’immagine del “poeta-martire” che quella del “poeta-Titano” (che rappresentano i due poli entro cui è possibile ricomprendere a suo avviso tutte le biografie poetiche d’epoca romantica). Più in generale, aveva ragione il celebre critico a sottolineare come la simpatia dei Romantici per Tasso fosse interamente rivolta all’uomo e alla leggenda della sua vita. Sul piano dello stile e della forma, del resto, ben poco aveva a che spartire con loro un poeta fedele come pochi ai classici dettami aristotelici. (Cfr. U. Bosco, Aspetti del Romanticismo italiano, Roma, Cremonese, 1942).

11

Cfr. A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, Torino - Roma, Loescher, 1895. La madre di Alfonso d’Este si era infatti convertita alla Riforma, al punto da rendere necessario il drastico intervento del marito. Da allora il ducato estense si trovava al centro dell’attenzione. Privo di una discendenza maschile, Alfonso si trovava per di più in bisogno di non provocare ulteriori urti con lo Stato Pontificio, cui i territori estensi sarebbero dovuti tornare di diritto in caso di estinzione della linea di successione.

Figura 1 - Maschera mortuaria di Torquato Tasso

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verità era allora tangibile. E lo era al punto che diventava difficile stabilire

persino quale fosse davvero il volto del Tasso12. Alla soluzione di tale enigma

Solerti dedicò diverse pagine del terzo volume del proprio lavoro, inaugurando

un dibattito destinato a protrarsi sino ai giorni nostri13. Rifacendosi a quanto già

rilevato dal conte Paolo Vimercati Sozzi, il critico rilevava anzitutto come la maschera mortuaria del grande poeta (figura 1) non fosse certo di grande aiuto: l’occhio destro è chiuso mentre quello sinistro è spalancato e contratto dalla convulsione letale. Le mascelle hanno ineguali protuberanze, prodotte forse dall’aver applicato il gesso senza aver prima provveduto a radere la barba. La fronte (in tutti i suoi ritratti alta e spaziosa) è troncata poco oltre il sopracciglio. Più in generale, i lineamenti del volto risentono in modo evidente delle sofferenze patite sul letto di morte dal poeta ormai esausto, ed era dunque difficile desumere qualcosa della sua fisionomia in vita. E’ questo un problema che si estende a tutta l’iconografia tassiana: le tormentate vicissitudini della sua esistenza, le sofferenze patite, la prigionia e l’invecchiamento precoce rendevano difficile paragonare ritratti realizzati in diverse età della sua vita e stabilirne l’autenticità. Nel primo Ottocento trovò grande favore l’immagine di un Tasso la cui divina ispirazione poetica sfociava apertamente nella follia. E’ questo il caso della celebre incisione di Morghen, riproducente un ritratto tardo-settecentesco di Pietro Ermini (figura 2). Tasso si mostra qui con una fisionomia sconvolta ed una grande espressione di follia dipinta negli occhi. Solerti ritenne invece essere il migliore tra i ritratti a noi pervenuti quello attribuito a Pietro Allori (discepolo del Bronzino) ed esposto agli Uffizi. Tasso vi appare emaciato e sofferente, e l’ossatura sembra ricordare nei suoi tratti generali quella della maschera.

Figura 2 - L'incisione di Morghen ed il ritratto di Allori

12 Significativo a tal proposito quanto ha avuto modo di scrivere di recente Giovanni Macchia. Il

critico racconta che in occasione del sesto centenario del castello estense era stata allestita in una delle sale una mostra avente per oggetto il Tasso. Il visitatore non poteva che sentirsi smarrito di fronte a quei ritratti tanto diversi tra loro: <<E la vicenda così ingarbugliata di tanti volti che s’inseguono è come la metafora della vita – e della stessa contraddittoria fortuna. E’ la sua storia distorta in figure. E’ il cammino di un’immagine continuamente deformata dal tempo>>. (Cfr. G. Macchia, La caduta della luna, Milano, Mondadori, 1995, p.25.

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Oggi sappiamo che l’attribuzione allora operata da Solerti fu errata, e nuovi ritratti all’epoca sconosciuti sembrano essere giunti a dare alla questione una

soluzione forse definitiva14. Il confronto di Solerti con l’iconografia tassiana allora

in voga risulta però interessante sotto un altro aspetto. Colpisce l‘estrema magrezza del soggetto raffigurato tanto nell’incisione di Morghen quanto nel ritratto attribuito ad Allori. E’ questo, come ha rilevato Giovanni Macchia, il segno di un’epoca. Il Romanticismo ebbe un suo debole per la magrezza: lo spirito roso da un ideale irraggiungibile non poteva che essere magro. In quell’epoca di uomini pingui che fu il ‘500, Tasso (stando alle testimonianze dei contemporanei) poteva ben considerarsi grosso più del normale. Eppure, per tutto l’800, egli fu sottoposto ad un processo di progressivo “asciugamento”. Da ultimo, lo stesso Solerti (cui va per altri aspetti il merito di aver contribuito a dissipare tanti falsi miti su Tasso) finì dunque per soggiacere a sua volta a tale processo di idealizzazione romantica.

Si può quindi asserire che l’800 non arrivò mai a svelare l’enigma relativo al volto del Tasso, per quanto si illuse da ultimo d’esservi infine riuscito. Lo stesso si può dire forse per le intricate vicende della sua vita, di cui ho richiamato alcuni aspetti in precedenza. V’è però un aspetto di essa su cui desidero concentrare adesso la mia attenzione: la sua follia. Fonte d’imbarazzo per Manso e gli altri biografi della sua epoca, si potrebbe dire che l’adozione delle favole sull’amore proibito per Leonora d’Este e le altre invenzioni consimili rappresentino l’espressione del rifiuto di tale follia anche da parte della cultura romantica. Il folle coronato d’alloro inciso da Morghen testimonia però al contempo del fascino esercitato dalla pazzia del Tasso sull’immaginario dell’epoca. Essa finiva per essere espressione della sua fuga senza ritorno nel sublime, l’immagine più radicale dell’inconciliabilità dell’animo poetico coi vincoli terreni. Non minore fu la fascinazione esercitata dalla follia tassiana sulla psichiatria ottocentesca. I molteplici contributi dipanano una trama lunga decenni, il cui sviluppo è meno lineare di quanto si potrebbe pensare. E’ questa la storia che adesso cercherò di ricostruire. Suo punto di partenza non può che essere la malinconia. Di tale oscuro male dell’anima, come visto, Tasso divenne per il XIX secolo una vera e propria icona.

14

Cfr. G. Macchia, op. cit., pp.24-38. Vanno ricordati, nel lungo dibattito intorno all’iconografia tassiana, anche due interessanti articoli di un grande studioso del Tasso, Ciro Caversazzi, che già negli anni ’30 del secolo passato aveva messo in dubbio la legittimità della scelta di Solerti. A questo proposito cfr. : C. Caversazzi, Iconografia tassiana. La vera effigie di Torquato Tasso, in <<Emporium>>, LXXIV (1931) pp.36-43; C. Caversazzi, Ritratti inediti di Torquato Tasso, in <<Emporium>>, LXXXIII (1936), pp. 25-32.

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2. Lipemania: la “facies” ottocentesca della melanconia

Il termine “lipemania” è legato in maniera indissolubile al nome di Jean-Étienne

Dominique Esquirol15, che nelle pagine del primo volume del suo celeberrimo

Des maladies mentales dedicate a questo disturbo esordiva con una presa di posizione alquanto netta. Affermava infatti che il termine “mélancolie”, in uso per secoli nella tradizione medica occidentale, andava lasciato ai moralisti e ai poeti. Non era di nostalgie indefinite e di svenevoli turbamenti dell’animo che qui si trattava, ma di una ben precisa forma di alienazione mentale. Per una scienza come la moderna psichiatria, allora agli albori, delimitare l’ambito delle proprie competenze esclusive era un atto necessario. Si può affermare che Esquirol sia riuscito in questo frangente nel proprio intento? Al di là delle ideologiche dichiarazioni di facciata, io credo di no. Se la lipemania rappresentava senza ombra di dubbio una netta cesura col passato della medicina mentale, essa non recideva affatto i legami con la cultura romantica. Considerato quindi l’interesse della psichiatria di allora a propagandare l’immagine di una propria storia lineare, monolitica e progressiva, si può dire che Esquirol è riuscito proprio laddove avrebbe preferito fallire.

Come asserito da Mario Galzigna, la malinconia pone lo storico di fronte al

problema della “lunga durata” del nostro apparato linguistico - concettuale16.

Non intendo addentrarmi troppo a fondo nei meandri di un dibattito che, per quanto interessante, rischia di risultare alla lunga un po’ fine a se stesso. Mi

limito per questo a far mie le opinioni espresse in materia da Starobinski17. Le

malattie mentali mutano nel tempo. Tanto per il medico quanto per il paziente esse sono un fatto di cultura. Il persistere del termine “malinconia” non attesta che il gusto per la continuità verbale. Questo risulta evidente a chiunque si soffermi ad analizzare la trattazione esquiroliana del disturbo lipemaniaco. Il celebre psichiatra descriveva la lipemania come una malattia cerebrale caratterizzata da delirio parziale, cronico e senza febbre, alimentato da una passione triste, debilitante ed oppressiva. Già a questo proposito, Jackie Pigeaud

ha ragione nel rilevare un cambiamento18. Rispetto alle trattazioni dell’antichità,

volte a sottolineare la tristezza del melanconico, Esquirol fece della lipemania

15

Cfr J.-E. D. Esquirol, Des maladies mentales considérées sous les rapports médical, hygiénique et

médico-légal, Paris, Baillière, 1838, in part. vol. I, pp. 398-481. Il saggio sulla lipemania era

comparso per la prima volta nel 1820.

16 Cfr. M. Galzigna, Umori, nervi e civilizzazione: trasformazioni del corpo malinconico, in P.

Cattorini (a cura di), Leggere il corpo malato: aspetti antropologici, epistemologici, medici, Padova, Liviana, 1989.

17

Cfr. J. Starobinski, Storia del trattamento della malinconia dalle origini al 1900, Milano, Guerini, 1990, in part. Pp. 19-20.

18 Cfr. J. Pigeaud, La mélancolie des psychiatres, in Mélancolie: génie et folie en Occident : Galeries nationales du Grand Palais, Paris (10 octobre 2005 - 16 janvier 2006); Neue Nationalgalerie, Berlin (17 février - 7 mai 2006) / [sous la direction de Jean Clair], Paris, Gallimard, 2005, pp.

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una monomania, ponendo l’accento sulla sua natura di delirio parziale. Del resto, bisogna precisare come l’elemento emotivo non venisse certo lasciato in secondo piano: le affezioni morali rappresentavano la causa principale della lipemania, e in mano ad un medico abile potevano rappresentarne al contempo il più potente mezzo curativo. Erano le passioni tristi del lipemaniaco ad alterare il suo intelletto e ad incatenarlo in una condizione patologica di cui il malato era spesso consapevole. A tal proposito, è certo interessante sottolineare come tra gli esempi celebri citati al riguardo da Esquirol vi fosse, accanto a Pascal, quello di Tasso. Del celebre poeta si raccontava di come passasse giorni e notti con lo

spirito incessantemente irritato dall’assenza

dell’oggetto del loro amore. E non era questa che la prima testimonianza del successo presso gli

psichiatri del caso dell’autore della Liberata19.

Se si vuole però cogliere a fondo il senso di quella cesura col passato cui accennavo in precedenza, è necessario scendere più nel concreto,ed analizzare i casi che Esquirol ci presenta. Ecco anzitutto le parole con cui descriveva il “tipo lipemaniaco”:

Le lypémaniaque a le corps maigre et grêle, les cheveux noirs, le teint pâle, jaunâtre ; les pommettes parfois colorées, la peau brune, noirâtre, aride et écailleuse ; tandis que le nez est d’un rouge foncé. La physionomie est fixe et immobile, mais les muscles de la face sont dans un état de tension convulsive et expriment la tristesse, la crainte ou la terreur ; les yeux sont fixes, baissés vers la terre ou tendus au loin, le regard est oblique, inquiet et soupçonneux. Si les mains ne sont pas desséchées, brunes, terreuses, elles sont gonflées, violacées20.

Della facies appena descritta era perfetta esemplificazione il primo caso

presentato da Esquirol (vedi figura 3). Si trattava di M., lipemaniaca di 23 anni.

Rinchiusa in un ostinato mutismo, era quasi impossibile convincerla ad abbandonare il letto, e quando vi si riusciva trascorreva l’intera giornata da sola, seduta in disparte su una panca, nella posa in cui Tardieu l’ha immortalata. Le poche parole da lei pronunciate lasciarono intendere come la paura dominasse il

19

L’immagine evocata da Esquirol rimandava inequivocabilmente al più celebre falso d’autore scritto in relazione alle vicende tassiane. Giuseppe Compagnoni, celebre letterato e patriota, sostenne di aver rinvenuto a Ferrara, in un vecchio edificio in rovina, un antico manoscritto contenente pagine inedite di Torquato Tasso. Si trattava dei lamenti d’amore del grande epico, che si struggeva per la bella Leonora d’Este durante l’interminabile prigionia. Tradotto in francese e pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1800, conobbe in seguito anche diverse edizioni italiane (Cfr. G. Compagnoni, Veglie di Torquato Tasso, Firenze, Ciardetti, 1823). Il gusto marcatamente romantico (nel senso più deteriore del termine) delle pagine scritte da Compagnoni difficilmente avrebbe potuto ingannare un critico letterario. Prova ne sia il fatto che nel dibattito sulle cose tassiane questo testo non viene mai citato. Esquirol dimostra però quanto esso finisse per contribuire ad alimentare il mito romantico del Tasso nell’immaginario collettivo.

20

J.-E. D. Esquirol, op. cit., vol. I, pp. 407- 408.

Figura 3 - A. Tardieu, M., lipemaniaca

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suo mondo interiore, contagiando tutte le sue facoltà. Tutto sembrava risalire al vivo spavento suscitato in quest’umile campagnola da alcuni soldati. Morta di tisi a 29 anni, della sua storia non si seppe mai nulla di più. L’immagine che di lei ci rimane ha invece ancora molto da raccontarci. Esquirol attribuiva una notevole importanza alla raffigurazione dei suoi malati, ed i lavori da lui commissionati a Tardieu rappresentano ancora oggi un documento di grande valore, attestante la grande attenzione prestata dalla psichiatria ottocentesca alla postura e all’espressione dei pazienti. Questo perché le passioni implicano sempre uno sforzo in coloro che sono da esse animati, sia che le assecondino sia che tentino di opporvisi. Ciò comporta peculiari movimenti pato-fisiognomici, le cui tracce

possono aiutare il medico nella comprensione del mondo interiore del malato21.

Emergeva qui un modo diverso di concepire il rapporto della scienza con l’arte rispetto a quello che, come visto nel capitolo precedente, sarà destinato ad affermarsi in Lombroso. L’incisione diventava ausilio per il medico, testimonianza visiva di quei segni che era chiamato a saper riconoscere nell’esercizio della sua professione. Nel caso di M., la sua postura, con le braccia rigidamente conserte, rimarcava quell’atteggiamento di diffidente chiusura verso l’esterno che lo psichiatra aveva descritto. Lo sguardo rivolto verso il basso, in un attitudine di netto distacco dalle cose mondane, ricordava da vicino le tradizionali raffigurazioni della malinconia (prima tra tutte quella di Dűrer). Eppure, come

sottolineato da Luciano Bonuzzi22, nel richiamo alla tradizione si consumava al

contempo anche qui una netta presa di distanza. Sullo sfondo, veniva meno tutta quella serie di rimandi simbolici che collocava il male melanconico all’interno di una cornice culturale estremamente complessa, fatta di ammonimenti ed accenni a piani ulteriori di significato. La cornice qui si svuota. Lo sfondo svanisce, predomina ora in esso l’asettico nitore dello spazio d’osservazione clinico. Il melanconico diventa a tutti gli effetti un malato di mente, ed il manicomio l’ambito deputato alla fredda osservazione scientifica dei suoi disturbi. Anche sul

21 Cfr. J. Pigeaud, op. cit. Testimoniano dell’enfasi posta all’epoca sullo sguardo medico anche le

pagine dedicate all’argomento da Guislain nel suo celebre manuale. Ecco quanto scritto in proposito dal grande psichiatra belga: <<Comme base de l’appréciation du malade, vous avez à vous rendre compte du coup d’œil médical. Je le définirai : l’art de voir dans un ensemble de phénomènes une foule de détails là où d’autres ne voient que des généralités, où parfois ils ne voient rien du tout>>. E poco oltre : <<Tout artiste a du tact, et le médecin aussi est artiste>>. La lunga pratica necessaria all’acquisizione del colpo d’occhio medico è finalizzata a distinguere le emozioni che dominano il malato. In generale, ogni alienazione mentale tende ad avere la propria facies, o come diceva Guislain, la propria “masque”. (Cfr. J. Guislain, Leçons orales sur les

phrénopathies, ou traité théorique et pratique des maladies mentales, Gand, Hebbelynck, 1852,

in part. vol. I pp. 14-22.

22

Cfr. L. Bonuzzi, Per l’iconologia della melanconia, in <<Acta medicae historiae patavina>>, XXVII (1980-1981), pp. 55-80. Cfr. anche Bonuzzi, L., Nosè, F., Nota in margine a <<Melencolia I>> di

Albrecht Dűrer, in <<Acta medicae patavina>> XVII (1970), pp.41-52. In relazione al tema

dell’incisione dureriana e più in generale del tema della malinconia nella tradizione occidentale rimane ovviamente imprescindibile opera di riferimento R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno

e la melanconia : studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, Torino,

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piano visivo, l’immagine di M. ci ricorda come, dietro un apparente richiamo alla tradizione, si stagliasse evidente un netto distacco da essa.

Come accennato però in apertura di paragrafo, l’esplicitarsi di tale cesura storica segnava al contempo l’emergere netto di un debito culturale. Per comprenderlo meglio, osserviamo il secondo dei casi descritti da Esquirol (vedi figura 4). Ci viene descritto come la paziente apparisse prostrata dalle idee che la opprimevano. Il suo sguardo e la sua attitudine rivelavano la fissità della sua intelligenza e delle sue affezioni. La sua storia, a differenza di quella di M., ci è nota. Dopo un’infanzia trascorsa al castello di Chantilly, giocando speso col duca d’Enghien, gli eventi rivoluzionari la costrinsero ad emigrare. Affidata ad una vecchia signora per la sua educazione, l’aggravarsi degli eventi politici ed il sopraggiungere della miseria la relegarono in una condizione di progressivo abbandono. Aveva circa sedici anni quando le giunse la notizia della morte del suo compagno di giochi d’infanzia, quel duca d’Enghien che sognava forse un giorno di sposare. I suoi capelli ingrigirono d’improvviso, la sua mente barcollò. Spedita in manicomio, visse molti anni ancora. Raffigurata sul letto dove Esquirol la descriveva costantemente seduta, dai pochi monosillabi che di tanto in tanto pronunciava a bassa voce si poteva dedurre che vedesse o che aspettasse qualcuno. Restia a rispondere alle domande che le venivano poste e a nutrirsi, si spostava sui glutei come una persona senza gambe, aiutandosi con le braccia. Non distoglieva mai lo sguardo dalla finestra vicina al suo letto, attraverso la quale sembrava vedere o sentire qualcuno che fissava la sua attenzione. Il rifiuto del mondo, l’eterna attesa di qualcosa che non c’è, che sfociava talora nell’allucinazione vera e propria, rendevano emblematico questo caso al pari del precedente. Le immagini qui riportate sembrano rimandare a quel culto romantico per la magrezza descritto da Macchia e da me citato in precedenza. Ed anche nei suoi tratti generali, come nelle vicende particolari di coloro che ebbero a soffrirne, è palese come la lipemania esquiroliana abbia molto del “mal du siècle”. Si può dunque ben lasciare il termine “mélancolie” ai poeti e restare debitori delle loro suggestioni. Non era dunque solo la natura clinica della lipemania a distaccarla dalla tradizione, né solo la sua manicomizzazione. Era anche nel persistere di quei legami che invano la psichiatria ottocentesca tentò di recidere che essa risultava a mio avviso inassimilabile alla millenaria tradizione che da Ippocrate ed Areteo giunge fino a noi.

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Se nei casi da me riportati la depressione del tono emotivo e generale giungeva a tangere il monoideismo e la stupidità, Esquirol descriveva il darsi di una seconda categoria di lipemaniaci. In costoro, l’estrema suscettibilità li rendeva inquieti ed inclini ad un’estrema mobilità. In ogni caso, ci si trovava a detta del celebre psichiatra sempre dinanzi a un disturbo che, per quanto profonde ne fossero le lesioni emotive ed intellettuali, risultava sempre e comunque parziale. Nonostante il loro dolore li conducesse come visto ad isolarsi dal mondo e ad interrompere quasi in toto le relazioni con esso, i lipemaniaci preservavano tanto i loro sentimenti morali quanto la capacità di comprendere ciò che li circondava. Se questo contribuiva a delineare come meno nefasto il loro quadro clinico, non poteva al contempo che rendere ancor più dolorosa la loro condizione.

3. La lipemania nella storia: il caso di Théroigne de Méricourt

Nel definire l’ambito delle proprie competenze, la moderna psichiatria andò elaborando sin dalle origini ambiti d’applicazione che esulavano dalla semplice gestione manicomiale della follia. Per mezzo della scienza psichiatrica si riteneva ad esempio di poter giungere ad una nuova comprensione degli eventi del nostro passato. Fatti rimasti insoluti, o la cui spiegazione rimandava tradizionalmente a cause d’origine soprannaturale, sembravano adesso riconducibili entro una spiegazione d’ordine razionale. Se fa parte dell’armamentario retorico di tutta la psichiatria ottocentesca il richiamare esempi celebri tratti dalla storia, si assiste talora ad una più dettagliata analisi di questi casi. Ritengo sia importante soffermarsi su questo aspetto. Parallelo al tema del genio artistico e letterario corre infatti quello del genio inteso come artefice del destino storico di un popolo. Alla figura di re, condottieri e sobillatori è stato spesso accostato il tema dell’alienazione mentale. E così come l’avvento di nuove categorie nosografiche dischiudeva di volta in volta un modo nuovo di guardare alla creatività artistica, il loro succedersi portò gli psichiatri a concepire in modo diverso la relazione tra la follia e gli eventi del nostro passato più o meno remoto. Ecco dunque che il rimando al piano dell’analisi storica diventa essenziale per il conseguimento di una più completa panoramica riguardo al tema del genio nella psichiatria ottocentesca.

Nella galleria di lipemaniache presentateci da Esquirol, ce n’è una che consente di esplorare immediatamente il rapporto tra storia ed alienazione mentale. Si tratta di Théroigne de Méricourt (vedi figura 5), donna le cui burrascose vicende esistenziali furono lo specchio fedele dell’evolversi in Francia degli eventi che

fecero seguito alla presa della Bastiglia23. Nell’esempio che analizzerò, si può dire

che la storia è colta da Esquirol nel suo stesso farsi. Si trattava di eventi di cui era stato lui stesso testimone. Si guardava qui ad un passato molto prossimo, la cui complessità rendeva però non meno utile l’ausilio della scienza psichiatrica. Anzi,

23

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proprio in virtù di tale prossimità non c’era il bisogno di fare ricorso ad alcuna diagnosi retrospettiva.

Qual’era dunque la storia di questa celebre paziente? Théroigne nacque in Lussemburgo, figlia secondo alcuni d’una cortigiana. Giunta in Francia, giocò a detta di Esquirol un ruolo alquanto deplorevole nei primi anni della Rivoluzione. Aveva allora intorno ai trent’anni, e dopo essersi concessa a diversi capi del partito popolare, li servì utilmente in gran parte dei moti. In particolare, il 5 e 6 ottobre 1789 contribuì a corrompere il reggimento delle Fiandre, conducendo tra i ranghi donne di malaffare e distribuendo soldi ai soldati. Inviata nel 1790 a Liegi per sollevare il popolo, ottenne in tale occasione il grado militare. Catturata dagli austriaci e poi liberata nel dicembre del ’91, fece ritorno a Parigi. Qui tornò ad affacciarsi sulla scena rivoluzionaria, arringando il popolo al fine di ricondurlo al moderatismo e alla Costituzione. Ben presto però i giacobini si impadronirono di lei. Eccola allora col berretto rosso in testa, la spada al fianco e la picca in mano, comandare l’esercito delle donne. Giocò di certo un ruolo importante negli eventi del settembre ’92, per quanto non vi siano prove che partecipasse direttamente ai massacri. Quando fu infine stabilito il Direttorio e vennero chiuse le società popolari, Théroigne perdette la ragione. Mandata alla Salpêtrière nel novembre del 1800, al suo arrivo era in preda ad una febbrile agitazione. Lanciava a tutti ingiurie e minacce, parlando di continuo di libertà e di comitati di salute pubblica, ed accusando chiunque di essere un moderato o un filo-monarchico. Ricoverata di nuovo nel 1807, palesò un atteggiamento molto più languido e pacato. Durante questo secondo ricovero venne affidata alle cure di Esquirol, che descrive il modo in cui, nel 1810, la quiete della sua paziente scivolò nella demenza, in cui traspariva talora l’ombra delle sue antiche idee dominanti. Insofferente al vestiario, più volte al giorno inondava il proprio giaciglio con dei secchi d’acqua, per poi sguazzare a piedi nudi per la stanza. Se contraddetta in uno dei suoi propositi diveniva furiosa, ed una volta morse una delle sue compagne con forza tale da strapparle un lembo di carne. Incapace di elaborare uno scritto, rispondeva a malapena alle domande che le erano poste. In tale frangente, la maggior parte delle volte asseriva di aver dimenticato, o si limitava a biascicare parole come “libertà” o “rivoluzione”. Non abbandonava quasi mai la sua cella, e sembrava aver perso ogni senso del pudore. Era infatti solita mostrarsi nuda agli uomini senza dar prova di disagio alcuno. Morì a 57

Figura 5 – A. Tardieu, Théroigne de Méricourt

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anni, e l’autopsia rivelò l’aderenza al cranio della dura madre ed il colon

trasverso, che aveva mutato direzione ed era sceso fin dietro il pube24.

Il ritratto esquiroliano della celebre eroina rivoluzionaria è alquanto impietoso e di certo non molto simpatetico. Volubile, lasciva ed impulsiva, Théroigne era l’incarnazione dei lati più deteriori della natura femminile, spinti in lei ad un eccesso patologico. Dopo una vita in balia di eventi tempestosi, ci appare da ultimo come un relitto arenatosi su una spiaggia abbandonata. Del resto, quello del rapporto tra follia e sommosse popolari è un tema che avrà ampia diffusione nella psichiatria ottocentesca. In Esquirol, però, non credo si possa ravvisare il tentativo di patologizzare gli eventi rivoluzionari. Il ribelle non si configurava qui come tale in quanto alienato mentale. Si ha piuttosto l’impressione che le forti emozioni che accompagnavano sempre tali epoche travagliate potessero sconvolgere le menti più fragili. La psiche di Théroigne, prostrata dalle impressioni ricevute nei tumultuosi anni della sua fervida attività rivoluzionaria, tracollò nel momento in cui vide deluse ancora una volta le sue speranze. Malattia di natura avventizia, la lipemania si poneva dunque in un rapporto di natura passiva con la storia. Non è dunque un caso, da questo punto di vista, che

ad essere icona di tale modello relazionale fosse una donna25. Spinta nel vortice

della storia dall’impeto delle proprie emozioni, era per natura destinata ad esserne più vittima che protagonista. Si può dunque asserire, in conclusione, che la pazzia di Théroigne descrittaci da Esquirol era figlia di una “femminilità” spinta all’eccesso.

Diversa la rappresentazione che ce ne darà, diversi anni dopo, Augustin Cabanès. In un articolo comparso sulla rivista da lui fondata e diretta, infatti, la follia di

Thèroigne viene ad essere retrodatata26, finendo in tal modo per coincidere con i

primi atti della sua vita pubblica. Cervello congenitamente tarato ed incline al delirio, i movimentati eventi rivoluzionari portarono a maturazione le sue idee di persecuzione e di grandezza. Il quadro della vicenda muta in maniera netta, e con esso anche la percezione della femminilità della protagonista. Sempre attento alle fonti iconografiche, Cabanès rimarca tale cambiamento affiancando, alla tavola di Tardieu, immagini raffiguranti Thèroigne durante la sua giovinezza, prima del manifestarsi della sua follia (vedi figura 6)

24 Quello del colon trasverso era per Esquirol un rilievo autoptico la cui importanza non era mai

stata prima rilevata. Come giustamente osservato da Starobinski, la sua frequenza nei lipemaniaci finiva per giustificare il persistere, nella moderna medicina, della prassi terapeutica inaugurata dagli Antichi. Così come questi ultimi prescrivevano l’elleboro, i contemporanei del celebre psichiatra francese tentavano con emetici e medicamenti vari di restituire tono ai visceri dell’addome (Cfr. J. Starobinski, Storia del..., p. 72).

25 A tal proposito, ha ragione Pigeaud nel sottolineare come, per quanto Esquirol asserisse che le

donne erano meno colpite degli uomini dalla lipemania, egli finì poi per presentarci tre casi di donne lipemaniache. (Cfr. J. Pigeaud, op. cit.).

26 Cfr. A. Cabanès, La folie de Théroigne de Méricourt, in <<La Chronique Médicale>>, IV (1897),

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Figura 6 – Le immagini di Théroigne pubblicate da Cabanès

La scelta non è certo casuale. Oltre al palese deperimento fisico, il raffronto rende palese l’emergere di una crescente trascuratezza e dimenticanza di sé. In special modo nella seconda figura, la salute è messa in relazione con atteggiamenti di vanità e di civetteria ritenuti fisiologicamente femminili. Nel raffronto operato invece nella prima immagine, la follia di Thèroigne coincide con l’assunzione da parte della sua fisionomia di una natura marcatamente mascolina. La sua follia emerge dunque nel momento stesso in cui rinuncia alla propria femminilità per farsi artefice del proprio destino. E’ il suo stesso voler divenire protagonista sulla ribalta storica ad essere designato quale incontrovertibile indizio di alienazione mentale. Da una pazzia figlia di una passività esasperata dagli eventi, si giunge così ad una causata dalla rinuncia a tale passività. Il cambiamento è notevole. Da un ammonimento intorno al pericolo rappresentato dai tumulti rivoluzionari per gli animi particolarmente sensibili si passa alla stigmatizzazione di ogni atteggiamento che travalichi i limiti all’agire sociale naturalmente definiti. Rimarcare tale mutamento consente di

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cogliere meglio la peculiarità della diagnosi lipemaniaca applicata da Esquirol ad una vicenda del suo recente passato.

E’ ora venuto il momento di vedere come la stessa diagnosi fu utilizzata in Italia per tentare di risolvere l’enigmatico legame della follia tassiana col suo genio creativo.

4. La lipemania di Torquato Tasso

Sin dagli inizi della sua controversa vicenda biografica, la figura di Torquato Tasso è stata associata al tema della malinconia. Come dar ragione altrimenti dei suoi sospetti patologici, delle sue continue fughe, dei suoi timori religiosi? Quale altro modo di rendere conto delle sue visioni? L’imbarazzo di Manso dinanzi alle stranezze dell’uomo del quale si dedicava a celebrare la grandezza è palpabile. Ecco dunque che il ricorso alla natura atrabiliare della sua complessione offriva una via di fuga. Tasso non era un “mentecatto”. Le tormentate vicende della sua esistenza finirono per esasperare la sua indole malinconica, facendogli salire alla testa dei “vapori” che perturbarono la memoria e la fantasia del grande poeta. Si trattava, scriveva Manso, di quella che i Greci chiamavano malinconia “ipocondriaca”, in cui non era guastato né il cervello né qualsiasi altro organo legato alla facoltà immaginativa. In conclusione, non erano che disturbi transitori, incapaci di compromettere l’estro creativo del povero Torquato. Nel farne icona malinconica, l’Ottocento romantico non inventò dunque niente, limitandosi a fornire ulteriore sviluppo ad una tesi vecchia quanto la narrazione biografica tassiana. Ad interessarmi però qui è il modo in cui la medicina del XIX secolo contribuì a tale processo. Ce ne dà una prima significativa testimonianza un medico italiano, Stefano Giacomazzi. Nei suoi Dialoghi egli metteva in scena, in un’amena cornice campestre, una serie di dibattiti intorno a diversi aspetti

della vicenda tassiana27. Il terzo dialogo aveva per oggetto le malattie di

Torquato Tasso, ed è su di esso che incentrerò la mia attenzione. Per bocca del medico Giacomo Coletti veniva esposta una tesi che segnava un radicale mutamento rispetto alla tradizione inaugurata da Manso. Il disturbo mentale dell’autore della Liberata veniva ancora descritto come melanconia, concepita però come disturbo monomaniaco, che lasciava per il resto la mente del grande

poeta sanissima28. Collocare il disturbo entro la cornice esquiroliana non era un

mutamento da poco. Comportava innanzitutto il ricollegarlo ad una peculiare lesione cerebrale, per quanto circoscritta. Come visto, proprio quanto Manso si era lungamente affannato a smentire. Inoltre, si giungeva in questo modo ad un radicale mutamento concettuale: non si affermava più che Tasso fu un grande

27 Cfr. S. Giacomazzi, Dialoghi sopra gli amori, la prigionia, le malattie ed il genio di Torquato Tasso, Brescia, Cavalieri, 1827.

28 L’origine della lipemania tassiana è ricondotta da Giacomazzi ad una gastro-encefalite, al cui

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poeta nonostante la sua indole malinconica, né che fu l’attività poetica ad esasperare quest’ultima. Lirico eccelso lo divenne proprio in virtù della predisposizione a quella malattia mentale manifestatsi dopo i trent’anni:

Io dico dunque, che quello che noi chiamiamo estro poetico ecc., altro non è che un trasmodato e rapido avvicendamento di pensieri, d’idee, di comparazioni, di giudizi e di sentimenti, che ha luogo ne’ grandi poeti, allorché dicono d’essere dalle Muse inspirati. Il quale avvicendamento non può da altro dipendere che da una particolare mutazione dello stato delle molecole cerebrali, mutazione, la quale o provenga da leggera e fugace infiammazione di esse molecole, o da pressione, o distendimento che nella massa del cerebro o in qualche parte di esso soltanto succeda, o da qualsiasi altra arcana causa, avviene sicuramente, poiché non si danno effetti senza cagioni.29

L’estro geniale sarebbe dunque reso possibile da una peculiare conformazione delle cellule cerebrali, destinata spesso a favorire in un secondo momento l’insorgere di qualche disturbo patologico. Genio e follia restavano quindi relegati in due distinti momenti esistenziali. Giacomazzi distingueva anzi esplicitamente le ispirazioni poetiche dalla pazzia. Gli accessi di pazzia erano a suo dire lunghi ed indeterminati, e i malati non erano consapevoli del disordine di idee e sentimenti che li accompagnava. I rapimenti poetici, per contro, erano di solito brevissimi, ed il loro contenuto era ordinato al fine propostosi dal poeta, che poteva talora rinnovarli a piacimento con l’ausilio di espedienti artificiali.

Entro la medesima cornice nosografica andava ad inserirsi anche il secondo dei contributi che intendo passare in rassegna, ovvero la celebre memoria sulla lipemania del Tasso letta da Andrea Verga nell’aprile del 1845, durante

un’adunanza del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere30. Si trattava di

un’analisi più approfondita della vita del grande poeta e dei suoi disturbi mentali. La lipemania veniva descritta a tal proposito come l’unica possibile chiave d’interpretazione per sciogliere gli enigmi che ancora avvolgevano la vita dell’autore della Liberata e mettere infine d’accordo tra di loro i biografi, dissipando le illazioni d’ogni genere ancora in voga.

Nato da donna che morì in giovane età in preda a delirio e da un padre che soffrì di accessi ben caratterizzati di melancolia, Tasso manifestò sin dalla prima infanzia atteggiamenti singolari, spesso forieri della pazzia più che del genio. Aveva infatti appena sei mesi quando iniziò a parlare, spesso a sproposito. Si dimostrò durante tutta l’infanzia di rado incline tanto al pianto quanto al riso, palesando in compenso un incredibile trasporto per la scuola, dove a quanto pare bisognava accompagnarlo che ancora albeggiava, tanto smaniava di andarvi. Naturalmente, palesò negli studi doti prodigiose, padroneggiando a sette anni il

29 S. Giacomazzi, op. cit., pp. 173-174. 30

Cfr. A. Verga, Sulla lipemania del Tasso. Frammento di un lavoro sulle allucinazioni, in Studi

anatomici sul cranio e sull’encefalo, psicologici e freniatrici. Volume terzo – Parte psicologica e frenopatologica, Milano, Manini – Wiget, 1896, pp. 188-197.

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greco ed il latino e a dodici anni la retorica31. Accadde poi che alla corte di Ferrara, dove quest’intelletto prodigioso pareva destinato a rifulgere, la mente del Tasso vacillò e si estinse. L’invidia degli altri cortigiani, le maldicenze, un amico che tradisce segreti irripetibili. Non era preparato a niente di tutto ciò, e ne rimase travolto. Iniziarono i sospetti, i dubbi senza fine, le fughe ed i ritorni. Al culmine di tutto ciò, il ricovero al Sant’Anna. Deciso dal duca d’Este con le migliori intenzioni, veniva ad essere vissuto dal Tasso alla stregua di una punizione ed una condanna. Le sue lettere ci raccontano di come durante la reclusione si credesse vittima di svariati sortilegi e dei dispetti di un folletto che lo aveva preso di mira, sottraendogli quanto scriveva e i pochi averi che gli rimanevano. Tornato libero, riprese a girovagare per la penisola fino alla fine dei suoi giorni.

Tirando le somme, Verga riteneva Tasso l’esempio perfetto di delirio circoscritto

a una sola idea o ad un’unica serie di idee32. Quale natura assunse dunque in lui il

legame tra genio e follia? Su tale questione il celebre psichiatra non si

pronunciava, astensione cui si rivelerà propenso ad attenersi anche in seguito33.

Secondo lui, nel caso in questione compito della psichiatria era contribuire a dissipare le leggende intorno alla prigionia del Tasso. Ciò che anzitutto si ottenne, nel certificare che il grande poeta era effettivamente un alienato, fu di assolvere Alfonso d’Este da ogni accusa rivoltagli nel corso dei secoli. A tal proposito, non bisogna dimenticare che si era in quegli anni in pieno Risorgimento. Ferrara era allora impegnata nella lotta per la propria indipendenza, come la Milano di Verga, all’epoca in rivolta contro la dominazione austriaca. Si è per questo sostenuto che purgare dalle sue ombre l’epoca estense, per i Ferraresi apice della loro gloria storica, era un modo per

sostenerne i sentimenti patriottici34. L’ipotesi sta in piedi, ma mi trovo più

propenso a fornire una spiegazione alternativa. Verga non si limitava a dimostrare la follia del Tasso, ma come visto operava una diagnosi ben precisa. Nel definirlo un lipemaniaco, riconduceva da ultimo alle sue patologiche geremiadi tutta la bagarre biografica scatenatasi in seguito. Del resto i

31 Nel riportare questa serie di aneddoti relativi all’infanzia del Tasso, Verga palesava un chiaro

debito nei confronti del Manso, a cui lui stesso ammetteva in una nota di essersi in larga parte rifatto per ricostruire la vita del grande poeta. La scelta era discutibile, visto che la scarsa affidabilità del Manso era ben nota già all’epoca. Quanto detto in merito all’infanzia del Tasso basta del resto a confermarlo. Proponendosi il celebre psichiatra di far luce su una vicenda tanto intricata, era questo un limite di fondo non da poco.

32 Verga sosteneva che si fossero palesati in Tasso tutti e tre i gradi della melancolia descritti da

Chiarugi: volgare (in cui il timore predomina sulla tristezza) errabunda ed attonita. Solo nel terzo stadio la sua melanconia divenne “sensoria”, accompagnata cioè da frequenti allucinazioni.

33

Cfr. A. G. Bianchi, La patologia del genio e gli scienziati italiani. Invitato ad intervenire sulla questione, Verga se ne astenne, sostenendo che mancassero i presupposti scientifici per una netta presa di posizione in materia.

34

Cfr. P. F. Peloso, Andrea Verga: un posto per la follia nella vicenda umana e letteraria di

Torquato Tasso, in <<Rendiconti dell’Istituto Lombardo (classe di scienze chimiche e fisiche,

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lipemaniaci <<sono i matti più malagevoli a governarsi, e che più facilmente

compromettono la reputazione degli ospizi>>35. Era naturale che i lamenti di uno

di loro, per di più tanto celebre, avessero potuto trarre in inganno molti uomini d’ingegno. Era per questo che risultava necessario l’intervento dello psichiatra, capace di distinguere quanto si nascondeva dietro l’apparenza di un pieno possesso delle proprie facoltà mentali. Tasso diventava dunque un esempio celebre volto a testimoniare dell’imprescindibilità del contributo psichiatrico per far luce su casi-limite come questo. Più che un gesto patriottico, quella di Verga mi sembra dunque propaganda professionale. E per una psichiatria allora impegnata anche da noi a reclamare il suo spazio sociale, ciò non stupisce. Del legame tra genio e follia come visto non si diceva niente. Veniva però ad essere ulteriormente sancita quella diagnosi di lipemania che faceva del Tasso un poeta dal cervello morbosamente predisposto.

L’opinione di uno psichiatra tanto autorevole non poteva rimanere inascoltata36.

Colpisce però riscontrare la sua netta convergenza di idee con un importante

critico letterario, Francesco D’Ovidio. Riallacciandosi in un suo saggio37 alle

dispute sulla figura di Torquato Tasso, D’Ovidio esprimeva l’opinione per cui furono un confluire di ragioni esterne e soprattutto interne a fare del grande epico una vittima della sua stessa natura. La malattia che lo condusse al Sant’Anna fu a suo dire tanto palese da sembrare implausibile che vi sia disputato tanto su. Si trattava a tutti gli effetti di un disturbo monomaniaco, di cui danno ampia dimostrazione le frequenti allucinazioni e la sospettosità patologica. Trattandosi di un lipemaniaco, non bisognava del resto prestare troppa fede ai suoi lamenti. Al riguardo, D’Ovidio diceva di essere giunto alle

35

A. Verga, op. cit., p. 197. Tra gli indizi decisivi del disturbo mentale da cui Tasso era affetto, Verga citava le lettere da lui scritte dopo l’esplosione del delirio. Piene di un generico risentimento, mancavano di una sua più dettagliata definizione. Il celebre psichiatra rilevava come Tasso non scendesse mai nei particolari, com’era tipico dei lipemaniaci.

36 Il tema della lipemania tassiana sarà ripreso da Filippo Cardona in un articolo comparso nel

1873 sulla <<Nuova Antologia>>. Per quanto le allucinazioni di cui il poeta fu vittima vengano ritenute un frutto delle credenze dell’epoca più che un indizio patologico vero e proprio, l’autore finisce per concordare con la diagnosi di Verga. A suo dire, la lipemania tassiana era però intervallata da momenti di lucidità, e al peggioramento del suo quadro clinico contribuirono gli infausti medicamenti dell’epoca (Cfr. F. Cardona, Studi nuovi sopra del Tasso alienato, in <<Nuova Antologia>>, VIII (1873), vol. 22 (gennaio-aprile), pp. 387-410). In un breve ma interessante intervento sull’Archivio fondato proprio dal Verga, Cesare Bonfigli si soffermerà invece su una questione più specifica. Rifacendosi alle parole di Fortunio Liceti, uno dei medici che all’epoca ebbe in cura Tasso, lo psichiatra nega che la melancolia del grande poeta possa esser stata originata dalla composizione del quarto canto della Liberata. Lo sforzo d’immaginazione compiuto per rappresentare il consiglio dei demoni servì però a determinare il contenuto delle allucinazioni, conferendo quindi una forma ad un delirio melanconico già esistente (Cfr. C. Bonfigli, Perché in Torquato Tasso malato le allucinazioni e le idee ebbero colore

demonomaniaco, in <<Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le

alienazioni mentali>>, XXIV (1887), pp. 365-367).

37 Cfr. F. D’Ovidio, Il carattere, gli amori e le sventure di Torquato Tasso, in Saggi critici, Napoli,

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stesse conclusioni di Verga38. E spingendosi oltre, ne traeva le conclusioni relative al genio dell’autore della Liberata che lo psichiatra milanese si era rifiutato di trarre. Secondo il critico, Tasso non era stato né un grande intelletto né un grande carattere. Il suo spirito era vivace, pronto, soavemente malinconico, ma superficiale e fantastico. Se da un lato dunque la melancolia ispirò la sua sensibilità poetica, dall’altro finì per limitare non poco le sue doti creative Per questo poté riuscire solo a rappresentare un immaginario mondo epico. Nonostante una vita piena di errori, non vi fu colpa alcuna da parte di Tasso, vittima degli eventi e delle sue stesse debolezze. Del genio malinconico caro ai Romantici e figlio di una tradizione millenaria sembrava non restare traccia alcuna. Il tenue legame organico che in Giacomazzi ancora univa genio e malinconia qui si spezzava. La malattia mentale tarpava le ali all’estro, e dai suoi dolori non sembravano poter nascere che sterili lamenti o fughe fantasiose in un mondo di dame e cavalieri.

Non sarà però questo l’esito finale della vicenda patografica tassiana nell’800. Lungi dal permanere quale modello immutabile, l’impianto nosografico esquiroliano era destinato ad essere oggetto di numerose critiche, in patria e all’estero. Il conseguente imporsi di nuove forme di alienazione mentale porterà a modi diversi di guardare alla vicenda di Torquato Tasso.

5. Circolo morboso

Tra il 1853 e il 1854 ebbe luogo in seno alla Société médico-psychologique un

lungo dibattito intorno al concetto di monomania39. Tra i principali protagonisti

della discussione vi fu Louis Delasiauve, che pur ammettendo l’esistenza dei disturbi monomaniaci, rifiutava la terminologia proposta da Esquirol, ritenuta

priva di un significato preciso40. Circoscrivendo invece la propria analisi al

disturbo oggetto delle mie precedente osservazioni, Jules Baillarger criticava la scelta esquiroliana di collocare la lipemania tra le lesioni parziali dell’intelletto. Nella melancolia si assisteva infatti a suo dire ad una generale depressione delle facoltà raziocinanti ed affettive. Risultava dunque forzato volerla annoverare tra

38

Rispetto allo psichiatra milanese, D’Ovidio si mostrava meno incline a prestar fede alle buone intenzioni del Duca d’Este. Se da un lato sarebbe risultato calunnioso asserire che Alfonso volesse punire Tasso per ragioni personali, dall’altro sarebbe stata un’ingenuità voler credere che sperasse davvero di vederselo un giorno davanti guarito. Secondo il critico, al Duca interessava soltanto toglierselo di torno durante i festeggiamenti per il suo matrimonio con Margherita Gonzaga.

39 Cfr. Discussion sur la monomanie, in <<Annales médico-psychologiques>>, XII (1854), pp.

99-644.

40

Delasiauve aveva già espresso considerazioni simili in merito al concetto di lipemania. A suo dire, anche in questo frangente la terminologia esquiroliana non rappresentava un reale progresso rispetto alle vaghe distinzioni operate dalla medicina antica. Sin troppo facile era ad esempio confondere la lipemania col delirio sensoriale, posto che anche nella prima le allucinazioni giocavano un ruolo decisivo. (Cfr. L. Delasiauve, Du diagnostic différentiel de la

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le monomanie41. L’esistenza di queste ultime era infine negata da Alexandre Brière de Boismont. Essendo a suo dire le facoltà dello spirito solidali tra loro, non poteva che risultare impossibile concepire una lesione circoscritta ad una di esse42.

Come era inevitabile, il tramonto dell’egemonia esquiroliana non poteva che condurre all’emergere di un nuovo modo di comprendere e classificare i disturbi mentali. Testimonianza significativa dei nuovi scenari che andavano aprendosi fu la polemica esplosa tra Baillarger e Jean – Pierre Falret intorno al concetto di

“follia circolare”43. Quella che il primo intendeva descrivere era una nuova

malattia mentale, da lui denominata “folie à double forme”. In essa, si alternavano una fase in cui si assisteva ad un generale eretismo delle facoltà del soggetto ed una in cui si verificava una loro generale depressione. Nella quasi totalità dei casi, l’alterarsi del tono emotivo non conduceva alla genesi di idee deliranti, ed il ripetersi del ciclo era solitamente interrotto da un intervallo di lucidità, la cui durata variava da paziente a paziente. Come precisato in seguito

dallo stesso Baillarger44, sua pretesa non era certo quella di essere stato il primo

a riscontrare tale circolarità. All’alternarsi di mania e melancolia, infatti, aveva già dedicato importanti osservazioni Wilhelm Griesinger. Ed era stato Falret il primo a parlare esplicitamente di una forma circolare, in cui le due patologie si alternavano senza esprimere tutti i loro sintomi ma solo le proprie caratteristiche di fondo. A detta di Baillarger, nessuno dei due aveva con ciò voluto descrivere una nuova malattia, ma solo una nuova forma di decorso, mentre lui era invece consapevole di trovarsi di fronte ad una forma inedita di alienazione mentale. Falret, per niente d’accordo, sostenne di aver descritto per primo la patologia introdotta dal connazionale, descrivendola col nome di “folie circulaire”. A detta

41

In merito alla questione cfr. anche J. Baillarger, Essai sur une classification des différents genres

de folie, in Recherches sur les maladies mentales, Paris, Masson, 1890. Originariamente

pubblicato nel 1853, il saggio espone una revisione dell’impianto nosografico esquiroliano, in cui la melancolia viene ad essere per l’appunto annoverata nella classe dei deliri con lesione generale.

42 Considerazioni analoghe a quelle di Brière si ritrovano anche nel celebre saggio di Jean - Pierre

Falret De la non-existence de la monomanie. Nelle pagine di questo studio si sostiene che il delirio non è quasi mai esclusivo. Tale può rivelarsi solo ad un osservatore superficiale o già proiettato ad individuare tale presunta parzialità. Per Falret era dunque necessario mettere le proprie aspettative tra parentesi e tornare ad un’osservazione accurata dei pazienti. (Cfr. J.-P. Falret, De

la non-existence de la monomanie, in Des maladies mentale et des asiles d’aliénés. Leçons cliniques et considérations générales, Paris, Baillière, 1864. Il saggio a cui rimando era stato

originariamente stampato nel 1854).

43 Cfr. J. Baillarger, Note sur un genre de folie dont les accès sont caractérisés par deux périodes régulières, l’une de dépression et l’autre d’excitation, in <<Bulletin de l’Académie impériale de

médecine>>, XIX (1853-1854), pp. 340-352 ; J.-P. Falret, Mémoire sur la folie circulaire, forme de

maladie mentale caractérisée par la reproduction successive de l’état maniaque, de l’état mélancolique, et d’un intervalle lucide plus ou moins prolongé, in <<Bulletin de l’Académie

impériale de médecine>>, XIX (1853-1854), pp. 382-400. Di seguito all’intervento di Falret viene riportato un ulteriore scambio di battute tra i due.

44 Cfr. J. Baillarger, De la folie à double forme, in <<Annales médico-psychologiques>>, XII (1854),

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del suo collega però quest’ultima, prevedendo un intervallo lucido non tra un ciclo e l’altro ma tra le due fasi, altro non era che una forma intermittente di alienazione mentale, in cui si alternavano due patologie tra loro distinte.

Dirimere la questione tra i due non è mio interesse. Credo sia invece importante rilevarne gli esiti sul lungo periodo. Se, stando a Baillarger, sembrava che il nuovo genere di follia individuato fosse destinato ad affiancare la mania e la melancolia, negli anni si andò facendo sempre più forte tra gli psichiatri la convinzione che

dovesse soppiantare entrambe45. Colpisce constatare come tale esito coincidesse

con quanto già rilevato a suo tempo da Bénédicte Auguste Morel46. Il grande

psichiatra francese fu il primo, grande oppositore programmatico del sistema esquiroliano. I dibattiti e le osservazioni da me riportate in questo paragrafo trassero origine dai suoi lavori, in cui non solo si sottoponeva a critica il concetto di monomania, ma anche la distinzione tra mania e melancolia. Si negava che queste ultime fossero forme essenziali. Nell’ottica qui proposta, non erano altro che meri stati sintomatici, rinvenibili in molte malattie mentali. La messa in discussione dei tradizionali confini nosografici vantava quindi in Francia una lunga ed importante tradizione. Gli esiti prefigurati da Morel, come sempre avviene, non si affermarono certo in modo univoco e lineare. Furono però

ampiamente discussi e finirono per godere di un credito sempre più ampio47.

Ritengo che sia suggestivo rinvenire l’emergere della tendenza ora descritta nella storia della psichiatria francese. Si riscontrano in tal modo sul lungo periodo convergenze con gli studi d’area tedesca che è importante sottolineare. Questo anche perché mettere in evidenza simili tendenze di fondo pone in risalto ancor di più l’isolamento al riguardo della psichiatria di casa nostra. Lo scetticismo che imperava intorno alla questione nel nostro paese trovò adeguata espressione in

un articolo di Silvio Tonnini del 188348. Lo stesso autore esordiva affermando che

quello della pazzia circolare o a doppia forma era un argomento poco trattato in Italia. E il dibattito avvenuto in Francia, che l’autore ripercorreva con dovizia di

45 Per Jules Falret, figlio di Jean-Pierre, la folie à double forme incarnerà la negazione più assoluta

della regnante classificazione delle malattie mentali (Cfr. J. Falret, Etudes cliniques sur les

maladies mentales et nerveuses, Paris, Bailliére, 1890, in part. pp. 584-620. 46

Cfr. B. A. Morel, Etudes cliniques. Traité théorique et pratique des maladies mentales, Paris, Baillière, 1852 ; B. A. Morel, Traité des maladies mentales, Paris, Masson, 1860.

47

Un articolo di Antoine Rémond e Paul Voivenel comparso tra il 1910 ed il 1911 sulle Annales testimonia di come invece la scuola francese tendesse a propagandare l’immagine di una propria uniforme adesione ad un modello alternativo rispetto a quello kraepeliniano, allora sempre più in voga. Le idee dello psichiatra tedesco venivano ritenute prive di un fondamento empirico. Pur ammettendo il darsi di forme circolari, gli autori sostenevano il sussistere di forme pure di mania e melancolia. Tra gli altri, anche Emmanuel Regis espresse il proprio supporto alle tesi degli autori. (Cfr. A. Rémond, P. Voivenel, Essai sur la valeur de la conception kraepelinienne de la

manie et de la mélancolie, in <<Annales médico-psychologiques>>, LXVIII (1910), pp. 353-379,

LIX (1911), pp. 19-51). Dietro l’apparenza di un’adesione uniforme alla soluzione di compromesso qui prospettata, si delineava invece come visto un quadro ben più complesso.

48 Cfr. S. Tonnini, La pazzia circolare, in <<Archivio italiano per le malattie nervose e più

(21)

particolari, non sembrava certo aver dissipato le perplessità sul tema. Anzi, la conclusione cui si perveniva era che, data l’estrema variabilità della ciclicità e la sua natura spesso difficile da definire, era forse preferibile parlare di mania o melancolia periodica a doppia forma. Insomma, lo psichiatra di scuola lombrosiana non faceva che certificare il persistere di un radicale scetticismo. Stando poi a quanto riportato alcuni anni dopo in un articolo di Silvio Ricca, esso

accompagnò anche l’avvento delle tesi kraepeliniane49. Morselli e Tanzi vengono

descritti come radicalmente contrari al venir meno della melancolia quale entità nosografica autonoma. Contro simile esito, a detta di Ricca, andavano anche i dati empirici. Da ciò, l’autore dell’articolo non deduceva però che la follia circolare fosse una forma nosologica da eliminare. Una piccola apertura, destinata comunque a non modificare nell’immediato un perdurante atteggiamento di chiusura. A fare davvero eccezione, nel contesto dell’epoca, è il lavoro di un altro medico, di cui è giunto adesso il momento di parlare.

6. Un contributo misconosciuto

Tra il 1879 e il 1890, Alfonso Corradi presentò al Reale Istituto Lombardo di

Scienze e Lettere una serie di lavori sulla figura di Torquato Tasso50. Il suo

operato sarà spesso citato da coloro che dopo di lui seguiteranno ad occuparsi della questione. In generale, però, i contemporanei videro nel lavoro di Corradi una sorta di approfondimento dei risultati esposti da Verga nella stessa sede più

di trent’anni prima51. Tale atteggiamento non rendeva affatto giustizia ad una

ricerca frutto di un lavoro lungo e meticoloso, la cui autonomia ed originalità credo vadano meglio messe in risalto.

49

Cfr. S. Ricca, Il problema odierno della melanconia, in <<Rivista sperimentale di freniatria>>, XXXIII (1907), pp. 76-103.

50 Cfr. A. Corradi, Le infermità di Torquato Tasso, in <<Rendiconti dell’Istituto Lombardo di scienze

e lettere>>, XII (1879), pp. 451-453; A. Corradi, Delle infermità di Torquato Tasso : raffronti medici

fra il Tasso e il Leopardi, in <<Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere>>, XIII

(1880), pp. 548-549; A. Corradi, Torquato Tasso nello Spedale di Sant’Anna, secondo nuovi

documenti, in <<Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere>>, XVII (1884), pp.

679-683; A. Corradi, Le ultime infermità e gli ultimi anni di Torquato Tasso, in <<Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere>>, XVIII (1885), pp. 839-841; A. Corradi, Il perché

della prigionia di Torquato Tasso (1579-1586) : complemento allo studio delle infermità di esso, in

<<Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere>>, XXIII (1890), pp. 702-709. Il testo per esteso degli interventi era poi pubblicato nelle Memorie del medesimo istituto.

Nato a Bologna il 6 marzo 1833, Corradi si laureò nel 1856 in medicina e chirurgia. Dapprima assistente all’Ospedale della Vita, divenne poi docente universitario a Modena, Palermo ed infine Pavia. Abbinava alle conoscenze scientifiche una notevole erudizione. Si occupò di storia della chirurgia, dell’ostetricia e dell’epidemiologia. Sul versante letterario, oltre ai numerosi studi dedicati a Torquato Tasso, da ricordare le sue Escursioni d’un medico nel Decamerone, che suscitarono all’epoca un notevole interesse.

51 Lo stesso Verga, nel corso dell’adunanza del 17 luglio 1884 del Reale Istituto, dopo aver

rammentato la sua lettura sulla lipemania del Tasso e le critiche ricevute all’epoca, si rallegra delle conferme che tale lavoro veniva ad accogliere grazie alle ricerche svolte da Corradi (Cfr. <<Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di scienze e lettere>>, XVII (1884), p. 650).

Figura

Figura 2 - L'incisione di Morghen ed il ritratto di Allori
Figura 3 - A. Tardieu, M.,  lipemaniaca
Figura 4 – A. Tardieu, Lipemaniaca
Figura 6 – Le immagini di Théroigne pubblicate da Cabanès

Riferimenti

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