Capitolo terzo: il rapporto con Kafka
1. Il volto di Giano
A Monaco Benjamin avrebbe avuto la possibilità di incontrare Franz Kafka, quando questi il 10 novembre 1916 vi lesse pubblicamente il racconto Nella colonia penale. Purtroppo Benjamin si lasciò sfuggire l’occasione, e spesso io mi sono domandato che cosa avrebbe potuto significare un incontro tra questi due uomini.1
L’interesse di Benjamin per Kafka fu dettato da un’affinità biografica prima ancora che intellettuale: difficile per lui non provare interesse verso un intellettuale tedesco di origini ebraiche vicino a posizioni materialiste e addirittura anarchiche ma lontano da qualsiasi ortodossia, sia essa di natura religiosa o politica.
La prosa kafkiana viene comunemente interpretata come una critica al potere statale, rappresentato attraverso una burocrazia assurda e angosciante, che si abbatte come un destino sul cittadino inerme e spaesato. Accanto a questo aspetto, è difficile negare in Kafka la presenza di elementi derivanti dall’ebraismo più aperto, quello dello studio individuale e della via di accesso personale alla divinità, come mostra ad esempio il noto racconto Davanti alla Legge, contenuto anche ne Il processo.
La critica all’autorità, che ha come punto di partenza la figura paterna, non manca di riversarsi contro i capi delle comunità ebraiche dell’Europa orientale, accusati di ingabbiare la Legge entro schemi interpretativi
1
immutabili. In questo senso va inteso anche l’interesse di Kafka per il chassidismo, corrente religiosa dell’est Europa caratterizzata da un forte rigore dottrinale, è di natura puramente polemica. Scrive a questo proposito Giuliano Baioni:
L’unico dato veramente significante nel fenomeno del chassidismo era per lui un’organizzazione di potere che si fondava in maniera illegittima e insindacabile sul principio paterno. Ora la genialità di Kafka è di avere intuito un’analogia tra due mondi diversi e lontanissimi che consentiva di fonderli in una similitudine. Da una parte c’era il movimento chassidico nelle forme della più palese corruzione della dottrina del potere dello zaddik che era una tirannica figura paterna; dall’altra c’era la società borghese mitteleuropea nelle forme paternalistiche della burocrazia asburgica.2
In questa convergenza di temi religiosi e politici, trattati entrambi con distacco critico, Benjamin riconosce quella tensione che è propria della sua filosofia nonché della sua storia personale. Da questo punto di vista è significativo notare come i due amici con cui più frequentemente Benjamin si trova a discutere dell’opera di Kafka siano Scholem e Brecht. Se il primo tenta di inquadrare lo scrittore entro una dimensione mistica, Brecht definisce Kafka “l’autore più bolscevico di tutti”. In queste meditazioni su
2
G. Baioni, Kafka. Letteratura ed ebraismo, Einaudi, Torino 1984, p. 160. Lo zaddik è un titolo religioso generalmente dato a coloro che vengono considerati giusti, come un maestro spirituale o un rabbino.
Kafka, come nelle riflessioni di filosofia del linguaggio, emerge quello che Benjamin stesso definisce il suo “volto di Giano”.3
All’interno di questa comunanza ideologica è possibile rintracciare numerosi elementi specifici che fanno di Kafka uno degli autori con cui Benjamin sente maggiore comunanza intellettuale, elementi che spaziano dalla letteratura al diritto per arrivare a riflessioni sulla storia molto simili, che danno la misura della vicinanza tra questi due autori.
2. La scrittura in Kafka
Nel 1931 Benjamin tiene una conferenza radiofonica sul racconto di Kafka Durante la costruzione della muraglia cinese4, scritto nel 1917 e rimasto inedito
fino alla morte dell’autore. Attraverso la narrazione di un funzionario che ha partecipato all’impresa, la costruzione della Grande Muraglia diventa un evento situato in un passato lontano, compiuto in nome di un potere distante e invisibile incarnato nella figura dell’Imperatore che viene venerato benché non se ne conosca non solo la volontà ma nemmeno il nome. Eppure, questo imperatore sconosciuto ha un messaggio personale indirizzato a colui che sta
3
Così Scholem in Storia di un’amicizia, op. cit. p. 302: Di quel volto di cui Brecht vede una faccia io, e di questo Walter non faceva con me alcun mistero, vedevo l’altra.
4
W. Benjamin, Durante la costruzione della muraglia cinese, in Opere complete IV, op. cit., pp. 449- 455.
leggendo la storia, il quale aspetta invano un messo che mai riuscirà a raggiungerlo, essendo impossibile superare gli infiniti ostacoli che i meccanismi del potere gli pongono davanti.
Sul senso di questa parabola, che presenta numerose affinità con il racconto Davanti alla legge, torneremo in seguito, tanto più che Benjamin in questo saggio non si sofferma tanto sull’interpretazione del racconto quanto sul significato complessivo dell’opera di Kafka, tema che sarà poi al centro del saggio del 1934 intitolato semplicemente Franz Kafka.5
Rifiutando un’interpretazione che racchiuda la prosa kafkiana all’interno di un sistema filosofico-religioso, interpretazione che era stata portata avanti principalmente da Max Brod – erede testamentario e curatore degli scritti di Kafka –, Benjamin propone di interpretare lo scrittore “a partire dal centro del suo mondo di immagini”. La prosa di Kafka è ricca di suggestioni e figure retoriche e per la sua forza figurativa si avvicina alla scrittura teatrale, che ha come suo centro l’elemento gestuale.
Tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti che non hanno già a priori un chiaro significato simbolico per l’autore, ma sono piuttosto interrogati al riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre nuove. [..] I gesti dei personaggi di Kafka sono troppo forti per il loro ambiente, e irrompono in uno spazio più vasto. Col crescere della sua maestria stilistica, egli rinunciò sempre più ad adattare questi gesti a situazioni normali, a spiegarli.6
5
W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus 'ovus, op. cit., pp. 275-305.
6
Il gesto assume un’importanza fondamentale per l’economia del racconto, consentendogli quell’apertura interpretativa che fa di Kafka un narratore, secondo quella contrapposizione tra romanzo e racconto che è al centro del saggio su Leskov analizzato nel capitolo precedente.
I romanzi bastano a se stessi. I libri di Kafka non bastano mai a se stessi, sono racconti gravidi di una morale che non riescono a dare alla luce. Così lo scrittore non ha imparato la lezione – se proprio si vuole parlare di questo – dai grandi romanzieri, bensì da autori molto più modesti, i narratori di racconti.7
Come i racconti, anche i romanzi di Kafka restano aperti a molteplici interpretazioni, non pretendono di consegnare ai lettori il “senso della vita”, ma al contrario stimolano un domandare continuo. Questo è dovuto in gran parte alla loro incompiutezza: tutti i tre grandi romanzi di Kafka sono rimasti incompiuti e, anzi, avrebbero dovuto essere distrutti alla morte dell’autore. Ciò che doveva conservarsi erano solo i racconti, alcuni dei quali sono ripresi nei romanzi, dove vengono inseriti in una cornice interpretativa più vasta. Era questo, probabilmente a spaventare Kafka: chiudere un racconto entro la legge del romanzo, fissarlo in un’interpretazione stabilita era quanto di più lontano dalla volontà di chi, per tutta la vita, aveva scritto contro il rigidismo delle Leggi e il potere dell’autorità.
La passione per il frammento e l’incompiuto è sicuramente uno degli elementi che maggiormente avvicinano la prosa di Kafka alla produzione benjaminiana, decisamente povera di grandi trattati. Ovviamente, questa
7
comune propensione all’incompiutezza e alla brevità non si esaurisce nel suo aspetto puramente esteriore: l’interesse di Benjamin per il frammento, la citazione, il racconto breve sono indicatori di quella concezione della verità “infranta” che abbiamo analizzato nei capitoli precedenti.
Allo stesso modo, l’incompiutezza propria della prosa kafkiana nasconde una sfiducia nella Dottrina, che si esprime stilisticamente attraverso l’uso della metafora.
Tutte queste metafore vogliono propriamente dire soltanto che l'incomprensibile è incomprensibile, e questo lo sapevamo già.8
L’uso della metafora in Kafka ricorda quella predilezione barocca per l’allegoria di cui Benjamin si è occupato ne Il dramma barocco tedesco. Entrambe si contrappongono al simbolo, che rimanda a una dimensione di unità e di completezza, testimoniata anche dall’etimologia del termine symbolon9. Nella metafora – così come nell’allegoria – questo rimando a una
dimensione ulteriore viene meno: l’inconcepibile resta inconcepibile. Ma, come segnala Adriano Fabris nel saggio Kafka e l’ermeneutica:
8
F. Kafka, Tutti i racconti, Mondadori, Milano 1970, p. 373.
9
È noto che in greco antico, il termine symbolon aveva il significato di "tessera di riconoscimento" o "tessera ospitale", secondo l'usanza per cui due individui, due famiglie o anche due città, spezzavano una tessera, di solito di terracotta, e ne conservavano ognuno una delle due parti a conclusione di un accordo o di un'alleanza, da cui anche il significato di "patto" o di "accordo" che il termine greco assume per traslato. Il perfetto combaciare delle due parti della tessera provava l'esistenza dell'accordo.
[Questa tautologia] non elimina il rinvio tout court, non distrugge il potere del segno, non impedisce la scrittura. Anzi: la rende più affilata, radicale, omnipervasiva.10
La metafora “vuota” non provoca dunque un arresto della scrittura ma, al contrario, si rivela uno strumento indispensabile per la sua continuazione. Si tratterà, ovviamente, di una prosa incerta, incompleta, che proprio attraverso la sua natura frammentaria mette in risalto l’elemento allegorico racchiuso in essa.
Accanto alla metafora, l’altro espediente retorico frequente nell’opera di Kafka è la parabola, attraverso la quale questa impossibilità d’interpretazione assume caratteri paradossali, esprimendosi proprio attraverso la forma narrativa tradizionalmente utilizzata per la chiarificazione della Dottrina. La parabola in Kafka diventa “un ponte che non raggiunge l’altra riva”, secondo l’espressione di Massimo Cacciari11.
Qual è, dunque, il senso di questa “parabola spezzata”, che nonostante non ci proietti più sull’altra riva resta “tuttavia necessaria”?
A rispondere idealmente a questa domanda è Benjamin stesso, che nel saggio del 1934 afferma:
Il verbo “dispiegare” ha un doppio senso. Se il bocciolo si dispiega nel fiore, il bastimento di carta, che si insegna a fare ai bambini, si “dispiega” in un foglio liscio. E questo secondo tipo di “spiegazione” è propriamente adeguato alla parabola, al
10 A. Fabris, Kafka e l’ermeneutica, in Humanitas. Nuova serie, anno LV, n.3/4, agosto 2000, ed. Morcelliana, pp. 553-567.
11
piacere del lettore di stenderla, finché il suo significato sia del tutto “piano”. Ma le parabole di Kafka si dispiegano nel primo senso, e cioè il bocciolo diventa fiore. Perciò il loro prodotto è affine alla poesia.12
Dopo averlo equiparato ai narratori di racconti Benjamin paragona Kafka al poeta, ovvero a colui che, come il traduttore, è più affine alla lingua pura. Tuttavia, il tentativo di riportare la poesia alla Dottrina – ovvero alla verità – è destinato al fallimento perché, come già abbiamo visto a proposito del saggio Sulla lingua, l’arte può soltanto alludere alla verità, senza che vi sia la possibilità di giungere a essa. Kafka sembra essere consapevole di questa impossibilità,
ciò non toglie che i suoi racconti non si risolvano interamente nella prosa occidentale e che stiano alla dottrina come l’Haggadah all’Halakah. Essi non sono parabole; ma non vogliono neppure essere presi per se stessi [..]. Possediamo forse la dottrina che è accompagnata dalle parabole di Kafka? Essa non c’è, e possiamo dire tutt’al più che questi o quel passo allude a essa.13
Con questo passo Benjamin ci introduce in considerazioni che non riguardano più solamente Kafka in quanto scrittore, ma che ci portano a considerare più da vicino il retroterra religioso da cui Kafka, come Benjamin stesso, proviene.
12
W. Benjamin, Franz Kafka, op. cit., p. 286.
13
3. Dottrina e tradizione
Innanzitutto un chiarimento terminologico: l’insieme degli scritti contenuti nel Talmud, uno dei testi fondamentali della cultura ebraica, si divide in due grandi categorie, l’Halakah e l’Haggadah. L’Halakah (via da seguire) rappresenta la tradizione giuridica, ovvero l’insieme delle sentenze dei rabbini di ogni epoca, che si rifanno tutte alla Legge rivelata a Mosè sul monte Sinai. L’Haggadah invece è la parte non giuridica del Talmud e comprende trattati di medicina, storia, arte, cultura, tutti caratterizzati da uno stile narrativo; il termine haggadah significa “racconto” ed è utilizzato solitamente per indicare la tradizione letteraria propria della cultura ebraica. È a questo senso più strettamente narrativo che Benjamin fa riferimento nel suo saggio: l’Haggadah rappresenta quella parte degli scritti che, a differenza dell’Halakhah, presenta una maggiore libertà interpretativa, anche a discapito del rigore dottrinale. Il racconto haggadico si esprime attraverso parabole e metafore ed è caratterizzato da una prosa che si interrompe continuamente, proprio come i racconti di Kafka:
Forse la sua prosa non è probativa, pure è tale che potrebbe essere introdotta ogni volta in contesti dimostrativi. Si pensi solo alla forma della haggadah – così gli ebrei chiamano le storie e gli aneddoti della scrittura rabbinica che servono alla spiegazione e alla conferma della dottrina, la halakah. Come le parti della haggadah nel Talmud, così anche questi libri sono dei racconti, una haggadah che si arresta continuamente,
indugia nelle più dettagliate descrizioni, nella speranza e nel timore a un tempo di imbattersi per strada nella norma e nella formula della halakah, la dottrina.14
Questo “timore” di venire a patti con la dottrina diviene, secondo quando Benjamin scrive a Scholem in una lettera del 12 giugno 1938, una precisa volontà di Kafka, che avrebbe sacrificato la verità per non rinunciare alla trasmissibilità, all’elemento haggadico.15
Quale scrittore immerso nella cultura tedesca, Kafka si rende conto dell’impossibilità di far sopravvivere la tradizione ebraica all’interno della società moderna. Come scrive Baioni:
L’ebreo occidentale, che nel Processo cercava la consolante verità della tradizione, là dove nessuna tradizione era più possibile, rappresentava l’uomo moderno tout court, così come la westjüdische Zeit, lungi dall’essere solo una particolare condizione storica dell’ebraismo mitteleuropeo, significava anche tutta la modernità. Si può pensare che il rifiuto di Kafka di staccarsi dall’elemento haggadico debba essere inteso come l’impossibilità di rinunciare alla letteratura. [..] L’ebreo occidentale, l’esteta, il Literat non aveva più al forza o la volontà di credere nella verità dell’Haskalah16.
Per questo era condannato a servirsi delle similitudini bellissime, ma ormai assolutamente intransitive della Haggadah. La poesia pura, la poesia senza
14
W. Benjamin, Durante la costruzione della muraglia cinese, op. cit., p. 451.
15
W. Benjamin, G. Scholem, Teologia e utopia, op. cit., p. 256.
16
L’Haskalah, o illuminismo ebraico, è una corrente che nasce e si sviluppa
nelXVIII secolo, nel momento storico che precede l'emancipazione ed il
significato e senza verità, la similitudine che non era più una funzione della Legge, significava l’esilio e la solitudine.17
Come già si è visto a proposito della metafora, la scrittura non si arresta davanti alla fine della tradizione, ma cerca disperatamente di continuare a esistere, anche a costo di sacrificare la Dottrina in favore di una sua, ormai paradossale, trasmissibilità.18
È questa “malattia della tradizione”, questo attaccamento al racconto ciò che, secondo Benjamin, rivela il fallimento della cultura ebraica mitteleuropea. Di questo fallimento Kafka è pienamente consapevole e, anzi, la lucidità e il fervore con cui lo ha messo in luce danno prova della genialità di questo scrittore, che attraverso i suoi racconti cerca di strappare la Tradizione al rischio dell’oblio, un oblio che Kafka sperimenta in prima persona e mette in scena attraverso la scrittura, cui affida l’ultimo baluardo di speranza contro il fallimento della Tradizione: la memoria.19
Citando Willy Haas, che ha individuato nell’oblio la colpa sconosciuta che provoca il processo contro K., Benjamin riconosce che la tesi secondo cui il
17
G. Baioni, Kafka. Letteratura e ebraismo, op. cit., pp. 153 e 174.
18
Interpretando in senso mistico il pensiero kafkiano, Scholem vede nello scrittore un esponente della teologia negativa. L’oggetto della sua prosa sarebbe dunque il “nulla di Dio” e il fallimento della tradizione deriverebbe dall’impossibilità di affidarsi alle scritture per trasmettere questo nulla. Ma perché parlare di un “fallimento” – quando egli ha veramente commentato, non fosse che il nulla della verità? (Lettera di Scholem a Benjamin del 6 novembre 1938. In W. Benjamin, G. Scholem, Teologia e utopia, op. cit., p. 269).
19
Di questo legame tra memoria e tradizione si è trattato nel capitolo precedente, a proposito del saggio su Leskov.
tema della memoria derivi dalla religione ebraica “non si può scartare alla leggera”. Nella tradizione tramandata di generazione in generazione l’ebreo europeo individua l’elemento unificante di un popolo disperso. Per questo la scrittura e lo studio dei Testi rivestono un ruolo così importante nella cultura ebraica: essi sono, accanto alla trasmissione orale, i veicoli attraverso i quali la tradizione viene conservata e riattualizzata.
Per questo Kafka nel già citato Delle metafore ci invita a diventare noi stessi metafore:
Perché resistete? Se assecondaste le metafore, diventereste metafore voi stessi e sareste così già affrancati dalla quotidiana fatica.20
Incarnare in se stessi l’elemento haggadico, come i condannati di Nella colonia penale, incidere la scrittura sulla propria pelle, farsi carico della memoria rifuggendo l’oblio, sforzandosi di ricordare: solo così K. sarebbe potuto sfuggire alla condanna.
Conversando con Brecht21 sul senso del racconto Il prossimo villaggio22
Benjamin afferma:
20
F. Kafka, Tutti i racconti, op. cit., p. 373.
21
W. Benjamin, Appunti Svendborg estate 1934. In Opere complete VI, op. cit, pp. 178-186.
22
F. Kafka, Tutti i racconti, op. cit., p. 197. Data la brevità del racconto, lo riportiamo qui per intero: Mio nonno soleva dire:” la vita è straordinariamente corta. 'el mio ricordo essa si restringe a tale brevità, che io per esempio non comprendo come un giovane possa decidersi a cavalcare fino al vicino villaggio senza temere che – a parte qualsiasi disgraziato accidente – lo spazio di una vita comune felicemente scorrente sia troppo breve per una simile cavalcata.”
Per parte mia, do la seguente interpretazione: la vera misura della vita è il ricordo. Il suo sguardo percorre fulmineamente la vita, all’indietro. Con la stessa rapidità con cui si sfogliano, all’indietro, alcune pagine, esso è giunto dal prossimo villeggio nel luogo in cui il cavaliere ha preso la decisione di partire. Coloro per cui la vita si è trasformata in scrittura, come i vecchi, possono leggere questa scrittura solo all’indietro. Solo così essi incontrano se stessi, e solo così – fuggendo il presente – possono capirla.23
La prosa di Kafka si immerge in questa dimensione lontana, in un passato che Benjamin definisce “preistorico”, da cui emergono quelle strane creature che popolano i romanzi e i racconti kafkiani dando testimonianza di un’era ormai dimenticata ma che, come vedremo, ha effetti anche sul nostro presente.
Tra queste creature c’è Odradek, protagonista del racconto Il cruccio del padre di famiglia, “il più strano bastardo che la preistoria abbia generato in Kafka con la colpa”. Questo strano essere, a metà tra l’animato e l’inanimato vive nelle soffitte, per le scale, nei corridoi, nel vestibolo. Gli stessi luoghi del tribunale, nota Benjamin, che aggiunge:
Odradek è la forma che le cose assumono nell’oblio. Esse sono deformate e irriconoscibili.24
E se, come Benjamin afferma in Durante la costruzione della muraglia cinese, la deformazione dell’esistenza è il tema intorno a cui ruota tutta l’opera di Kafka, significa che siamo giunti al cuore dell’interpretazione benjaminiana,
23
W. Benjamin, Appunti Svendborg estate 1934, op. cit., p. 184
24
un’interpretazione che vede della colpa un elemento centrale. Del resto, è evidente l’interesse di Kafka per la legge e la giustizia, tema su cui lo stesso Benjamin non ha riflettuto, come abbiamo avuto modo di vedere a proposito del saggio Per la critica della violenza.
4. Lo studio come porta della giustizia
Nel saggio Per la critica della violenza, la contrapposizione tra diritto e giustizia affetta anche la dimensione temporale, presentando il diritto come prodotto dell’era mitica i cui effetti continuano a valere anche nel presente. Alla giustizia invece è riservata una temporalità che non coincide con quella lineare ma che si interseca con essa nei momenti storici in cui la giustizia divina interviene all’interno del mondo.
Anche in Kafka si può ritrovare una distinzione tra il tempo del diritto, sostanzialmente identico al tempo del mondo, e la temporalità estatica della giustizia. Questo aspetto non è ovviamente sfuggito all’attenzione di Benjamin, che nel saggio del 1934 rintraccia in Kafka una terza dimensione temporale, affine a quella del mito ma precedente a essa. Si tratta, appunto, dell’era preistorica, il tempo delle leggi non scritte25 e dei codici inaccessibili
– come quelli del Tribunale di K. – che l’uomo può violare senza saperlo, incorrendo in un castigo che non è tanto conseguenza del diritto quanto del
25
Sebbene con un taglio più spiccatamente politico, il tema si ritrova nel racconto La questione delle leggi. F. Kafka, Racconti, op. cit., pp. 329-330.
destino, dimensione cui è impossibile sottrarsi. Come il destino è imperscrutabile, così nel sistema del Tribunale succede che “uno sia condannato non solo senza colpa, ma anche senza cognizione”.
Così almeno ritiene K. In realtà la colpa c’è, ma è sconosciuta o, forse, dimenticata: le leggi non scritte della preistoria facevano parte di quel patrimonio della tradizione orale che nei secoli si è andato perdendo, ma che conserva ancora la propria validità26 e che per questo attira l’attenzione del
Tribunale che “è attratto dalla colpa”, una colpa che agli occhi del condannato appare ancora più sottile, più vaga di quella di Niobe. D’altra parte, tutto ciò che viene dalla preistoria ha un aspetto vago e indefinito, come dimostrano Odradek e le altre creature che popolano la prosa kafkiana: Nessuna ha un posto fisso, contorni netti e inconfondibili; nessuna che non sia in atto di salire o cadere; nessuna che non si scambi col suo nemico o col suo vicino; nessuna che non abbia compiuto la sua età e non sia tuttavia immatura; nessuna che non sia profondamente esausta eppure all’inizio di una lunga durata. Non si può nemmeno parlare di ordini o di gerarchie. Il mondo del mito, che inviterebbe a farlo, è infinitamente più giovane del mondo di Kafka.27
26
Questo venir meno della conoscenza della dottrina è analogo a ciò Scholem intende con l’espressione “il nulla della rivelazione” (v. nota 138). Chiedi che cosa intenda con l’espressione “il nulla della rivelazione”. Intendo uno stadio in cui essa appare vuota di significato, in cui afferma ancora se stessa, in cui vige, ma non significa. (Lettera di Scholem a Benjamin del 20 settembre 1934. In W. Benjamin, G. Scholem, Teologia e utopia, op. cit., p. 163).
27
A collegare questo mondo arcaico con il presente in cui si svolgono i romanzi è una categoria di personaggi che Benjamin definisce “gli aiutanti”: come le creature non appartengono al nostro tempo ma, a differenza di esse, non provengono nemmeno da ere passate. Sono esseri intermedi, che non fanno parte di nessun ambiente ma che proprio per questo possono agire da tramite tra la famiglia e il mondo esterno, tra la vita quotidiana e il mondo delle leggi, portando agli spaesati protagonisti dei romanzi kafkiani un barlume di speranza. Sono dei messaggeri che parlano di un tempo altro, il tempo della giustizia.
Abbiamo già visto come per Benjamin la giustizia divina operi in modo fulmineo e improvviso, senza dare al peccatore nemmeno il tempo per rendersi conto di ciò che sta succedendo. Apparentemente, la giustizia che opera in Kafka è di tutt’altro genere: lenta e farraginosa, composta di gradi infiniti, essa sembra prendere il condannato per sfinimento, procrastinando continuamente il momento del giudizio. Per questo l’opera di Kafka è stata spesso intesa come una critica alla burocrazia, anche alla luce dell’avversione per l’organizzazione statale che è presente costantemente in Kafka, tanto da far dire a Brecht:
Kafka ha avuto un problema e uno solo, il problema dell’organizzazione. Egli fu preda della paura dello stato-formicaio: come gli uomini si estraniano da se stessi attraverso le forme della loro convivenza.28
28
Se questo elemento non è sicuramente trascurabile, bisogna anche tenere conto di alcune indicazioni che Kafka fornisce nelle sue opere e nelle riflessioni private, da cui emerge chiaramente come la giustizia cui fa riferimento non è quella dei tribunali ordinari, ma ricorda piuttosto quella sarà esercitata nel Giudizio Universale. Emerge qui l’aspetto che maggiormente attira l’attenzione di Benjamin (e di Scholem): secondo Kafka, il Giudizio Universale può avvenire in un giorno qualsiasi:
È solo la nostra concezione del tempo che ci fa chiamare il Giudizio Universale col nome di ultimo giudizio; in realtà si tratta di un giudizio statario.29
E ancora, ne Il processo:
Hai letto da qualche parte che in certi casi la sentenza arriva all’improvviso, pronunciata da una bocca qualsiasi in un momento qualsiasi. Peraltro anche se con molte riserve, ciò è vero.30
Il Giudizio divino, proprio come le sentenze della Colonia penale, viene emesso in modo sommario e non necessariamente da chi ne deterrebbe l’autorità. Questo chiama in causa non solo l’accusato ma anche il giudice, cosicché nell’espressione “giudizio di Dio” il genitivo diviene sia oggettivo sia soggettivo. Scholem comunica queste sue riflessioni a Benjamin in una lettera scritta nell’estate del 1934 e andata purtroppo perduta. Ci resta, però,
29
Come commenta Marina Cavarocchi Arbib: Il termine “Stadtrecht” significa sia “legge marziale” che “giudizio statario” e implica, a mio parere, nell’espressione kafkiana, sia la procedura senza le forme prescritte per i giudizi ordinari sia il rigore della legge marziale. (M. Cavarocchi, Scholem interprete di Kafka, in Humanitas, op. cit., p. 488.
30
la poesia allegata alla lettera, dal significativo titolo Con una copia del processo di Kafka, di cui riportiamo le strofe conclusive (11-14)
Da quando questo sapere doloroso Sta intangibile davanti a noi
Si è improvvisamente lacerato un velo, Dio, davanti alla tua maestà.
Il tuo processo cominciò sulla terra; termina davanti al tuo trono? Tu non puoi essere difeso, qui non valgono illusioni. Chi è qui l’imputato? Tu o la creatura?
Se qualcuno te lo chiedesse, profonderesti solo nel silenzio. Può insorgere questa domanda? La risposta è indeterminata? Ah, dobbiamo tuttavia vivere,
finché il tuo tribunale non ci sentirà.31
31
W. Benjamin, G. Scholem, Teologia e utopia, op. cit., pp. 144-145. D’altra parte lo stesso Benjamin in un frammento del 1927 dal titolo Idea di un mistero, scritto in seguito alla lettura del Processo, si propone di rappresentare la storia come un processo nel quale l’uomo in veste di avvocato della muta natura sporge contemporaneamente querela contro la creazione e contro la mancata venuta del Messia promesso. (cit. in G. Scholem, Storia di un’amicizia, op. cit., p. 225)
Benjamin condivide questa interpretazione dell’amico, tanto da dire di alcune strofe di volerle far sue “senza alcuna riserva”. Solo sull’ultima strofa Benjamin rivela qualche perplessità:
L’ultima solleva il problema del modo in cui debba essere concepita la proiezione del giudizio universale nel corso del mondo, dal punto di vista di Kafka. Questa proiezione trasforma forse il giudice in imputato? Il processo nella pena? Il processo ha il compito di elevare la legge, o di sotterrarla? A queste domande Kafka non ha dato risposta, credo.32
Proprio in questo consisterebbe il senso del fallimento di Kafka. Non così per Scholem che, interpretando Il processo alla luce delle figure bibliche di Giona e Giobbe, ritiene K. colpevole di non aver saputo vedere nell’assenza di risposte del Tribunale, la sollecitazione a continuare a domandare, fino a trovare una risposta in se stesso e aprirsi così all’incontro con l’esperienza divina, esperienza che – come insegna la mistica – è sempre di tipo personale. Il messaggio dell’imperatore rappresenterebbe proprio questa via mistica e conterebbe l’esortazione a mettersi alla ricerca, senza attendere un messaggero che non giungerà mai.
Questo indicherebbe anche il processo mosso contro K., letto alla luce della parabola Davanti alla legge, contenuta nel penultimo capitolo del romanzo, in cui si afferma che l’ingresso alla Giustizia davanti cui passa la sua vita l’uomo di campagna, senza mai potervi entrare, era riservato proprio a lui. Cosa gli ha impedito di entrare?
32
L’uomo venuto dalla campagna non si aspettava simili difficoltà, la Legge dovrebbe essere accessibile a tutti e in ogni momento, pensa, ma adesso guarda meglio il custode col suo cappotto di pelliccia, il suo grosso naso a punta, la lunga sottile barba nera alla tartara, decide che è meglio aspettare finché riceverà il permesso di entrare.33
L’uomo di campagna, inizialmente sicuro di sé, si scopre intimorito dal guardiano: la paura gli impedisce di entrare. Di questa paura ci parla anche Benjamin nella conferenza radiofonica del 1931:
La paura è ad un tempo paura di ciò che è remoto, immemorabile e paura di ciò che è urgente, prossimo imminente. Per dirlo con una parola, è paura della colpa sconosciuta e dell’espiazione, sulla quale agisce la sola grazia di render nota la colpa.34
La paura riguarda contemporaneamente ciò che proviene dall’era preistorica e ciò che si rivelerà nel giudizio universale, ultimo in senso qualitativo – poiché non ammette appello – ma non temporale, dato che potrebbe avvenire da un momento all’altro, rivelandoci il nostro destino, ovvero facendoci scoprire di aver infranto una di quelle leggi preistoriche che chiamano in causa il giudizio divino. Davanti a questa paura l’oblio è solo un palliativo: prima o poi la giustizia ci chiamerà in causa e non sarà possibile sottrarsi.
Forse l’obbligo di presentarsi a giudizio suscita una sensazione simile a quella di aprire un baule chiuso da anni sul pavimento. Rimanderemmo volentieri l’impresa
33
F. Kafka, Il processo, op. cit., p. 193.
34
fino alla fine dei giorni, come K. trova che il suo memoriale avrebbe “potuto servire a tener occupato lo spirito divenuto infantile di un vecchio pensionato”.35
Come sconfiggere la paura e l’oblio? La soluzione che Benjamin rintraccia in Kafka è data, lo abbiamo già accennato, dallo studio e dalla scrittura. Si tratta di un tema tipicamente ebraico, che nella filosofia di Benjamin si carica di un significato ulteriore, se si tiene conto di tutte le riflessioni sul linguaggio analizzate in precedenza. I saggi su Kafka segnalano un passaggio: non ci si può più limitare a leggere e imitare i simboli naturali: qui la posta in gioco e più alta. Dedicarsi allo studio, trasformare la propria vita in scrittura significa sfuggire alla colpa dell’oblio e preparare il terreno per la propria redenzione. Questo è ciò che nel penultimo capitolo del Processo il sacerdote cerca di far capire a K., offrendogli un’ultima possibilità di salvezza.
A questo proposito Marina Cavarocchi scrive:
Il sacerdote cerca di introdurre Josef K. nel labirinto delle interpretazioni contrastanti tra loro e, comunque, mai definitive, fornendogli il filo d’Arianna delle domande, cui egli solo dovrà dare riposta. Josef, tuttavia, non riesce a intuire che questa mossa del sacerdote è l’estremo tentativo per salvarlo e non arriva a scorgere che, proprio nell’assenza di una risposta già pronta ai suoi quesiti, si rivela la presenza di quella garanzia circa l’esistenza di un significato che spetta a lui trovare e che legittima la sua ricerca.36
35
W. Benjamin, Franz Kafka, op. cit., p. 298. La citazione riportata tra virgolette dallo stesso Benjamin è tratta da Il processo.
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Questa assenza di risposte, che Scholem interpreta in senso puramente mistico, è analizzata da Benjamin in senso storico, come conseguenza dello smarrimento della tradizione ebraica, da un lato, e dallo choc provocato dalla città moderna, dall’altro:
Nell’epoca della massima estraniazione degli uomini tra loro, dei rapporti infinitamente mediati che sono ormai i loro soli – sono stati inventati il film e il grammofono. Nel film l’uomo non riconosce la propria andatura, nel grammofono non riconosce la propria voce, ciò è confermato da esperimenti. La situazione del soggetto di questi esperimenti è quella di Kafka. È questa situazione che lo rimanda allo studio.37
I protagonisti dei romanzi di Kafka hanno perso la propria identità, come chi si vede in un film o si ascolta in una registrazione faticano a riconoscersi. Apparentemente, la soluzione della scrittura sembra offrirsi come terapia, come narrazione di sé che aiuta a ricostruire la propria identità. Ma, da ebreo, Kafka non può evitare di confrontare la propria scrittura con quella sacra, anch’essa ormai sbiadita, non più evocabile. Questo tema è al centro della prefazione all’edizione italiana de Il castello, in cui Sergio Quinzio scrive:
Romantici, simbolisti, espressionisti hanno in comune la sopravvalutazione della scrittura e tendono a elevare la scrittura al rango di Sacra Scrittura tout court. Anche Kafka ha cercato nella letteratura la salvezza, anche lui ha sognato (forse echeggiando la tradizione mistica ebraica per la quale sono le lettere a creare l’universo?) l’onnipotenza della poesia. Ma le differenze sono incolmabili, anzitutto
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perché per l’ebreo Kafka la propria scrittura non può mai essere Scrittura sacra, ma sempre solo un suo interminabile, e perciò in fondo vano, commento. Lo scrivere, per Kafka, è gravato di colpa forse proprio perché viene a porsi quasi a confronto con la Scrittura che dà la vita, a paragonarsi a essa.38
Dell’impossibilità di un confronto fertile con la Tradizione parla anche Benjamin:
Kafka non osa associare a questo studio le promesse che la tradizione ricollegava a quello della Torah. I suoi aiutanti sono sagrestani rimasti senza parrocchia, i suoi studenti, scolari senza scrittura.39
Eppure, Benjamin pone questi “scolari senza scrittura”sullo stesso piano degli aiutanti, situandoli tra quelle creature per cui, secondo le parole di Kafka è data “una speranza infinita”.40 Questa speranza risiede nella
categoria messianica della “inversione” [Umkehr] o “studio”.41
38
F. Kafka, Il Castello, Feltrinelli, Milano 1994. Introduzione di S. Quinzio, p. 21.
39
W. Benjamin, Franz Kafka, op. cit., p. 304.
40
L’espressione di Kafka si rifà a una conversazione tra Max Brod e lo scrittore riportata da Benjamin nel suo saggio: “Il nostro mondo è solo un cattivo umore di dio, una cattiva giornata.” “Al di fuori di questa manifestazione, di questo mondo che noi conosciamo, ci sarebbe quindi speranza”. Egli sorrise: “Oh certo, molta speranza, infinita speranza, ma non per noi”. (Franz Kafka, op. cit., p. 280)
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Questo periodo è la parafrasi di un pezzo della lettera che Benjamin scrisse a Scholem l’11 agosto 1934 e si inserisce nella discussione epistolare tra i due in proposito del saggio di Benjamin su Kafka. In particolare la discussione si concentra su alcuni temi come il significato di “nulla della rivelazione” o la distinzione proposta da Scholem tra smarrimento della scrittura e impossibilità della sua decifrazione. Si veda a riguardo: W. Benjamin, G. Scholem, Teologia e utopia, pp. 143-165.
Come nota Fabrizio Desideri, lo studio sembra condannare il presente all’inattualità, schiacciandolo tra il futuro della condanna e il puro passato della Tradizione. Ma in realtà esso, attraverso la riattualizzazione della parola che viene dal passato riesce a superare questa distorsione temporale: Nello studio, la brevità della vita – la fuga del tempo: il suo assoluto scorrere – conosce una pausa. Si sospende in attesa.42
Questa sospensione provocata dallo studio ci riporta alla contrapposizione tra diritto e giustizia da cui eravamo partiti. Attraverso lo studio la vita si fa scrittura, lascia la dimensione dell’azione e del destino, in cui si annidano la colpa e la condanna, per addentrarsi nella riflessione e riportare alla memoria il contenuto degli antichi libri.
Riferendosi al racconto Il nuovo avvocato, dove Bucefalo - il mitico cavallo di Alessandro Magno - diventa un avvocato, Benjamin si domanda:
È veramente il diritto che può essere mobilitato, in nome della giustizia, contro il mito? No: come giurista Bucefalo rimane fedele alle sue origini. Sembra però che egli non eserciti la professione. Il diritto che non è più esercitato ed è solo studiato, è la porta della giustizia.43
La categoria di giustizia, lo intuiamo dal passo precedente, è messa in relazione con la dimensione della sospensione e dell’inazione. Questo legame risulta evidente se si tiene conto del carattere a-storico della giustizia, che
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F. Desideri, La porta della giustizia. Saggi su Walter Benjamin, Pendragon, Bologna 1995, p. 25.
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interviene nella storia provocandone un arresto, un cortocircuito. D’altra parte, anche Scholem ritiene che la giustizia operi come sospensione:
In un mondo non redento, il diritto deve sussistere e, pertanto, non può essere annullato, ma solo mitigato dall’intervento della giustizia, come indica il principio talmudico, secondo cui al verdetto rigoroso del tribunale vengono opposti innumerevoli impedimenti per impedirne l’esecuzione.44
Lo studio che trasforma il diritto in scrittura, limitandone l’operatività e avvicinandolo così alla giustizia – arrestando con ciò anche la violenza che è propria del diritto –, richiede uno sforzo, una resistenza continua contro l’oblio. Per questo gli studenti in Kafka sono sempre in affanno; come lo studente di America essi non dormono mai:
Bisogna pensare ai bambini, che vanno malvolentieri a letto. Mentre dormono, potrebbe accadere qualcosa che richiede la loro presenza. “Non dimenticare il meglio”, suona un monito che ci è familiare da un’oscura massa di antiche storie, e che non si trova forse in nessuna di fatto. Ma la dimenticanza riguarda sempre il meglio, poiché riguarda la possibilità della redenzione.45
Per opporsi alla “tempesta che spira dall’oblio” è necessario un tempo di vigilanza. Non già per attendere la redenzione, quanto per rendersi conto che essa è avvenuta, giacché “il Messia non intende mutare il mondo con la violenza, ma solo cambiarlo di pochissimo”.
E queste variazioni impercettibili correggeranno non solo le deformazioni del nostro spazio, ma anche quelle del nostro tempo. Questo Kafka l’ha intuito,
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Riportato in: M. Cavarocchi Arbib, Scholem interprete di Kafka, op. cit., p. 493.
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come dimostra la somiglianza tra il già citato Il prossimo villaggio e una leggenda ebraica, in cui a un mendicante viene chiesto quale sia il suo più grande desiderio:
Di malavoglia ed esitando rispose agli interroganti : ”Vorrei essere un re potente e regnare in un vasto paese, e che mi trovassi a dormire una notte nel mio palazzo e che dal confine irrompesse il nemico e che prima dell’alba i cavalieri fossero arrivati davanti al mio castello, e che non ci fosse resistenza, e che io, svegliato dallo spavento, senza neppure il tempo di vestirmi, avessi dovuto prendere la fuga in camicia, e inseguito per monti e per valli […] fossi giunto qui sano e salvo sulla panca nel vostro angolo. Ecco quello che vorrei”. Gli altri si guardarono interdetti. “E che cosa avresti da questo desiderio?”, chiese uno. “Una camicia”, fu la risposta.46
Il vecchio protagonista de Il prossimo villaggio è, secondo Benjamin
Un sosia del mendicante che nella sua “vita comune felicemente scorrente” non trova nemmeno il tempo per un desiderio, ma nella vita insolita, infelice – nella fuga – in cui si trasferisce con la sua storia, è esentato da questo desiderio e lo baratta con la sua realizzazione.47
Nel mendicante in fuga, che si porta con sé la sua storia, possiamo vedere la figura dell’ebreo moderno che non vede più nella Tradizione un punto di riferimento. Attendere inermi la venuta del Giudizio – sperando in una miracolosa assoluzione – è un atteggiamento privo di senso, al pari del lasciarsi andare alla paura e all’oblio. Ricordarsi invece, tramite lo studio, di
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Ivi, p. 300.
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questa e di tante altre leggende talmudiche ha per l’ebreo un grande valore. Lo libera dal peso del passato così come dall’angoscia del futuro e gli ricorda che la felicità, la realizzazione del desiderio va vissuta ora, nel tempo dell’esilio e della fuga.
È l’anticipazione del Regno di cui Benjamin parla nel Frammento teologico - politico, che ci apre a un tempo altro, a una dimensione in cui forse è riposta quell’infinita speranza che non ci è data qui. Il compito dello studente, allora, è quello di annunciare questo tempo, questa “variazione impercettibile” che spezza il continuum temporale e ci insegna che il tempo della felicità e della realizzazione è il nostro tempo. Lo studente, lo abbiamo visto, è affine all’aiutante, è un messaggero. Un Angelo. E da “angelo malato” quale Benjamin lo considera, Kafka stesso si è fatto messaggero di questa Redenzione improvvisa, “apocastatatica”48. Lo ha fatto attraverso lo
strumento haggadico, attraverso la scrittura e la metafora. Nel “teatro naturale di Oklahoma” il tormentato protagonista di America trova finalmente la propria stabilità. Gli attori di questo teatro sono affini agli studenti, anzi forse sono stati proprio studenti prima di essere redenti:
Tutti gli attori devono rispondere all’istante alla loro chiamata. E anche per altri versi assomigliano a questi esseri assidui [cfr. gli scrivani de Il processo]. Per loro in effetti “l’inchiodare è un vero inchiodare e nello stesso tempo un nulla”: quando,
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L’apocastasi, teoria predicata da Origene e respinta dalla Chiesa romana, prevede l’ingresso di tutte le anime in Paradiso. Benjamin vi fa riferimento anche ne Il narratore (op. cit. p. 267). Nel capitolo conclusivo di America, Kafka insiste continuamente sul fatto che al teatro naturale di Oklahoma chiunque verrà assunto, indipendentemente dalle proprie capacità.
cioè, rientra nella loro parte. Essi studiano questa parte; e sarebbe un cattivo attore chi dimenticasse una parola o un solo gesto di essa. Ma per i membri della compagnia di Oklahoma questa parte è la loro vita precedente. Di qui la “natura” di questo teatro naturale. I loro attori sono redenti.49
Resta, ovviamente, la problematicità di questa Redenzione affidata alla recita di una parte, inscenata in un theatrum mundi in cui il gesto e la parola possono solo rappresentare e non già conoscere, o addirittura creare. Possiamo dunque forse affermare che anche Benjamin ha rinunciato alla verità in favore dell’elemento haggadico.
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