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LA FIGURA UMANA COME TEATRO CAPITOLO I

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Academic year: 2021

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CAPITOLO I

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1. LA FISIOGNOMICA

«[...] nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra anima [...]» (T. BROWNE, Religio medici, parte 2:2)

La fisiognomica è lo studio delle particolarità del volto umano, grazie alle quali si dovrebbe dedurre il carattere morale e psicologico di un soggetto e dunque rivelare le sue peculiarità specifiche. Il termine deriva dalle parole greche physis (natura) e gnosis (conoscenza). E’ importante ricordare che il sapere umano si basa proprio sulla fisio-nomia estetica della realtà, ovvero sulla deduzione e constatazione del divenire della natura attraverso i sensi e l’osservazione morfo-genetica di essa. Si parlava di questa arte già nell’antica Atene del V secolo a. C. e il dibattito sulla più o meno scientificità di questa disciplina è stato aperto per lungo tempo. Attualmente la fisiognomica non gode di credito scientifico, ciononostante il dato certo è che un volto resta pur sempre un fertile terreno dal quale sgorgano, inesorabili, informazioni sulla psicologia e le emozioni di una persona. L’archetto che si forma fra le sopracciglia, per esempio, rappresenta una forza, un piccolissimo movimento che esprime una forte tensione.

L’espressività di un volto è capace di “iniettare” in chi osserva sentimenti di pathos, emozioni che fanno brillare gli occhi, che spingono lo spettatore ad applaudire, a gridare; costringe chi guarda a uscire da se stesso. Ma “uscire da sé” non è “uscire nel nulla” bensì è il passaggio a qualcosa d’altro. L’arte e, più nello specifico, il cinema propongono proprio questo: rompere l’equilibrio della condizione abituale e proiettare in un altrove. L’opera deve essere dunque attiva,

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dinamica, ricca di tensione, in evoluzione, deve sconfinare e far sconfinare continuamente dai propri limiti. Lo spettatore stesso diviene estatico, investito dall’immagine, che è strumento d’azione e risultato di una forma di empatia. Il movimento espressivo contiene in sé quella che Ejzenstejn chiama “contagiosità mimica” ed è lì che sta la principale efficacia dell’opera cinematografica. Viene a crearsi un dinamismo dialettico tra immagine e spettatore, tra volto e volto. Quella di due volti che si guardano è un’esperienza umana di comprensione e condivisione. Abbiamo detto che la fisiognomica non è riconosciuta scientificamente come disciplina, ma possiamo affermare la validità e l’efficacia della mimica, forse sua erede. Al di là della scienza, infatti, il cinema insegna e conferma proprio la capacità della mimica di essere universalmente comprensibile.

Nell’ambito cinematografico esiste una educazione fisionomica dalla quale gli autori attingono per poter lavorare sulla natura inconscia, un lavoro per nulla facile ma necessario per trasferire sullo schermo le intenzioni sentimentali di un soggetto. Vsevolod I. Pudovkin, ad esempio, racconta di quanto lavoro cosciente sia necessario per creare qualcosa di incosciente e naturale. Parla di quanta educazione fisionomica occorre per avere la possibilità di servirsi delle espressioni inconsce e saperle utilizzare nell’esatta misura. Situazione di certo paradossale che conferma però, ancora una volta, le straordinarie capacità creative del mezzo cinematografico. Egli inoltre si sofferma sugli sforzi necessari affinché i volti, ritratti in scene disparate, possano esser messi in rapporto tra loro e si alternino come le parole all’interno di un dialogo.

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Prima ancora dell’avvento del cinematografo, già Leonardo da Vinci cercava di comprendere i moti dell’animo che cagionano i lineamenti del volto e i movimenti del corpo; lo faceva per poterli poi trasferire nei suoi disegni. Studiava le relazioni tra i moti dell’animo e le loro manifestazioni sui tratti somatici del viso. La fisignomica medievale teorizzava la corrispondenza fra l’aspetto di un uomo e il suo carattere, spinse vari studiosi a intraprendere ricerche nel campo dell’anatomia e successivamente riuscirono a dare alle loro teorie un concretezza reale e tangibile. I disegni che ne nacquero gettarono le basi di una fisiognomica intesa come scienza e di una pittura vista come specchio dell’anima.

Del volto umano resta ancora tanto da scoprire. Antropologi e psicologi si servono del mezzo cinematografico per approfondire i loro studi, per ricercare nei volti umani quelle tracce genetiche, appartenenti al retaggio familiare, razziale e nazionale di ognuno.

Così il cinema si propone, a volte inconsapevolmente, di arrivare là dove la scienza si è fermata, narrando di quei moti espressivi generati da forze segrete, in grado di alterare il movimento del volto. Espressione, quest’ultimo, di movimenti spirituali interni al soggetto.

E’ opportuno ammettere che il cinema permette, come nessun altro strumento, di svelare la realtà segreta di tutte le apparenze, affondando le radici in profondità. Può creare un suo aspetto del mondo. Ogni immagine impressa sulla pellicola porta con sé l’istante di un universo, rivelandosi come superiore all’uomo.

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2. LE ORIGINI DELLA MASCHERA

La Maschera è fin dalle sue più remote apparizioni la raffigurazione di un volto divino, umano o animalesco, erotico, terrificante, comico, che un individuo può imporre al proprio volto cancellandolo e assumendo espressioni e caratteri altri. Oggetto carico di energia segreta e potente; strumento di riti antichi, la maschera racchiude la forza di produrre la Metamorfosi trasfigurando il mondo nel magico.

Comune a tutte le tradizioni umane, con funzioni religiose prima e teatrali poi, l’uso della maschera è rintracciabile nella Grecia antica e successivamente a Roma, nel teatro colto e in quello di strada, spogliata della sua carica divina e sacrale ma non della sua fascinazione magica. Col tempo diviene mezzo popolare di funzione profana.

Da bassorilievi, mosaici e documenti antichi si comprende che anticamente le maschere erano di materiali deperibili quali corteccia, tela stuccata o sughero dipinti e venivano usate perlopiù nelle rappresentazioni teatrali. Proprio da quelle discendono le maschere popolari, grottesche e buffe della Commedia dell’Arte come Pantalone, Brighella, Il Capitano e Arlecchino. La tradizione vuole che le prime maschere in tela cerata, le “larve” o “volti” fossero portati da Costantinopoli nel 1204 dal Doge Enrico Dandolo, colpito dall’immagine delle donne del luogo che vide passeggiare con il volto protetto da una pezzuola di velluto forata agli occhi. Le prime notizie storicamente certe le abbiamo da documenti ratificati dai Giustizieri Vecchi della corporazione dell’Arte dei Dipintori che, il 10 Aprile 1436, riconoscono ufficialmente la professione dei

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maschereri o mascareri, con uno statuto proprio. Professione in rapida espansione, esercitata da abili artigiani che, usando fine tela cerata e cartapesta, s’ingegnavano a proporre articoli sempre più raffinati per degli acquirenti sempre più esigenti.

Nel teatro greco la maschera veniva usata soprattutto come mezzo tecnico, oltre a caratterizzare il personaggio, essa fungeva da cassa di risonanza sonora per amplificare la voce e rendere più udibili i dialoghi degli attori. Aveva dunque una doppia funzione. Il teatro osco, una forma di teatro diffuso nel centro Italia prima della conquista romana, usava caratteri fissi per i personaggi rappresentati da maschere. La commedia dell'arte (comedie italienne) invece fa uso di maschere che si estendono, diventano costumi e ricoprono tutto il corpo.

Ma è a Venezia che le maschere trovano il loro regno in terra, portate comunemente nelle strade al di fuori delle rappresentazioni teatrali o divine. Proprio dalla creatività e dalle abili mani dei mascareri nascerà la Bauta, la maschera più tipica di Venezia. Il Carnevale, vanto veneziano, affonda effettivamente le sue radici in antichi riti pagani e dionisiaci, l’uso di maschere si consolidò sempre più anche solo per recarsi al Casinò o ad un incontro con amici. Di conseguenza divenne atteggiamento tipico della città lagunare quello di girovagare con una maschera addosso.

Fatta per esprimere e “congelare” nel tempo un’espressione, la maschera è da sempre mezzo di comunicazione efficace; testimonianza antropomorfica di un concetto, una cultura, un sentimento.

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3. GEORG SIMMEL L’UNITA’ DEL MOLTEPLICE

Georg Simmel, sociologo e filosofo tedesco, è vissuto tra il 1858 ed il 1918. Studiò approfonditamente tematiche quali il positivismo, il neokantismo e sviluppò una filosofia della vita fondata sull’eterno conflitto tra soggetto e oggetto. Eseguì studi sulle forme delle azioni e la causa di quest’ultime. Nella sua ricerca filosofica le arti visive occupano un ruolo centrale, egli pone l’attenzione sui problemi artistici della pura visibilità, dell’immagine sensibile delle cose e si sofferma sul delicato rapporto che si instaura tra l’anima e il fenomeno. Nei sui saggi indaga la struttura delle arti figurative e la sua riflessione critica risulta essere un prezioso documento della modernità. Ciononostante non fu uno storico dell’arte, ma un appassionato e curioso fruitore e dunque sorgente di pensieri e riflessioni nuove, utili a comprendere l’arte ma soprattutto la vita. Alla base di tutta la sua filosofia vi è la relazione, intesa come interazione e reciprocità. Il suo approccio con l’arte riguarda diversi se non tutti gli ambiti artistici, la sua ricerca spazia tra la musica, la pittura, la scultura, la poesia e il teatro. Egli non si preoccupava di seguire un’organica linea di sviluppo, piuttosto intuiva, analizzava e raccordava.

«Simmel sa cogliere il valore simbolico delle forme, e costituirne fenomenologicamente il senso all’interno del “mondo della vita”».1

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G. SIMMEL, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, introduzione di Lucio Perucchi, I significati del visibile, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 15

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Egli stesso non pretese di racchiudere la sua ricerca in un programma definito, poiché l’arte stessa ha, secondo il filosofo, una radice non definibile; l’arte è dominata da un conflitto irrisolvibile e da opposizioni inconciliabili logicamente. Conferì all’arte uno statuto del tutto autonomo e privilegiato, tentando di isolare vari piani dell’arte per poi collegarli dinamicamente.

Egli individuò l’origine della visione artistica nei suoi saggi Problema del ritratto e Filosofia del paesaggio, nei quali sottolinea l’importanza del vissuto come fonte dalla quale scaturisce lo sguardo e dunque il sentimento di ognuno. Visione e sentimento sono infatti i punti di partenza e la mediazione tra natura e opera. Secondo il filosofo tedesco l’artista vede e forma solo paesaggi. Nel saggio

Filosofia del paesaggio definisce l’esperienza visiva come un’intensificazione e

fissazione di qualcosa che altro non è che un continuum del reale.

L’artista deve restituire in qualche modo la ricchezza della percezione quotidiana. La su riflessione si sofferma, inoltre, sul ritratto, la cui anima è l’invisibile e la peculiarità dell’arte è che in essa l’invisibile può esprimersi nel visibile. In quello che Simmel considera circolo ermeneutico, il visibile e l’invisibile si alimentano a vicenda. L’invisibile è il principio costitutivo del vissuto estetico e in ogni ritratto tutto questo viene reso visibile, poiché la Stimmung, ovvero l’anima del ritratto, è la sua manifestazione. L’unità di un’immagine scaturisce dunque dalla lotta, proprio come penserà Ejzenstejn, che vedremo successivamente. (Il tema del conflitto è tanto presente in Simmel quanto in Ejzenstejn). La lotta è quella tra visibile e invisibile, profondità e superficie, impulsi psicofisici e pesantezza del

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corpo. Il volto risulterà emblema di tutto questo; l’espressione di ciò che sta tra l’anima e il fenomeno.

Nel singolo attimo è presente la totalità della vita e la vita si può comprendere solo nel suo divenire. Nei saggi di Simmel, come in questo elaborato, protagonista è il conflitto tra vita e forma, tra soggetto e società; viene affrontato il problema del tempo che scorre e quello che sembra fissarsi in un’immagine. Quelle immagini attraverso le quali è possibile “superare” la vita.

Nelle parole dello stesso Simmel si trova la chiave del suo metodo:

Non c’è nulla che rimanendo in modo così assoluto al proprio posto, sembri estendersi come l’occhio a tal punto al di là di esso: l’occhio penetra, supplica, circoscrive uno spazio, vaga intorno, afferra quasi alle spalle l’oggetto desiderato e lo trae verso di sé.2

Come scrive Lucio Perucchi nell’introduzione al testo simmeliano Il volto e il

ritratto: Simmel «viene la tentazione di paragonarlo alla sintassi della più moderna delle arti, ormai alle porte, il cinema, da considerarsi proprio nel senso etimologico della parola: come, del resto, quel “separare” e “collegare “, quell’attribuire tanta importanza ai particolari, all’ “avvicinamento” e alla “distanza”, concetti e termini familiari al lessico simmeliano, parole chiave della sua filosofia, dove indicano la possibilità stessa per l’uomo del rapporto con il reale, e della sua comprensione, possono evocare nel lettore, in rapporto al mondo delle immagini, la macchina da presa e il montaggio».3

Il suo è un “pensiero visivo”, che lo guida verso la convinzione che il punto di partenza di ogni filosofare è l’immagine sensibile delle cose, dalla quale si può

2 G. SIMMEL, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, introduzione di Lucio Perucchi, I significati del

visibile, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 25

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G. SIMMEL, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, introduzione di Lucio Perucchi, I significati del visibile, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 25-26

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partire per comprenderne gli enigmi interni e il valore intrinseco. Il cinema, probabilmente si rivelerà, anni dopo, il mezzo perfetto per concretizzare ciò che Simmel aveva teorizzato.

Egli esplora e studia, inoltre, la capacità del volto di tradurre formalmente la paralisi spirituale: quando si spalanca la bocca o si sgranano gli occhi, ad esempio, si esprime “sbigottimento”, ovvero la perdita del dominio spirituale di noi stessi. Come lo sono anche gli occhi chiusi, la testa che cade sul petto, le labbra che pendono, i muscoli rilassati. L’uomo è dunque veicolo dello spirito ma anche dell’individualità e il viso è simbolo generale dello spirito in quanto espressione di una personalità unica ed inconfondibile. Questo è stato favorito, nel corso dei secoli, dalla copertura del corpo, particolarmente presente nel Cristianesimo.

«Il volto era l’erede del corpo, il quale, nella misura in cui domina la nudità, sicuramente contribuisce all’espressione dell’individualità».4

Forse attraverso i suoi movimenti il corpo può esprimere i processi psichici con la stessa efficacia del viso. Ma solo nel viso essi si coagulano in forme solide, capaci di rivelare l’anima una volta per tutte. La fluida bellezza che chiamiamo grazia deve riprodursi ogni volta nel movimento della mano, nell’inclinazione del busto, nella leggerezza del passo, non lascia dietro di sé alcuna forma durevole, che cristallizzi il movimento individuale. Nel volto, invece, le emozioni e gli stimoli che sono tipici per l’individuo: l’odio o la paura, il dolce sorriso o l’irrequieto adocchiare un vantaggio, e infiniti altri – imprimono tratti duraturi, l’espressione presente nell’emozione si deposita soltanto qui come espressione di un carattere costante. Per questa sua specifica plasmabilità il volto soltanto

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diviene, per così dire, il luogo geometrico della personalità intima, nella misura in cui essa è visibile, e (anche sotto questo aspetto il Cristianesimo, a cui la tendenza a velare consentiva di rappresentare la figura umana soltanto attraverso il volto, è divenuto la scuola della coscienza individuale).5

Si tratta della congiunzione di superficie e profondo, insomma, di cogliere il trascendentale che organizza e definisce i tratti. Vedere è leggere.

L’uomo non è solo il veicolo dello spirito, come un libro i cui contenuti spirituali si trovano come in un recipiente in se stesso indifferente; la sua spiritualità ha, invece, la forma dell’individualità […] certo, una determinata personalità spirituale è sempre collegata ad un determinato corpo inconfondibile, e sempre identificabile con esso; ma che cosa sia per questa personalità, il corpo non può dirlo in nessuna circostanza, può raccontarlo solo il suo volto.6

Nel pensiero simmeliano il volto umano è la più completa realtà nell’ambito del visibile. Sintesi estetica e psicologica, costellata da piccolissimi elementi che l’attenzione di chi guarda spesso neanche nota. Ma «quello che comunemente chiamiamo immagine dell’uomo, e che crediamo veramente di vedere, è molto più e molto meno della sua visibilità reale»7 e far risaltare ciò che l’uomo è veramente è il compito del ritratto o del primo piano. Nell’arte, però, la rappresentazione dell’uomo è, secondo Simmel, soltanto pura e semplice rappresentazione; raffigurazione di un soggetto. Sostanzialmente l’arte è rivelatrice solo dell’aspetto esteriore delle cose e quindi non dell’anima di chi è rappresentato. Per questa ragione non può esservi comprensione intuitiva immediata. L’uomo deve essere

5 G. SIMMEL, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 46 6

G. SIMMEL, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, introduzione di Lucio Perucchi, I significati del visibile, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 27

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spiegato. Nell’arte la visione non può rimandare incondizionatamente il corpo all’anima.

Dai movimenti e dalle espressioni dell’uomo reale, ricaviamo senz’altro una conoscenza della sua essenza unitaria. Il ritratto, invece, deve produrre questo sapere soltanto attraverso la semplice visione di forme stabili e colori, dei tratti del viso, in particolare, deve sostituire quel sentimento di piena totalità con un’impressione parziale e veramente astratta.8

Nella vita, però, questo accade. Nonostante il volto sia una visione parziale dell’intero corpo, l’unità, secondo Simmel, è data dal fenomeno e il volto ne è l’incarnazione. Nella vita corpo e psiche sono collegati e percepiti immediatamente come unità, come qualcosa che agisce in senso unitario, l’arte, a questo proposito, potrebbe risultare visione unilaterale, poiché nella vita vi sono spesso fratture incomprensibili tra l’uno e l’altro. Nonostante ciò, la conclusione a cui giunge Simmel è che in fondo «l’arte proviene dalla vita e trae dal suo palpito le forze del proprio sviluppo […] per quanto possa essere parziale, ci dà un’idea e ci offre un pegno della possibilità che gli elementi della vita non siano così disperatamente indifferenti e antitetici, come tanto spesso la vita vorrebbe farci credere».9

E dunque: «corpo e anima sono soltanto due parole diverse per una medesima essenza umana, il cui nucleo non viene affatto colto scindendone la definizione».10

8 G. SIMMEL, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 58-59 9

G. SIMMEL, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 62

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4. MASCHERE NUDE

Chi guarda un volto comprende senza alcuna spiegazione, è guidato solo dall’istinto e solo con questo afferra ogni senso. I volti parlano la lingua delle emozioni. Come sostiene Jacques Aumont il cinema, come l’amore, non è mediato attraverso il linguaggio, attinge a una conoscenza diretta e sensibile dell’oggetto, assai più precisa in quanto scevra dalle ambiguità della parola. Il visibile è autonomo, non ha bisogno di parlare per esistere o per imporsi. Fa segno senza essere intessuto di segni, si fonda sull’immediatezza dell’apparire.11

Il corpo umano è innanzitutto movimento, il cinema è innanzitutto movimento. Entrambi creano una particolare forma di conoscenza prelinguistica. Sullo schermo, tutti sono nudi, di una nudità nuova. Le intenzioni diventano leggibili e per la prima volta le intenzioni sono sufficienti in quest’arte della buona volontà. Arte spiritica. Il pensiero si registra così bene che soppianta tutto il resto e basta da solo. La scintilla del sentimento crepita tra due epidermidi: tutto cambia.12

Gli attori del cinema muto parlavano attraverso il primo piano e i film di una qualsiasi nazionalità erano egualmente comprensibili in vari paesi del mondo. Si comprendevano, e comprendiamo ancora oggi, le parole dell’uomo spaventato che parla a denti stretti, i discorsi deboli e stanchi dell’uomo ubriaco, il dolore dell’amante che lascia l’amata, le urla severe del dittatore. Un tempo, al cinema, le parole si vedevano, non si udivano.

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Du Visage…, p. 78

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L’arte cinematografica ha la capacità di svelare il volto umano. Questa sua dote è talmente potente da rivelare anche quella che il teorico Béla Balàzs definisce mimica polifonica, quando cioè nella fisionomia appaiono espressioni contrastanti, ovvero ciò che accade nel momento in cui si concentrano simultaneamente vari sentimenti, passioni e pensieri creando un “accordo” fisiognomico, una sintesi delle diverse tendenze presenti in un dato momento nell’animo umano. Sul paesaggio del volto ciò accade ed è possibile leggerlo. Quel qualcosa di impercettibile e sottile al cinema diviene perfettamente comprensibile e lo spettatore può cogliere ogni maschera mimica. L’arte cinematografica ci dirotta nel mondo isolato della microfisionomia, una dimensione a sé stante, piccola ma immensa. Studi approfonditi hanno dimostrato che su un viso in primo piano si può leggere più di quanto vi stia scritto in modo normalmente percepibile; come se esistesse un volto invisibile dietro quello visibile. Lo studio della microfisionomia ha aiutato il cinema ad approfondire il gioco mimico e svilupparlo verso una dimensione superiore. Esso rende infatti capaci di vedere con chiarezza il volto invisibile dei personaggi. Sotto il “microscopio” della macchina da presa si palesano le tragedie dell’anima, come quella del semplice e immenso battito delle palpebre. Non sarebbero sufficienti le parole del poeta più ispirato e sensibile per esprimere ciò che esprime la mimica, diceva infatti Balàzs.

In un vecchio film Asta Nielsen pallidissima, le ciglia aggrottate, un’espressione di cupa serietà nei lineamenti, si guarda nello specchio. Preoccupazione e indicibile ribrezzo si disegnano su quel volto. Come un generale accerchiato da forze preponderanti che si china per l’ultima volta sulla carta: che si può tentare, ancora? Non c’è una via di

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scampo? Asta comincia, con mano tremante, a ritoccare quel suo viso deturpato. Maneggia il rossetto come Michelangelo deve aver maneggiato lo scalpello nell’ultima notte della sua vita. È una lotta mortale. Lo spettatore segue con il fiato sospeso i movimenti della donna dinanzi allo specchio. Nel vetro opaco e slabbrato scorge gli ultimi fremiti di un’anima ormai distrutta. Una donna cerca di salvare la propria vita col belletto. No, così no. Passa uno straccio sporco sul viso. Ricomincia. Ma è tutto inutile. Una scrollata di spalle. Si deterge definitivamente il viso con lo straccio. E basta quel gesto per significare che il volto ha rinunciato per sempre a vivere. La dona getta via lo straccio. Un primo piano mostra lo straccio che cade e si affloscia sul pavimento. Anche la mimica dell’oggetto è significativa. Così si affloscia, nell’ultimo istante, il moribondo.13

Attraverso i movimenti del mezzo tecnico e la microfisionomia dell’attrice, il cinema mostra un enorme dramma umano. Ciò che di prezioso contiene il primo piano, oltre a tutto quello detto in precedenza, è la capacità di evitare la retorica, presente costantemente in chi parla (nonostante anche il gioco mimico, a volte, può risultare retorico). Chi vuole e sa mentire si serve egregiamente delle parole, sul volto, invece, vi sono dettagli che l’uomo non può comandare. Il primo piano è la prova di questo, grazie ad esso lo spettatore ha la capacità di riconoscere la causa da cui l’espressione nasce.

La mimica intervenne e si evolse insieme all’evolversi del cinema muto, nel quale le parole vennero sostituite dall’espressivo atteggiarsi del volto e dalle lievi sfumature contenute nei gesti degli attori. Il primo piano, però, non esisteva ancora agli albori del cinema muto; la scena era vista nella sua totalità, dunque la sua dimensione era simile a quella teatrale. In quell’epoca il movimento non

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possedeva ancora quel significato psicologico che soltanto da vicino sarebbe stato possibile cogliere e, col tempo, il cinema acquisì una propria forma espressiva servendosi di mezzi, tagli e sguardi che potessero distinguerlo ed allontanarlo dal teatro, anche se restò privo del suono. Per ovviare al problema e colmare questa lacuna il cinema si specializzò nel movimento eccessivo, facendo di questo il suo originale motivo stilistico. Nacque così una nuova struttura drammatica. Capostipiti e icone di questa espressione furono e sono senz’altro Max Linder, Charlie Chaplin, André Deed, conosciuto come Cretinetti e poi Buster Keaton. Fu dunque la comicità ad aprire le danze nel (nuovo) mondo della cinematografia. Coloro che si affacciavano al nuovo mezzo, i cosiddetti comici caratteristi, lavoravano ed esprimevano se stessi posizionandosi in un angolo visuale sempre meno generico e più personale. Iniziò la rivoluzione dell’espressione visiva e l’evoluzione artistica abbracciò nuove tecniche; tale grandiosa rivoluzione la si deve certamente al genio di David Wark Griffith, il quale diede avvio a nuovi metodi espressivi ed aprì un varco immenso all’interno del mondo dell’arte e stabilì le regole del cinema narrativo. Il XX secolo era appena iniziato e da lì in poi l’evoluzione dell’arte cinematografica crebbe soltanto. La rivoluzione della forma era ormai in atto. Lo spregiudicato regista americano trasferì il volto umano in un’altra dimensione, mostrò una serie di teste mozze all’interno di un suo lavoro avvicinando lo spettatore ad un’immagine del tutto inedita e destabilizzante. Aprì le porte di un mondo nuovo e forse inquietante.

«Nei brevi quadri estratti dal complesso della scena possiamo osservare da presso gli atomi della vita (che in tal modo ci rivela i suoi più reconditi, più intimi segreti)» sostenne infatti Balàzs.

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Diversamente da quanto accade a teatro o nella pittura, attraverso la macchina da presa si può penetrare nell’intimo di un segreto e ciò accade perché l’impressione complessiva del quadro totale non predomina dinanzi ai nostri occhi.

Osservare è sapere, quindi. Contemplare un paesaggio, osservare un volto possono rivelarsi la stessa esperienza, ovvero un arricchimento spirituale e fisico, misterioso ma esplicito. Ciò è possibile grazie alla presenza della Stimmung, che scaturisce dalla partecipazione che il soggetto offre nei confronti di ciò che guarda. Per Stimmung si può intendere, brevemente, l’anima della figura, il suo intrinseco segreto. Chi guarda scopre improvvisamente il volto di un paesaggio, come se questo mostrasse un’espressione che si riesce oggettivamente a cogliere anche se non si ha la capacità di tradurre la percezione in parole. Di conseguenza il luogo o il soggetto guardato svela non solo il proprio volto ma anche quello dell’osservatore. E questo, ad esempio, è il principio che governa la comicità, la quale risiede nella somiglianza che si può scorgere in un’immagine. In alcune opere cinematografiche, infatti, gli oggetti sono stati utilizzati come metafore, impersonano veri e propri personaggi che “agiscono” attivamente nella scena, anche solo per ciò che rappresentano con la loro fisionomia. La fisionomia, ogni lineamento del volto compone dunque un paesaggio, un territorio a sé, dove vigono regole misteriose, singolari e autonome. L’espressione e l’atteggiamento sono fenomeni che agiscono nello spazio ma non soggetti alle regole di quest’ultimo. Forme autonome e irregolari che svelano il valore psicologico di chi si osserva. È quando un protagonista si ammutolisce che si assiste alla sua dichiarazione più sincera, schietta e intensa e solo il cinema ha reso possibile l’evoluzione e la determinazione del monologo senza parole, nel quale la mimica

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espelle, attraverso le più sottili gradazioni e sfumature, sensazioni e pensieri. L’anima si esprime così più sinceramente e liberamente di qualsiasi monologo parlato, senza esser schiacciato dalla consapevolezza e dalle coscienza. Il linguaggio mimico non può esser soffocato e controllato in alcun modo, di conseguenza nel primo piano il soggetto non potrà non rivelare il suo volto vero. Parlando del volto di Sessue Hayakawa, scrissero su Excelsior:

«…questo artista asiatico la cui vigorosa immobilità sa esprimere tutto […] Impariamo quanto vi è di minaccioso e di sprezzante nel movimento del sopracciglio e, nell’istante del ferimento, come simula che la vita scorra via insieme al suo sangue, senza scossa, senza smorfia convulsa, unicamente attraverso la pietrificazione progressiva della sua maschera di Budda e l’appannarsi estatico del suo sguardo».14

Il suo viso intenso e autentico, venne considerato un’opera di poesia, una bellezza dolorosa che rivela l’esistenza di esseri soli. Tutto questo era lui stesso.

Il fascino del film sta proprio nell’incapacità di scindere l’uomo dal personaggio, la realtà dalla finzione. La sua forza risiede nella capacità di lavorare costantemente con maschere che sono invisibili ma visibili, metaforiche quanto reali. E gli attori fanno vivere un personaggio che inevitabilmente sarà, anche solo in parte, la proiezione di se stessi. È facile mentire con la parola, ma non col volto. Tutto questo è particolarmente evidente nel cinema poiché esso ha, più di ogni altro mezzo, la capacità di isolare le parole di un uomo dalla sua mimica.

«Un romanziere può certamente imbastire un dialogo in modo da farci comprendere l’intimo pensiero di chi sta parlando. Ma non potrà non spezzare quell’unità fra le parole

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dette e i pensieri reconditi […] quell’unità in cui si palesa sul volto umano il contrasto fra le parole e i pensieri, e di cui il cinema ci ha per primo rivelato le infinite e sconcertanti variazioni».15

Nel primo piano cinematografico lo spettatore può scrutare l’animo del personaggio e coglierne ogni minimo cenno. Nonostante la macchina da presa riprenda ciò che vede, quindi l’esteriorità delle cose, essa è rivolta verso l’interno, lo afferra e lo proietta. La pantomima, l’arte di ciò che scaturisce dal silenzio, è certamente l’esempio più nobile della capacità di essere eloquenti senza parlare. Il ritmo delle parole è decisamente più lento di quello con cui si trasformano le espressioni mimiche e solo queste ultime sono in grado di scoprire vibrazioni psichiche che al linguaggio sono negate. Esistono delle variazioni di sentimenti così veloci e immediate, che restano oscure ad ogni ragionamento parlato; decine di pagine di un romanzo non sarebbero forse sufficienti a raccontare ciò che sullo schermo si può percepire in pochi istanti. Esistono straordinari discorsi mimici fra persone, che risultano essere veri e propri discorsi senza parole, capaci di raccontare sensazioni che le parole non saprebbero rendere. Basti pesare a quanto incisivo ed esplicativo sia la rappresentazione solo nel volto della lotta fra la vita e la morte. Come avviene ad esempio nella pellicola di Dreyer, di cui parleremo in seguito.

È vero, l’uomo può gestire e comandare le proprie espressioni, ha la possibilità di simulare un sentimento, ma la macchina da presa gli si avvicina in modo tale da scoprire parti su cui la volontà non può nulla, parti le cui espressioni non sono consapevoli e lasciano trapelare la spontaneità del momento, contraddicendo

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l’intera espressione. L’anatomia del volto di un aristocratico può esprimere distinzione e bellezza, ma il primo piano rivela ciò che sta sotto questa apparenza ovvero l’espressione volgare e depravata d’un individuo; al contrario, i lineamenti volgari d’una razza incolta possono celare la fisionomia nobile di un uomo evoluto. Come sostiene Béla Balàzs:

«E’ inutile aggrottare le sopracciglia e la fronte: la macchina da presa si avvicina e scopre il mento, cui non è data la facoltà di correggere la mimica generale che l’uomo è un debole e un vigliacco. È inutile quel suo lieve sorriso sulla sua bocca: il lobo dell’orecchio e la forma delle narici tradiscono nell’uomo la brutalità dissimulata».

I particolari di un volto rivelano verità addirittura più profonde dell’intera espressione del volto, un po’ come la calligrafia rivela la personalità di chi scrive anche se questi scrivesse grosse menzogne.

Al cinema il primo piano fa scena da sé. L’intuizione del regista, l’abilità dell’attore e l’esperienza del pubblico creano un connubio magico e perfetto. Non si parla solo con la voce e questo è il principale insegnamento dell’arte cinematografica. L’avvento del sonoro portò grande sconvolgimento all’interno dell’ambiente cinematografico e la forma dell’arte mimica venne bandita, si iniziò a parlare per l’orecchio e non più per l’occhio e il cinema si avvicinò molto di più alla dimensione teatrale. Ma, fortunatamente, negli anni si recuperò la bellezza dell’espressività e l’evoluzione del mezzo riportò quest’arte ad un’espressività più variegata e dettagliata. Sono infatti centinaia, oggi, le possibilità compositive ed espressive del cinema.

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La tensione drammatica presente nel volto non poteva rimanere in disparte, essa rappresenta «l’invisibile tormento della tranquillità apparente»;16

svela la tempesta che si scatena sotto la superficie tramite movimenti tenui, appena percettibili. Ciò che accade su un volto è simile a quello che si svolge nel mondo dei microrganismi, in momenti di apparente pace domestica può avvenire una lotta spietata e questo ce lo rivela proprio la microdrammatica dei soggetti. Proprio come quei microrganismi che lottano in una goccia d’acqua e che sono percepibili solo attraverso la lente di un microscopio. Il pubblico deve dunque imparare a leggere i motivi di uno sguardo o di un sorriso:

«i primi piani d’un buon film ci permettono di comprendere anche i motivi più reconditi d’una vita dai molteplici suoni, ci insegnano a leggere lo spartito visivo della vita polifonica» afferma Balàzs.

A questo proposito Jean Epstein notò che il cinema opera una sorta di mimica psicanalitica. Motivo per cui molti reagiscono con ripugnanza all’idea di farsi filmare, consapevoli del fatto che l’obiettivo è in grado di rintracciare in loro saldi segreti che non devono essere svelati. Per questo il cinema esercita sull’umanità un potere ineguagliabile, inquietante e al contempo “terapeutico” e liberatorio. Con la sua eloquenza semplice, concreta, sentimentale e diretta il film tocca l’anima delle folle attraverso un discorso visivo.

Ciononostante al cinema siamo difronte al paradosso per eccellenza e il primo piano ne è la migliore prova: siamo difronte a un momento di profonda interiorità dentro un’immagine di dichiarata finzione.

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Insomma, se la fisiognomica è lo studio dei moti naturali del volto, allora il cinema ne è la sua espressione più alta. Un maestro che insegna a vedere davvero. Sia Simmel che Epstein, sia Ejzenstejn che Balàsz, nell’immenso mare dei loro pensieri, ancorano le loro teorie nella profondità della psiche. La quale, anche secondo loro, si esprime prima di tutto nei tratti del volto.

Sulla scorta di quanto è stato detto, è possibile affermare che lo sguardo col quale si osserva un volto è simile, se non uguale, allo sguardo che si avrebbe guardando un paesaggio, in quanto il volto è un paesaggio. Paesaggio di conflitti e unioni. Ogni ruga porta con sé una storia, ogni sguardo parla di un sentimento, ogni colore racconta di un luogo. È pura comunicazione che diviene universale. Dall’origine della maschera all’evoluzione dell’espressività nel cinema, la fisionomia dei volti resta, nei secoli, territorio vasto e ricchissimo di significati. Se il volto parla di noi è innegabile dunque l’importanza della fisiognomica all’interno del nostro vivere, poiché essa ci parla del nostro rapporto con l’oggetto. Il fatto che i lineamenti del volto equivalgano a specifici stati d’animo è confermato dall’innegabile potenza comunicativa della maschera, la quale fissa caratteri definiti e universalmente riconosciuti. Il cinema è come se volesse riproporre e “far vivere” queste maschere, che divengono massima espressione di unità di senso ed entro cui resta chiusa l’anima del personaggio. Così il film, mezzo di comunicazione per chi guarda e per chi è guardato, diviene veicolo di significati non esprimibili altrimenti. Se già Leonardo da Vinci, poi Simmel e tanti altri hanno affidato al volto un significato così grande, il cinema non ha fatto altro che confermare quanto vere fossero tutte le loro intuizioni. La nascita del film ha dichiarato apertamente l’inizio di una nuova cultura visiva e comunicativa, dando

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l’accesso alla sua comprensione a chiunque volesse tentare di capirla. Il mezzo cinematografico si impegna affinché le sottili sfumature della psiche umana possano venir fuori da un soggetto che si presta “semplicemente” a riprodurle con coscienza; l’attore cioè si presta allo studio approfondito della fisiognomica affinché possa raggiungere una consapevolezza tale da restituire al pubblico quel paesaggio umano che è il personaggio.

Nonostante sia paradossale, l’arte cinematografica rivela a chi sa guardare le singole cellule del tessuto vitale, quelle che si nascondono, ma che in realtà sono sotto gli occhi di tutti e fa “sentire” il vero sapore della materia.

Viviamo il nostro corpo senza conoscerlo davvero e questo si sintetizza nella complessità e completezza dell’espressione del volto. Una totalità assoluta che contiene il dramma che ci attraversa.

In questo elaborato l’obiettivo è dunque “leggere” oltre che guardare un volto. Il tentativo è quello di avvicinarlo il più possibile attraverso l’inquadratura perfetta: il primo piano e grazie a questo raccontare l’incontro per eccellenza: quello tra chi guarda e chi è guardato.

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