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Per una lettura dei notturni veneziani di d’Annunzio

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Academic year: 2021

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DOI 10.14277/2421-292X/AdA-2-15-7

Archivio d’Annunzio

[online] ISSN 2421-292X

Vol. 2 – Ottobre 2015

[print] ISSN 2421-4213

Per una lettura dei notturni veneziani

di d’Annunzio

Ilaria Crotti

(Università Ca’ Foscari Venezia, Italia)

Abstract The analysis is dedicated to one of the most pervasive semantic fields of the Notturno,

that is the ‘space-time’ of the night: a domain that has fostered the development of metamorphic images. Alternating variations and recoveries, the night-related themes – intending night also as epiphanic ‘space-time’ of mourning, of sacrifice, of self-giving – are analyzed both by a rhetorical point of view and stylistic, while the Venetian promenades that set the rhythm of the textual syntax, describing even the urban space of a Venice obscured by war, are vivid occasions to discover the persistent polymorphism of the first person that lives and writes.

Keywords D’Annunzio prose writer. Notturno. Thematic criticism.

In una missiva indirizzata il 14 febbraio 1917 ad Adolfo de Carolis, d’An-nunzio prescriveva all’incisore,1 ammirato in special modo per le

illustra-zioni che avevano impreziosito l’apparato figurativo dell’edizione Zani-chelli dei Carmina pascoliani (1914), la traccia vincolante cui attenersi per corredare di immagini la princeps del Notturno:

Per i disegni: simboli della notte, emblemi della profondità, figure fu-nebri. Su la copertina, forse una figura sorella di quella tua Phidyle. Le ali della Notte piegate, dalle tempie, a ricoprire gli occhi. Uno sguardo intenso, uno sguardo spirituale, di sotto un’ombra di penne. La vita in forma di allucinazione. (Coletti 1977, p. 21)

Uno stralcio di scrittura epistolare, codesto, in cui ricorrono alcune tra le più eloquenti parole chiave del Notturno:2 notte, funebre, sguardo,3 ombra,

allucinazione; mentre, da un punto di vista retorico, ecco avvicendarsi 1 Sull’intenso legame artistico intercorso cfr. Adolfo De Carolis, in Salierno 1989, pp. 95-128. Più in generale, per quanto concerne il rapporto col figurativo, rimando agli interventi confluiti nella sezione Il «Notturno» e le arti figurative, in Mariano 1991, pp. 277-387. 2 Mi attengo all’edizione Andreoli, Zanetti 2005a [= N].

3 Mi sono già soffermata sul polimorfismo dello sguardo notturno, interpretato anche in accezione stilistica, in Crotti, in Mariano 1991, pp. 331-358.

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termini quali simbolo, emblema, figura. Ci troviamo dinanzi, insomma, a una sorta di assai lucido micro manifesto semantico e stilistico che, a quell’altezza, quando il testo, datato nell’explicit dell’Annotazione 4 no-vembre 19214 ma destinato a comparire in libreria il 22 di quel mese,

re-stava ancora in parte in fieri, fermo all’elaborazione della terza delle sue cinque fasi, situabile tra l’autunno del 1916 e il marzo seguente,5 prefigura

per approssimazione quello che sarà l’esito finale.

Se i temi rimandanti alla notte e le dimensioni spaziotemporali evocate dai notturni, in ogni rivisitazione analogica o metaforica possibile, come nei loro compositi travestimenti metamorfici, costituiscono il registro prevalente, per non dire ossessivo, della fittissima rete di immagini imper-versante senza posa nella prova dannunziana, anche in relazione al ‘mito personale’, dai risvolti sia privati che pubblici e politici,6 costruito con

determinazione dall’io che scrive, nella presente occasione mi soffermerei più in dettaglio suoi luoghi testuali in cui le notti, e in particolare quelle veneziane, appaiono declinate su uno spartito più referenziale, mentre il quoziente analogico parrebbe tenuto sottotraccia. Con l’avvertenza, alta-mente necessaria quando si guardi al caso d’Annunzio, che la relazione tra la sfera dell’oggettivo/referenziale e una più fictional si rivela non solo apparecchiata ad arte, ma anche programmata in sinergia; così da supportare un ritmo alterno e un andamento pausato, affatto funzionale a quella costruzione per dislivelli e per trapassi che contraddistingue l’o-pera: una composizione le cui scansioni sia strutturali che timbriche, ora martellanti, ora sfumanti nel silenzio, mirano ad assimilarsi ai momenti difformi del volo, talvolta assordanti, talaltra inclini a un oblio estatico quasi assoluto.7

4 È noto come la scelta della data fu dettata da motivazioni ideologiche e simboliche, non solo perché celebrativa del terzo anniversario della vittoria, ma anche in omaggio alla tumulazione del Milite Ignoto sull’Altare della Patria, a Roma.

5 Rimando in merito ai contributi di Carla Riccardi, L’elaborazione del «Notturno»: il delirio

lirico organizzato, in Convegno 1987, pp. 37-61, e Luisa Magrini, I cartigli del «Notturno»,

in Convegno 1987, pp. 29-36.

6 Per quanto concerne quest’ultimo ambito cfr. Mario Isnenghi, D’Annunzio e l’ideologia

della venezianità, in Mariano 1991, pp. 229-244.

7 Librato nel silenzio del motore ma nella sonorità di un canto vocale quasi mistico è, ad esempio, quell’esperienza di volo verso Pola che Miraglia stesso, rapito dinanzi allo spet-tacolo primigenio di un’alba, rivela all’io ‘notturno’: «Allora il buon pilota gli confidò non senza timidezza che una mattina, essendo partito per Pola prima della levata del sole ed essendo giunto nel mezzo mare, vide il disco rovente sorgere nella nebbietta lontana e tutte le acque giubilare ‘a quel primo colpo di tìmpano’. Egli lasciò le leve e incrociò le braccia. E, mentre l’Albatro abbandonato a sé stesso ondeggiava nell’aria tranquilla, si mise a cantare inventando le parole e la musica del suo canto. E soltanto così comprese l’ebrezza di san Francesco nel Cantico delle Creature. Né poi ebbe più memoria di quelle parole e di quella musica» (N, pp. 261-262).

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Insomma, se il registro afferente al reale risulta qui giustapposto ad al-tri, invece declinabili sul versante dell’invenzione, di natura autobiografica o memoriale che sia, relativa al dominio del sogno o ai molteplici proce-dimenti di condensazione e spostamento di cui si nutrono le tre ‘offerte’, opzioni siffatte mirano alla creazione programmatica di alternanze e di avvicendamenti estremamente eloquenti, governati come sono dalle leggi della ripresa, della variazione e della discordanza.

È noto come nella prova dannunziana convivano e si giustappongano livelli diversi, che provvedono a contaminarsi a vicenda. Le immagini della notte, infatti, ove flesse sul registro metaforico o, addirittura, allegorico, si dilatano ad oltranza, colonizzando campi semantici molto estesi, inte-ressanti i territori dell’ipogeo come le loro poliedriche pertinenze ctonie. Esse chiamano in causa svariate icone connesse ai temi del buio, del lutto, del sacrificio e della morte, qui ricodificati in quanto stratigrafia ‘profon-da’ sia dell’esistenza, sia del soggetto che, esperendola, la patisce. Ecco, quindi, un proliferare di serie di significati che si avvalgono di una nutrita sequenza di epifanie oggettuali: il letto come bara e come velivolo, le assi di legno che li assemblano, la culla mortuaria, gli apparati funebri, gli strumenti di tortura e di morte, la trincea devastata.

Come mi pare rilevante, per addurre un singolo episodio, sebbene indi-cativo, che la sconvolgente scoperta/invenzione dell’agonia prima e della morte poi, esperite per la prima volta durante l’infanzia, sia narrata all’al-tezza della Terza offerta mediante il recupero memoriale del frangente del-la morte di Aquilino, l’amatissimo cavallino sardo: evento spiato attraverso l’apertura della carrozza degli sponsali stazionante nella rimessa pesca-rese, quindi posto come in cornice. Rappresenterà, questo, un frangente determinante per l’iter formativo dell’io che scrive, in occasione del quale il tempo della notte, una volta ricondotto alla festività della Commemo-razione dei Defunti, nella loro veste ambivalente di portatori ‘notturni’ di doni ai bambini, offre parametri estremamente incisivi («Dallo sportello, stretti nello sbigottimento, noi guardavamo senza piangere, con un cuore serrato che non lasciava passare né una goccia di sangue né una lacrima di dolore. Guardavamo per la prima volta la morte, noi che non ci avevamo mai pensato se non nella notte dopo Ognissanti per aspettare che ci portas-se i suoi doni»; N, p. 352). Notte per antonomasia di lutto, codesta, dove i segni di morte giustapposti a quelli traditi da usanze ancestrali erano già stati annunciati all’altezza della Prima offerta in occasione della morte di Giuseppe Miraglia («I morti passeggiano stanotte, come nella notte tra Ognissanti e il Due novembre»; N, p. 173).

Allora la tematica suggerita dalla notte, paradigma determinante anche per interpretare quel Bildungsroman rovesciato di segno che è il

Nottur-no, appare strettamente connessa alla costruzione della sagoma

polimor-fa dell’io che scrive: una prima persona onnipresente persino in quanto ombra di se stessa, la quale, anche grazie alla sua esibita ‘estraneità’, si

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assimila addirittura a un «animale notturno», larva visitata a sua volta dalle parvenze altrui («A ogni volta, passando davanti allo specchio, scorgo nell’ombra un estraneo dal capo bendato. | Quando m’accosto al letto, il mio piede si fa più lieve sul tappeto, come la zampa di un animale notturno che traversi una prateria»; N, p. 379).

Né va sottaciuto che nel testo appaiono non solo ricorrenti, ma anche scandite, alcune immagini notturne riservate a città, quali Roma, Pisa, Atene e Tebe, rivestenti un significato perspicuo nell’iter biografico e ar-tistico dannunziano; come se, grazie alle peculiarità che una dimensione siffatta contempla, quelle ritenute più indicative, anche da un punto di vista storico, avessero modo di rivelarsi in tutta la loro magnificenza, esaltata proprio dalla caducità: fastosità insidiata dalle ingiurie inflitte dagli eventi e dal tempo.

L’occorrenza pisana, narrata all’altezza della Seconda offerta è, in que-sta linea interpretativa, icastica, laddove gli spazi di Piazza del Duomo, del Battistero e del Camposanto, battuti dalla pioggia di marzo, lambiti da un’acqua contaminata dalla putredine e letti nella penombra dell’imbruni-re, in compagnia di Ghìsola, assurgono a epifania del transeunte:

Allora scendemmo dalla soglia liscia. Abbandonammo il bronzo e il mar-mo per l’erba. Imbruniva. Eravamar-mo soli. E la vita ci conduceva per la mano indulgentemente.

Si diceva che dalle gore e dai canali, di là dal Camposanto, si levasse verso sera una febbre tacita e venisse a vagare pel prato pio. Ma non sentimmo se non il brivido della primavera molliccia. […]

Imbruniva. L’ombra del marmo era cerulea. È quello un marmo che a vespro fa il turchino come il lapislazzuli. Inazzurrava l’erba, quasi con una pennellata d’oltremare. (N, p. 231)

Circoscrivere la presente analisi alle occorrenze in cui Venezia viene narra-ta nottetempo, pernarra-tanto, non può indurre a ignorare le molte sfaccetnarra-tature del poliedro che le fanno corona, dal momento che è la forma medesima del testo, ma non solo, anche la sua elaborata stratigrafia semantica, a reclamarlo.

Esordirei con le sequenze destinate a dare conto ossessivamente dei tragitti che gravitano attorno a quello che è il fulcro dell’andirivieni, ov-vero la salma dell’aviatore, nonché amico carissimo, Giuseppe Miraglia, caduto il 21 dicembre 1915 assieme al motorista Giorgio Fracassini nel mare veneziano, durante il volo di collaudo di un idrovolante.

I ben quattro attraversamenti di Venezia, processioni luttuose che si avvalgono della forma della promenade privandola dei suoi tratti

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cultural-mente ameni e socialcultural-mente dilettevoli8 per convertirla in una sorta di

pro-cessione misterica, di sacra rappresentazione e di danza macabra iterata, trasformano la città in una ‘corsia’ di morte: percorrerne le varie tappe per soffermarsi dinanzi ad alcune ‘stazioni’ significa anche esperire un iter di espiazione e di lutto che si rivelerà carico di drammaticità.

La prima delle promenades si fa riferire alla sortita notturna del 26 di-cembre 1915, Santo Stefano, in compagnia dell’ufficiale di Stato Maggiore Manfredi Gravina, col proposito di accompagnare la figlia9 all’Albergo

Danieli, dove Renata alloggiava, e al ritorno in solitudine nella dimora prediletta, la Casetta rossa, affacciata sul Canal Grande accanto a Palazzo Corner.10 Le sue tappe, pertanto, toccano in più punti Piazza San Marco,

oltrepassandola, per guadagnare poi Riva degli Schiavoni, dove è ubicato il Danieli; più minuta la resa del percorso inverso, modulato da soste sulla Riva, all’altezza della Piazzetta, indi sotto le lampade azzurre delle Pro-curatie, sul Ponte di San Moisè, per poi trattenersi dinanzi alla calle che conduce alla Corte Michiel, nei cui pressi abitava Miraglia, alla chiesa di Santa Maria del Giglio e, infine, in Campo San Maurizio. La ‘passeggiata’, infatti, è segnata da una presenza-assenza ossessiva, quella dell’ombra di Miraglia, mentre la notte veneziana, vigilia del seppellimento del caduto, è percorsa da immagini fumose di nebbia, tradotte nei timbri assieme cromatici e musicali, perché anche prossimi alle sonorità di Debussy, del grigio azzurro e del bianco; toni cari, peraltro, ai cromatismi della pittrice americana Romaine Brooks, Cinerina, a quell’altezza impegnata a ritrarre il poeta en aviateur nel suo atelier alle Zattere. Sono l’aria e l’acqua che sembrano permutare a vicenda le loro sostanze, ottenebrando la percezio-ne di ogni eventuale suono. Anche l’andamento sintattico e lo stile nomina-le rinnovano nella scrittura i radi passi dei ‘viandanti’, quasi caracollanti sul limitare dell’Ade:

8 Alcune note indicative riservate alla promenade, in quanto esperienza del paesaggio me-diata dalla letteratura, in Marthe Dozon, Promenades dans Rome, in Caspar 2004, pp. 179-185.

9 Mi sono occupata del ruolo svolto dalla figlia naturale di d’Annunzio e di Maria Gravi-na Anguissola Cruyllas di Ramacca, appartenente a uGravi-na nobile famiglia siciliaGravi-na, ReGravi-nata Anguissola di San Damiano, appellata Sirenetta nel Notturno, e della stesura di un suo

Notturno che il padre provvide a censurare, in Crotti 1997, pp. 9-34.

10 L’occhio accorto e sensibile del Damerini ha indugiato sulla descrizione degli interni della casetta, eretta da Fritz Hohenlohe: «una scatola, ove lo spazio fu utilizzato con in-telligenza fino all’ultimo centimetro cubico e dove la suppellettile Luigi XVI entrò adagio, pezzo per pezzo, scelta con infinito scrupolo e con sicura conoscenza, minuta e leggera come le dimensioni delle stanze richiedevano. Nel ’96, quando il poeta la frequentò con e senza la Duse, il lavoro di selezione dei mobili, delle pitture, delle decorazioni era ancor lungi dall’aver raggiunto quel meraviglioso equilibrio, quella perfezione stilistica che toccò qualche anno più tardi con la sostituzione delle pareti a specchi che le davano l’aspetto di un ambiente subacqueo alle pitture della sala da pranzo ricordate nella descrizione dan-nunziana» (Damerini 1992, pp. 53-54).

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Usciamo. Mastichiamo la nebbia. La città è piena di fantasmi.

Gli uomini camminano senza far rumore, fasciati di caligine. I canali fumigano.

Dei ponti non si vede se non l’orlo di pietra bianca per ciascun gradino. Qualche canto d’ubriaco, qualche vocìo, qualche schiamazzo.

I fanali azzurri nella fumea.

Il grido delle vedette aeree arrochito dalla nebbia. (N, p. 173)

Già a questa altezza, nell’ambito della Prima offerta, ecco farsi avanti l’immagine di una Venezia letta come una sorta di oltretomba percorsa da insistiti segni di morte, mentre il lutto non esita a rivestirsi di cadenze orride e macabre: «Una città di sogno, una città d’oltre mondo, una città bagnata dal Lete o dall’Averno», dove «I fantasmi passano, sfiorano, si dileguano» (N, p. 173), a lato di coloro che la attraversano. Rappresente-rà, codesta, un’interpretazione della città destinata a essere ripresa con insistenza, così da assurgere a vero e proprio cliché per altre prove future, e non solo dannunziane.11 Infatti lungo l’itinerario del ritorno il solitario

percepirà accanto a sé la presenza di «qualcuno che cammina al mio fianco senza rumore, come se avesse i piedi nudi» (N, p. 174):

È qualcuno che ha la statura del mio compagno, la sua corporatura stessa, la sua andatura.

Ha un vestito neutro, indefinibile, di color grigiastro, con un berretto anche grigiastro.

È silenzioso, d’un silenzio singolare, come se non abitasse in lui alcuna voce né alcun soffio.

Cammina senza tacchi, senza scarpe, senza sandali.

Ho una sensazione istintiva di terrore. Rallento il passo. Lo vedo di-nanzi a me. (N, p. 174)

La larva inquietante di Miraglia, quella notte di vigilia ancora senza pace, in attesa com’è di sepoltura, a fianco del vivo in un primo momento, indi, ol-trepassatolo, dinanzi a lui, per poi ritornargli accanto, fluttuare lieve, farsi ombra grigia e svanire inspiegabilmente nel nulla («Lo sconosciuto diventa più grigio, più lieve; si fa ombra»; N, p. 175), trasforma il promeneur, il quale, anche ritornando sui propri passi, tenta invano di mettersi sulle sue tracce, in un investigatore dell’oltre. Quello sconosciuto, d’altro canto, si assimila a una specie di personaggio persecutore, affine per alcuni tratti a quei personaggi/fantasma pirandelliani che assillano il loro autore senza 11 Una disamina capillare dei molti nessi che legano d’Annunzio a Venezia, condotta con acribia sia in direzione testuale che contestuale, in Giacon 2009, pp. 17-98.

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concedergli tregua.12 Il terrore di incappare di nuovo nella perturbante

sagoma umbratile lungo la porzione finale del tragitto, una volta che ci si è infilati «nella calle strettissima che conduce alla Casa rossa» (N, p. 175), dove non esistono vie di fuga, viene espresso a chiare lettere.

Né va sottaciuto un dato referenziale, caratterizzante la dimensione notturna della città, oscurata nottetempo a causa del coprifuoco,13 che

d’Annunzio, da parte sua, traspone in ben altri termini, allegorizzandone l’abbandono e l’inerzia («Costanza nell’azione viva, nell’inerzia di Venezia, nella caligine della città sparente che la guerra sembrava aver vuotata perfino degli ultimi rimasugli vitali»; N, p. 176).

La seconda uscita notturna, ancora all’altezza della Prima offerta, com-piuta un’analessi, è riservata al resoconto molto dettagliato di una sera-ta non felice, quella del 20 dicembre 1915, ossia la precedente il giorno della morte del Miraglia, trascorsa dapprima di malavoglia in trattoria, in compagnia di Renata, Cinerina, Alberto Blanc, il «costruttore di bombe incendiarie e di telemetri» (N, p. 179), e Manfredi Gravina, mentre si an-nota in uno stile prettamente diaristico: «Pessimo pranzo, conversazione svogliata. Renata è triste. Alberto è di umor nero, parla poco. […] Portano frutti insipidi. La vita a un tratto perde ogni sapore. Quella stanza è fredda e bianca come un ospedale» (N, p. 182).

Dopo la cena il gruppo intraprende un tragitto in parte affine a quello nar-rato in precedenza, sebbene destinato a verificarsi successivamente, scortan-do Renata fino al Danieli. Ma è l’assenza ‘ingombrante’, e rimpianta da tutta la brigata, del comune amico Miraglia, non disponibile poiché di guardia a Sant’Andrea che viene evocata di continuo: quel suo ‘non esserci’ sembra preannunciare un distacco d’altro segno. Proprio quell’assenza si rovescia in una presenza quasi ossessiva: il Gravina che ne richiama le movenze («Manfredi racconta come ogni volta che Miraglia esce dalla trattoria su la fondamenta, batta il naso nel muro»; N, p. 182), la inserviente del caffè al Ponte dei Baretteri va in cerca della sua sagoma tra il gruppo dei clienti abi-tuali («La ragazza rossa sembra cercare con gli occhi Beppino, il compagno abituale, che non c’è»; N, p. 182), Gravina e Renata all’uscita del locale non possono che intrattenersi parlando di lui («Nell’uscire, Manfredi e Renata vanno innanzi. Da qualche parola che mi giunge, sento che egli le racconta gli anni d’Accademia passati con l’amico nostro a Livorno»; N, p. 182). 12 Mi riferisco, ad esempio, a una novella paradigmatica in questo senso come «La tra-gedia d’un personaggio», apparsa sul Corriere della Sera il 19 ottobre 1911, ma anche a «I fortunati» (1911), «Risposta» (1912), «I pensionati della memoria» (1914) e «Colloqui coi personaggi» (1915), dove la ricerca che investe lo statuto del personaggio ‘da fare’ prean-nuncia l’imminenza della scena. In merito si veda Puppa 1987, pp. 33-62.

13 Per avere contezza delle condizioni oggettive in cui versava la città in tempo di guerra, della capillare rete difensiva contraerea approntata sulle altane, e delle incursioni aeree che ne lesero in vari punti il tessuto urbano si veda Damerini 1992, pp. 129-148.

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L’itinerario tocca questa volta le Mercerie per oltrepassare il Ponte dei Baretteri e fare ingresso da quel lato in una Piazza sovrastata dalla luna, la cui luminosità biancheggiante gioca a contrasto con l’oscurità della calle («Dal sottoportico sbocchiamo in Piazza, entriamo nell’incantesimo. | La luna è quasi piena. L’aria è fredda. | La Merceria s’abbuia, stretta e ingombra»; N, p. 182). Nelle tappe successive ecco il Ponte della Paglia e la Riva degli Schiavoni, mentre si diffondono musiche provenienti dal Caffè Orientale, ubicato presso il Danieli. Renata, tuttavia, esprime il de-siderio di non rientrare subito in albergo e quindi la comitiva prosegue, scortando Manfredi fino all’Arsenale: occasione propizia per osservare alla luce lunare «i Leoni mandati in dono alla Patria da Francesco Moro-sini conquistatore della Morea. C’indugiamo a riconoscere quale sia il più bello» (N, p. 183). È solo dopo questa tappa, atto di ossequio alla potenza navale veneziana nel Mediterraneo, che il piccolo gruppo si separa: il pa-dre torna sui propri passi e riaccompagna la figlia al Danieli, accomunati da un sentimento di tristezza per la «serata perduta». Infatti, in quella immediatamente precedente del 19 dicembre,14 la presenza di Miraglia

aveva impresso tutt’altro segno ai percorsi iterati degli amici: «Siamo tristi come d’una serata perduta. (La sera innanzi avevamo ricondotto Beppino alla riva, dove l’aspettava il canotto; ma egli aveva voluto tornare indietro per ricondurre Renata fino alla porta)» (N, p. 183).

Le andate e i ritorni più volte iterati, pur subendo leggere variazioni, perimetrano, allora, un tempo-spazio il cui piano referenziale non può non sottendere un senso anche allegorico, mentre quell’insistito ‘passeg-giare’ notturno,15 avanti e indietro, si tramuta in una sorta di processione

rituale, foriera di distruzione. Così l’omaggio finale compiuto in solitu-dine al bassorilievo di Zara, adornante la facciata della chiesa di Santa Maria del Giglio, mediante l’atto dello sfiorarne la superficie marmorea («Mi soffermo, come sempre, davanti a Santa Maria del Giglio e tocco il bassorilievo di Zara»; N, p. 183) – movenza che verrà iterata di lì a poco16

per rendere onore a una città prescelta anche come obiettivo militare

14 Un resoconto puntuale dell’ultima serata che Renata trascorse in compagnia di Mi-raglia, il quale aveva raggiunto padre e figlia solo dopo cena, per poi compiere assieme l’attraversamento di una Venezia oscurata, fredda e nebbiosa, è descritto punto per punto in Crotti 1997, pp. 53-54.

15 A proposito di tutt’altra tipologia di passeggiata notturna, in compagnia di Baccara, nell’immediato dopoguerra veneziano cfr. Crotti 2013.

16 Lapidario il rinvio che si compie quando tutto è ormai avvenuto, come a riprodurre sintatticamente i ritmi di quella che era stata un’ammaliante passeggiata, tramutatasi in una corsa cieca e convulsa: «Fuggo. Ho la schiena ghiacciata dai brividi. | Santa Maria del Giglio: il bassorilievo di Zara. | I ponti. | La calle stretta» (N, p. 194).

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simbolico, al fine di iterare il significato già attribuito al volo triestino –17

rimanda a una gestualità che non può che trasformarlo in una specie di arca mortuaria.

Certo è che nel Notturno di Renata l’omaggio tributato al bassorilievo zaratino viene descritto come prassi quasi liturgica collettiva, non già indi-viduale, pegno di una comunanza d’intenti tra la figlia, il padre e Miraglia: «Ma sempre, prima di giungere sulla Piazza San Marco, ci fermavamo dinanzi alla Chiesa di Santa Maria del Giglio, e le nostre mani carezzava-no la pietra bruna della facciata cercando di ricocarezzava-noscere la forma lunata di Zara e i nostri occhi s’incontravano lucenti di speranza» (Crotti 1997, p. 52). Come è ancora Renata, segretamente innamorata dell’aviatore, che ne tratteggia un profilo intrigante ed enigmatico, indovinando su quel suo volto la coesistenza di cifre del meduseo e di fattezze quasi infantili. La figlia, pertanto, suggerisce una descrizione che aiuta anche a penetrare alcuni risvolti dell’ammirazione affascinata nutrita dal padre per la figura:

Aveva un viso caratteristico dai lineamenti marcati e un poco duri e due occhi verdastri sotto le palpebre pesanti e quasi sempre semichiuse. Pareva che avesse il peso di un pensiero fra ciglio e ciglio, ma a volte si rischiarava tutto in una gaiezza improvvisa e quasi infantile.

Sorrideva di un suo sorriso fra ironico e bonario, quando era con estranei, e parlava poco; ma quando eravamo noi tre soli nel piccolo salotto raccolto dinanzi al caminetto, il suo viso si trasformava, e dai suoi occhi verdastri traspariva l’anima semplice e ardita.(Crotti 1997, p. 51) Passo ora alla terza ‘passeggiata’ notturna, successiva alle precedenti solo se ci si attenga all’ordine fittizio allestito dall’intreccio, non già a quello, invece consequenziale, regolato dalla fabula.

Siamo ancora all’altezza della Prima offerta, l’incidente aereo che è costato la vita a Miraglia si è ormai verificato ed «È venuta la notte» (N, p. 188). L’io che scrive va dapprima a genuflettersi dinanzi alla salma di Miraglia, già trasportata presso l’Ospedale della Marina, il Sant’Anna, indi torna alla Casetta rossa, incontra Renata che lo attende in lacrime, entra nella sala da pranzo, apparecchiata in precedenza per loro tre, raccoglie 17 Renata nella sua versione del Notturno fa riferimento in modi limpidi all’impresa di Za-ra, il cui progetto, databile all’altezza del novembre del ’15, aveva accomunato le aspirazioni patriottiche del padre e dell’amico Beppino: «Mio padre lavorava nel suo studio, scriveva allora l’Ode alla Serbia; e noi nel salotto, accanto al fuoco, parlavamo di lui con lo stesso entusiasmo e lo stesso affetto; e del gran volo che essi speravano prossimo per recarsi a Zara a lanciare, come a Trieste, dall’alto, un saluto ed un incoraggiamento. | Così la sera quando l’assente, terminato il lavoro, scendeva ad unirsi a noi, erano lunghe discussioni chini sulla carta per stabilire la rotta più breve e più sicura, oppure discussioni tecniche sulla efficienza degli apparecchi che io cercavo di comprendere, senza osare d’interrompere per domandare spiegazioni» (Crotti 1997, pp. 51-52).

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in un unico fascio tutti i fiori presenti, destinati ad allietare un convito intimo trasformatosi in tragedia e, in un andirivieni convulso, fa di nuovo ritorno nella camera mortuaria per disporli attorno al corpo del defunto, deponendo le profumatissime giunchiglie bianche «sul rosso e sul verde della bandiera» (N, p. 189).

Il rientro nella camera mortuaria, dove ogni ora della notte di veglia fu-nebre, ogni presenza, ogni visita, ogni mutamento che interviene sul volto tumefatto del deceduto sono scrutati con attenzione morbosa, risulta de-scritto con una precisione terribile. Scocca la mezzanotte e sopraggiunge la visita del comandante Giulio Valli, «un uomo fine, filosofico, temprato d’ironia, indulgente, forte e flessibile, fatto per comprendere e per pre-giare una natura come quella di Giuseppe Miraglia» (N, p. 190), che alle ore due di quello che è oramai un 22 dicembre se ne va.

Il trascorrere delle ore, reso lentissimo, cronometrato quasi minuto per minuto, scandito dal cambio di guardia dei marinai, che si avvicenda ogni due ore, come se la durata del tempo della lettura venisse equiparata a quella degli avvenimenti narrati, si traduce in una riformulazione dei para-metri temporali; dato stilistico, codesto, che caratterizza in vari modi tutto il testo, dove il tempo dell’avventura mira a entrare in rotta di collisione con quello della scrittura, mentre è la percezione soggettiva della durata che rifonda l’ordine degli eventi, così da alterarne i criteri per poi tradurli in acronia («Nuova nozione del tempo. Lotta fra l’imagineviva, continua-mente creata dal ricordo, e il corpo immobile»; N, p. 190).

L’azzeramento della diacronia, del resto, è un tasto toccato più volte in questa prosa; ad esempio nei passi seguenti, entrambi compresi nel-la Seconda offerta, il primo dei quali volto a dare conto delnel-la propria malattia come di una «essenza magica», persino in grado di scardinare l’andamento biografico di un io che è, nel contempo, antico e futuro («Davvero dunque la malattia è d’essenza magica? | Tutto è presente. Il passato è presente. Il futuro è presente. | Questa è la mia magìa. Nel dolore e nelle tenebre, invece di diventar più vecchio, io divento sempre più giovine. | Eco di antichi e di futuri tempi»; N, p. 266); mentre nel secondo è il ricordo dei combattimenti d’artiglieria all’Isola Morosina, risalenti all’ottobre del ’15, ad azzerare ogni eventuale intervallo tem-porale: «E anche una volta tutto diviene presente e vivente, tutto palpita e sanguina» (N, p. 297).

Sono ormai le cinque del mattino allorché colui che ha trascorso ogni ora della notte in una veglia ossessiva accetta di coricarsi su un lettuccio situato al primo piano, pur non riuscendo a dormire, accecato da una lam-pada elettrica che resta accesa sopra di lui, assillato, tra sopore e sonno, dalla visione e dal sogno della maschera mortuaria del defunto: «Si scopre, si disviluppa dal mantello nero. Non è lui: è una maschera, una di quelle maschere bianche ingessate che i Veneziani portavano con la bauta» (N, p. 191). La dimensione notturna, pertanto, visitata da sogni e da

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pertur-banti incubi mortuari, tende a dilatarsi ad oltranza, dilagando anche nelle prime ore di una tarda alba dicembrina.

La seconda tappa notturna è ancora più terrificante della precedente, dopo una giornata trascorsa tra la casa e il Sant’Anna a osservare ora dopo ora oltre alla salma, che col passare delle ore muta aspetto e forma, irri-gidendosi progressivamente, la metamorfosi della città medesima; come un’Araba Fenice che, tuttavia, non trova modo di risorgere dalle proprie ceneri: «Venezia in cenere. La morte per tutto» (N, p. 192). Ed è già notte, quella del 22 dicembre, allorché si compie per l’ennesima volta il percorso inverso, dalla camera mortuaria alla Casetta Rossa: iter che, pur scandito da una precisione toponomastica singolare, ha ormai acquisito un senso che travalica il piano referenziale. Ecco che, percorrendo a piedi prima la fondamenta di Sant’Anna, indi via Garibaldi, animata anche a quelle ore, l’unica presenza allucinata in cui si incappa è quella, per antonomasia fantasmatica, del defunto: «La luna è già alta, dietro il tetto dei dieci ca-mini. Fa freddo, un freddo secco. La via Garibaldi è piena di popolo. A ogni momento ho un’allucinazione: vedo Beppino che mi cammina davanti, col suo mantelletto nero, col suo andare spedito» (N, p. 193).

La via del ritorno verso casa induce a ripassare per l’ennesima volta nei luoghi già menzionati più volte, celebri per la loro bellezza, sebbene assurti oramai a una fama sinistra per il senso del tragico loro attribuito. E daccapo, Riva degli Schiavoni, la Piazzetta, Piazza San Marco, la Corte Michiel, Santa Maria del Giglio, dove sta incastonato il bassorilievo di Zara. Ma si tratta di una pausa di poche ore, soprattutto per restare vici-ni a Renata, se ancora quella notte, alle tre – siamo pertanto quasi vicivici-ni all’alba del 23 dicembre, il giorno già consacrato al volo su Zara – si esce nuovamente nel buio per dirigersi verso la camera ardente.

Alla Venezia notturna e lunare, in questa contingenza, si attribuisce una veste ulteriore, quella di un cristallo che sembra sigillare nel silenzio un’urna mortuaria vegliata da ombre:

Notte di luna, adamantina.

Venezia defunta e chiusa nel diamante perenne.

Le calli e i campielli deserti. Il suono del mio passo quasi spaventoso. Mi scocca l’ora sul Ponte della Paglia; e il grido delle altane si propaga nella chiarità sonora.

Lungo la fondamenta di Sant’Anna, vedo sul muro di una casa illumi-nata dalla luna l’ombra del soldato che veglia sopra un’altana in arme. (N, p. 194)

La giustapposizione tra la cruda realtà della morte con l’apparato lu-gubre che le fa da cornice, una volta constatato che l’armonia dei fiori attorno alla salma è stata scomposta («Forme senza bellezza. | La forma pura della corona è pervertita»; N, p. 195), stride ancor più

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dolorosa-mente se rapportata al miraggio di una giornata che avrebbe dovuta essere emblema di gloria, all’insegna di riti preparatori e di una vesti-zione simbolica contraddicente in termini le condizioni in cui versa la povera ‘spoglia’:

S’egli fosse vivo! A quest’ora ci prepareremmo, ci vestiremmo delle no-stre pellicce, proveremmo le nono-stre armi, metteremmo i nostri camauri lanuti, i nostri calzari di pelle. Saremmo allegri, agili, fidenti. Giorgio sarebbe là a preparar tutto nei nostri sedili. Il sacco dei messaggi sa-rebbe già riposto sotto il cofano del motore, come quello di Trieste… (N, p. 195)18

Passo ora alla Terza offerta, dove compare una dimensione notturna esemplare. A detta altezza, per la precisione nel passo in cui si narra della catastrofe aerea, verificatasi il 3 aprile 1916, che costò la vita a un altro amico carissimo di Miraglia, Luigi Bresciani, e, assieme a lui, al suo collaboratore Roberto Prunas e ai due motoristi, mentre era in corso l’ultimo volo di collaudo dell’idrovolante progettato dallo stesso pilota, al fine di portare a termine l’impresa zaratina rimasta incompiu-ta, e già pagata a caro prezzo da Beppino,19 ancora una notte non più

invernale ma, forse più crudelmente, primaverile, di un aprile tiepido e profumato, assurge a tempo spazio ideale per iterare lo strazio del lutto, rivivendolo reduplicato.

La soluzione stilistica e retorica della ripresa con variazioni, una delle scelte formali più care a d’Annunzio nelle diverse fasi della scrittura ‘not-turna’, anche perché atta a modulare sia ritmicamente che musicalmente i leitmotiv che l’attraversano in più direzioni, mira a ‘riesumare’ a detta altezza alcune immagini legate alla morte di Miraglia per poi sovrapporre le sue cifre a quelle dedicate alla fine, per molti versi speculare alla pre-cedente, di Bresciani:

Ed è la seconda notte di aprile. È l’interlunio. Vedo, attraverso il tetto, il cielo stellato. Le stelle di primavera sembrano nuove come i fiori del mandorlo. Profumano l’azzurro il vento e l’ansia della giovinezza.

Voglio respirare le stelle d’aprile. (N, p. 323)

Nella notte destinata a precedere il disastro, mentre le capacità visive di colui che scrive travalicano in potenza ogni barriera per fare proprie 18 I puntini sono originali.

19 Alcune preziose osservazioni dedicate ai preparativi del volo di Bresciani, alle carat-teristiche tecniche del pesante apparecchio, le cui ali non avevano retto al carico, piegan-dosi alla giuntura, come alla tensione ideale che aveva animato l’impresa sono compiute in Crotti 1997, pp. 71-77, 92-94.

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facoltà sinestesiche quasi astrali, la rielaborazione dell’evento è segnata da interrogative retoriche tese a sottolineare il rimpianto per la dipartita prematura del Bresciani («Perché, Gino, te ne sei andato così presto?»; N, p. 323), mentre si attribuisce alla nozione di ‘partenza’ valenze certo non univoche.

L’occasione sarebbe stata sprecata, poiché smarrita l’opportunità di ve-der ricomparire l’altra cara ombra, quella del Miraglia, ritta e interposta tra i due viventi; un’epifania mancata, insomma, che avrebbe trasformato quella serata in una sorta di seduta spiritica rivissuta intimamente:

Se tu fossi rimasto ancóra, se tu avessi lasciato andar via Roberto Pru-nas e fossi rimasto ancóra un poco, solo con me, certo avremmo veduto riapparire colui che amammo a gara; ed egli sarebbe stato in piedi fra il mio capezzale e la tua sedia.

Perché avevi tanta fretta? (N, p. 323)

Il rammarico induce a recuperare ancora una volta, sul filo della memoria, lo spartito marmoreo di Zara, in quanto tappa del caso e del destino, che diviene, allora, correlativo oggettivo della sequenza dei lutti, fattosi sito obbligato di ogni incontro, come di ogni commiato: «Ti aspettavano i tuoi cani, che una sera di decembre ti annunziarono a me e a Beppino mentre eravamo tutt’e due soffermati dinanzi al bassorilievo di Zara in Santa Ma-ria del Giglio?» (N, p. 323).

L’unico ricordo di una notte veneziana percorsa da una gioia che, tutta-via, assediata com’è dalle forme e dai linguaggi del lutto, viene sfregiata dalla desolazione, si ricollega a quello che, ancora una volta all’altezza della Prima offerta, recupera sul filo della memoria il ritorno in barca dal cimitero di San Michele, dove la bara di Miraglia, deposta provvisoria-mente in una squallida camera di deposito, deve attendere la tumulazione definitiva. Al corteo funebre ha assistito in lontananza anche l’amante dello scomparso, Rosalinda,20 la quale ambirebbe incontrare l’amico a lui

più caro. Ed ecco che la reminiscenza di un’antecedente ‘gita’ notturna, compiuta assieme in barca nel mese di agosto e segnata da una fosfore-scenza inquietante – bagliori sospetti, dialoganti a distanza ravvicinata con la materia cromatica che verrà evocata nell’episodio pisano inserito all’altezza della Seconda offerta, e già menzionato (N, p. 231) – ottiene l’esito di inquinare la felicità dell’evento pregresso:

La mia barca, al ritorno, costeggia i muri di San Michele, rossi di mat-tone con la base di pietra chiara.

20 Circa le epifanie della figura di Rosalinda in varie prove dannunziane cfr. Zanetti, Note

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Ricordo una notte d’estate, una notte d’agosto. Eravamo andati a Mu-rano in gondola. Rosalinda era con noi. La laguna era così fosforescente che ogni colpo di remo levava lunghe fiamme bianche. E ci chinavamo a guardare. Il mento delle donne ne appariva rischiarato.

Lungo i muri del cimitero cessammo di ridere e di motteggiare. S’udiva il tonfo misurato dei remi. E sotto i muri funebri la fosfore-scenza creava anella e ghirlande di luce.

Una melodia luminosa cingeva l’isola dei morti.

Egli la udiva, la vedeva. Egli aveva là il suo luogo profondo. (N, p. 209) I colori lugubri, tradotti musicalmente nei toni del rosso, del bianco e di un fosforescente funesto nella sua ambiguità, sono la traccia del chimismo indotto dai corpi in disfacimento che riaffiora.

Soluzioni cromatiche di tale tenore sembrano avere memoria della le-zione de L’isola dei morti (1880),21 l’olio in cui Arnold Böcklin ha plasmato

le rovine dell’antico per assemblarle poi in un conglomerato insulare che emblematizza lo sfacelo di più civiltà, tradotto mediante un residuale di segno onirico e luttuoso.

Nel Notturno quelle larve ritornano per ricomporsi in figure ambigue, armoniose e leggiadre solo all’apparenza: «anella e ghirlande di luce», le cui fattezze circolari giocano a contrasto coi timbri sinistri del passo. L’in-sistita acronia, una delle peculiarità più significative della prova dannun-ziana, guarda a quella equilibrata disposizione circolare, che tanto stride col contesto sia da un punto di vista cromatico che tematico, per narrare sul filo della memoria un presente assoluto: temporalità che ritraccia un luogo insieme esistenziale e retorico appunto nell’istanza dell’io che vive e che scrive, laddove il notturno assurge a dimensione di compresenza e, assieme, di lontananza.

21 Una delle letture più ‘creative’ dell’olio su tela, posseduto dal Kunstmuseum di Basilea, è stata compiuta di recente da Melania Mazzucco, pronta a coglierne i temi e i simboli più persuasivi anche per la modernità; cfr. Mazzucco 2013.

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Bibliografia

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