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Bernardo e Abelardo:

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Academic year: 2021

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Bernardo e Abelardo:

due modelli teologici a confronto

Bernardo «Teologo del cuore» e Abelardo «Teologo della ragione»

Relatrice:

prof.ssa Loredana Santamarianova

(2)

Per comprendere il confronto tra i due grandi maestri, è bene ricordare che la teologia è la ricerca di una comprensione razionale, per quanto è possibile, dei misteri della Rivelazione cristiana, creduti per fede: fides quaerens intellectum – la fede

cerca l’intellegibilità-

Ora, mentre San Bernardo, tipico rappresentante della teologia monastica mette l’accento sulla prima parte della definizione, cioè sulla fides, Abelardo, che è uno scolastico, insiste sulla seconda parte, cioè sull’intellectus, sulla

comprensione per mezzo della ragione.

•  San Bernardo:

FIDES

•  Abelardo

INTELLECTUS

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Per Bernardo, la fede stessa è dotata di un’intima certezza, fondata sula testimonianza della Scrittura e

sull’insegnamento dei padri della Chiesa. Nei casi di dubbio, la fede viene illuminata dall’esercizio del Magistero

ecclesiale.

Abelardo, sottopone le verità della fede all’esame critico

della ragione e ciò consentirà a Bernardo di criticarlo per la

relativizzazione della verità, a causa di un intellettualismo.

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Bernardo Abelardo

DEI VERBUM SACRA DEI VERBUM

SCRITTUR A

SACRA SCRITTUR

A

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Leggere, meditare, contemplare:

filosofia e monachesimo nel medioevo

L’ EUROPA E IL MONACHESIMO

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-  Il termine monaco deriva dal greco monos («solo») e indica colui che fin dai primi secoli dell’era cristiana si ritirava in solitudine per essere in stretto contatto con Dio.

«Sempre cercare di unirsi al Signore» affermava Sant’Antonio abate «250 d.C.». Nei primi tempi i monaci scelsero l’anacoretismo, dedicandosi a una vita solitaria, austera e ascetica. Dal IV secolo, dopo che il cristianesimo fu libero di espandersi si avvertì la forza dei valori universali cristiani e il legame con l’autorità politica e il bisogno di darsi un’organizzazione simile a quella dell’impero.

-  I monaci ottengono l’approvazione ecclesiastica pur dedicandosi esclusivamente alla preghiera e all’evangelizzazione, rimanendo staccati da tutto ciò che comportava

l’adesione a un ordine politico.

-  Gli eremiti nel deserto, dovendo affrontare particolari difficoltà, decisero di unirsi e

di vivere insieme: sorsero così i primi cenobi

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Benedetto da Norcia e il monachesimo occidentale

•  Nel 529 a Montecassino, Benedetto da Norcia fonda l’abbazia e l’anno successivo compone la «Regula benedettina», il testo che disciplina la vita monastica e che si impone gradatamente come modello per le abbazie dell’Europa Occidentale

•  I monasteri assumono quel ruolo di centro culturale che le città hanno

perduto: la conservazione e lo studio dei testi antichi passano ai monasteri e

alle scuole monastiche.

(8)

Queste scuole, impongono come prescritto dalla regola:

•   la sapienza e la conoscenza

•  lo studio del trivio e del quadrivio

•  le opere dei padri della chiesa

•  il principio dell’auctoritas

•  l’obbedienza e l’ascolto

•  la lettura

•  il silenzio

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Il principio dell’auctoritas

•  Nel monachesimo, la Bibbia, la regola e la figura dell’abate sono

manifestazioni tangibili del principio dell’auctoritas. Nel medioevo, per

auctoritas si intende un autore, un testo o un opinione acquisiti nel patrimonio culturale ai quali si fa costantemente riferimento. Essi sono giudicati

«autorevoli» e fungono da garanzia per stabilire ciò che è vero e ciò che è falso. Le opinioni diventano autorevoli quando confermano la verità rivelata dalle scritture e nella quale tutti credono, e che va correttamente intesa e

interpretata. Le opinioni sono tramandate se sono giudicate vere, e sono

giudicare vere se concordano con la verità della sacra scrittura.

(10)

BERNARDO DI CHIARAVALLE

Dottore della chiesa

«Domino vivere ed in Domino mori. Orationes a me et non questiones»

(In Dio voglio vivere e in Dio morire: per me preghiere e non domande)

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Nato intorno al 1090 presso Digione, figlio di nobili cavalieri, ebbe un’educazione tipicamente feudale, ed incarna in sé quello spirito che fu dei monaci e dei cavalieri medievali, fatto di preghiera e combattimento, ascetismo e disciplina. Da piccolo entra nella scuola dei canonici di Châtillon, una delle più importanti della Borgogna, dove studia gli scrittori latini e i padri della chiesa. Nel 1107, dopo la morte della madre entra in una crisi che lo porta ad allontanarsi dal mondo «delle armi, dei cavalieri e degli amori»

per cercare Dio e trovare la pace nella quiete del monastero, lontano dal fragore e dalla vita mondana. A ventidue anni si reca nel monastero di Citeaux assieme a 30 compagni.

Questa tappa nel suo percorso vocazionale segnerà una svolta nella storia della chiesa e nell’Europa occidentale. Bernardo imiterà il modello di vita monastica che avevano spinto San Bernardo di Moleste, Alberico e Stefano ad allontanarsi da Moleste nel 1098 per recarsi in un luogo distante da Digione chiamato Cistercium, per seguire uno stile di vita semplice, più rigoroso recuperando alla lettera l’antica regola benedettina in seguito all’acquisizione di una potenza temporale dei monasteri cluniacensi. Tuttavia Bernardo, dopo alcuni anni di una permanenza a Cistercium, percepisce un’insofferenza in questo luogo perché lo considera troppo inadatto per far sì che la sua solitudine lo possa mettere in un contatto più stretto con Dio.. Quindi si reca in un altro luogo più distante,

chiamato Clairvaux, in italiano Chiaravalle. Qui divenne Abate e qui rimase fino alla morte, avvenuta nel 1156.

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Bernardo, padre cistercense:

fondatore di una vera propria scuola di spiritualità

La sua devozione per la vergine Maria rimane una caratteristica della sua spiritualità. La tradizione di chiudere la giornata di preghiera con il Salve Regina deriva proprio da una sua idea. Egli prediligeva per la preghiera luoghi aperti ed ameni. Da qui l’abitudine, tutta cistercense, di fondare monasteri nelle valli. La sua riforma spirituale segna il passaggio nell’arte dal romanico al gotico (le strutture architettoniche dei monasteri e delle chiese abbaziali, sono quasi prive di decorazioni e tutte slanciate verso l’alto. Egli vede la vita spirituale come un

cammino fatto di gradi di perfezione, per essere sempre più uniti all’amore di Dio. Amore che si riversa poi sul prossimo, in quanto si ha la piena consapevolezza di essere tutti peccatori. Egli fu uno scrittore molto prolifico:

trattati, lettere, prediche, un «corpus» di scritti molto rilevante nella storia medievale, e che lo pone come il terzo padre dopo S. Gregorio Magno e S. Benedetto da Norcia. Tra le opere più importanti si possono ricordare «De gradibus humilitatis et superbiae» , «De gratia et libero arbitrio» e «De diligendo Deo». Egli a differenza dei

clunicensi, non vede infatti l’uomo semplicemente come un peccatore, ma come una creatura buona, capace cioè

di recuperare sempre la dimensione d’amore verso Dio e verso il prossimo. L’uomo, con il peccato ha deformato

questa immagine, ma proprio attraverso l’incarnazione del figlio di Dio e la disponibilità di Maria Santissima, Dio

può riformare l’uomo a sua immagine. L’uomo è chiamato a prendere parte a questa opera, con la conversione e

l’ascesa dell’anima verso Dio, descritta nel trattato «De diligendo Deo».

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Il mistero di Cristo in San Bernardo:

«epifania di Dio e parabola dell’uomo»

1.  Cristo è il cuore della vita di Bernardo, il soggetto appassionante della sua ininterrotta meditazione, che ha teso al massimo sia il vigore della sua intelligenza, con le sue spiccate qualità di teologo, sia, il suo fervore di

contemplativo: nella figura di Cristo si colgono la genesi e la risoluzione che hanno unificato e sostenuto tutta l’esistenza di questo monaco come del resto devono unificare e sostenere l’esistenza e la ragione di ogni monaco che bussa al monastero per cerare Dio (Regula Benedicti,4,20)

2.  Gesù Cristo è il verbo che si fa carne, nei suoi misteri si umanizza a tal punto che la fragilità e la miseria dell’uomo vengono sperimentati nella pienezza del significato da Cristo stesso. «In questa carne avviene la narrazione di Dio (Gv 1,18)» e si trova mostrato nella pienezza il modello dell’uomo secondo il disegno di Dio (l’uomo è originariamente costituito immagine di Dio).

3.  L’incarnazione del verbo rende possibile l’imitazione di Dio e insieme fonda la dignità dell’uomo. San Bernardo possiamo dire che esplora l’uomo con esigente realismo, ha la consapevolezza che il senso del peccato limita l’ideale della comunione con il Figlio di Dio, per questo l’uomo per dare voce alla sua vocazione «umana» tende continuamente verso il «Signore della gloria» perché Cristo è la «Forma», la «Regola», l’ «immagine», e nella

comunione con Lui ciò avviene grazie alla conversione.

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De diligendo Deo:

l’amore di Dio raggiuno attraverso la via dell’umiltà

In quest’opera San Bernardo sviluppa la sua dottrina cristiana dell’amore in un modo che è suo, originale e unico. Secondo Bernardo esistono quattro gradi sostanziali dell’amore, che presenta come un itinerario, che dal sé esce, cerca Dio, ed infine torna al sé, ma solo per Dio. I gradi sono:

1.  L’amore di se stessi per sé: «[…]bisogna che il nostro amore cominci dalla carne. Se poi è diretto secondo un giusto ordine, sotto l’ispirazione della grazia, sarà perfezionato dallo spirito. Infatti non viene prima lo spirituale, ma ciò che è animale precede ciò che è spirituale. Per ciò l’uomo prima ama se stesso, per sé […]. Vedendo poi che da solo non può sussistere, comincia a cercare Dio per mezzo della fede, come un essere necessario e Lo ama.»

2.  L’amore di Dio per sé: «Nel secondo grado, quindi, ama Dio, ma per sé, non per Lui. Cominciando però a frequentare Dio e ad onorarlo in rapporto alle proprie necessità, viene a conoscerlo a poco a poco con la lettura, con la riflessione, con la preghiera, con l’obbedienza; così, piano piano gli si avvicina attraverso una certa familiarità, gustando quanto ciò sia soave e armonioso.»

3.  L’amore di Dio per Dio: «Dopo aver assaporato questa soavità, l’anima passa al terzo grado amando Dio non per sé ma per Lui. In questo grado ci si ferma a lungo, anzi non so se in questa vita sia possibile raggiungere il quarto grado.»

4.  L’amore di sé per Dio: «Quello cioè in cui l’uomo ama Sé stesso solo per Dio. […] Allora, sarà mirabilmente quasi dimentico di sé, quasi abbandonerà sé stesso per tendere tutto a Dio, tanto da essere uno spirito solo con lui. Io credo che provasse questo il profeta, quando diceva: ‘‘entrerò nella potenza del signore e mi ricorderò solo della tua giustizia’’. […]»

(San Bernanrdo di Chiaravalle, De diligendo Deo, cap. XV)

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PIETRO ABELARDO

Il filosofo della città

«Dubitando perveniamo alla ricerca. Cercando percepiamo la verità»

(‘‘Sic et non’’, Prologus)

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A Parigi nel 1111, fonda una scuola di logica il maestro Pietro Abelardo, nato in Bretagna nel 1079 a Pallet; figlio di un cavaliere, rinuncia ai beni e alla carriera delle armi per dedicarsi agli studi. Giovanissimo è stato allievo di Rosciellino di Compiègne e Guglielmo di Champeaux, maestri famosi all’epoca ma da lui poco amati e aspramente contestati. In quei decenni, in Europa e soprattutto in Francia, alcune città, fiorenti economicamente erano divenuta sedi di scuole cattedrali clamorosamente nuove per i loro metodi di analisi e discussione. Il modello della scuola di città aperto non solo ai futuri monaci ma a ogni tipo di studente si distingueva, anche per questo, dall’insegnamento impartito nei monasteri

immersi nel silenzio delle campagne. Il caso di Parigi non è unico (sappiamo di Tours, Chartres, Auxerre, Melun, Laon). All’interno di questa nuova realtà, Abelardo, svolge tutto il suo magistero accolti da discepoli entusiasti che talvolta arrivano da lontano come l’inglese Giovanni di Salisbury e Arnaldo da Brescia.

Il suo principale avversario, il monaco Bernardo di Chiaravalle lo accuserà

ben presto di «discutere di filosofia e teologia con chiunque in ogni piazza

della città».

(17)

Storia di una vita intellettuale

Per ricostruire la vita intellettuale di Abelardo disponiamo dell’autobiografica Storia delle mie sventure, scritta dal filosofo a poco più di quarant’anni di età, in forma di «lettera a un amico»: scrivere un autobiografia, fatto rarissimo a quei tempi, è già indicativo di una personalità consapevole che vuole cogliere nelle vicende della propria vita un’identità e un significato superiore. Come abbiamo già citato la famiglia di Abelardo apparteneva alla piccola nobiltà, ed egli secondo la

consuetudine avrebbe dovuto seguire la carriera delle armi. Sceglie invece di dedicarsi agli studi filosofici. Ma qualcosa del costume familiare rimane nel suo linguaggio. Abelardo usa spesso termini e metafore guerriere: parla di armi della

dialettica, racconta di progettare dibattiti che assomigliano a conflitti veri e propri. E ricorda più volte che la sua vita è stata sempre una battaglia. Tardi incontra anche l’amore: nel 1113 a Parigi, quasi quarantenne, seduce la sua allieva Eloisa, una ragazza non ancora ventenne, nipote di un canonico importante della città. Da maestro di logica, Pietro diventa poeta, componendo canzoni d’amore che i suoi studenti cantano per le vie della città. La storia con Eloisa si trasforma presto in una tragedia: la famiglia della donna si sente disonorata e si vendica facendo evirare Abelardo dai sicari. Gli amanti si separano rifugiandosi in due monasteri diversi alle porte di Parigi, Saint-Denis Argenteuil. Vent’anni dopo, di nuovo spiritualmente vicini, si scambieranno lettere e riflessioni filosofiche. Nel 1136, ritorna a Parigi e vive i suoi anni

intellettualmente forse più intensi, ma nel 1139 deve fronteggiare un nuovo attacco guidato da Bernardo di Chiaravalle. Le accuse relative al metodo logico usato da Abelardo all’interno dei testi teologici, si fanno più precise. Nel 1140 è convocato a Sens un concilio per esaminare e giudicare Abelardo: le opere di teologia sono condannate senza una vera discussione e poco dopo si abbatte sull’autore la scomunica. Abelardo si rifugia nel monastero di Cluny, dove muore nel 1142.

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La logica, la teologia e l’etica:

il primato della logica

La filosofia per Abelardo comprende tre parti: logica, fisica ed etica. In questa prospettiva il primato della logica è indiscutibile all’interno del sapere filosofico, «scienza delle scienze» è insieme anche «strumento», perché

indispensabile alla costruzione e al controllo della verità di qualsiasi discorso su qualsiasi argomento. Il problema degli universali, che i logici di quel tempo privilegiavano sugli altri e gli studiosi medievali e moderni hanno

esaminato lungo i secoli in varie riprese, rientra per Abelardo nel più ampio problema del significato dei nomi.

Abelardo distingue fra due tipi di significazione, de rebus e de intellectibus: nella prima il nome indica le cose, mentre

il secondo tipo di significato si riferisce al concetto che il nome, pronunciato da chi parla, «genera» nella mente di

chi ascolta. Abelardo, afferma che, gli universali sono solo i concetti comuni a più individui e i nomi che a questi

rimandano.

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Filosofia medioevale:

la questione degli universali

a)  I generi e le specie (universali) sono realtà esistenti in sé o esistono solo nell’intelletto dell’uomo?

b)  Ammesso che siano realtà esistenti in sé: gli universali esistono separati e prima delle cose; oppure se esistano solo intrinseci alle cose stesse; se siano realtà corporee o spirituali.

•  Roscellino, sostenitore della tesi «nominalistica» secondo la quale gli universali sono soltanto «nomi»

•  Guglielmo di Champeaux, sostenitore della tesi secondo cui gli universali sono reali

•  Pietro Abelardo considera gli universali «concetti».

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Etica:

intenzione, azione e responsabilità

Abelardo nell’etica nota anche con il titolo Conosci te stesso, analizza con metodo razionale le definizioni di peccato e separa con rigore filosofico il criterio del bene morale prescindendo per gran parte del trattato dai contenuti della legge cristiana. Egli propone subito una netta distinzione tra peccato e inclinazione naturale che lo precede: «chiamo peccato o colpa l’acconsentire all’inclinazione». Così ad esempio osserva «desiderare la donna altrui non è colpa se il soggetto non si lascia trascinare da questo desiderio all’azione dell’adulterio». (La distinzione desiderio-peccato è diretta contro la morale ascetica tipica della cultura

monastica che al contrario considera il principio della colpa già negli impulsi naturali, le così dette tentazioni.) Anche l’azione in sé non può definirsi peccato: «l’azione in sé stessa non ha nulla a che vedere con il peccato» se non è accompagnata dall’intenzione consapevole del soggetto che conferisce al comportamento un significato immorale. L’atto all’origine « è moralmente

indifferente». Se le azioni si distinguono moralmente in base alla differente intenzione di colui che le compie, solo Dio «capace di vedere dentro l’uomo» può valutarle in senso pieno, mentre la giustizia umana è costretta a limitarsi il più delle volte alle

apparenze. La tesi sull’intenzionalità come criterio morale porta Abelardo a sostenere una grave tesi ideologica: «non si può affermare che i crocifissori di Cristo siano colpevoli, dal momento che essi agirono (forse) in buona fede e con l’intenzione di punire Colui, il Cristo, che giudicavano erroneamente un ingannatore». Nelle ultime pagine dell’etica, che ci è giunta incompleta, Abelardo denuncia la corruzione che corrode la Chiesa: vescovi e sacerdoti «bruciano di cupidigia e per ottenere denaro si

mostrano molto generosi nell’alleviare le penitenze. Essi non imitano Pietro nella dignità dei meriti ma solo nel potere dell’ufficio».

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Una nuova teologia

Abelardo affronta la teologia, a trentacinque anni ed espone le sue idee originali nella Theologia summi boni e nel Dialogo fra un filosofo, un giudeo e un cristiano. Il metodo adottato da Abelardo per interpretare il Testo Sacro si fonda sulla «comprensione dei significati, perché è ridicolo avere fede in quello che non si capisce o pretendere di insegnarlo agli altri senza aver prima

compreso». La teologia, nella prospettiva di Abelardo, si riferisce dunque agli enunciati del discorso su Dio, non a Dio in sé. Va segnalata a questo punto una condizione fondamentale: per Abelardo la struttura della mente umana è per sua natura ancorata ai dati dell’esperienza sensibile e risulta inadeguata di fronte alle realtà sovrannaturali. Di conseguenza Abelardo non pretende in teologia « di insegnare la verità ma soltanto qualcosa che si avvicina alla verità e non sia contrario alle Sacre Scritture». E verità della teologia sono aldilà della portata: «nessun vocabolo quando viene applicato a Dio si basa su un reale fondamento. Tutto ciò che viene detto di Lui è quindi avvolto in similitudini che tentano attraverso analogie di guidarci non a comprendere pienamente, ma solo a intravedere qualche aspetto del Creatore». L’incomprensione tra Abelardo e Bernardo di Chiaravalle non potrebbe essere qui più netta: l’uso della logica per comprendere gli enunciati teologici, come abbiamo visto nella prospettiva di Abelardo è consapevolmente limitato. La sua sententia è dunque palesemente travisata, anzi rovesciata, nell’accusa che gli muovono gli avversari: «egli vuole spiegare tutto e guardare da vicino tutto apertamente». Inoltre per Abelardo le verità cristiane

«soprannaturalità e unicità di Dio, creazione e armonia del mondo, immortalità dell’anima, coincidono con le verità della ragione naturale anticipate nelle teorie dei filosofi antichi, primo fra tutti Platone. Indubbiamente questa prospettiva indebolisce il ruolo storico della rivelazione cristiana: ancora una volta Abelardo si oppone a Bernardo per il quale la venuta di Cristo nel mondo è un fatto drammaticamente unico che ha diviso in due fasi la storia umana e indicato un’unica salvezza, riservata agli uomini nati dopo l’incarnazione del Figlio di Dio.

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Sic et non

In quest’opera Abelardo tratta il problema della trinità: egli non pretende di dire la verità sulla trinità, in quanto la ragione umana non è in grado di cogliere pienamente i misteri divini, tuttavia con l’ausilio di analogie, come aveva fatto Agostino è a sua avviso possibile raggiungere almeno il verosimile. Abelardo ritiene che la distinzione fra le tre persone divine poggi sulla distinzione fra gli attributi divini e, precisamente, con il nome del Padre si indica la potenza, con quello del figlio la sapienza e con quello dello Spirito Santo la carità. Ma poiché tali attributi in Dio costituiscono un’unità, i rapporti tra le persone divine possono essere spiegati in termini di derivazione di una dall’altra: il Padre genera il Figlio, che è della sostanza del Padre, in quanto la sapienza non è che quella particolare forma della potenza divina per cui essa non può essere ingannata, invece, lo Spirito Santo, procede dal padre e dal Figlio, perché la carità, senza potenza, sarebbe inefficace e senza la sapienza procederebbe a caso e non

condurrebbe al meglio. Però in tal modo lo Spirito Santo non risulta essere della stessa sostanza del Padre e del Figlio:

fu questo un punto che suscitò gli attacchi contro Abelardo, in particolare San Bernardo ritenne che esso conducesse a negare qualsiasi potenza dello Spirito Santo.

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Un progetto di pace:

il dialogo fra le religioni

Nel Dialogo fra un filosofo, un giudeo e un cristiano Abelardo mette in scena una discussione tra i tre personaggi interessati a discutere con l’autore i principi fondamentali delle religioni ebraiche e cristiana. Tutti e tre i personaggi convergono nella fede comune in un unico principio divino, il dio dell’antico testamento e quello del vangelo per i fedeli delle due religioni e il sommo bene per il filosofo. Il giudeo è invitato dall’autore ad andare «oltre la lettera del testo sacro» e ad aprirsi ai significati più spirituali, onde evitare l’intolleranza verso altre fedi religiose.». Più la fede religiosa si fa «filosofica» più si apre alla conciliazione con altre fedi:

questa è la tesi fondamentale che ritorna negli scritti teologici di Abelardo. Il personaggio del filosofo dichiara fin dall’inizio di

«ricercare la verità non con l’aiuto della rivelazione ma attraverso la sola ragione». Ma quale ragione? Le idee esposte dal filosofo sono ispirate alla tradizione platonica. Il lògos dei filosofi greci è dunque la prima «rivelazione naturale», donata da Dio all’uomo e la fonte comune delle rivelazioni religiose che si sono susseguite nel tempo della storia.

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BIBLIOGRAFIA

•  La filosofia monastica: «sapere Gesù», Inos Biffi (Opera Omnia, Jaca Book)

•  Il segreto di Clairvaux: Bernardo mirabile Medioevo, Inos Biffi (Opera Omnia, Jaca Book)

•  UDIENZA GENERALE Piazza San Pietro Mercoledì, 4 novembre 2009, Benedetto XVI (Due modelli teologici a confronto: Bernardo e Abelardo)

•  «Non ci sarebbe l’Europa, senza il monachesimo», Massimo Cacciari, filosofo (in La Stampa, 5 gennaio 2002, p.23)

•  Pietro Abelardo, Conosci te stesso o etica; introduzione, traduzione e note di Mario Dal Pra. (La nuova Italia, Firenze, 1976)

•  Bernardo e Abelardo: il Chiostro e la scuola, Verger, Jacques, Jean Jolivet (Jaca Book)

•  Abelardo: dialettica e mistero, Jean Jolivet (Jaca Book)

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Riferimenti Biblici

•  Libro del Siracide

•  Libro Sapienza

•  Libro Deuteronomio

•  Profeta Zaccaria

•  Profeta Isaia

•  Vangelo di Matteo

•  Vangelo Luca

•  Vangelo di Giovanni

Ø  Cap 1, ver 1-4.5 Ø  Cap 4, ver 11-12-23.28 Ø  Cap 8, ver 15-16-22-23 Ø  Cap 9, ver 13-17 Ø  Cap 10, ver 15-21 Ø  Cap 11, ver 23-25 Ø  Cap 13, ver 1 e seguenti Ø  Cap 10, ver 12

Ø  Cap 20 ver 10-11 Ø  Cap 9, ver 9-10 Ø  Cap 53

Ø  Cap 3, ver 16-17 Ø  Cap 8, ver 5-13

Ø  Cap 1, ver 26-38, 46-56 Ø  Cap 2, ver 41-51 Ø  Cap 22, ver 39-46 Ø  Cap 3, ver 1-21, 31 35 Ø  Cap 8, ver 48

Ø  Cap 10, ver 22-30 Ø  Cap 18, ver 28 e seguenti

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Consegna per il lavoro da svolgere:

Fare un breve commento di un brano tratto dal Vangelo a scelta (diapo 25),

tenuto conto del pensiero dei due teologi

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