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Tutela individuale e tutela collettiva e art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

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Academic year: 2022

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REPORT del CORSO Cod. T21012-D213991

Tutela individuale e tutela collettiva e art. 47

della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

In occasione della

GIORNATA EUROPEA DELLA GIUSTIZIA CIVILE

Roma, 17-18 novembre 2021

Corte di Cassazione – Aula Virtuale Teams

Responsabili del corso per la S.S.M.: Dott.ssa Antonella Ciriello, Dott. Gianluca Grasso, Dott. Gabriele Positano – Componenti del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura

Referenti Formazione decentrata della Corte di Cassazione: Dott. Giovanni Giacalone, Dott.ssa Valeria Piccone, Dott. Roberto Giovanni Conti, Dott. Gian Andrea Chiesi.

Nei giorni 17 e 18 novembre 2021 ha avuto luogo il corso organizzato dalla Corte di Cassazione, attraverso la struttura della Formazione Decentrata, in collaborazione con la Scuola Superiore dell’Avvocatura ed il mondo accademico, dal titolo “Tutela individuale e tutela collettiva e art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea”.

Prima sessione – mercoledì 17 novembre 2021(mattina) Coordinamento: Dott. G. Giacalone

I lavori della sessione mattutina sono stati introdotti e coordinati dal Dott. Giovanni Giacalone2, il quale, dopo i saluti inziali, ha evidenziato come le sessioni di incontri siano intitolate

1 Il presente Report è stato curato – con il coordinamento del Consigliere G. Giacalone – dalla Dott.ssa GIULIA ARCANGELI

in tirocinio presso la Corte di Cassazione e dai Dott.ri MARIA VITTORIA CARLINI, MARTINA EVANGELISTA, ENEA

MIRAGLIA,KARIN PELUFFO in tirocinio presso la Procura Generale presso la Corte di Cassazione.

2 Sostituto Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione e Formatore presso la Struttura di formazione decentrata della Corte di cassazione.

Struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione

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alla celebrazione della ricorrenza della “Giornata europea della giustizia civile”, istituita nel 2003 dalla Commissione europea e dal Consiglio d’ Europa per favorire la cognizione sulle modalità di funzionamento della giustizia civile, in un dialogo costante tra cittadini ed istituzioni.

Ha dato inizio ai lavori la Dott.ssa Margherita Cassano3, la quale ha voluto sottolineare come il convegno abbia la finalità di favorire una riflessione sulla “nuova” adeguatezza professionale del magistrato.

Tale mutamento risulta essere avvenuto sotto la spinta di molteplici fattori: la dinamica trasformazione del contesto sociale in cui si colloca l’azione della magistratura, chiamata a dare risposta ai nuovi diritti e alle nuove domande di giustizia; la progressiva complessità del sistema delle fonti interne, sempre più orientato ad una ricostruzione in dimensione sovranazionale; la “qualità”

dell’ elaborazione giurisprudenziale interna, collocata in un più vasto contesto di principi sanciti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e dalla Corte di Giustizia.

Da questo quadro emergerebbe come l’essenza dell’attività del magistrato risieda in una risposta nomofilattica tempestiva e vada collocata in un diritto vivente che viaggia su linee interpretative sempre più riconoscibili e consapevolmente collocate in una trama ben più ampia rispetto a quella fornita dal solo diritto nazionale.

Ricollegandosi ai precedenti spunti introduttivi è intervenuto il Dott. Renato Finocchi Ghersi4, il quale ha espresso apprezzamento per l’organizzazione del seminario e per gli innovativi parallelismi offerti tra disciplina nazionale e disciplina europea, oggetto di discussione delle singole relazioni programmate.

Lo stesso rileva la concomitanza temporale di questo convegno con la cruciale fase che il nostro ordinamento giuridico sta attraversando, visto che sotto il richiamo e l’influenza dell’Unione Europea, si sta rendendo necessario un ampio ventaglio di riforme che riguardano la Giustizia, nell’ottica dello snellimento e della semplificazione.

In simil quadro, l’auspicio formulato è quello per cui le innovazioni culturali e funzionali possano servire ad incoraggiare un nuovo approccio al tema, prospettando nuove sfide e generando previsioni positive.

Gli interventi introduttivi sono stati conclusi dal Dott. Gianluca Grasso5, che ha illustrato le finalità ed il metodo adottato nelle due giornate di incontri.

Da un punto di vista formativo, il corso vorrebbe affrontare la questione del ruolo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea nel sistema delle fonti ed i relativi problemi concreti che si pongono di fronte agli operatori del diritto, chiamati a misurarsi con un complesso sistema di fonti interne e sovranazionali.

Tale obiettivo risulta inserito nella pianificazione di un percorso condiviso con i precedenti programmi e corsi annuali organizzati della Struttura decentrata. In particolare sono stati richiamati, il progetto Trial sullo stato di diritto - in corso di realizzazione d’intesa con l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, la scuola belga della Magistratura e numerose accademie europee -, le iniziative nell’ambito delle attività di formazione riservate ai magistrati in tirocinio, con sessioni dedicate alla

3 Primo Presidente Aggiunto della Corte Suprema di Cassazione.

4 Avvocato Generale presso la Corte Suprema di Cassazione.

5 Magistrato Componente del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura.

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rule of law , alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’ Unione Europea e la realizzazione di processi simulati sui temi della libertà di espressione dei magistrati.

Da un punto di vista metodologico, il corso è stato predisposto in modo tale che si alternino relazioni con dialoghi a più voci, seguiti da momenti di dibattito e tavole rotonde, affinché possa realizzarsi una riflessione ragionata.

Conclusi gli interventi introduttivi hanno preso la parola il Prof. Bruno Sassani6 e la Prof.ssa Elena D’Alessandro7, i quali, in un dialogo a due voci, hanno relazionato sul tema “L’effettività della tutela dei diritti soggettivi omogenei: public enforcement vs. private enforcement”.

Preliminarmente, la Prof.ssa Elena D’Alessandro ha chiarito come la sua indagine sia - in questa sede - confinata alla materia della concorrenza, caratterizzata, a livello europeo, da un doppio binario di tutela, nel quale public enforcement e private enforcement vanno intesi quali strumenti che agiscono in modo sinergico per garantire la tutela della libera concorrenza nello spazio europeo, riconosciuta dagli artt. 101 e 102 TFUE.

Il primo, in un’ottica macroeconomica, serve a tutelare l’interesse pubblico alla concorrenza ed è affidato alla Commissione dell’Unione Europea ed alla segnalazione gratuita alle Autorità nazionali Garanti della Concorrenza e del Mercato. Il secondo, in una dimensione individuale, ha il compito di tutelare specifiche posizioni giuridiche soggettive per i danni causati da condotte anticoncorrenziali, ed è affidato ai tribunali nazionali.

La necessità della loro azione congiunta - seppur nella consapevolezza che si tratti di strumenti rimediali diversi – può ricavarsi dalla Direttiva n. 104/2014, nella quale viene rafforzato il ricorso al private enforcement, quale strumento di completamento del complessivo enforcement antitrust.

In siffatta cornice di riferimento, la relatrice ha richiamato i consideradum iniziali della Direttiva in disamina e le dirimenti conclusioni dell’Avvocato Generale nella causa Skanska (C. 724- 17, punto 31), dove il ruolo del private enforcement non viene limitato ad una mera riparazione dei danni causati da condotte anticoncorrenziali, ma funge da deterrente per le imprese, assolvendo una funzione general-preventiva di carattere pubblicistico.

Da ciò emergerebbe come la Direttiva n. 104/2014, sebbene non preveda alcun strumento processuale che faccia coagulare le singole pretese risarcitorie in un unico giudizio, rappresenti un importante volano verso un’effettiva tutela dei diritti soggettivi omogenei.

Ripercorrendo l’evoluzione storica del crescente ruolo acquisito dal private enforcement, è stata richiamata la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea nella causa Courage v. Crehan (sentenza del 20 settembre 2001, causa C- 453/99), che rappresenta il modello paradigmatico della tutela risarcitoria in ambito anticoncorrenziale8.

Il caso ha dato l’occasione alla Corte di Giustizia di illustrare la finalità del private enforcement e la sua collocazione, in relazione di sinergia, rispetto al public enforcement.

A tal proposito, sono state osservate le criticità della pronuncia che, nelle sue conclusioni, rimette ai singoli diritti nazionali l’individuazione dei presupposti e degli strumenti processuali necessari per ottenere il diritto al risarcimento, generando asimmetria informativa e favorendo la diffusione di programmi differenziati da nazione a nazione.

6 Ordinario di Diritto Processuale civile presso l’Università di Roma Tor Vergata.

7 Ordinario di Diritto Processuale civile presso l’Università di Torino.

8 La controversia ha avuto ad oggetto un’intesa restrittiva della concorrenza che, secondo il diritto inglese, preclude la possibilità promuovere un’azione per il risarcimento del danno da comportamento anticoncorrenziale.

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Proprio in questo contesto, per cercare di risolvere almeno parte dei problemi sopra evidenziati, è stata emanata la Direttiva n. 104/2014 che - all’esito di un processo iniziato nel 2005 con il c.d. Libro Verde, continuato nel 2008 con il c.d. Libro Bianco ed una pubblica consultazione - ha posto le basi per una normativa europea uniforme, anche a livello processuale. In particolare, al fine di migliorare i meccanismi di risarcimento, con il c.d. libro Verde e la pubblica consultazione si era chiesto agli Stati membri di indicare gli elementi che rendo ineffettivo, o meno effettivo, l’accesso alla tutela giurisdizionale per i titolari di diritti soggettivi omogenei lesi da condotte anticoncorrenziali.

I dati che ne sono emersi sono stati sintetizzati nei termini che seguono.

Da un lato, la Direttiva ha chiarito la valenza del provvedimento dell’Autorità nazionale Garante che irroghi una sanzione nel contesto del giudizio civile follow-on. Dall’altro, la Direttiva ha introdotto norme uniformi in tema di onere della prova a carico dell’attore, poiché le differenze di legislazione nei singoli Stati membri avrebbero scoraggiato il ricorso alla tutela risarcitoria ed avrebbero alimentato il divario tra i vari diritti nazionali.

L’intervento della professoressa ha vagliato anche ulteriori aspetti su cui la Direttiva non si è pronunciata, lasciti irrisolti punti affrontati sia nel c.d. Libro Verde che nel c.d. Libro Bianco.

Esemplificativamente sono state richiamate: l’assenza di un’azione di classe plasmata sul modello statunitense del c.d. opt-out ed il peso delle spese del giudizio, gravanti sull’attore, nonché il mancato riferimento ai danni punitivi.

La loro non menzione nella Direttiva però, osserva la relatrice, non può essere imputabile ad una inefficienza del Legislatore europeo, ma risiede in una non maturità dei tempi. Del resto, con la pubblica consultazione del2008, la gran parte degli Stati membri, Italia inclusa, si era pronunciata sia a sfavore di un modello di azione di classe basato sul meccanismo statunitense dell’c.d. opt-out, sia a sfavore dei danni punitivi, con risultati abbastanza lontani dai tempi in cui la Corte di Cassazione, dapprima con l’ordine pubblico del 2007 e, successivamente, a Sezioni Unite nel 2017, si era pronunciata sulla compatibilità tra danni punitivi ed ordine pubblico, fornendo una risposta negativa.

In conclusione, sono stati citati ordinamenti per tradizione giuridica a noi vicini, analizzando le diverse soluzioni offerte al tema oggetto di trattazione, constandone, tuttavia, la loro inapplicabilità all’ordinamento italiano. Il richiamo, in particolare, riguarda la Germania che, in assenza di un modello di azione di classe basato sul modello statunitense, ricorre alla legittimazione straordinaria.

Segnatamente, negli ordinamenti di matrice germanica è possibile per le parti accordarsi e conferire in via negoziale ad altro soggetto il poter di far valere in giudizio un diritto anti Ue, avvalendosi di uno strumento privatistico di finanziamento della lite (c.d. third party funding). In questo modo, pur senza un’azione di classe basata sul modello statunitense, si riesce a far sì che molteplici pretese risarcitorie siano fatte valere in un unico giudizio. Di contro nel nostro ordinamento la legittimazione straordinaria è ammessa nei soli casi previsti dalla legge.

Tale soluzione, offerta dalla prassi, ha ricevuto l’avallo della Corte di Giustizia Federale tedesca (Bundesgerichtshof – BGH) che, con una pronuncia del 2019, ha avuto modo di chiarire come l’impresa che fa valere in giudizio un diritto altrui per metterlo all’incasso, può avvalersi del finanziamento della lite da parte di terzi, senza incorrere in conflitto di interessi, così da vedere coagulati più diritti soggettivi risarcitori in un unico giudizio avverso l’impresa.

Al termine della relazione, ha preso la parola il Prof. Sassani, il cui intervento, confrontandosi con il provvedimento n. 55 del 2005 ABI- Banca d’Italia, ha riguardato il tema dell’effettività del

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diritto alla concorrenza nei contratti individuali stipulati sulla base di un comportamento anticoncorrenziale, già riconosciuto e sanzionato.

Con il provvedimento n. 55/2005 Banca d’Italia, nella qualità di Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, considerava violazione della concorrenza alcune clausole dei contratti di fideiussione predisposti dall’ ABI nel 2003, prevedendone la nullità per contrasto con l’art. 2, comma 2, lett. a), L. 287/1990 (Legge Antitrust).

Tali clausole riguardavano:

- la rinuncia ai termini di cui all’art. 1957 c.c.;

- la clausola di reviviscenza della fideiussione all’inefficacia dei pagamenti;

- la clausola della sopravvivenza della fideiussione all’invalidità dell’obbligazione principale.

L’indagine del relatore si è voluta misurare con il dibattito - ad oggi ancora aperto in giurisprudenza - relativo agli effetti della declaratoria di nullità di una fideiussione bancaria per violazione dell’art.

2 Legge Antitrust.

I dubbi emersi sono i seguenti.

In primo luogo, non è stato chiarito se le fideiussioni omnibus conformi allo schema ABI (c.d.

contratti a valle) siano da considerare a loro volta come affette da nullità, o se sia possibile risolvere il problema in base ad un asserito diritto al risarcimento del danno, invocando il D.lgs n. 3/2017. In secondo luogo, qualora si sia propeso per la qualificazione in termini di nullità, non è chiaro se il relativo vizio integri una nullità parziale o assoluta.

A tal proposito, merita di osservarsi come si tratti di un contenzioso alluvionale, che ha visto le Corti di merito e di legittimità più volte pronunciarsi, arrivando ad esiti non univoci, inadeguati alla frequenza con cui il problema tende a riproporsi, e che hanno unicamente contribuito a mantenere inalterata la violazione della concorrenza.

Nell’attesa di una rimeditazione delle soluzioni prospettate, un’ultima riflessione è stata dedicata alla recente ordinanza interlocutoria n. 11486 del 30/04/2021, con cui è stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione la questione relativa alla nullità delle fideiussioni bancarie conformi ad intese restrittive della concorrenza disposte dall’ABI e sanzionate dalla Banca d’Italia.

L’auspicio, ha commentato il relatore, è che venga definitivamente risolta la controversa vicenda delle fideiussioni bancarie nulle per violazione della normativa antitrust, ponendo fine ad una tendenza giurisprudenziale che, da sedici anni, ha mantenuto un quadro di perdurante incertezza, fondato su sanzioni inconsistenti, in cui la recidiva delle imprese sanzionate è stata la regola.

In seguito, la Prof.ssa D’Alessandro ha affrontato la tematica dell’effettività del diritto alla concorrenza nei confronti dell’impresa danneggiante, imperniando la sua indagine all’analisi dei confini del sindacato del giudice amministrativo sul provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nella dialettica fra Corti nazionali e sovranazionali.

Il primo tassello di questo dialogo è stato posto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza Menarini c. Italia (sentenza del 27 settembre 2011, Ricorso n. 43509/2008) con la quale è stato chiarito che le sanzioni erogate dall’Autorità Garante, con riferimento agli artt. 6 CEDU e 47 CDFUE, vadano considerate come sanzioni sostanzialmente penali.

Da ciò discenderebbe la necessità di garantire l’effettività della tutela giurisdizionale, non solo al titolare di diritto soggettivo omogeneo, ma anche all’impresa sanzionata.

Sotto un ulteriore profilo, l’intervento è proseguito con l’analisi della questione del sindacato del giudice amministrativo, con particolare riferimento alle sanzioni emanate dall’Autorità antitrust.

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Sul punto, è stato richiamato l’art. 7 del D.lgs n. 3/2017, che prevede l’impugnabilità di tali provvedimenti davanti al giudice amministrativo, il cui sindacato investe la verifica diretta dei fatti ed i profili tecnici che non presentino un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione.

Tale passaggio ricalcherebbe fedelmente la motivazione della sentenza della Cassazione a Sezioni Unite (Cass., SS. UU. n. 1013 del 20 gennaio 2014) – di cui è stata data testuale lettura – secondo cui il sindacato del giudice amministrativo va inteso come un sindacato di tipo estrinseco, che valuti la plausibilità, all’esterno, della ricostruzione dell’Autorità Garante, senza poter accertare null’altro.

In tale dialogo giurisprudenziale, si è inserito anche il Consiglio di Stato (Sez. VI, sentenza n.

4990 del 15 luglio 2019 cui adde sez. VI, sentenza12 febbraio 2020 n. 1046), che ha offerto una lettura dell’art. 7 D.lgs n. 3/2017 costituzionalmente conforme agli artt. 116, 117 Cost., nonché all’art.

6 CEDU.

Ne emergerebbe come il controllo del giudice amministrativo, da controllo estrinseco, divenga un controllo di tipo intrinseco, recte: di maggior plausibilità, che vada direttamente ad accertare il fatto e le valutazioni tecniche effettuate dalla Pubblica amministrazione. L’unico limite sarebbe quello per cui il giudice non può sostituire la propria valutazione tecnica a quella effettuata dall’Autorità.

La pronuncia del Consiglio di Stato andrebbe apprezzata per l’ampiezza delle tematiche esaminate e si spinge sino a domandarsi se la lettura offerta dell’art. 7 D.lgs n. 3/2017 possa essere oggetto di sindacato dinnanzi alla Corte di Cassazione ex art. 111, ottavo comma Cost.

In siffatto quadro, i giudici di Palazzo Spada, dopo aver richiamato la sentenza della Corte costituzionale n. 6/2018, forniscono al quesito una risposta negativa, chiarendo la non praticabilità di un’interpretazione evolutiva della nozione di giurisdizione di cui all’art. 111, ottavo comma, Cost.

In posizioni armonica, vi è anche la recente Corte di Cassazione con una recente ordinanza a Sezioni Unite 3 novembre 2021, n. 31311 (estensore dott. Enzo Vincenti), che ha confermato come il sindacato del giudice amministrativo sul provvedimento dell’Autorità nazionale Garante sia un sindacato di full jurisdiction, conforme ai parametri di cui all’art. 6 CEDU, con l’unico limite per il giudice di non poter sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’Autorità.

Il successivo intervento del Prof. Angelo Danilo De Santis9 ha riguardato il tema “La nuova azione di classe risarcitoria: la legittimazione ad agire ed il procedimento”.

Il relatore, ripercorrendone la genesi della tutela, ha voluto esaminare i tratti salienti della nuova azione di classe risarcitoria, connotata da un elevato tasso di tecnicismo processuale, che dovrebbe rappresentare un campanello di allarme circa la prognosi di efficienza dello strumento, dal momento che, ad oggi, non risultano essere state ancora proposte azioni di classe di tipo risarcitorio.

Con la L. n. 31/2019, entrata in vigore solo il 19 maggio 2021, la disciplina dell’azione di classe è stata trapiantata nel Codice di procedura civile agli artt. 840 bis- 840 sexiesdecies c.p.c., sostituendosi alla class action consumeristica, contenuta nell’art. 140 bis D.lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo).

Si tratta di un processo strutturato secondo il modello one to one, dove è stato ribadito il divieto di intervento di terzi ex art. 105 c.p.c. e per la cui trattazione il Legislatore ha scelto le forme del rito sommario di cognizione ex artt. 702 bis e ss. c.p.c., con gli opportuni adattamenti.

È stata esaminata la prima delle tre fasi del procedimento, destinata alla verifica dell’ammissibilità della domanda ed alla definizione, con un’ordinanza reclamabile in Corte di

9 Associato di Diritto Processuale Civile presso l’Università di Roma Tre.

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Appello, delle caratteristiche dei diritti dei potenziali aderenti. La legittimazione attiva spetta a ciascun componente della classe (c.d. class member), ma anche ad un’associazione o organizzazione senza scopo di lucro, portatrice di un interesse collettivo, purché iscritta nell’apposito elenco pubblico, istituito presso il Ministero della Giustizia (elenco a tutt’oggi non ancora implementato).

Nel primo caso l’azione avrà ad oggetto la tutela risarcitoria o restitutoria di un diritto soggettivo azionato dal titolare che si afferma portatore di un diritto omogeneo rispetto a quello della classe. Nel secondo caso, sulla falsariga del modello tedesco c.d. Kapitalanleger- Musterverfahrensgesetz, avrà ad oggetto l’accertamento della responsabilità del convenuto, basato sull’esistenza di questioni comuni.

Premessi tali passaggi introduttivi, il relatore ha proposto alcuni suggerimenti interpretativi che possano favorire il funzionamento della nuova azione di classe, analizzando le regole in tema di giurisdizione, competenza, scelta del rito, pubblicità, connessione di cause e decisione.

Con riferimento alla giurisdizione, salvo il richiamo alle disposizioni in materia di class action pubblica di cui al D.lgs. n. 198/2009 per le quali è competente il giudice amministrativo, la relativa domanda potrà essere azionata dinnanzi le sezioni specializzate in materia di impresa, lasciando supporre, che la giurisdizione spetti al giudice ordinario.

Con una scelta legislativa che riecheggia quella compiuta con l’art. 140 bis Codice del Consumo, la nuova disciplina si applicherà agli illeciti commessi successivamente alla sua entrata in vigore, riproponendo le medesime questioni relative all’azionabilità di tale rimedio.

Quanto ai profili di transnazionalità, va posto il problema di conciliare i criteri di radicamento della giurisdizione con i criteri di competenza di cui all’art. 840 ter c.p.c., che vedono come competente la sezione specializzata del luogo in cui ha sede il convenuto.

In tale quadro di riferimento, è plausibile ritenere sussistente la giurisdizione italiana, anche se l’impresa o il gestore di servizi pubblici convenuto sia privo di sede in Italia, purché i criteri del Regolamento n. 1215/2012 conducano a radicare la giurisdizione in Italia.

Inoltre, dal momento che la disciplina codicistica fa salve le disposizioni di cui al D.lgs. n. 3/2017, in materia di illeciti antitrust continueranno ad applicarsi le regole speciali di competenza dettate per l’antitrust private enforcement.

In relazione al rito, il procedimento si svolgerà con rito sommario a trattazione collegiale e, ragionevolmente, si porranno i problemi relativi alla possibilità di chiamare in causa il terzo già sorti in riferimento all’azione di classe consumeristica, anche in virtù del previsto divieto di intervento volontario ex art. 105 c.p.c.

Un ulteriore quesito su cui si è soffermata l’indagine del relatore ha riguardato l’intersezione con gli illeciti plurioffensivi in materia di lavoro, in virtù dell’espressa esclusione del mutamento del rito di cui all’art. 840 ter c.p.c.

Sul punto, ad oggi, non sarebbe chiaro se un illecito di tipo plurioffensivo, consistente in una condotta antisindacale, possa essere esercitato con le forme dell’azione di classe ex artt. 840 bis ss.

c.p.c., o se conservi la propria sede nell’art. 28 L. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori).

A tal proposito, l’approccio interpretativo auspicabile sarebbe nel senso che, qualora le forme con cui venga introdotta la controversia dovessero risultare errate, soccorreranno in favore dell’interprete una serie di disposizioni generali, ricavabili dagli artt. 281 septies, 281 octies, 426, 427, 439 c.p.c. nonché l’art. 4 D.lgs. n. 50/2021, così impedendo che l’errore sul rito pregiudichi il conseguimento di una decisione di merito.

Relativamente alla pubblicità, con carattere innovativo rispetto al previgente art. 140 bis Codice del Consumo, il Legislatore ha, invece, garantito la pubblicità dell’azione di classe attraverso

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la pubblicazione, sul portale del Ministero della Giustizia, della fase introduttiva del giudizio, della sentenza, degli atti di impugnazione, della proposta conciliativa e della fase di adesione.

Viene poi previsto, all’art. 840 ter c.p.c., il potere di sospendere il giudizio quando sui fatti rilevanti ai fini del decidere è in corso un’istruttoria davanti ad un’autorità indipendente ovvero un giudizio davanti ad un giudice amministrativo, ed è ragionevole ritenere che l’ordinanza che dispone la sospensione, in assenza di espresse previsione, soggiacerà alle regole di cui agli artt. 177, 178 c.p.c.

Da questa disposizione possono essere ricavabili punti di intersezione tra public e private enforcement, alla luce del D.lgs. n. 3/2017 che ha riconosciuto efficacia, ai fini dell’azione di risarcimento del danno, ai provvedimenti dell’Autorità Garante e del giudice amministrativo che accertino la violazione.

È stata, poi, affrontata la disciplina della connessione di cause, contenuta all’art. 840 quater c.p.c., dove la tecnica processuale funzionale a riunire la pluralità di azioni di classe davanti ad un medesimo giudice, viene individuata nelle regole generali.

Qualora le più azioni di classe connesse pendano davanti ad uno stesso ufficio giudiziario, soccorreranno gli artt. 273, 274 c.p.c., altrimenti, alla luce di un’interpretazione allargata del concetto di “sede” del convenuto, si applicherà, in presenza di uffici giudiziari diversi, l’art. 40 c.p.c.

In conclusione, il relatore si è soffermato sul giudizio di inammissibilità della domanda.

Con una scelta legislativa che ricalca fedelmente quella compiuta in tema di azione di classe consumeristica, l’art. 840 ter, quarto comma, c.p.c., dispone che la domanda sarà inammissibile quando:

a) è manifestamente infondata;

b) il tribunale non ravvisi omogeneità tra diritti;

c) in caso di conflitto di interessi tra ricorrente e resistente;

d) quando il ricorrente non è in grado di curare adeguatamente i diritti individuali omogeni fatti valere.

In assenza di indicazioni in ordine alla modalità di svolgimento di questa fase, si ritiene applicabile l’art. 702 ter, quinto comma c.p.c., per cui sarà il tribunale a gestire il giudizio di ammissibilità.

Quanto al tipo di valutazione cui quest’ultimo è chiamato, il relatore ha osservato come tre dei quattro criteri di inammissibilità riguardino la numerosità della classe, per cui una prognosi di successo della proposta dell’attore si basa anche sulla natura plurioffensiva dell’illecito.

L’ordinanza che decide sull’ammissibilità è soggetta a reclamo dinnanzi la Corte di Appello.

Come per l’art. 140 bis Codice del Consumo, tuttavia si manifesta l’assenza di una disciplina di raccordo tra reclamo e giudizio che dovrà proseguire in primo grado. Plausibilmente, in ragione del carattere sostitutivo del reclamo, quest’ultimo dovrebbe consentire alla Corte di Appello di riesaminare la domanda nel suo complesso, riformandola integralmente in un senso o nell’altro.

L’eventuale dichiarazione di inammissibilità per manifesta infondatezza è comunque espressamente dotata di un particolare regime di stabilità, maggiore rispetto alla dichiarazione di inammissibilità prevista per gli altri tre criteri. Ciò emergerebbe dall’art. 840 ter, sesto comma c.p.c., a tenore del quale l’inammissibilità per manifesta infondatezza comporta che la riproponibilità dell’azione di classe è subordinata al verificarsi di mutamenti delle circostanze o di nuove ragioni in fatto o in diritto.

Pur consapevole di aderire ad un orientamento minoritario, il relatore ha terminato il suo intervento osservando come questo innovato regime di stabilità potrebbe condurre all’ammissibilità della ricorribilità per Cassazione dell’ordinanza fondata sulla manifesta infondatezza.

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In tal senso, soccorrerebbe la giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 14886/2019) che, richiamando il principio per cui la natura di un provvedimento deve essere valutata in relazione agli effetti che è destinato a produrre, assimilerebbe l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità per manifesta infondatezza di un’azione classe ad una sentenza che, in quanto tale, è assoggettabile ad appello, nonché ricorribile per cassazione.

In seguito, è intervenuto il Prof. Antonio Carratta10 sul tema de“Le regole speciali in tema di istruzione probatoria”.

L’indagine del relatore si è incentrata sulla seconda fase del procedimento della nuova azione di classe, destinata all’accertamento della responsabilità, e caratterizzata da tecniche di agevolazione in ordine al raggiungimento della prova dei fatti.

Tre sono le principali novità introdotte in materia nell’ambito della nuova azione di classe.

La prima riguarda l’anticipazione delle spese relative alla consulenza tecnica d’ufficio, ex art.

840 quinquies, terzo comma, c.p.p.

Infatti, ove venga disposta all’interno dell’azione di classe la consulenza tecnica d’ufficio, l’anticipazione delle spese è posta a carico del resistente, salvo che esistano motivi specifici che inducano a derogare a questo obbligo. Si è previsto anche che l’eventuale mancato pagamento dell’acconto sulle spese fissato dal giudice, non costituisca motivo di rinuncia dell’incarico da parte del consulente.

L’intento del Legislatore, sebbene susciti dubbi di compatibilità con gli artt. 47 CDFUE e 24, 111 Cost., sarebbe quello di favorire il ricorso all’azione di classe e di riequilibrare la diversa forza economica dell’attore e del resistente, addossando su quest’ultimo gli ingenti costi delle perizie tecniche.

La seconda novità concerne la possibilità di avvalersi di dati statistici e di presunzioni semplici, ai fini dell’accertamento della responsabilità del convenuto, ex art. 840 quinquies, quarto comma, c.p.c.

L’elemento significativo è il richiamo alla prova statistica e troverebbe il suo antecedente nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 2305/2007), che ne aveva ammesso l’utilizzo ai fini della dimostrazione dell’anticoncorrenzialità dei comportamenti del convenuto.

In sé il coordinamento operato dal Legislatore, sebbene potrebbe essere inteso come una esplicita volontà di distinguere i dati statistici dalle prove presuntive, parrebbe suggerire che l’utilizzo della prova statistica, quale prova di tipo indiretto e species del più ampio genus delle prove presuntive, gravi il giudice, in sede di motivazione, della dimostrazione della sussistenza dei requisiti della gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c.

La terza novità riguarda la disciplina in tema di ordine di esibizione, di cui all’art. 840 quinquies, commi dal quinto al tredicesimo, c.p.c..

Il Legislatore, in deroga alla disciplina ordinaria contenuta all’art. 210 c.p.c., ha ripreso pedissequamente la disciplina sull’ordine di esibizione già contenuta nel D.lgs. n. 3/2017, in materia di risarcimento del danno derivante da attività anticoncorrenziale, suscitando problemi di coordinamento con la normativa europea.

Infatti, parallelamente alla normativa nazionale sulla class action, l’Unione Europea ha emanato la Direttiva n. 1828/2020, in materia di azioni rappresentative a tutela di interessi collettivi dei consumatori, che sarà recepita dagli Stati membri entro il 25 dicembre 2022.

10 Ordinario di Diritto Processuale civile presso l’Università di Roma Tre.

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Il contributo del relatore è stato, quindi, quello di indagare sulle possibili ripercussioni della Direttiva in oggetto, in particolare delle norme in tema di istruzione probatoria.

L’elemento di debolezza sarebbe ravvisabile nell’art. 840 quinquies, quinto comma, c.p.c., dove si prevede che l’istanza di esibizione, formulata dal ricorrente nei confronti del resistente, dovrà contenere “l’indicazione dei fatti e delle prove ragionevolmente disponibili dalla controparte, sufficienti a sostenere la plausibilità della domanda”.

Tale formulazione divergerebbe da quella contenuta nell’art. 18 della Direttiva, che ammette l’esercizio del diritto all’esibizione delle prove tanto da parte dell’attore, tanto del convenuto, sia nei confronti della controparte, che di terzi.

Sarebbe anche problematico il riferimento ai “fatti”, che sembrerebbe ammettere una esibizione di tipo esplorativo, ma che, verosimilmente, va giustificato con la necessità che l’istanza del ricorrente, per essere rilevante, sia legata ai fatti di causa.

Un’ultima peculiarità viene ravvisata nella terminologia “plausibilità della domanda”, che sebbene a-tecnica rispetto alla fase di accertamento della responsabilità in cui si colloca. A tal proposito si suggerisce che essa intesa nel senso che le prove di cui si chiede l’esibizione debbano essere sufficienti a dimostrare la fondatezza della domanda esercitata dall’attore.

Il Prof. Andrea Giussani11 ha relazionato su “La tecnica della volontaria inclusione nella classe come strumento per l’estensione degli effetti della decisione collettiva”.

La sua indagine, nello specifico, ha riguardato la terza fase del nuovo procedimento di classe (regime di adesione all’azione e liquidazione delle somme dovute agli aderenti) e si è incentrata su questioni di ordine tecnico-interpretativo, relative alla qualificazione giuridica della posizione dell’aderente.

L’attuale disciplina prevede, infatti, che la procedura di adesione all’azione di classe possa essere esercitata in due distinti momenti: sia prima che dopo la sentenza di accoglimento della class action.

Per espressa previsione legislativa, l’adesione non attribuisce la qualità di parte all’aderente, e ciò in coerenza con l’aspirazione, più volte manifestata dal legislatore, di giustificare l’esenzione degli aderenti dalla responsabilità da soccombenza, ma ciò può concernere solo l’adesione compiuta prima dell’accertamento della responsabilità.

In proposito, benché sia ancora oggetto di discussione se il provvedimento di ammissione alla classe sia o meno idoneo o meno a costituire la stessa come ente ai fini del processo, la conclusione più congrua è che questo effetto si verifichi solo a seguito dell’accertamento della responsabilità.

L’adesione compiuta prima di tale momento, quindi, non andrebbe a produrre tutti gli effetti della domanda giudiziale nella fase di accertamento della responsabilità, fatta eccezione per gli effetti interruttivi della prescrizione, che possono prodursi anche tramite atti stragiudiziali.

Ulteriori implicazioni ravvisabili sono che:

a) non si produca nei confronti dell’aderente l’effetto della litispendenza;

b) non sia possibile la successione nel diritto controverso ad opera di eredi o aventi causa dell’aderente ex artt. 110, 111 c.p.c.;

c) non si producano gli effetti interruttivi, laddove l’aderente sia colpito dagli eventi di cui all’art. 299 c.p.c.;

11 Ordinario di Diritto Processuale civile presso l’Università di Urbino.

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d) l’aderente non possa essere sottoposto ad interrogatorio formale e giuramento decisorio, potendo essere chiamato a deporre come testimone nella fase di accertamento della responsabilità;

e) mentre la sentenza di accertamento della responsabilità è utilizzabile da parte dell’aderente per valersi dei suoi effetti preclusivi nell’ambito della fase di liquidazione, la sentenza di rigetto della domanda di accertamento della responsabilità non produce effetti di giudicato preclusivi nei confronti dell’aderente.

Va tuttavia ribadito che il conflitto di interessi ostativo all’ammissione dell’azione dovrebbe comunque concernere il rapporto del proponente con gli aderenti, attuali e potenziali, sicché possono rilevare solo indirettamente i suoi rapporti con il convenuto.

Il discorso assumerebbe connotati diversi per quanto riguarda la fase di liquidazione.

In tale fase, non è dubitabile che l’aderente assuma la veste di parte, quanto meno in senso sostanziale e, come tale, possa essere destinatario degli effetti della decisione.

Tuttavia dal carattere estremamente accelerato del procedimento di liquidazione si desume che il provvedimento, anche quando sia reso a seguito di opposizione, non sia idoneo ad acquisire efficacia di cosa giudicata in senso sostanziale.

Dopo aver esaminato gli aspetti applicativi, il relatore si è soffermato sulla congruità della scelta operata del legislatore.

Evidenziando come l’azione di classe sia sostanzialmente uno strumento di finanziamento della lite, diretto a riequilibrare sperequazioni di forza di contrattazione tra le parti, si è osservato come i medesimi risultati possono essere raggiunti anche con strumenti negoziali privatistici, ma con un considerevole incremento dei costi transattivi.

L’obiettivo dello strumento in disamina sarebbe allora quello di perseguire l’efficienza dell’amministrazione della giustizia, e le sue potenzialità, in un’osservazione comparatistica, possono essere apprezzate laddove siano assicurati alla parte collettiva incentivi all’esercizio dell’azione ed alla sua difesa tecnica.

Dal punto di vista dell’analisi economica del diritto, la massimizzazione dell’efficienza del sistema si concretizzerebbe attraverso l’attribuzione degli incentivi al soggetto che è posto nella posizione migliore per prendere una decisione informata.

La previsione di un compenso premiale rappresenta dunque la premessa per discutere del senso della scelta del sistema dell’adesione, anziché di quello del recesso.

Infatti, in occasione di contenziosi di carattere seriale, una compiuta perequazione della forza di contrattazione tra le parti, per concretizzarsi, richiederebbe che si adotti il sistema dell’onere del recesso, che massimizza l’effetto premiale, assicurando la gestione più inclusiva della procedura.

Ciononostante, anche predisporre un meccanismo basato sull’onere di adesione, a condizione che vi sia un meccanismo premiale, potrebbe funzionare, ma la strutturazione degli incentivi prescelta dal legislatore induce ad auspicare che si vagli una possibile modifica della disciplina.

La possibilità di conseguire concretamente il risultato tecnico premiale dipende tuttavia da due fattori posti al di fuori della sfera di controllo della difesa tecnica del proponente e non prevedibili ex ante: anzitutto che i membri della classe effettivamente scelgano di avvalersi del procedimento di liquidazione e, inoltre, che la massimizzazione dei risarcimenti attribuiti, sulla base dei quali si computano i compensi premiali, venga efficacemente gestita dal rappresentante comune della classe, che è un soggetto diverso dal proponente e dal suo difensore tecnico.

Può comunque rilevarsi che il rappresentante comune della classe risulta a sua volta incentivato alla massimizzazione dei risarcimenti, dato che anch’egli è soggetto all’attribuzione di un compenso premiale proporzionato ai risultati conseguiti, e può forse anche essere ulteriormente

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incentivato a operare in modo efficiente attraverso l’attribuzione dei residui dei fondi spese costituiti dagli aderenti.

In conclusione, l’interveniente ha manifestato perplessità per il sopravvenire della Direttiva n. 1828/2020 che, al suo dodicesimo articolo, è formulata in modo tale da escludere l’ammissibilità di un compenso premiale per la difesa tecnica dell’attore collettivo.

L‘impressione è che si vada nella direzione di voler comprimere la domanda di giustizia con effetti in realtà pregiudizievoli per l’efficienza dell’amministrazione della giustizia, imboccando un percorso non meritevole di apprezzamento, anche dal punto di vista delle garanzie costituzionali.

Verosimilmente, l’unico modo congruo di attuare la Direttiva sarebbe quello di non toccare la disciplina dell’azione di classe, considerando che la disciplina europea concerne uno strumento di tutela aggiuntivo per le sole azioni collettive a tutela dei consumatori, mentre la disciplina interna della class action rappresenterebbe uno strumento di tutela generale.

L’ultima relazione della sessione mattutina è stata curata Dott. Roberto Simone12, e ha avuto come tema “L’azione di classe come sub-specie di processo litisconsortile e gli accorgimenti organizzativi dell’ufficio giudiziario”.

Il relatore, attraverso un’indagine di tipo retrospettivo, dapprima ha ricostruito il quadro previgente e guardando all’orizzonte, con un’indagine prospettica, ha, poi, voluto esaminare la natura del procedimento dell’azione di classe e le correlative ricadute sul piano organizzativo.

Nella sua originaria versione del 2007, l’art. 140 bis Codice del Consumo portava a configurare il procedimento di tutela risarcitoria collettiva come un procedimento litisconsortile: la legittimazione era in capo solo alle associazioni di consumatori o a comitati creati ad hoc, era ammesso l’intervento di terzi e l’adesione poteva essere comunicata anche in fase di appello.

Tale strutturazione, che non ha mai trovato sostanziale applicazione, deponeva nel senso di creare un contenitore processuale dove confluivano una pluralità di domande, il cui oggetto era il credito del singolo aderente.

Nella sua ultima versione del 2009, che ancora oggi trova applicazione per gli illeciti antecedenti l’entrata in vigore della L. n. 31/2019, il nuovo testo dell’art. 140 bis del Codice del Consumo, prevedeva una tutela risarcitoria collettiva azionabile dal singolo appartenente alla classe, anche per il tramite di un’associazione di categoria.

In siffatta cornice, vigeva un espresso divieto di intervento di terzi, e l’aderente veniva visto come una sorta di convitato di pietra, che faceva confluire il suo bisogno di tutela all’interno di un meccanismo avviato da altri.

Pertanto, a dispetto del proponente e dell’impresa convenuta, pacificamente qualificabili come parti del processo, l’aderente, non svolgendo formalmente una domanda, non poteva essere qualificato come tale.

Non dissimile è la posizione dell’attuale aderente nell’ambito della nuova azione di classe, disciplinata dagli artt. 840 bis ss., c.p.c.

L’aderente, seppur dotato di diritti informativi supplementari, consistenti nell’accesso al fascicolo informatico e nella possibilità di ricevere tutte le comunicazioni a cura della cancelleria, non va ad assumere il ruolo di parte, ma per il tramite di un contratto atipico di mandato, affida al proponente la gestione del suo bisogno di tutela.

12 Presidente di Sezione del Tribunale di Venezia.

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L’impostazione ora accennata dovrebbe condurre ad escludere la configurabilità del processo dell’azione di classe come un procedimento litisconsortile.

Ciononostante, ha destato problemi applicativi l’inciso contenuto nell’art. 140 bis Codice del Consumo, a tenore del quale l’adesione è depositata in cancelleria “anche per il tramite dell’attore”.

L’adesione autonoma, non veicolata dal proponente, ha rappresentato la premessa per richiamare l’esperienza relativa alla class action per il Dieselgate, lo scandalo sulle emissioni truccate che ha coinvolto il gruppo Volkswagen.

In un contesto procedimentale che rimette al tribunale l’individuazione delle modalità dello svolgimento, sono pervenuti negli uffici del Tribunale di Venezia, via fax, posta elettronica e posta ordinaria, una miriade di atti di adesioni che, oltre non trascurabili problemi pratici-operati, hanno anche causato problemi di possibile eterogeneità delle adesioni, con evidenti ricadute in ordine all’ammissibilità delle domande.

Un altro aspetto che rappresentava un forte disincentivo allo strumento dell’azione di classe è il sistema della pubblicità.

Sulla base dell’abrogato art. 140 bis Codice del Consumo la pubblicità era condizione di procedibilità della domanda ed il giudice, in sede di ammissibilità dell’azione, decideva ed ordinava la più opportuna pubblicità.

Con la nuova disciplina tali problematiche scompaiono, nella misura in cui tutto, dal ricorso all’ordinanza che decide sull’ammissibilità, fino al meccanismo di adesione, deve transitare sul portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della Giustizia.

Un’ ulteriore semplificazione introdotta nel contesto dell’adesione, riguarda la possibilità per l’aderente di formulare una dichiarazione sostitutiva in ordine alla veridicità ed autenticità dei fatti esposti, con conseguente possibilità che la domanda venga rigettata per insussistenza dell’elemento di illecito dedotto.

Infine, con la nuova disciplina ed il passaggio da due a tre fasi, è prevista una gestione delle singole pretese degli aderenti secondo le cadenze tipiche delle procedure fallimentari, attraverso una conduzione che è assimilabile ad uno stato passivo, dove è anche prevista anche una fase di opposizione, su cui provvede il tribunale in composizione collegiale.

L’impressione è che così si possano inseguire i singoli risvolti soggettivi degli aderenti, cosa impraticabile rispetto alla vicenda Dieselgate dove, anche per ragioni di contenimento della durata del procedimento, si è privilegiata una soluzione uniformante con attribuzione di un risarcimento calcolato sulla media dei prezzi di acquisto delle autovetture.

Malgrado ciò, ossia la nuova normativa, ma in un quadro dove ancora residua un margine per applicare la vecchia disciplina, la nuova disciplina stenta a decollare.

In prospettiva, soprattutto all’esito del recepimento della direttiva n. 1828/2020, si giungerà ad una divaricazione tra una class action prevista dal codice di rito di carattere generalista, perché svincolata dal dato consumeristico, ed una di derivazione comunitaria di tipo rappresentativo circoscritta al campo dei consumatori. L’esito di questa possibile concorrenza pare in controtendenza con i principi di efficienza del processo e di effettività della tutela.

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Seconda sessione – mercoledì 17 novembre 2021 Coordinamento: Dott. G. Giacalone e Dott. G.A. Chiesi

La sessione pomeridiana è stata dedicata alle tematiche dell’effettività della tutela, dei poteri/doveri del giudice e del rinvio pregiudiziale in tema di accesso alla giustizia.

In particolare, si sono voluti esaminare: il ruolo del giudice tra tutela individuale e collettiva, i poteri ufficiosi del giudice tra diritto dei consumatori e diritto civile tout court, l’interpretazione del sistema delle nullità e le conseguenze della nullità sul regolamento contrattuale.

Il Cons. Valeria Piccone ha introdotto il tema del rinvio pregiudiziale, rilevando come esso sia lo strumento principale della gestione dei rapporti tra ordinamento interno e sovranazionale:

citando la Corte di Giustizia il rinvio pregiudiziale va inteso quale “chiave di volta” del sistema. È lo strumento principe per risolvere le antinomie altrimenti non risolvibili. La recentissima sentenza del 6 ottobre scorso (nella causa C-561/19 - Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi) conferma la centralità dell’obbligo di rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza.

Il Presidente Giacalone ha preso la parola e ha introdotto la triade degli interventi che seguono:

Pagni, Cafaggi e Vincenti, i quali si occuperanno dei profili di collegamento, ossia di come dalla tutela dei settori particolari - come quella dei consumatori - si sia giunti al raggiungimento di una effettiva tutela.

Sempre nell’ambito della ricerca di questa armonia tra tutela individuale e tutela collettiva, si giungerà al principio dell’effettività della tutela, a norma dell’ art.47 della Carta dei Diritti Fondamentali, da leggersi congiuntamente all’art.19 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’UE), essendo questo compito del giudice dell’Unione, inteso non solo dell’Unione, ma anche come giudice nazionale che, contemperando i principi dell’autonomia procedurale degli Stati membri con i principi di effettività e di parallelismo tra tutela euro-unitaria e tutela nazionale, finirebbe per avere un’autonomia non illimitata ma circoscritta.

Il contemperamento del principio dell’autonomia processuale, dunque, andrebbe finalizzato con gli obiettivi previsti dall’ordinamento eurounitario.

Il Cons. Giacalone ha introdotto la Prof. Ilaria Pagni13, la quale ha avviato il suo intervento con l’analisi del principio di effettività, inteso come filo rosso della propria relazione.

Nell’intervento è stata sottolineata la complessità della interpretazione e dell’attuazione di tale principio, in quanto risulta essere fondamentale comprendere da quale punto di vista esso sia invocato e in cosa lo stesso principio consista.

Innanzitutto, come precedentemente accennato, risulterebbe scontato che sul giudice, chiamato a gestire il tema della disapplicazione e dell’interpretazione conformatrice del rinvio pregiudiziale, gravi anche il compito più delicato della ricostruzione dell’assetto dei rimedi.

La Prof.ssa Pagni ha rilevato come in esecuzione di questo compito la Corte di cassazione sia chiamata, in questi giorni, a stabilire quale sia il rimedio più adeguato in materia di incidenza delle violazioni della concorrenza sui contratti a valle dell’intesa vietata.

Preliminarmente si è reso necessario individuare il contenuto del principio di effettività. Tale principio è rintracciabile positivamente nel processo amministrativo (l’art.1 del Codice del processo

13 Ordinario di Diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Firenze

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amministrativo codifica il principio di pienezza ed effettività della tutela, nel senso che il processo deve assicurare tutti i rimedi possibili per tutelare realmente la posizione giuridica protetta dal diritto sostanziale), mentre il Codice di procedura civile non lo esplicita, ancorché lo presupponga.

Nonostante nel processo civile non vi sia un esplicito riferimento, tale principio andrebbe affermato e tradotto sotto tre diversi profili: accesso alla giustizia; diritto al giusto processo e alla durata ragionevole del processo (con ciò spostandosi dal piano dell’effettività a quello dell’efficienza); diritto a un rimedio effettivo. Quest’ultimo si collega al principio affermato da Chiovenda, nel 1911, in virtù del quale il processo deve dare al titolare di una situazione soggettiva

«tutto quello e proprio quello» che il diritto sostanziale riconosce, e riferito, in origine, alla necessità di trovare un rimedio per l’ipotesi di inadempimento degli obblighi nascenti dal contratto preliminare, in assenza di una disposizione come quella che poi sarebbe stata introdotta nel codice del ’42 con l’art. 2932 c.c., e poi applicato tutte le volte che manchi, nell’ordinamento processuale, la previsione dell’azione esperibile. Un principio così generale, insegna Chiovenda, non ha necessità di essere formulato in alcun luogo, così come «non esiste alcuna norma espressa che assicuri l’azione al creditore insoddisfatto d’un capitale mutuato: le norme del codice civile sul mutuo riguardano gli obblighi delle parti, non l’azione …; pure nessuno dubita che l’azione ci sia».

Nel processo amministrativo, il principio della effettività della tutela è servito ad individuare le azioni, partendo dal presupposto che l’interesse legittimo dovesse avere un connotato sostanziale, non identificando nell’effettività la misura del potere del giudice: da ciò è nata la declinazione delle azioni contenute nel Codice del processo amministrativo. Non a caso di effettività, scriveva già nel 1978 Capaccioli nel suo saggio sul giudicato amministrativo, nella logica di estendere l’effetto conformativo della sentenza.

Vi sarebbe, quindi, la necessità di individuare uno strumento di tutela di fronte ad una situazione soggettiva, sebbene l’art.24 Cost. non imponga che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre allo stesso modo e con i medesimi effetti (così come chiarito dalla Corte costituzionale); tuttavia, l’art.24 impone di assicurare un piano mobile di tutela per le situazioni soggettive, anche quando queste situazioni soggettive abbiano un contenuto economico irrisorio (indipendentemente dalla possibilità che pretese di valore economico oggettivamente minimo possono essere tutelate anche con una azione di classe).

E’, dunque, necessario fare i conti con il parametro dell’effettività e interrogarsi sulla portata e i limiti del principio chiovendiano per comprendere quali strumenti metta a disposizione il diritto sostanziale.

Ci si chiede come sia possibile integrare l’apparato rimediale quando manchi una previsione espressa dell’azione esperibile; inoltre, se l’effettività della tutela presupponga necessariamente una tutela specifica (o se sia possibile anche una tutela equivalente); infine, se non si stia assistendo ad un eccessivo sbilanciamento nella giurisprudenza di Cassazione nella direzione di un eccessivo impiego del processo per la tutela di valori (per esempio, nella pronuncia sull’usura del 2020, una critica che è stata mossa – Guizzi - è quella di far attenzione a non usare il parametro della maggior tutela del debitore come ragione dirimente per applicare la disciplina anti-usura anche agli interessi moratori, arrivando ad una conclusione corretta, ma seguendo un percorso non corretto).

Non andrebbe dimenticato che la nullità che oggi viene vista come deterrenza, come sanzione nel settore della tutela del consumatore, non è nata come tale. Irti, nel 1987, affermava che il comportamento svolto con modalità difformi non è disapprovato, ma soltanto incapace di ottenere il risultato sperato.

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Quanto al quesito in ordine alla possibilità per il giudice di integrare o meno l’apparato rimediale, la prof. Pagni riafferma il principio ubi ius ibi rimedium, e ricorda la necessità di individuare prima la situazione soggettiva azionabile: il problema, infatti, è tutto di diritto sostanziale (v. ad es. caso Welby); in termini processuali si ragiona del quomodo, e non del an della tutela, perché l’art. 24 Cost. è una norma in bianco, che aderisce a tutte le norme sostanziali che attribuiscono situazioni soggettive. Tali norme funzionano come fattispecie rispetto al primo comma dell’art.24, che serve a mettere in moto il processo.

Un esempio di questo ragionamento può rintracciarsi nell’art. 2476 c.c., in materia di azione sociale di responsabilità nelle s.r.l., ove non è prevista la legittimazione della società, ma solo quella minoritaria del socio. Poiché non si mette in discussione l’esistenza del diritto della società al risarcimento dei danni nei confronti degli amministratori, in caso di condotta illecita, altrettanto pacificamente si deve riconoscere la possibilità della società di agire senza bisogno di una previsione espressa.

In sostanza, l’art. 24 Cost. darebbe origine al principio della massima strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale: il processo ha il compito di fornire quanto richiesto dal diritto azionato; non deve dare alla parte né qualcosa diverso né qualcosa in più.

In riferimento alla seconda questione, ci si chiede quale sia la tutela più adeguata, se quella risarcitoria o quella specifica, anche se potrebbero esseri casi in cui la tutela per equivalente risulti essere un rimedio più adeguato.

Un esempio può rintracciarsi in materia lavoristica, dove si tende ad affermare che il rimedio specifico sia preferito rispetto a quello risarcitorio. Tuttavia, la Corte di Giustizia avrebbe insegnato, ad esempio attraverso il caso Marshall, come sia necessario ragionare in concreto e non in astratto:

non vi sarebbe preferenza di rimedio, ma dovrebbe prospettarsi un rimedio adeguato alle caratteristiche sostanziali della situazione soggettiva e all’interesse del titolare del diritto, tenendo conto che la tutela risarcitoria, con il tempo, ha assunto caratteristiche diverse rispetto al passato.

Infine, in riferimento al terzo interrogativo, si rileva che effettivamente la Corte ragiona ormai sempre più spesso in termini di valori.

Anche per questo, la nullità oggi è vista spesso come sanzione di un comportamento illecito, più che non come la conseguenza della violazione di una regola di validità.

Lo dimostra anche la ricostruzione della funzione della nullità dell’intesa nel diritto antitrust fornita dalla Cassazione già nel 2005. Nel diritto antitrust la nullità e l’inibitoria sarebbero, infatti, accomunate dalla funzione preventiva. Quando si ragiona di nullità dell’intesa - e l’intesa talora non ha neppure un connotato negoziale - la giurisprudenza ha avuto buon gioco nell’affermare – correttamente - che la nullità avesse una funzione inibitoria, ovvero una funzione di prevenzione rispetto a comportamenti illeciti, che si erano tradotti in condotte che di negoziale avevano ben poco.

Il punto dell’ubi ius ibi rimedium, ha rilevato la prof. Pagni, imporrebbe attenzione al fatto che la tutela sia indirizzata alla realizzazione di diritti soggettivi esistenti: non avrebbe torto Gianni Verde quando ha sottolineato la necessità assoluta che al giudice non vengano dati compiti promozionali. E occorrerebbe anche fare attenzione a un certo impiego dell’art. 700 c.p.c.: è vero che la norma è uno strumento principe di tutela, ma bisognerebbe evitare di ricavare dalla atipicità del contenuto del provvedimento cautelare una sorta di potere generale di cautela del giudice che, con lo strumento fornito dalla tutela di urgenza, potrebbe fare qualunque cosa. In materia, la relatrice suggerisce che vadano apposti dei paletti chiari.

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Per concludere, la prof.ssa Pagni ha affrontato la questione del rapporto tra diritto sostanziale e processo ritornando sull’azione inibitoria in riferimento alle azioni collettive.

Ha ricordato che sono state rilevate notevoli difficoltà nel funzionamento dell’azione di classe, che si sono tradotte nei numeri delle azioni degli anni passati, esaminate nel tavolo tecnico del quale la relatrice ha fatto parte presso il Ministero della Giustizia; dall’analisi di questi dati è emerso che nei Tribunali, su un totale di 32 azioni di classe iscritte nel periodo 2015-2020, vi sono state 15 ipotesi di inammissibilità, e due sole ipotesi di accoglimento, mentre, di contro, le 27 azioni inibitorie proposte sono andate tutte regolarmente avanti.

L’azione di classe è stata introdotta nel 2007 come azione “collettiva” dei consumatori.

Successivamente, nel 2009, la denominazione è stata modificata in “azione di classe”, perché strumento a tutela di diritti individuali. L’aggiunta degli interessi “collettivi” è avvenuta nel 2012.

Una sovrapposizione tra interessi collettivi e diritti individuali è conseguenza anche della imprecisa formulazione degli interessi collettivi nel Codice del consumo, all’art. 2.

L’azione inibitoria, senza ulteriori specificazioni, è stata prevista per la prima volta dall’art. 3 della legge 30 luglio 1998, n. 281 per poi essere disciplinata sotto la rubrica “Procedura” dal Codice del Consumo nell’art. 140.

Di azione “collettiva”, con riferimento all’inibitoria, parla oggi l’art. 840-sexies decies che pure torna ad una legittimazione esplicitamente anche individuale, accogliendo la tesi, sostenuta dalla prof. Pagni e ripresa da una sentenza della Cassazione del 2016, n. 23304 (est. Didone), che con essa possano agire anche i singoli, e non soltanto le associazioni.

La prof. Pagni innanzitutto ricorda come la formula utilizzata dall’art. 840-sexies decies per individuare i legittimati all’azione (“chiunque abbia interesse alla pronuncia di una inibitoria”) sia tanto imprecisa, quanto eccessivamente ampia.

La medesima formula, impiegata nell’art. 1421 c.c. con riferimento all’azione di nullità del contratto, sta a significare che la legittimazione (lì straordinaria) a dedurre in giudizio un rapporto giuridico altrui spetta al terzo titolare di un rapporto giuridico dipendente da quello dedotto in giudizio. Invece nell’azione inibitoria non c’è un “rapporto pregiudiziale”, di titolarità di altri, rispetto al diritto fatto valere: ci sono piuttosto diritti appartenenti ad “una pluralità di individui”, legittimati ordinari ad agire, pregiudicati da quegli atti e comportamenti che l’art. 840-sexies decies mira ad impedire.

Sarebbe stato più corretto, sostiene la prof. Pagni, prevedere: “i titolari dei diritti che possono ricevere pregiudizio da atti e comportamenti posti in essere nei confronti di una pluralità di individui o enti possono agire per ottenere l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva”, chiarendo così che la selezione di coloro che possono agire deve passare, oltre che dal criterio dell’interesse ad agire, dalla previa individuazione della situazione soggettiva astrattamente suscettibile di essere pregiudicata dalla condotta illecita.

Infine, la prof. Pagni ha trattato del rapporto che c’è tra effetti dell’azione inibitoria e effetti dell’azione risarcitoria, individuale e proposta dalla classe, richiamando le tre principali pronunce della Cassazione che hanno affrontato il tema, nel 2008, nel 2011 e nel 2016 (n. 13051/2008; n.

17351/2011; n. 10713/2016).

Ha chiarito che l’intreccio tra l’azione inibitoria collettiva e quella individuale può avvenire su un duplice piano: da un lato, su quello dei risultati ottenibili (il risultato pratico dell’azione) già attraverso l’azione inibitoria collettiva; dall’altro, su quello dell’efficacia di giudicato del provvedimento, ricordando che la differenza si coglie con chiarezza nell’art. 28 St. lav.: l’azione del sindacato a tutela della libertà sindacale si traduce di certo in un vantaggio per il lavoratore (v. il caso

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GKN), ma del provvedimento che colpisce il licenziamento illegittimo per motivi antisindacali il singolo non potrebbe chiedere l’attuazione forzosa, invocandone l’efficacia ultra partes.

La possibilità di ottenere, con l’azione inibitoria proposta dalle associazioni, anche la correzione o eliminazione degli effetti dannosi delle violazioni accertate è ciò che ha prodotto una frequente sovrapposizione, negli effetti concreti delle pronunce, tra risultati dell’azione “collettiva”

inibitoria e azione individuale da esercitare a valle.

Sotto il profilo dell’effetto utile della pronuncia ottenuta dall’associazione, la giurisprudenza di merito ha consentito che, attraverso la misura dell’art. 140 Cod. cons., venissero adottate pronunce con cui è stata condannata l’impresa a non rifiutare le richieste di risarcimento o restituzione avanzate dai singoli sulla base di argomentazioni già ritenute infondate o illegittime in sede giudiziale;

pronunce con cui è stato dichiarato il diritto alla restituzione del credito residuo o è stato ordinato direttamente di riaccreditare le somme in occasione della prima fatturazione successiva.

La prof. Pagni ha ricordato che sono casi analoghi a quello della fatturazione a 28 giorni da parte dei gestori di telefonia, su cui – a seguito dell’intervento dell’AGCOM, che ha attivato lo strumento della tutela indennitaria di massa a favore di tutti gli utenti - si è pronunciato il Consiglio di Stato nel 2020 con la pronuncia n. 879 (riconoscendo che il rimborso debba essere automatico e non debbano essere gli utenti a farne istanza) e il 12 novembre 2021 la Cassazione nella pronuncia n.

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Chiudendo sul tema dei limiti soggettivi del giudicato, la prof. Pagni ha suggerito di provare, guardando più all’obbligo derivato dalla violazione che al diritto violato, a ragionare sulla falsariga dell’art. 1306 c.c., per estendere il giudicato favorevole alla posizione del singolo.

Dopo i ringraziamenti del Cons. Giacalone per l’inquadramento delle problematiche sottese al tema della discussione da parte della relatrice, è intervenuto il Prof. Fabrizio Cafaggi14, che ha, preliminarmente, sottolineato come l’incontro odierno rivesta una importanza strategica per i temi di dibattito proposti. Il relatore ha evidenziato come sia in corso un processo importante di trasformazione della tutela collettiva e che devono essere intraprese scelte strategiche per lo sviluppo di questa forma di tutela. Soprattutto, da quando ci si è resi conto della scarsa applicazione della disciplina in tema di tutela collettiva, e da quando si è reso necessario recepire la Direttiva UE n. 1828 del 2020. Il recepimento della direttiva costituisce una opportunità non solo per rivisitare il rapporto tra tutela giurisdizionale individuale e collettiva ma anche per un più efficace coordinamento con la tutela amministrativa somministrata dalle autorità amministrative indipendenti.

Per inquadrare il tema occorre dare risposta al quesito se la tutela amministrativa stia sostituendo quella giurisdizionale o ad essa si affianchi talvolta sovrapponendosi specialmente quando entri in gioco la tutela collettiva. Il relatore indica che il tessuto normativo e le sue applicazioni giurisprudenziali convergono verso la complementarità e non la sostituzione seppure vi siano significativi problemi di coordinamento.

Una prima questione riguarda la tipologia di struttura che il legislatore ritiene opportuno dare alla tutela collettiva in chiave sia processuale che sostanziale.

A tal proposito occorrerebbe fare un passo indietro ed interrogarsi sulle vicende della tutela collettiva in Europa e sul rapporto tra tutela giurisdizionale e tutela amministrativa. Vi è, secondo il relatore,la necessità di integrare nella struttura della tutela il rapporto tra tutela giurisdizionale e tutela amministrativa. Bisognerebbe, dunque, per il relatore spingersi oltre al dibattito tra private and public

14 Consigliere di Stato – già Ordinario di Diritto Privato presso l’Università di Trento.

Riferimenti

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