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PROFILI RISARCITORI IN MATERIA DI DANNO PSICHICO E DANNO ESISTENZIALE∗

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PROFILI RISARCITORI IN MATERIA

DI DANNO PSICHICO E DANNO ESISTENZIALE

Dr. Fabio Cosentino∗∗

Questo intervento ha il fondamentale obiettivo di fornire un contributo di conoscenza sullo stato della prassi applicativa del Tribunale di Palermo in materia di danno psichico e di danno esistenziale, contributo proveniente da chi, come me, si trova a fare il giudice alla terza sezione civile, che è quella che tradizionalmente si occupa - tra le altre cose - del contenzioso risarcitorio da infortunistica stradale, nel contesto del quale assumono un naturale e costante rilievo le questioni attinenti all’individuazione dei profili di pregiudizio rispetto ai quali si possa apprestare la tutela risarcitoria.

Ebbene, la ricerca di precedenti della sezione in materia di danno psichico e di danno esistenziale ha partorito il topolino di un risultato che certo avrà un suo significato statistico e la cui interpretazione affido alle vostre intelligenze: parlando con i colleghi ho cioè rinvenuto due sole sentenze, una in materia di danno psichico ed una in materia di danno esistenziale, questa seconda peraltro abbastanza nota, perché già pubblicata su più di una rivista.

Se dunque il mio compito - di assai breve respiro non solo temporale - sarà anzitutto quello di fare conoscere quale atteggiamento la sezione ha adottato rispetto alle fattispecie che in concreto venivano in considerazione - dico subito che nell'uno come nell'altro caso si è negata la riconoscibilità del risarcimento - con altrettanto breve corollario vorrò anche dire - così, un po' a volo d'uccello - qual è il mio pensiero sulle questioni che oggi ci occupano, un pensiero che fatica a strutturarsi in termini di granitiche certezze e che dunque si articolerà più che altro in qualche riflessione problematica, in tutto aperta al confronto e certamente non impermeabile ai contributi di

Relazione del Dr. Fabio Cosentino al Convegno “Le nuove frontiere del danno risarcibile. Tra danno psichico e danno esistenziale. Aspetti giuridici e medico-legali ”, svoltosi a Palermo il 9 novembre 2002.

∗∗Magistrato del Tribunale di Palermo

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diverso “sentire” che il dibattito già ci ha fornito e nel prosieguo ci fornirà.

Riflessione probabilmente non dotata di aspetti di particolare originalità, ma che vuole essere l'espressione delle convinzioni, non voglio dire dei sentimenti, che via via sono maturati nella mia quinquennale esperienza di giudice, un'esperienza che - seppur spesso paghi lo scotto, in termini di qualità, del confronto con un contenzioso quantitativamente spropositato, e della tendenza all'assuefazione alla routine, alla standardizzazione, che talora inevitabilmente è indotta da tale confronto - rimane e spero che possa sempre rimanere un'esperienza viva e vitale, capace di arricchirsi nella costante necessità di dare soluzioni a questioni dietro ai quali si agitano spesso pulsioni emotive che conducono le persone, soprattutto ed appunto laddove si parla di fattispecie di risarcimento danni, ad “investire” anche eccessivamente nel momento giurisdizionale, in termini di aspettative, di attesa di risposte destinate a soddisfare, magari a surrogazione di altre risposte che non è possibile ottenere, profondi bisogni attinenti alla loro (e mi si passi il termine) “esistenza”.

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Nella prima delle sentenze alle quali ho accennato (Trib. Palermo 12 ottobre 1999) si parla dunque di danno psichico, profilo di danno allegato in particolare dalla madre di un giovane deceduto a causa di un sinistro stradale, rispetto al quale questa attrice invocava quindi il risarcimento iure proprio.

La motivazione della sentenza muove dalla premessa che “una sofferenza morale di natura patologica” - se si configura quale malattia della mente riconosciuta come tale dalla scienza medica - concretizza una lesione del diritto alla salute, fondando la riconoscibilità di un danno che non è altro che, appunto, un danno alla “salute” psichica e dunque un danno “biologico”.

Ed in questa premessa v'è un'affermazione che in astratta - è una di quelle che normalmente non provoca soverchie difficoltà concettuali o terminologiche, seppur un qualche contributo di complicazione rischia di provenire dalla sentenza n° 372 del 1994 della Corte Costituzionale.

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La giurisprudenza si è infatti abbastanza concordemente attestata su una posizione che non vede altro, nel danno psichico, se non un danno appunto alla salute (dunque biologico) sul presupposto, invero abbastanza ovvio, che la salute è anche salute psichica, oltre che salute fisica.

D'altronde ricorrente è l'affermazione, che trova ingresso pure nella sentenza che stiamo esaminando, secondo cui ai fini della configurabilità di un danno di tal fatta, soprattutto in funzione di distinzione rispetto al danno morale, è necessario che appunto il soggetto manifesti una “malattia della mente riconosciuta come tale dalla scienza medica”: la sentenza peraltro parla di una sofferenza “morale" di tale intensità, direi di tale qualità, da travalicare la soglia della patologia.

Perché invece, continua la sentenza, la sofferenza morale che la scienza consideri

“fisiologica, e non patologica, rispetto alla causa che l'ha determinata” - e questo è un inciso di un certo rilievo perché potrebbe condurre in ipotesi ad una diversa rilevanza di una stessa “sofferenza”

– “rientra nella categoria del cosiddetto danno morale”.

Il problema sta tutto - è quasi banale dirlo, ma, tant'è, qua si gioca la questione - nello stabilire quando v'è malattia della mente e quando no.

Il riferimento necessario - dice la sentenza - è quello delle categorie indiscusse elaborate dalla comunità scientifica.

Nella specie, l'attrice lamentava uno “stato ansioso depressivo grave” e tuttavia il giudice nega il risarcimento del danno che, in ipotesi, avrebbe dovuto rappresentarsi come danno biologico sub specie di danno psichico, perché dalla CTU non era emerso che la stessa attrice risentisse di

“conseguenze di rilevanza clinica”.

In particolare, dalla conseguenza emergeva che l'attrice non aveva ancora elaborato il lutto e presentava una “sindrome depressiva reattiva la cui guarigione dipenderà…dalla definitiva accettazione della scomparsa del figlio e da un adeguato supporto farmacologico”.

Il CTU aveva anche detto che l'attrice, pur presentando la tendenza a ridurre i rapporti interpersonali, sentimenti di angoscia abbandonica e di profonda delusione, non presentava però

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quella compromissione dell'io o regressione che caratterizza la depressione maggiore, che è invece connotata da manifestazioni cliniche quali deliri, disturbi del sonno, ecc.

Sulla base dell'indicazione proveniente dal consulente, secondo la quale il tipo di sindrome depressi va diagnosticato - depressione reattiva - costituisce un disturbo di attenzione clinica, e però non rientra in alcuna delle patologie di cui al famoso DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, dell'associazione americana di psichiatria), il giudice conclude nel senso che la sofferenza dell'attrice non rivela i caratteri di una vera e propria patologia della mente, trattandosi di uno stato soggettivo ancora suscettibile di evoluzione e non consolidato, che allo stato non esclude una definitiva elaborazione del lutto.

Ciò non toglie, conclude la sentenza per la parte che ci interessa, che tale stato rileva in termini di danno morale che consiste appunto “nella sofferenza psichica causata dall'evento”.

Ora, la conclusione cui perviene la decisione credo sia in linea almeno con talune, probabilmente prevalenti tendenze della scienza medico-legale che conducono ad escludere il rilievo di patologia idonea ad integrare gli estremi della malattia della mente necessaria ai fini della configurabilità del danno psichico alle “reazioni depressive”; in linea d'altronde con la tendenza a valorizzare a questi fini proprio quel DSM di cui appunto specificamente parlava il consulente che il giudice della decisione aveva nominato.

Rispetto a queste direttrici di marcia ed alle conclusioni che ne scaturiscono - che ripeto sono perfettamente in linea con autorevoli tendenze, con autorevoli standard interpretativi - io mi limito a chiedermi ed a chiedere soprattutto ai medici legali, non dimenticando mai che quella che a noi interessa è una nozione “normativizzata”, una nozione che deve cioè filtrare le indicazioni provenienti dalla scienza attraverso l'occhio delle istanze di tutela che l'ordinamento nel suo complesso impone di soddisfare: è così decisivo il dato desumibile dal DSM? È così irrilevante, rispetto ad un fine che è quello di stabilire se c'è una malattia o una sofferenza fisiologicamente connessa - in termini di reazione - ad un evento luttuoso, il fatto che la regressione di questa

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sofferenza va anche affidata, oltre che a processi auto indotti di elaborazione del lutto, ad un

“supporto farmacologico”? Non è che il fatto che si tratta di una sofferenza destinata a regredire rileva più selettivamente - ed eventualmente - allo scopo di escludere la configurabilità di un danno da invalidità “permanente”?

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La seconda delle sentenze si occupa invece di danno esistenziale (Trib. Palermo 14 maggio 2001) finendo con il negare nella specie l'esistenza dei presupposti per la sua configurabilità con un percorso argomentativo che fa leva, proprio nella motivazione della sentenza che per questo assume un peculiare interesse, sul tipo di circostanze che parte attrice aveva dedotto negli articolati di prova destinati - nella sua ottica - a dimostrare la ricorrenza di un danno dì tal fatta.

In questo caso l'attore era il figlio di persona deceduta a causa di un sinistro stradale.

Incidentalmente vi dico che la sentenza riconosce anzitutto all'attore il diritto ad ottenere il risarcimento del danno morale connesso al decesso del padre e proprio in considerazione della sua appartenenza a quella cerchia di prossimi congiunti che, secondo il giudice della sentenza di cui parliamo, comprende figli genitori e fratelli e sorelle, cerchia di persone per le quali un danno di tal fatta è intimamente connesso al fatto stesso della sussistenza del rapporto di parentela (sicché solo la prova, “contraria”, che - nonostante tale rapporto - il legame in effetti si atteggiava con modalità tali da escludere una sofferenza, potrebbe condurre ad escludere la riconoscibilità di un pregiudizio morale); rappresentandosi poi, sempre secondo la sentenza commentata, una seconda cerchia di congiunti (parenti ed affini) per i quali invece il riconoscimento del diritto al ristoro del danno morale va subordinato alla prova dell'avvenuta perdita dì “un effettivo e valido sostegno morale”.

L'attore aveva poi richiesto anche il risarcimento del danno esistenziale con deduzione che però il giudice reputa assolutamente generica ed indeterminata, anche, come si è anticipato, sotto il profilo delle circostanze che allo scopo si era richiesto di far oggetto di prova testimoniale.

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Per giungere all'affermazione di siffatta genericità ed indeterminatezza, la sentenza ripercorre le tappe dell'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale in materia di danno esistenziale, richiama anzitutto la famosa sentenza del 1986 sulla lesione del diritto all'attività sessuale - che pure, mi pare, non parlava espressamente di danno esistenziale, e che pure però, anche secondo me, rimane essenziale, sia per l'aspetto di “esistenza” di cui si occupa sia per il compendio motivazionale su cui si fonda. e perviene ad una conclusione tendenzialmente in linea con la dottrina del danno esistenziale; e dico tendenzialmente solo per fugare ogni dubbio sul fatta che quella del mio collega sia solo una pigra adesione ad una moda, sapendo invece che è il frutta di una ponderata, sensibile, valutazione delle conseguenze di fantasiosa proliferazione dì istanze risarcitorie che la categoria in questione rischia di far correre (e d'altronde la sentenza, per questo profilo, è una sentenza di rigetto).

La sentenza parla infatti, nella parte per così dire teorica della motivazione, di lesione della qualità della vita, di riflessi negativi dell'illecito sulla dimensione personale della vittima, alfine configurando la categoria del danno esistenziale quale categoria comprensiva di ogni attentato alla persona umana riconducibile all'illecito, ed anche, quindi, di ogni attentato che si diriga più specificamente alla salute della persona umana: finendo con il contenere infatti l'affermazione che –

“il danno biologico... altro non è se un danno esistenziale”.

Ed aderendo all'orientamento che fa giocare la distinzione tra il danna morale ed il danno esistenziale sull'affermazione che il primo consiste in un pati, in un “sentire” - nel lacrimare, taluno dice- il secondo invece in un “non poter più fare”, più propriamente assumendo un connotato di esteriorizzazione, di socialità, relativo al modus vivendi- dice ancora la sentenza - del soggetto.

La sentenza dunque chiaramente riconosce l'autonoma configurabilità teorica del danno esistenziale e - operando un inciso che lascia sullo sfondo, perché in realtà non rilevanti nella specie, questioni di compatibilità col sistema risarcitorio aquiliano. - vuole poi valorizzare la specificità di quel danno, nell'ottica di evitare “il rischio concreto di sovrapposizioni”.

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Evidenziando come inidonee a innervare dl un contenuto sufficientemente pregnante l'allegazione della sussistenza di un danno esistenziale erano le circostanze che allo scopo volevano essere provate dall'attore, che vi vado a leggere. In particolare, l'attore avrebbe voluto assunta, con il medico di fiducia della sua famiglia, una prova testimoniale sui seguenti articolati: “vero è che considerata le specifica composizione del nucleo familiare e tenuto anche conto della particolare sensibilità del Sig. [...], quest'ultimo ha avvertito in modo significativo il cambiamento di abitudini della sua vita, dovendo vivere da solo in quella casa che per anni ha abitato unitamente al padre?”; “ vero è che il precitato dopo la morte del genitore e per un notevole periodo di tempo ha avuto considerevole difficoltà a realizzare compiutamente la propria personalità nello svolgimento delle quotidiane attività?”; “vero è che dopo la verificazione di tale traumatico evento, la sfera di realizzazione del Sig. (,..] è stata per un rilevante lasso temporale compromessa, rimanendo quindi intaccate durante tale periodo la sua individualità e la sua dimensione personale?”.

Siffatte circostanze sono state appunto ritenute troppo generiche, perché non protese a dimostrare in quali aspetti specifici la vita del medesimo attore risultasse modificata per effetto dell'illecito, ed anche ininfluenti, perché comunque esse stesse rivelatrici, eventualmente, di una variazione dell'esistenza solo transeunte legata al periodo di elaborazione del lutto più propriamente rilevante in sede di riconoscimento del “pretium doloris”, e non di una “lesione alla qualità della vita…incidente in maniera definitiva sul modus vivendi del soggetto".

Aggiungo io che la maggior parte delle risposte che i testi avrebbero dovuto fornire sarebbero state in realtà manifestazioni di giudizio, quella genericità di cui parla la sentenza riverberandosi appunto nell'assenza dagli articolati di prova di fatti, e di fatti specifici, idonei a supportare una valutazione normativa di sussistenza del danno esistenziale.

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