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THE PHYSICIANS AND THE PATIENT AT THE END OF LIFE. THE LIVING WILLS: INTERNATIONAL JURIDICAL PROFILES

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Academic year: 2022

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TAGETE 4-2007 Year XIII

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THE PHYSICIANS AND THE PATIENT AT THE END OF LIFE.

THE LIVING WILLS: INTERNATIONAL JURIDICAL PROFILES

L'OCCHIO DEL CURANTE E LE PROBLEMATICHE DI FINE VITA.

LE DICHIARAZIONI ANTICIPATE DI TRATTAMENTO: PROFILI GIURIDICI INTERNAZIONALI

Prof. Avv. Luca Marini*

La tematica del c.d. testamento biologico solleva problemi diversi e correlati. Da studioso dei profili giuridici internazionali delle problematiche bioetiche, ritengo necessario esaminare anzitutto il problema della pretesa cogenza delle “dichiarazioni anticipate di

* Professore di Diritto Internazionale nell'Università di Roma "La Sapienza" - Direttore del Centro Studi Biogiuridici "ECSEL" – Vice Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica

ABSTRACT

The author discusses about the possibility for italian patients to use advance directives, or living wills.

Called a "biological testament" in Italy, these are legal documents that dictate patient treatment preferences in case of incapacitating illness. He remembers the Convention on Human Rights and Biomedicine, signed at Oviedo in 1997, whose purpose is to protect the dignity and identity of all human beings and guarantee everyone, without discrimination, respect for their integrity and other rights and fundamental freedoms with regard to the application of biology and medicine. Other juridical sources are the Art. 32 of the Italian Constitution and the Italian Medical Deontology Code.

Besides, the informed consent can represents itself an "anticipated declarations" of the patient’s will, about, for istance, his refusal of treatments at the end of life.

The risk of introducing in Italy a law on the Biological Testament is to authorize an explicit form of euthanasia. In comparison to a hasty and not shared legislative intervention, it would be better an objective communication on the value and the limits of cares, creating a real "therapeutic alliance", that doesn't reduce the patient to a simple interlocutor and the physician to a mere performer.

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2 trattamento”, formula che preferisco, per i motivi di cui dirò tra breve, a quella di

“testamento biologico” o a quella equivalente di “direttive anticipate di trattamento”.

A tal fine farò riferimento alla più rilevante fonte del diritto internazionale della bioetica:

la Convenzione sulla biomedicina, firmata a Oviedo nel 1997, di cui quest’anno ricorre il decennale. La convenzione di Oviedo è una convenzione quadro: definisce cioè una cornice normativa e rimanda ad atti internazionali successivi la disciplina di dettaglio di argomenti determinati. Essa si limita, in taluni casi, ad accogliere nel suo dispositivo formule compromissorie, come nel caso dell’art. 9, che si occupa appunto delle

“dichiarazioni anticipate di trattamento”. Seppur compromissorie, perché frutto di un negoziato politico complesso, tali formule mantengono una precisa valenza giuridica, che occorre interpretare correttamente.

Per valutare l’efficacia giuridica delle “dichiarazioni anticipate”, l’art. 9 della Convenzione va quindi interpretato alla luce delle regole internazionali: tali regole prevedono tra l’altro che, in caso di accordi redatti in più lingue, occorre assumere “il significato che, tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, concilia meglio detti testi”. Ora, sia il testo inglese che quello francese della Convenzione di Oviedo, gli unici a fare fede, utilizzano, all’art. 9, l’espressione “desideri”: in francese souhaits, in inglese will. Pertanto, a norma dell’art. 9 della Convenzione, è da escludersi la possibilità di attribuire efficacia vincolante a “desideri” o “dichiarazioni” anticipati di trattamento. Ecco

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3 perché ritengo che le espressioni “testamento biologico” o “direttive anticipate” siano fuorvianti.

Fatta chiarezza su questo punto, vorrei richiamare la dimensione antropologica e culturale cui ricondurre l’argomento in esame. Il tema si inserisce senz’altro nella critica generale e consolidata al paternalismo medico, espressione con cui si indica tradizionalmente la condizione di soggezione del paziente rispetto alla competenza del medico curante, approccio che oggi si ritiene superato in nome di una rivalutata, ma in realtà debole, autonomia individuale e di una rinnovata, ma ambigua, “alleanza terapeutica” tra medico e paziente. Le premesse dell’atteggiamento critico al paternalismo medico possono essere ricondotte essenzialmente all’affermazione del principio del consenso informato, che oggi costituisce lo strumento tradizionale di garanzia individuale in ambito medico e biomedico.

Occorre però precisare che il consenso nasceva da una precisa constestualizzazione storica: e cioè l’esigenza di reagire con forza alle aberranti sperimentazioni condotte su cavie umane nei campi di concentramento nazisti. Il principio del consenso è stato codificato dapprima in strumenti deontologici, quali il codice di Norimberga del 1947 e la dichiarazione di Helsinki del 1964, per poi essere recepito da strumenti internazionali cogenti, come i Patti internazionali sui diritti civili e politici del 1966 e la Convenzione di Oviedo del 1997.

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4 Se il consenso informato al trattamento medico e sperimentale ha costituito la prima affermazione dell’autonomia individuale in ambito medico e la prima “erosione” del paternalismo medico, da esso si è voluto ricavare, col tempo, una portata ben più ampia di quella originaria: il rifiuto delle cure, ad esempio, che si traduce anche nell’esplicitazione anticipata dei desideri del singolo in ordine ai trattamenti medici che dovrebbero essere effettuati nel caso in cui la persona in questione dovesse perdere coscienza e volontà autonome. A questo punto si inseriscono una serie di problemi scientifici, etici e giuridici di non facile soluzione, dalla qualificazione medica e giuridica di pratiche quali l’alimentazione e l’idratazione, all’accertamento dello stato vegetativo, permanente o persistente; dalle competenze e funzioni del c.d. fiduciario o delegato, cioè di colui che dovrebbe garantire l’attuazione delle dichiarazioni anticipate, al ruolo del medico, nel segno di quell’alleanza terapeutica da molti, a volte ambiguamente, invocata; e ancora, la validità e soprattutto l’attualità delle dichiarazioni anticipate: la volontà del paziente è rimasta inalterata da quanto ha redatto le dichiarazioni anticipate?

O è mutata? E in questo caso; in quale direzione? Nel senso di rinunciare al trattamento o di persistere nella terapia? Tale modifica è stata resa manifesta?

Sono problemi che investono una complessità ed una varietà di profili che non è possibile esaurire in questa sede, ma che senz’altro non possono neppure essere esauriti dagli slogans che vengono abitualmente proposti al grande pubblico e che fanno genericamente appello all’esaltazione della volontà e della libertà individuale; alla

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5 presunta salvaguardia della dignità umana; al timore di una medicalizzazione estrema dell’esistenza ed al completo assoggettamento della vita individuale alle macchine. E’

sulla base di questi slogans che i sostenitori del testamento biologico affermano di condurre una “battaglia di civiltà” in nome della libertà e dell’autodeterminazione individuale, ma poi tacciono sui motivi che collegano il testamento biologico ad una prospettiva meramente pragmatica: l'impatto sulla spesa sanitaria del mantenimento in vita dei malati terminali.

Tenuto conto delle fonti giuridiche e deontologiche già esistenti, quali l’art. 32 della Costituzione, i Patti internazionali sui diritti civili e politici, la Convenzione di Oviedo ed il nuovo Codice di deontologia medica, appare quantomeno controversa la necessità di ulteriori norme in materia. In particolare, il consenso informato già oggi può tradursi in

“dichiarazioni anticipate” che possono legittimamente prevedere anche il rifiuto delle cure. Resta invece da vedere se una legge sul testamento biologico non finisca per introdurre forme più o meno esplicite di eutanasia. Rispetto ad un intervento legislativo affrettato e non condiviso, è prioritario favorire una comunicazione obiettiva sul valore e i limiti di una effettiva “alleanza terapeutica”, che non riduca il paziente a semplice interlocutore e il medico a mero esecutore.

Riferimenti

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