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355/2012 Esercizi per cambiare la vita. In dialogo con Peter Sloterdijk

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355

luglio settembre 2012

Esercizi per cambiare la vita In dialogo con Peter Sloterdijk

Premessa 3

Peter Sloterdijk Due risposte ad “aut aut” 4 Pier Aldo Rovatti Esercizi ma senza ascesi 7 Giovanni Leghissa L’esercizio come condizione

di possibilità del soggetto (e della sua

sparizione) 19

Marc Jongen La resurrezione dalla non–morte.

Sloterdijk trainer dell’iperimmaginazione 37 Thomas Macho Tecniche di solitudine 57 Antonio Lucci L’incontro mancato. Il solipsismo

aristocratico di Sloterdijk 79 Graziella Berto Perdere la testa. Ginnastica

e filosofia 95

Edoardo Greblo Mi esercito, dunque sono 106 Tiziano Possamai La vita di Diogene e il busto

di Apollo 117

Massimiliano Nicoli, Carla Troilo Ceci n’est

pas un livre 129

Fabio Polidori Fine dell’esercizio 141 Elettra Stimilli Per una vita in debito 154 Dario Consoli La filosofia oltre l’esercizio

immunitario 171

Martino Doni L’obbedienza della parola

negli esercizi di Ignazio di Loyola 185

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, [email protected]),

Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.ilsaggiatore.com

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

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Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

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Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Lego S.p.A., Lavis (

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)

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nell’agosto 2012

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3

Premessa

Q uesto fascicolo è dedicato all’esercizio fi- losofico e alle sue potenzialità di cambia- re la nostra vita. Prende spunto da Peter Sloterdijk e soprattutto dal suo fortunato volume Devi cambiare la tua vita (2009, Raffaello Cortina, Milano 2010). Il fascicolo è sostanzialmente un dialogo critico a più voci con le ipotesi, anche provocatorie, contenute in questo libro (e nell’intero pensiero di Sloterdijk). Intervengono due studiosi, Marc Jongen e Thomas Macho, molto vicini a Sloterdijk. Prende anche brevemente la parola Sloterdijk stesso. Il grosso del fascicolo è comunque costi- tuito da voci italiane, interne ed esterne al collettivo di “aut aut”, più o meno consonanti con le proposte filosofiche ma anche ge- nealogiche (soprattutto una genealogia dell’ascesi), di Sloterdijk.

Risuonano con insistenza i nomi di Nietzsche e di Foucault, e dello stesso Husserl (l’Husserl dell’epoché), nomi molto importanti anche nell’orizzonte complessivo di pensiero della rivista.

Non siamo riusciti a ospitare qui tutti gli interventi pervenuti:

alcuni compariranno nel prossimo fascicolo e ce ne scusiamo con

gli autori. Giovanni Leghissa ha lanciato e organizzato la proposta

(Leghissa ha recentemente lavorato per un periodo a Karlsruhe

con Sloterdijk). Antonio Lucci (autore della monografia Il limite

delle sfere, Bulzoni, Roma 2011) ha tradotto i saggi di Jongen e

di Macho.

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Due risposte ad “aut aut”

PETER SLOTERDIJK

I l lettore spesso ha l’impressione che il luogo in cui lei compie i suoi esercizi sia il foglio di carta. Come se la scrittura – la scrittura filoso- fica – fosse una sorta di campo di battaglia nel quale si tratta di combattere l’inerzia della tradizione filosofica. Come se lei si sfor- zasse di introdurre fratture, interruzioni, scarti, distanze nella lingua della filosofia. Questa lotta contro i limiti del linguaggio filosofico – lotta che al tempo stesso mira a estenderlo – costituisce il modo in cui lei pratica l’esercizio dell’epoché?

L’esercizio filosofico è innanzitutto e perlopiù un’attività di scrittu-

ra. Il vecchio adagio nulla die sine linea acquista nella scritturalità

filosofica un senso preciso, poiché il pensatore che riprende i tratti

del pensiero è di regola uno scrittore che mette di nuovo sulla carta

delle righe già scritte, nella speranza che la ripetizione non rimanga

semplicemente una copia inerte di ciò che già è stato pensato, ma

conservi la matrice atta a produrre la variazione creativa. Per me

la scrittura nella prosa filosofica implica una costante ricerca della

consonanza con il pensiero. Dentro di me se ne sta seduto a vigilare

un censore rigoroso che interviene sistematicamente contro tutti

i possibili effetti inerziali della mera “discorsività”, costringendo

l’autore a far passare ciò che deve essere detto attraverso il filtro

di un continuo rinnovamento letterario. Si potrebbe chiamare

questa procedura un esercizio volto a smontare la definizione di

ogni concettualità che abbiamo già sempre a disposizione. Quan-

(5)

7

aut aut, 355, 2012, 7-18

Esercizi ma senza ascesi

PIER ALDO ROVATTI

1. Deserti tascabili

In quel suo libro straripante, provocatorio, trasparente ed enigma- tico a un tempo, esaltante quanto deludente, e dunque a suo modo del tutto eccezionale, che si intitola Du mußt dein Leben ändern (2009, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina, Milano 2010, 566 pp.), Peter Sloterdijk insiste sui “deserti tascabili”. Si chiede che fine abbiano fatto i luoghi di ritiro nell’epoca della modernità e oggi stesso, prendendo spunto (cfr. p. 271 sgg.) dalle “eterotopie”

di Michel Foucault. La sua corposa e disseminata analisi dell’im- plosione della “secessione etica” ha i tratti di una diagnosi impie- tosa: la modernità avrebbe assorbito ogni “altrove” producendo un processo di completa esternizzazione di ogni ascesa verticale: la

“santità” dell’antico ritiro diventa la fitness, intesa come cifra della cultura e della società contemporanea. L’ascesi e la conversione lasciano comunque delle tracce nella “moderata pendenza” che si mantiene nella globale de-spiritualizzazione di oggi, una specie di caricatura della verticalità perduta, affogata nella performance e nella sua tendenza quasi parossistica al “virtuosismo” individuale.

È comunque ancora percepibile – dirà poi Sloterdijk – qualcosa come un “aleggiare”, il che per lui significa che gli “angeli” non sono stati del tutto sterminati.

I “deserti tascabili” sono innanzi tutto dei luoghi fisici, delle

nicchie si direbbe, sopravvivenze degli antichi ritiri, dove talora

il deserto era letterale. Può essere un libro, suggerisce Sloterdijk,

ma gli esempi possono moltiplicarsi: la carrozza di un treno, l’abi-

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tacolo dell’auto, un segmento all’apparenza insignificante della routine quotidiana, un angolo della propria casa. Certo, la società del turismo e del consumo, in cui siamo, ha costruito un vario- pinto mercato di deserti tascabili già predisposti e a basso costo, snaturando l’idea stessa di deserto, esteriorizzandola in forma di merce acquistabile: tuttavia, facendolo, ne riconosce l’esigenza ormai massificata senza riuscire a estinguerla. Infatti ciascuno – e, azzarderei, senza eccezione – continua a procurarsi pause e silenzi nelle maniere più disparate e personali, anche in mezzo al traffico, alla folla e al rumore dominante. Se il deserto è diventato una metafora (o un’offerta per vacanze dello spirito), esso è rimasto un’esperienza di vita, concrete parentesi di pensosità cui nessuno davvero rinuncia, neppure il più orizzontalizzato degli uomini.

Ma che c’entra l’ascesi? Nietzsche ci ha addestrato a fiutarvi su- bito l’equivoco di qualcosa di “malaticcio”, e Sloterdijk – che può ben definirsi nietzschiano – prende a cuore la questione. Per iniziare, basta chiarire un punto: per lui il termine greco askesis significa so- prattutto (e correttamente) “esercizio”, e in ciò si incrocia ancora con l’uso che ne fa Foucault nelle sue tarde incursioni nell’ethos antico.

Da parte sua, Sloterdijk, con evidenza, carica questa nozione fino a usarla come un operatore essenziale e universale. Ricordo che il sottotitolo del libro è Sull’antropotecnica: più che un sottotitolo è la linea guida della sua riflessione sul nostro presente. Quando, però, tutto diventa significativamente esercizio e tecnica di vita, lo scenario si riempie di nuovi problemi: non tutti gli esercizi sono virtuosi, molti sono “maligni” e perfino tossici, e allora bisognerà mettere in campo una difficile arte della distinzione per tentare di smascherare l’inces- sante produzione di false ascetiche. Ma cosa può essere “salvato”

come appartenente a quell’aleggiare angelico? È utile, per questo

salvataggio, rimettere al lavoro la “verticalità” (che corrisponde, alla

fine, con l’aspirazione al meglio)? L’ascetica, insomma, ha ancora

un’incidenza? E se sono “i poeti” (e più in generale l’eccentricità

residua dell’arte) ad annunciare, per così dire, la buona novella, che

cosa resta da fare ai cosiddetti filosofi ai quali Sloterdijk ovviamente

si appella? Ecco alcune delle domande che Devi cambiare la tua

vita in conclusione rilancia al lettore, compresa quella sonoramente

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9

implicita nel titolo stesso. Domande cui si accompagna, a lettura di libro avvenuta, un senso di disagio che si estende dalla sensazione di non aver compreso fino in fondo una proposta, sicuramente importante, al dubbio che in essa si annidino e proliferino alcune ambiguità che si tratta di portare allo scoperto. Come se Sloterdijk stesso fosse preso in un’oscillazione tra il mantenere il suo sguar- do nello scadimento dell’attuale società della fitness e il rivolgersi indietro a un patrimonio ascetico non completamente inghiottito dalla modernità. L’esercizio/esperimento da eseguire consisterebbe, allora, nel valutare quanto la sua eccezionale performance possa funzionare per noi alla stregua di un deserto tascabile.

2. Il mondo della vita? Un risultato modesto

È l’affermazione che leggiamo nelle pagine dedicate a Husserl della lunga conferenza Stato di morte apparente (tenuta a Tübingen nel 2009, Raffaello Cortina, Milano 2011). Nel chiedersi se è tutto qui il risultato del “radicalismo” della fenomenologia (cfr. p. 61), Sloterdijk si rivela molto scettico dell’approdo al quale Husserl conduce il suo “osservatore disinteressato”, degno per lui di mi- glior sorte rispetto a un deludente rifluire nel mare della Lebens- welt. Con la conseguenza, implicita ma chiara, di un complessivo deprezzamento dell’itinerario più tardo della filosofia di Husserl, documentato nelle pagine della Crisi delle scienze europee. Poiché, invece, è proprio da qui che ha preso le mosse la più efficace tra le eredità che la fenomenologia ha prodotto in Italia, si tratta di vedere bene quali sono le poste in gioco.

Personalmente, ho incontrato la fenomenologia all’inizio degli

anni sessanta attraverso le lezioni di Enzo Paci ed è sotto gli occhi,

in ogni caso, che la rivista “aut aut” (appunto, questa che state

leggendo) ha rappresentato, da noi, il maggior laboratorio della co-

siddetta fenomenologia concreta. Dunque, occorre assolutamente

in questa sede fare un po’ di chiarezza. Fin da subito era evidente

che la fenomenologia proponeva un esercizio, anzi era essa stessa

un esercizio che faceva leva sull’epoché (un’epoché decisamente de-

intellettualizzata) per promuovere un cambiamento radicale dello

sguardo e una trasformazione complessiva dell’idea e della pratica

(8)

D a quando Kant ci ha suggerito che per capire cosa possiamo conoscere bisogna anche chiedersi di cosa è capace il soggetto che conosce, ne sono successe di tutti i colori. Per alcuni, è più che sufficiente chiedersi come è fatto il soggetto. Una volta risolta questa questione, la domanda sullo statuto della soggettività perde poi ogni significato, in quanto ciò che la filosofia mette sotto la rubrica “sog- getto” finisce sotto quella “strutture cognitive”. Se vogliamo dare un senso cronologico alla questione, da Johannes Müller in avanti

1

questa linea di pensiero ci ha portati dritti verso i meandri oscuri delle neuroscienze (oscuri non perché il programma di ricerca di queste ultime sia poco chiaro o poco persuasivo, ma oscuri perché nel cerebro non c’è luce, se non quella, di vario colore, che appare sui monitor del brain imaging).

Non meglio se la passa la nozione di soggetto all’interno di quei programmi di ricerca che, pur partiti bene, nel senso che volevano tener conto della centralità del soggetto, si sono poi ri- dotti a considerare la sola componente culturale o langagière della soggettività. Si comincia col dire che il soggetto trascendentale ha bisogno di scoprire le forme simboliche, perché queste non sono solo un prodotto della storia, ovvero della multiforme attività

1. Sull’importanza di Johannes Müller, padre degli studi di neuroscienze, ovvero di quel- la naturalizzazione del trascendentale che Kant, nella lettera a Samuel Thomas Soemmering del 10 agosto 1795, sconsigliava di intraprendere, si veda M. Hagner, B. Wahrig-Schmidt (a cura di), Johannes Müller und die Philosophie, Akademie, Berlin 1992.

L’esercizio come condizione di possibilità del soggetto (e della sua sparizione)

GIOVANNI LEGHISSA

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20

umana di sensemaking, ma sono anche ciò entro cui si muove il soggetto stesso, sono insomma ciò che rende possibile per un soggetto comprendere la mutevolezza del proprio rapporto con la datità del mondo. Da Lazarus in poi

2

si è dunque percorsa con profitto la pista che porta a segnalare tutta la produttività del cul- turale, dello storico, del socialmente costruito. Si è però giunti a decretare la totale immersione del soggetto – che di tutta questa produttività è responsabile – nel mare di segni da esso stesso in- scritti in quell’archivio che accoglie enciclopedie, manuali per la falconeria, testi ispirati da qualche divinità, monumenti letterari e artistici, sistemi giuridici, ricettari, trattati di buone maniere, fino all’ultimo catalogo dell’Ikea.

Va decisamente meglio se ci si rivolge a due autori che nella loro opera si sono costantemente confrontati con le difficoltà che una ripresa creativa della nozione di soggetto comporta: Derrida e Foucault. Grazie a loro, oggi sappiamo una volta per tutte che il soggetto è sì fondamentale, ma non per questo fonda alcunché.

Tanto la decostruzione derridiana quanto la genealogia foucaul- tiana ci permettono infatti di cogliere come sia bassa e impura l’empiria dei processi di soggettivazione – e precisamente questa bassa empiria non autorizza a porre la soggettività al di fuori delle pratiche che essa è chiamata a giustificare. I soggetti costruiscono la storia di cui sono protagonisti utilizzando materiali che trovano pronti, di cui non possono rendere conto all’interno di una teoria pura. In questa direzione si muove il discorso di Derrida da un lato sull’iterabilità come condizione di possibilità del categoriale, ovvero sulla scrittura come quasi-trascendentale, dall’altro sulla necessità di tener conto, all’interno della filosofia, della nozione di desiderio di provenienza freudiana e lacaniana. Ho appena nominato due aspetti apparentemente irrelati, ma, assieme, essi permettono a Derrida di circoscrivere uno scenario filosofico in

2. Moritz Lazarus può ben essere considerato il padre di quella tradizione delle Kultur- wissenschaften che oggi, con intenti diversi ma senza grandi innovazioni sul piano episte- mologico, viene continuata per esempio dai Postcolonial e Cultural Studies. Si vedano alcuni dei saggi raccolti in M. Lazarus, Psicologia dei popoli come scienza e filosofia della cultura.

Scritti, a cura di A. Meschiari, Bibliopolis, Napoli 2008.

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cui la nozione di soggettività si pone non come figura coestensiva con quella di fondazione, ma come punto cieco della riflessione filosofica, come sfondo da cui proviene la richiesta di una con- tinua chiarificazione; questa richiesta va mantenuta nella sua apertura – da qui il carattere interminabile della decostruzione, in questo simile all’analisi freudiana – in modo tale da impedire che la discorsività filosofica occupi il luogo della fondazione e se ne appropri; se tale appropriazione avesse luogo, infatti, la filosofia si renderebbe complice di quella violenza (solitamente associata al mito e al dogma) che stabilisce genealogie, filiazioni, fratellanze, appartenenze e inclusioni di varia natura.

Foucault, dal canto suo, ci insegna che il soggetto si costituisce confrontandosi con quella rete di discorsi che descrivono, classifi- cano, studiano e, direttamente o indirettamente, guidano le prati- che individuali e collettive. La verità che può dire su di sé, quindi, va non solo conquistata attraverso una chiarificazione intellettuale, che si combatte sul terreno delle discipline e della loro gerar- chizzazione all’interno dell’enciclopedia dei saperi, ma va anche strappata alle istanze di potere che hanno il compito di gestire la circolazione di quegli stessi discorsi. In Foucault la sottolineatura del ruolo giocato dalle pratiche in vista di una comprensione dei processi di soggettivazione è certo più marcata che in Derrida, tuttavia non deve sfuggire che per entrambi gli autori la posta in gioco della teoria risiede non solo e non tanto nella capacità di maneggiare complessi di concetti, quanto piuttosto nell’esibizione del fatto che la stessa teoria è una pratica immersa in una rete di altre pratiche e che in virtù di tale immersione può essere usata quale parte integrante di un progetto di emancipazione.

Ora, è precisamente questa impossibilità di distinguere il mo-

mento in cui comincia la teoria da quello in cui finisce la pratica ciò

che caratterizza in modo peculiare la soggettività di cui Sloterdijk

ripercorre il cammino. Tradizionalmente, il discorso filosofico tende

a non insistere troppo sul fatto che la sfera pratica e quella teoretica

sono interconnesse; anzi, si è sempre voluto minimizzare il fatto

che il soggetto capace di riflessione – o di epoché – coincide con

quell’animale parlante che agisce nel mondo e fa un sacco di cose

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37

aut aut, 355, 2012, 37-56

La resurrezione dalla non–morte.

Sloterdijk trainer

dell’iperimmaginazione

MARC JONGEN

1. Il soggetto dell’esercizio

Nella prefazione alla sua raccolta di saggi Signatura rerum Giorgio Agamben nota che spesso il lavoro di un filosofo dà conto del suo metodo prima che egli lo faccia esplicitamente.

1

Questa afferma- zione è valida per ciò che lo concerne, ed è valida anche per Peter Sloterdijk. Il suo libro del 2009, Devi cambiare la tua vita, il cui sot- totitolo si riferisce all’ampio territorio dell’antropotecnica, contiene, leggermente dissimulata in un ricco materiale storiografico, l’auto- descrizione fino a oggi più chiara ed estesa di Sloterdijk in quanto filosofo. Quando il pensatore (quale esempio paradigmatico di un soggetto di cultura avanzata) viene qui descritto come un praticante, un mind-builder, che attraverso un training permanente contrasta lo

“spirito di gravità” al fine di scalare il Mount Improbable, il monte dell’improbabilità (con la comprensione, la conoscenza, la capacità espressiva),

2

dovrebbe essere chiaro che l’autore di questi pensieri parla da una vetta particolarmente improbabile.

Non è necessario aver avuto a che fare per molti anni da vicino con questo pensatore ad alta tensione – come nel caso dell’au- tore delle presenti righe – per riconoscere che Sloterdijk, con l’originalità e la forza sintetica del suo sguardo filosofico, con le sue straordinarie performance retoriche e non da ultimo con la

1. G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008.

2. Cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2009), Raffaello

Cortina, Milano 2010; in particolare la prima parte: “La conquista dell’improbabile. Per

un’etica acrobatica”, pp. 133-254.

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quantità veramente mostruosa dei suoi lavori, è uno dei pochi

“filosofi” attualmente viventi, che con merito porta questo titolo onorifico – inteso nel suo significato antico.

Ma la psicanalisi, il poststrutturalismo e il postmoderno non ci hanno forse insegnato che non abbiamo a che fare con autori, pensa- tori autonomi e altri “soggetti forti”, che tutti questi spauracchi sono morti, e che se anche in passato si erano dati grandi arie ora comanda il “discorso” anonimo? Paradossalmente il nome dell’autore “Peter Sloterdijk” rappresenta al contempo l’attestazione paradigmatica e la smentita totale della tesi postmoderna della “morte dell’autore”. Da un lato, si può sostenere che il disinvolto eclettismo e il sincretismo di Sloterdijk – si è più volte definito un sensitivo per i segnali dello spirito del tempo – esplicitino il carattere mediale del soggetto autoriale, che già all’epoca della sua sopravvalutazione idealistica era un dato di fatto: non sono io che scrivo, si scrive attraverso di me, che si voglia chiamare questo “si” spirito del mondo [Weltgeist] o del tempo [Zeit- geist], inconscio o linguaggio. Dall’altro, la straordinaria musicalità dello stile di Sloterdijk, che gli conferisce la forma di un cogito sonoro

3

al di sotto di quello basato su segni e concetti, manifesta l’essenza di ogni vera autorialità: è letteralmente la “voce”, non demarcabile da nessun segno e aleggiante tra le righe come “fattore soggettivo” del discorso, che costituisce il “nucleo” non decostruibile del soggetto autoriale. L’inconfondibile suono-Sloterdijk non rappresenta una mera aggiunta retorica, ma è connesso al livello più profondo con la

“sostanza” del suo pensiero. In Sloterdijk si trova in massima misura ciò che egli stesso una volta ha affermato riguardo a Nietzsche: il suo pensiero potrebbe essere reso attraverso altre formulazioni solo a prezzo di una considerevole perdita di evidenza. Affermazione che può anche essere capovolta: ciò che egli ha trasformato nelle sue espressioni è divenuto “originale”, anche laddove il suo “contenuto ideale” è già stato espresso in qualche altra sede.

Ma questa voce, questo “soggetto” non si ricevono gratuitamen- te. Sono il risultato, in un certo senso la ricompensa, di un training

3. Cfr. Id., “Das sonore Cogito und der taube Fleck – oder Descartes’ Versuch, klanglos

zu denken”, in Weltfremdheit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993, pp. 308-317.

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39

permanente, di un “esercizio dell’esistenza”,

4

che Sloterdijk, con un occhio al tardo Foucault, rintraccia – come noi sopra – nello stile, precisamente nella “totale assenza di manierismi nello stile della sua ultima fase”.

5

Inoltre, Sloterdijk si scaglia contro il “conformismo critico”,

6

negatore del soggetto, di una ricezione superficiale di Foucault e in generale di una sinistra ossessionata dalla sovversione:

“[A Foucault] è diventato chiaro che l’estetismo, il romanticismo attivistico, l’ironia continua, le chiacchiere sulla trasgressione e il sov- versivismo sono solamente pigrizie oniriche che nascondono a fatica un’assenza di forma. Da tempo aveva compreso che chi parla di in- filtrazione e sogna il divenire appartiene alla classe dei principianti”.

7

Ma quale esperienza di allenamento fornisce a Sloterdijk la sicu- rezza interiore per una tale polemica? Come ha fatto a farsi strada fino alla maestria? Chi, a tarda sera, si trova a passare davanti al suo studio che dà sulla strada, potrà quasi di certo scorgere la sua silhouette ancora alla scrivania – “insonnia a Karlsruhe”, per para- frasare un capitolo di Devi cambiare la tua vita.

8

Ma questo esercizio, questo tenersi-in-forma, in base alla sua forma esteriore è tutt’al più un’attività meccanico-ripetitiva, in base ai suoi effetti consiste in un paradossale “rodaggio alla libertà”. Se il pensiero, come afferma Sloterdijk in una forma tanto poetica quanto precisa, “va compreso come nient’altro che un’estasi meditativa del nostro essere-esposti nell’Aperto”,

9

appare anche immediatamente chiaro perché il pen- siero autentico non si possa allenare. Tutti i procedimenti basati sull’esercizio – lettura, meditazione, esercizi logici –, per quanto siano necessari, possono soltanto avere un carattere preparatorio nei con- fronti del pensiero: esso è un “evento” che non può essere ottenuto con la forza di nessun potere di tipo “tecnico”. È proprio per questo

4. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 191.

5. Ibidem.

6. Ivi, p. 190.

7. Ivi, p. 191.

8. Cfr. “Insonnia a Efeso. I demoni dell’abitudine e la loro cacciata attraverso la Teoria prima”, ivi, pp. 197-214.

9. P. Sloterdijk, Chancen im Ungeheuren. Notiz um Gestaltwandel des Religiösen in der

modernen Welt im Anschluss an einige Motive bei William James, prefazione a W. James, Die

Vielfalt religiöser Erfahrung. Eine Studie über die menschliche Natur, Suhrkamp, Frankfurt

a.M. 1997, p. 21.

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Tecniche di solitudine

THOMAS MACHO

1. Nei testi scientifici quanto in quelli letterari la solitudine viene spesso descritta come una condizione, un dolore e una passione, come un destino più o meno tragico.

1

Nelle seguenti considerazioni vorrei provare a indagare la solitudine da una prospettiva opposta.

Per prima cosa “solitudine” dovrà figurare come titolo per processi che vengono intrapresi attivamente e non subiti; secondariamente, essa deve venire tematizzata non solo come un’esperienza dolorosa, ma anche gioiosa; e infine deve venire percepita sia come contesto sia come causa della pratica di tecniche culturali, non come una for- ma patologica per un evento casuale o come una condizione fatale.

Utilizzo l’espressione “tecniche culturali” in riferimento a Marcel Mauss e al suo concetto di “tecniche dei corpi”,

2

e naturalmente get- tando uno sguardo alle analisi delle “tecnologie del sé” di Foucault.

3

T. Macho, Mit sich allein. Einsamkeit als Kulturtechnik, in A. e J. Assmann (a cura di), Ein- samkeit. Archäologie der literarischen Kommunikation

VI

, Fink, München 2000, pp. 27-44.

1. Cfr. per esempio I. Rakusa (a cura di), Einsamkeiten. Ein Lesebuch, Insel, Frankfurt a.M.-Leipzig 1996, oppure H.-P. Dreitzel, Die Einsamkeit als soziologisches Problem, Arche, Zürich 1970.

2. Cfr. M. Mauss, “Le tecniche del corpo”, in Teoria generale della magia e altri saggi (1950), Einaudi, Torino 1991, pp. 383-409.

3. Cfr. L.H. Martin, H. Gutman, P.H. Hutton (a cura di), Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault (1988), Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 11-47. Cfr. anche M. Foucault, La cura di sé (1984), Feltrinelli, Milano 2010, pp. 41-71 e Id., “Sessualità e solitudine” (1981), in Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp.

145-154. [Macho cita dall’edizione tedesca del testo, che contiene anche l’intervento di Sennett,

a differenza dell’edizione italiana: M. Foucault, “Sexualität und Einsamkeit (Michel Foucault

und Richard Sennett)”, in Von der Freundschaft. Michel Foucault im Gespräch, trad. tedesca a

cura di M. Karbe e W. Seitter, Merve, Berlin 1984, pp. 25-53, N.d.T.]

(15)

58

In che cosa consistono le tecniche di solitudine? Esse si lasciano molto genericamente caratterizzare come “tecniche di raddoppia- mento”, come strategie di autopercezione. Chi non viene sempli- cemente abbandonato da tutti gli uomini (cosa che solitamente conduce alla morte), bensì sopravvive, supera e plasma il proprio

“abbandono”, inscena un qualche tipo di rapporto con se stesso.

Percependo la propria solitudine senza impazzire, si scinde in al- meno due forme: come un essere che è solo con se stesso – propria- mente – come se fosse in due. A tale riguardo il più famoso sindaco di Bordeaux constatava: “Noi possediamo un’anima ripiegabile su se stessa, essa si può far compagnia: possiede i mezzi di assalire e di difendere, di ricevere e di donare”.

4

L’anima diviene il proprio centro, il sole (sol) della propria solitudo, il medium nel processo della meditatio. La solitudine come strategia di “raddoppiamento” deve però – come tutte le tecniche culturali – essere insegnata e allenata, perché “c’è modo di fallire nella solitudine come nella società. Fino a che vi siate reso tale da non osare zoppicare davanti a voi e fino a che voi abbiate vergogna e rispetto di voi stessi, observentur species honestae animo, mettete davanti ai vostri occhi Catone, Focione, e Aristide, in presenza dei quali perfino i pazzi nasconderebbero i loro difetti, e chiamateli a controllori di tutti i vostri pensieri”.

5

Montaigne cita (come accade spesso) Seneca, che egli preferiva ri- spetto alla “ostentata e ciarliera” filosofia “di Plinio o di Cicerone”.

Nella XXV Lettera a Lucilio, scrive infatti Seneca: “Non c’è alcun dubbio. È utile aver imposto a se stessi un custode e avere qualcuno cui tu possa volgere lo sguardo e che tu consideri testimone dei tuoi pensieri; ma c’è qualcosa che ci rende ancora più grandi nel vivere come se fossimo sotto gli occhi di un uomo virtuoso e costantemente presente. Mi accontento che tu agisca, qualunque cosa farai, come se qualcun altro ti osservasse. Ogni male ci è suggerito dalla solitu- dine. Quando sarai ormai progredito al punto da provare rispetto anche per te stesso, sarai libero di congedare il pedagogo; intanto tutelati con l’autorità di alcuni, si tratti di quel famoso Catone o di

4. M. de Montaigne, Saggi, a cura di V. Enrico, Mondadori, Milano 2008, p. 266.

5. Ivi, p 274.

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Scipione o di Lelio e di altri che con il loro intervento indussero persino uomini moralmente distrutti a soffocare i loro vizi. Per il momento fai di te un uomo alla cui presenza non oseresti peccare”.

6

Risuona qualcosa della psicologia contemporanea, come ancora suggerisce la traduzione di dignatio tui con “sentimento del valore di te stesso”. Mentre però Montaigne parla di “esempi”, con i quali l’anima deve essere “riempita”, resta dubbio se il Seneca da lui pla- giato volesse effettivamente dare suggerimenti per la formazione di una “coscienza” operativa, di un “super-io” che – designato quale idolo preminente – dovrebbe ridurre i pericoli e i rischi della solitu- dine. Il passaggio citato dalla XXV Lettera non indica in alcun modo tali associazioni: parla di un “custode” (custos), dell’impiego di un maestro (paedagogus) o di uno spettatore (tamquam spectet aliquis);

parla di protezione e intervento. Il passo ci fa immaginare uno spi- rito protettivo personale, un “terzo uomo” che controlla, per così dire, gli eccessi solitari delle cogitationes; ricorda il culto romano dei

“geni”, che venivano adorati, per esempio a ogni compleanno, come specie di “doppi” (Doppelgänger) personali.

7

La lettera di Seneca, in aggiunta, ricapitola come massima ciò che essa al tempo stesso esegue performativamente: vale a dire la rappresentazione dell’interlocutore Lucilio, il quale da parte sua poi produce e costituisce proprio l’auc- toritas custodi dell’autore Seneca. Da che cosa, dunque, la personalità immaginata dovrebbe proteggere i suoi “inventori” (Catone Lucilio, Lucilio Seneca)? In che cosa consistevano gli omnia mala della soli- tudo? A cosa veniva indotto il solitario? Alla disperazione, alla follia, al suicidio? Avvalorare l’invenzione di un “testimone” mentale o di un “guardiano” non serviva tanto a resistere alla melanconia (che fu demonizzata come acedia soltanto nel Medioevo), e nemmeno a resistere ai piaceri dell’autoerotismo (che dovettero essere scacciati solo nel XIX secolo), quanto piuttosto a ordinare e disciplinare il solilo-

6. L.A. Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cura di F. Solinas, Mondadori, Milano 2008, p. 647.

7. Cfr. Censorino, Il giorno natalizio, a cura di V. Fontanella, Zanichelli, Bologna 1992.

Cfr. anche W. Schmidt, Geburtstag im Altertum, Alfred Töpelmann, Gießen 1908. Cfr.

anche T.H. Macho, Himmel als Abgrund. Fragment über den Geburtstag, “Manuskripte”,

100, 1988, pp. 223-230.

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79

aut aut, 355, 2012, 79-94

L’incontro mancato. Il solipsismo aristocratico di Sloterdijk

ANTONIO LUCCI

1. Dal singolo ai collettivi, e ritorno

“La libertà è una visione della necessità.” “Raccontalo a qualcuno di più scemo.” I protagonisti di questo dialogo dal sapore beckettiano sono Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Jean-Jacques Rousseau, accostati immaginariamente da Peter Sloterdijk nell’ultimo testo pubblicato, Streß und Freiheit.

1

La scena assume ancora più colore se la immaginiamo inserita nello scenario tratteggiato dalla penna di Sloterdijk: da un lato, il ginevrino sdraiato dentro una piccola barca al centro del lago di Bienne, le mani dietro la nuca, il mento poggiato sul petto; dall’altro, la voce futura di quello di Stoccarda che risuona come il ronzio di un insetto a rovinare quello scenario idilliaco, meritando per questo solo una considerazione a metà tra l’ironico e l’infastidito.

Nel contesto della piccola scena immaginaria appena evocata, Hegel e Rousseau sono i nomi propri dei due temi che animano il libro fin dal titolo, in una struttura di contrapposizioni: lo stress e la libertà. Questi possono essere considerati come i capi del pensiero di Sloterdijk degli ultimi vent’anni, che attraverso una lunga serie di variazioni e sperimentazioni, prevalentemente lessicali e metodo- logiche, è giunto a una sua compiuta formulazione nel 2009, con il testo Devi cambiare la tua vita

2

e quelli successivi che rientrano nella medesima orbita, tra cui appunto Streß und Freiheit.

1. P. Sloterdijk, Streß und Freiheit, Suhrkamp, Berlin 2011, p. 46. Tutte le traduzioni dei testi non presenti in edizione italiana sono mie.

2. Id., Devi cambiare la tua vita (2009), Raffaello Cortina, Milano 2010.

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Le linee di pensiero che le due parole-guida, stress e libertà, indicano sono quelle della riflessione sul soggetto, che in Sloterdijk si articola sempre in modo duplice: dal punto di vista del soggetto collettivo (la cui caratteristica basilare è lo stress) e individuale (il cui proprium è la libertà).

Le analisi sui soggetti, singoli e collettivi, incominciano alla fine degli anni ottanta, ma la prima vera sistematizzazione avviene solo con la pubblicazione di Sphären, trilogia nella quale l’analisi antro- pogenetica si interseca con quella relativa alla genesi dei collettivi.

Secondo Sloterdijk, ancor prima di nascere, il soggetto in fieri (chiamato noggetto, per indicare la sua irriducibilità ai campi sia della soggettività sia dell’oggettualità) prova delle esperienze che condizioneranno tutta la sua vita cosciente: l’inclusione nel corpo materno condivisa con la placenta (vero e proprio doppio del sog- getto che si sta formando, origine di ogni apertura all’alterità), la sospensione nel medium amniotico, i frammenti di comunicazione con la madre. All’interno di tali coordinate “microsferologiche”, le prime due esperienze noggettuali saranno la condanna e l’eredità dell’essere umano: la storia della civiltà non è altro, da questo punto di vista, che uterotecnica e uterodicea, la storia dei titanici e patetici tentativi umani di climatizzare l’esteriorità spaesante tramite la creazione di sistemi di inclusività materiali e simbolici, architettonici, culturali e metafisici. Questi sistemi di inclusività sono le sfere:

La ricerca del nostro dove […] si interroga sul luogo che producono gli uomini per avere ciò in cui possono apparire ciò che sono. Questo luogo porta in questa sede […] il nome di sfera. […] Abitare significa sempre costruire delle sfere, in piccolo come in grande, gli uomini sono le creature che pon- gono in essere mondi circolari e guardano all’esterno, verso l’orizzonte. […] Le sfere sono delle creazioni di spazi dotati di un effetto immuno-sistemico per creature estatiche su cui lavora l’esterno.

3

3. Ivi, p. 82.

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81

La sfera è la risposta trovata da Sloterdijk alla domanda sul nostro dove, articolata sempre dal duplice punto di vista individuale e collettivo: la storia della civiltà ripete le fasi che l’individuo-in- formazione ha attraversato prima di divenire soggetto.

Parallelamente all’incarnazione della genesi culturale dell’essere umano in un retaggio del suo bios, negli anni novanta Sloterdijk ana- lizza a livello archeologico gli “agglomerati sociali”, operandone una continua critica e destrutturazione, soprattutto a livello semantico.

A questo proposito va tenuto presente un punto decisivo delle sue costruzioni argomentative, ovvero lo stile della sua scrittura.

In particolare nei confronti dei suoi referenti teorici principali, viene infatti condotta una costante destrutturazione semantica attraverso l’uso di neologismi (come quello di noggetto) e la rise- mantizzazione dei termini della tradizione (come per esempio tutta la terminologia psicanalitica relativa al concetto di transfert), con il conseguente venire meno del rigore di argomentazioni fondate su basi biologistiche o paleostoriche a vantaggio di riferimenti alla cultura pop o all’estetica. A questo dispositivo di scrittura non sfugge la semantica del concetto di “società”, con l’introduzione di definizioni come (oltre a quella già citata di sfera) collettore e agglomerato sociale, fino ad arrivare a espressioni come reti di at- tori o unità poli-prospettivistiche, di cui ci occuperemo in seguito.

Vale però la pena di seguire fin da ora le fasi di questa “deco- struzione”, sia concettuale che semantica, il cui “manifesto” può essere considerato una fondamentale transizione di Sphären III dal titolo Né contratto né organismo. Approssimazione alle molteplicità spaziali che purtroppo vengono chiamate società.

4

Qui l’oggetto sono le fondamenta della coesistenza umana, relativamente alle quali si sostiene che l’emergenza del politico sia sempre un’emergenza

“seconda”, che nasce da una negazione originaria della dimensione familiare dell’essere-apparentato. L’originario gruppo umano, la fa- miglia allargata, il clan, l’orda, uniti da legami di parentela, sarebbero il collettore inclusivo originario, mentre l’emergenza del “politico”

4. P. Sloterdijk, Sphären

III

, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, pp. 261-308.

(20)

Perdere la testa.

Ginnastica e filosofia

GRAZIELLA BERTO

1. Ginnastica e filosofia: l’appello alla forma

“Devi cambiare la tua vita”: è un imperativo forte, esigente ma anche, al tempo stesso, banale e velleitario. Probabilmente lo abbiamo già sentito varie volte, indirizzatoci da qualcun altro o più spesso da una voce interiore, e comunque normalmente disatteso. E forse percepiamo addirittura in esso un’indicazione ormai assorbita dalle mode, dalle varie espressioni di “consulenza”

o di “pensiero positivo”, che può farci anche un po’ sorridere o annoiarci nella sua ingenuità e pretenziosità.

Non possiamo però fare a meno di stupirci se l’imperativo a cambiare la nostra vita ci giunge – come accade nel libro di Slo- terdijk – da una pietra. Si tratta di una pietra che ha perso il suo carattere inerte e informe, per prendere forma in una statua, per trasformarsi anzi nel dio stesso della forma, Apollo. La perfezione di quel corpo ci guarda, con uno sguardo che ci ordina un cambia- mento, e un cambiamento che ha a che fare con la forma stessa.

La voce della pietra è un “appello alla forma”.

1

La via che ci conduce verso la forma è – ci suggerisce Sloterdijk – quella dell’esercizio. Esercitarsi vuol dire innanzitutto abban- donare l’inerzia, la pigrizia, la trascuratezza, smettere di riposare per mettersi permanentemente in moto, assumersi la fatica di un

1. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita (2009), Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 36;

e, in generale, tutto il cap. 1: “Il comando della pietra. L’esperienza di Rilke”, incentrato sul commento al sonetto di Rilke intitolato Torso arcaico di Apollo.

E la filosofia è forse questa garanzia colta nel punto più vicino alla follia contro l’angoscia di essere folle.

J. Derrida, La scrittura e la differenza

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96

percorso che non conosce soste ma nemmeno punti d’arrivo sta- bili e definitivi. Appena l’esercizio si sospende, la forma infatti si perde. L’esercizio è un allenamento continuo, una “condotta che plasma e perfeziona se stessa”,

2

attraverso la ripetizione di una stessa operazione, impedendoci così di “andare alla deriva”,

3

di lasciarci trascinare dalla corrente dell’abitudine o della passività.

La forma che siamo chiamati a dare alla nostra vita sembra in realtà riguardare innanzitutto il nostro corpo, e l’esercizio che la rende possibile ci riconduce in primo luogo alla ginnastica, a un lavoro sul corpo che tende a perfezionarlo e a potenziarlo, anziché assumerlo come un semplice dato naturale, da accettare così com’è.

Il legame tra ginnastica e filosofia è uno dei fili conduttori della riflessione di Sloterdijk sull’esercizio: “Il termine ‘filosofia’ contie- ne senza dubbio un riferimento nascosto alle due principali virtù atletiche che, ai tempi in cui visse Platone, riscuotevano un altissimo gradimento. Esso rimanda da un lato all’atteggiamento aristocratico della ‘filotimia’, l’amore per la time, la fama gloriosa attribuita ai vincitori delle gare; dall’altro lato, rimanda alla ‘filoponia’, ovvero l’amore per il ponos, la fatica, l’onere, lo sforzo”.

4

L’amore per la sapienza si presenta fin dall’inizio come un rinnovamento e un potenziamento della pratica ginnica o atletica, che si traduce nella pratica del pensiero. Il rapporto con la verità implica uno sforzo che è reso possibile solo dall’accesso, come per l’atleta, alla dimensione faticosa e ininterrotta dell’esercizio: un esercizio di padronanza sulle passioni, sulle abitudini e sulle idee, che permette di passare “dal mero essere-formato al versante del darsi-forma”.

5

Dal lato della retorica, direbbe Socrate, a quello della filosofia, che egli avvici- na alla ginnastica proprio per la comune capacità di dare forma, rispettivamente all’anima e al corpo, a differenza di arti, come la retorica e la cosmetica, che si limitano a ritoccare la superficie, a creare l’illusione della verità o della bellezza.

6

2. Ivi, p. 7.

3. Ivi, p. 36.

4. Ivi, p. 238.

5. Ivi, p. 239.

6. Cfr. Platone, Gorgia, in particolare 464b-465c, 517c-518c.

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La filosofia, come la ginnastica, è dunque una pratica: non riguarda l’adesione a un determinato sistema di credenze ma una trasformazione di sé, prodotta da una vita incentrata sull’eser- cizio, che consiste nell’“uscire dalla corrente”, nel “combattere l’inerzia”

7

da cui così facilmente veniamo avviluppati e trascinati, cedendo a un intorpidimento che colpisce insieme la dimensione fisica e quella intellettuale, al di qua della loro stessa distinzione.

Si tratta di una lotta e di una resistenza che, pur conoscendo delle vittorie, non possono mai ritenere di aver esaurito il loro compito, devono ricominciare, fenomenologicamente, sempre di nuovo. È proprio questa la caratteristica distintiva dell’esercizio rispetto ad altri tipi di pratica: non si tratta di un’azione che esaurisce, a un certo punto, il suo compito, ma di una condizione costante di allenamento. La forma non è mai conquistata stabilmente, è sem- pre sul punto di venir meno; per mantenersi richiede l’esercizio.

La minaccia del lasciarsi trascinare dalla corrente, il pericolo della disgregazione e dell’afflosciamento sono sempre presenti.

2. Spettri della forma

Ma, non c’è dubbio, altri spettri, diversi dalla seduzione del rilas- samento e dell’inerzia, accompagnano l’appello alla forma. Non è così difficile scorgerli e sentirne il richiamo.

Quello più immediatamente percepibile, la cui voce ormai ci raggiunge da ogni dove (dalla televisione, dai giornali, dalla scuola, dalle istituzioni, dalla pubblicità…), è lo spettro del salutismo, la nuova religione del benessere. Ogni religione, del resto – sostiene Sloterdijk –, è un sistema di esercizio, anche se non si comprende come tale, e il suo scopo fondamentale è di tipo immunitario, poiché mira ad addomesticare ciò che è altro, estraneo, a proteggerci da ciò che sta fuori, dall’“impuro”.

8

La protezione riguarda l’anima, ma anche il corpo, che diventa il protagonista, in questo caso, di una “cura di sé” interpretata come preservazione del corpo dalle minacce e dalle alterazioni che proverrebbero in primo luogo da ciò

7. Cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., pp. 236-237.

8. Ivi, pp. 4-5.

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aut aut, 355, 2012, 106-116

Mi esercito, dunque sono

EDOARDO GREBLO

A ll’“etica” la filosofia ha da sempre attribu- ito il significato di una dottrina della vita

“giusta”, che è doveroso condurre sia nel- la prospettiva della prima persona plurale, così da indicare i valori cui orientare la nostra vita riguardo a che cosa sia per noi la cosa migliore in senso complessivo, sia nella prospettiva della prima per- sona singolare, così da prescrivere chi io sia o voglia essere o come voglia condurre la mia vita. È chiaro che le due prospettive sono intrecciate, nel senso che le domande intorno alla vita riuscita si inquadrano nel contesto di una determinata forma di vita indivi- duale inserita nel contesto di un’altrettanto determinata forma di vita collettiva. Non è possibile spiegare l’importanza che annetto ai valori alla cui luce posso comprendere me stesso e la mia vita se resto ancorato al solo mondo esclusivo delle mie esperienze private.

Già però nelle parole con cui Adorno apriva i suoi Minima moralia, presentandoli come una “triste scienza”, traspare un interrogativo cruciale.

1

La “dottrina della retta vita”, ovvero la guida profana al ben vivere, che la filosofia aveva un tempo sostituito alle promesse religiose di salvazione, ormai non gode più di credito alcuno. La filosofia poteva disporre di un orizzonte di significato in grado di stabilire la cornice entro cui collocare la vita degli individui e della comunità sino a quando l’essere sostanziale delle cose – si

1. T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1951), Einaudi, Torino

1979, p. 3.

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trattasse della struttura del cosmo o della natura degli uomini oppure del senso della storia – poteva ancora essere considerato come qualcosa dotato di un significato teleologico. Siccome anche le singole condotte umane venivano fatte rientrare in questo ordine sostanziale, era sempre possibile per chiunque ricavarne chi egli fosse e chi dovesse essere. La “dottrina della retta vita” godeva perciò di una sorta di accreditamento ontologico, desumibile dalla struttura razionale dell’esistente, in grado di fornire alla vita

“buona” modelli esemplari e degni di imitazione.

La filosofia moderna non è evidentemente più in grado di far discendere dalla costituzione complessiva del mondo una qualche fonte di normatività. Non solo ciò rende ragione del discredito che colpisce ogni tentativo di proporre certi modi di vita come esemplari e universalmente vincolanti. Ma spiega anche sia la separazione tra le teorie della giustizia e della morale da un lato e dell’etica dall’altro, che si verifica sul piano teorico, sia il pluralismo delle visioni del mondo e l’individualizzazione degli stili di vita, che si impone sul piano della realtà empirica. Alla società giusta spetta il compito di offrire a ognuno la stessa libertà di coltivare i propri registri di valore, a propria discrezione e secondo la propria personale concezione della vita buona. La domanda etica fonda- mentale circa la riuscita o la non-riuscita della propria vita, non potendo trovare alcuna risposta in “fatti” impregnati di norme, costringe così l’individuo, per dirla con le parole di Kierkegaard, ad assumere “se stesso come un compito che gli è posto, anche se è diventato suo grazie al fatto che l’ha scelto”.

2

Kierkegaard pren- de così congedo dall’idea che solo un conferimento metafisico di senso da compiere in base alla ragione possa disporre della forza di orientare la vita. La forma etica di esistenza generata dalle pro- prie forze nasce soltanto dall’interesse per la riuscita del proprio progetto di vita. Ma anche se la motivazione del retto agire si lascia alle spalle ogni copertura metafisica universalmente riconosciuta, essa continua a dipendere dal rapporto del credente con Dio.

2. S. Kierkegaard, Enten-Eller (1843), 5 voll., Adelphi, Milano 1976-1989, vol.

V

: L’equi-

librio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità, p. 156.

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108

Sloterdijk, che segue Kierkegaard nell’accesso postmetafisico all’etica, ma che rompe decisamente i ponti con la rivelazione quale fonte di una verità che rende possibile l’esistenza spostandola in una prospettiva situata al di là di ogni controllo da parte dell’uomo, è un chiaro esempio del passaggio dal pensiero postmetafisico al pensiero postreligioso. L’appello all’incondizionato viene pronunciato senza che sia necessario attingere a Dio o a un assoluto e la condotta di vita eticamente consapevole, che si impegna nello sforzo di non mancare alla propria vita, può assumere il profilo di una sorta di autodelega intenzionale e voluta. L’uomo può essere all’altezza delle istanze di incondizionatezza della vita etica anche solo rimettendosi a se stesso e dedicandosi a un processo di formazione destinato a promuovere una drastica e salutare conversione. Se alla filosofia non può più essere ragionevolmente chiesto di formulare asserti universali sulla totalità concreta di forme di vita esemplari, essa non può che lasciare agli interessati il compito di rispondere, da soli, alle domande riguardo a ciò che è “bene”: è necessario che ognuno chiarisca a se stesso in prima persona che cosa sia per lui una vita riuscita – o almeno non fallita. La critica alle autoillusioni e ai sintomi che caratterizzano un modo di vita sbagliato si commisura all’idea di una condotta di vita basata sull’esercizio e sugli esperimenti antro- potecnici, cioè l’insieme degli esercizi e delle pratiche attraverso le quali gli esseri umani elaborano il loro potenziale. Allo stesso tempo essa è la somma delle tecniche grazie alle quali l’uomo ha creato e plasmato il Sé al fine di trascendere le condizioni date, incrociando l’orizzonte della vita quotidiana con la verticale dei cammini ascetici, la dimensione prosaica delle pianure con quella poetica delle vette, e in nome dell’imperativo rilkiano che presta il titolo al libro, Devi cambiare la tua vita.

3

Per un filosofo secolare, che vorrebbe disporre di un accesso postmetafisico e postreligioso all’etica in nome di una “trasforma- zione” capace di garantire a ogni individuo uno spazio creativo in cui perseguire i suoi progetti di esistenza senza essere vincolato a una qualche pretesa incondizionata di verità, si tratta di un impegno

3. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita (2009), Raffaello Cortina, Milano 2010.

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La vita di Diogene e il busto di Apollo

TIZIANO POSSAMAI

Una fine, un inizio

Per cominciare, una constatazione. La riflessione di Peter Sloterdijk si apre all’insegna di una Critica della ragion cinica

1

negli anni in cui la ricerca di Michel Foucault stava per chiudersi proponendo uno studio sul cinismo antico. A voler essere precisi il libro di Sloterdijk esce nel 1983, da febbraio a marzo dell’anno seguente Foucault tiene il suo ultimo corso al Collège de France (morirà pochi mesi più tardi, il 25 giugno 1984) concentrandosi con par- ticolare attenzione sulla questione della parresia, il parlar franco in ambito cinico. Sia il libro di Sloterdijk sia le lezioni di Foucault esprimono un profondo elogio del cinismo antico.

In Critica della ragion cinica, dunque, Sloterdijk anticipa curio- samente uno dei temi principali dell’ultima ricerca di Foucault, dico curiosamente perché, a ben guardare, anticipa quella stessa ricerca e riflessione da cui trae al tempo stesso buona parte della sua ispirazione. Nell’introduzione, Sloterdijk definisce in questo modo il senso più proprio di quel suo primo fortunato saggio: “Ciò che – alludendo a un testo della grande tradizione – viene qui presentato, vuol essere un iter meditativo sulla proposizione: ‘Sapere è potere’”.

2

E poi, dando subito buona prova di parresia, nietzschiana più che cinica, aggiunge: “Sapere è potere: ecco, il fatale politicizzarsi del pensiero è compiuto. Pronunciando la proposizione, la verità è

1. P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica (1983), trad. parziale, Garzanti, Milano 1992.

2. Ivi, p. 22.

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118

svelata. Nel pronunciarla, tuttavia, quel che si vuol ottenere, più della verità, è intervenire nel gioco del potere”.

3

Questa seconda verità di ordine pragmatico (“intervenire nel gioco del potere”), che Sloterdijk svela dopo aver svelato la prima (“sapere è potere”) impedendo a quest’ultima di essere tale senza prescindere dai giochi di potere in cui è implicata, le sottrae centralità nel momento stesso in cui ne moltiplica la forza, vincolandola in modo determinante a quei giochi. L’“allievo” ha fatto tesoro della lezione del “maestro”.

Foucault non ebbe modo e soprattutto il tempo di leggere il libro di Sloterdijk. Anche se non manca di citarlo, nella lezione del 29 febbraio 1984, come l’ultimo di una serie di quattro volumi della filosofia tedesca contemporanea dedicati alla questione del cinismo antico su cui stava lavorando proprio in quel momento:

Infine, il quarto libro, che non conosco, mi è stato segnalato di recente: è uscito l’anno scorso in Germania presso Suhrkamp, è di un certo Sloterdijk, e porta il titolo solenne di Kritik der zynischen Vernunft (Critica della ragion cinica). Non ci sarà risparmiata nessuna critica della ragione: né della ragione pu- ra, né della ragione dialettica, né della ragione politica, e così abbiamo ora la “critica della ragione cinica”. È un libro in due tomi del quale non so nulla. Mi hanno dato dei pareri, diciamo, divergenti sull’interesse di questo libro.

4

Che Sloterdijk si possa considerare uno dei più interessanti prose- cutori dei cantieri lasciati aperti da Foucault è fuori dubbio. Che lo sia fino al punto di riproporre, benché su piani di contenuto e stile diversi, anche alcuni (in)apparenti capovolgimenti della sua parabola di pensiero lo è forse un po’ meno. Che in questi

“capovolgimenti” si possa rintracciare uno degli aspetti più vitali e controversi dell’esercizio filosofico di entrambi è ciò su cui ora proverò a riflettere.

3. Ibidem.

4. M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sè e degli altri

II

. Corso al Collège de

France, 1984 (2009), Feltrinelli, Milano 2011, p. 176.

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Si potrebbe presentare la cosa innanzitutto in termini bio- grafici, quei termini che stanno sempre alle spalle di ogni nostro movimento di ricerca e di pensiero, e che troppo spesso in nome di un preteso valore universale di quel movimento (e del risultato relativo) vengono trascurati. In Foucault, per esempio, il passag- gio dagli studi dei primi anni sulla “scomparsa” del soggetto alle ricerche sul farsi del soggetto degli ultimi anni, dietro la maschera di categorie asettiche quali strutturalismo e poststrutturalismo, può nascondere il riflesso di uno spostamento che investe, ben prima della sua ricerca, il soggetto/oggetto Foucault in carne e ossa. All’inizio bloccato nelle sue determinazioni di emergenza, nella loro duplice e paradossale azione di produzione e di contem- poranea espropriazione/interdizione di ciò che contribuiscono a produrre, poi sempre più consapevole e attivo nel prendersi cura di tali determinazioni disappartenenti. E semmai attento a non farne un nuovo paradigma universale. Ma al di là del dato biografico, che a sua volta spesso nasconde più di quanto rivela, o meglio nella stessa misura in cui ri-vela, il punto sta altrove.

Del resto, il fatto che gli esiti dei capovolgimenti di entrambi si possano rintracciare già nelle rispettive premesse non significa che siano necessari, significa solo che il capovolgimento – per quan- to (in)apparente – è la condizione della loro possibilità. Da una parte l’idea di un soggetto che rischia di scomparire tra le pieghe del suo stesso sapere e sguardo non può che lasciare spazio a una ricerca – un’ermeneutica la chiamerà Foucault – di nuove forme di riconoscimento e manovra (leggi pure: di un nuovo sapere e sguardo) che facciano riemergere un soggetto da quelle pieghe.

Dall’altra parte la consapevolezza di un surplus di coscienza del soggetto, che invece di estendere i suoi margini di libertà creativa e di rottura critica li inibisce – è questo l’effetto pratico di ciò che in Critica della ragion cinica Sloterdijk chiama la nostra “falsa co- scienza illuminata” (falsa perché doppiamente illuminata: troppa luce può impedire anziché favorire l’illuminazione) –, non può che lasciare spazio alla ricerca di nuove forme di riflessione e manovra che riattivino l’iniziativa di quel soggetto.

Ecco allora che invertendo lo sguardo sul proprio stesso sapere

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aut aut, 355, 2012, 129-140

Ceci n’est pas un livre

MASSIMILIANO NICOLI CARLA TROILO

Un certo senso di disagio

Cominciamo con una constatazione di ordine molto banale: il libro di Peter Sloterdijk Devi cambiare la tua vita

1

è un libro – come si suol dire – che fa discutere, e produce reazioni generalmente non troppo favorevoli fra gli addetti ai lavori (filosofici). In questione c’è, per esempio, un uso spregiudicato e discutibile dei riferimenti teorici da parte del pensatore tedesco: il modo in cui egli maneg- gia, iscrivendolo nel proprio discorso, il pensiero di Wittgenstein e di Foucault – per citare due autori sui quali ci siamo formati – suscita quanto meno alcune perplessità e apre un fronte di critica molto ampio in cui si può ben esercitare l’acribia dello studioso.

In particolare, chi scrive non può non confessare la sensazione di disagio provata rispetto a una delle questioni che svolge indubbia- mente un ruolo di pivot all’interno del testo di Sloterdijk, e cioè la questione della verticalità: “Gli esseri umani sono inevitabilmente soggetti a una tensione verticale, in tutte le epoche e in qualsiasi spazio culturale”.

2

Fil rouge dell’intero strabordante libro, la ten- sione verticale come costante antropologica alimenta e sostiene le “antropotecniche”, i programmi ascetici/atletici/acrobatici di esercizio a cui occorre riferire tutta la produzione culturale umana.

La possibilità “di riesaminare l’intero campo umano alla luce della

1. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2009), Raffaello Cortina, Milano 2010.

2. Ivi, p. 17.

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teoria generale dell’ascesi”

3

è occultata e contemporaneamente imposta come necessità dalle gigantesche dimensioni del feno- meno ascetico, dal suo “maxiformato”: così grande e importante da risultare a stento visibile. La condotta incentrata sull’esercizio corre senza tregua attraverso il “giardino dell’umano” – come il maratoneta della prima Olimpiade moderna –, lungo la verticale antropologica tesa fra un sotto e un sopra, fra un meno e un più, fra un peggio e un meglio (Nietzsche docet – ci dice Sloterdijk), a unire lo scarto che già il bambino sperimenta nel rapporto con la madre in quanto “Alto (Oben) presimbolico e sovraspaziale”.

4

Il n’y a pas de hors-exercice: anche quando si sosta nella debolezza e nella carenza – come Kafka – o ci si fa professionisti dell’auto- disprezzo e della disperazione – come Cioran –, è pur sempre un acrobata colui che vediamo all’opera o, nella peggiore delle ipotesi, un atleta in negativo, un allievo che si esercita puntigliosamente a dare il peggio di sé, un asceta in contromano, come “l’uomo che dorme” di Perec

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– tanto per aggiungere una figura letteraria a quelle evocate da Sloterdijk.

Da dove proviene, dunque, il senso di disagio che abbiamo confessato? Allo sguardo del genealogista della domenica non sfuggirà il risentimento di chi è punto nella carne viva della propria granitica pigrizia. E forse è anche il nostro caso. Ma dal momento che l’ampiezza dell’orizzonte ascetico prospettato da Sloterdijk non lascia scampo all’indolenza – inclusa nella fitness dei moderni come allenamento negativo o tutt’al più come con- dotta “maladattiva” –, l’argomento genealogico di ordine “psi- cologico” è posto fuori gioco.

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Meglio ricorrere a un’ipotesi di tipo “psicopolitico”, per usare, forzandolo un po’, il linguaggio di Sloterdijk stesso. Il disagio potrebbe allora derivare da una

3. Ivi, p. 136. È l’indicazione programmatica del libro, espressa a chiare lettere nel paragrafo intitolato, per l’appunto, “Programma”, che fa da ouverture alla prima parte.

4. Ivi, p. 140.

5. G. Perec, Un uomo che dorme (1967), Quodlibet, Macerata 2009.

6. Tanto più che potremmo invocare, contro il risentimento dei pigri e sempre nell’am- bito delle figure letterarie, la sublime ironia con cui Thomas Bernhard, nel suo romanzo Il soccombente, narra gli ascetismi pianistici del trio Narratore, Glenn Gould, Wertheimer.

Cfr. T. Bernhard, Il soccombente (1983), Adelphi, Milano 1985.

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domanda che concerne la centralità attribuita alla verticalità delle condotte umane sullo sfondo della situazione politica in cui ci tro- viamo. Non si tratta solo di temere, da persone ostinatamente di sinistra, una facile equazione fra verticalità e autoritarismo gerar- chico da una parte, e orizzontalità e intersoggettività democratica dall’altra. È Sloterdijk stesso a sfuggire subito a un’identificazione così banale: le potenzialità più elevate dell’essere umano si espli- citano quando le “differenze guida” (il sopra e il sotto) su cui si edificano le culture migrano dal campo originario per “stabilirsi con successo in zone lontane”, così da dare luogo, per esempio, a

“una definizione non economica di ricchezza; una definizione non aristocratica di nobiltà; una definizione non atletica di primato;

una definizione non cratica di superiorità; una definizione non ascetica [ebbene sì] di perfezione; una definizione non militare di audacia; una definizione non bigotta di saggezza e fedeltà”.

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Ma, nonostante la possibilità di trasvalutare i valori del più e del meno, la questione della verticalità è sempre lì a farci problema, molto probabilmente per la “politica della soggettività” che essa implica.

Intermezzo con Foucault

Quando parliamo di “politica della soggettività” ci riferiamo primariamente alla coppia dentro/fuori di cui, inevitabilmente, qualsiasi discorso sul soggetto – o sul campo pratico e politico delle

“soggettivazioni” – costituisce una problematizzazione. Su questa coppia, così come su quella, per molti versi omologa, attività/passi- vità, Foucault ci insegna molto, e ci invita a leggere Sloterdijk con una certa cautela ed esitazione. Spingendo sull’acceleratore verti- cale, quest’ultimo disegna una forma del rapporto dell’individuo con se stesso in cui la secessione dal mondo abitudinario, l’uscita dalla corrente della vie routinière, l’“autoisolamento recessivo”, lo Scheintod im Denken,

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giocano un ruolo decisivo: così si entra nella

7. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 19.

8. Cfr. Id., Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio (2010), Raffaello

Cortina, Milano 2011.

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Fine dell’esercizio

FABIO POLIDORI

A leggere in sequenza e con sguardo stori- cizzante i libri e i saggi di Sloterdijk, sembrerebbe che molta acqua passi sotto i ponti del suo percorso. E sinceramente credo che sia così per quanto riguarda i cospicui materiali, su cui si esercitano uno sguar- do costantemente acuto e provocatorio e una capacità costruttiva decisamente rara. Per quanto invece attiene alla dimensione strut- turale dei suoi testi – mi riferisco a una evidente struttura (e anche a una certa strategia) “narrativa” o “letteraria”: quella sulla quale si appoggiano le sue considerazioni più direttamente filosofiche, le analisi e gli approfondimenti interni ad alcuni significativi e probabilmente cruciali momenti del pensiero contemporaneo, come Heidegger, Nietzsche, più di recente Husserl – l’impressio- ne è diversa.

È una impressione che descriverei nei termini di una non sempre

percettibile trasformazione di alcuni luoghi e contesti filosofici in

qualcosa di diverso, in luoghi e contesti – per così dire – di altro

genere narrativo. In Non siamo ancora stati salvati, che raccoglie

saggi in buona parte dedicati a Heidegger, questa mossa (va rico-

nosciuto: di notevole caratura strategica) è con piena disinvoltura

dichiarata e costituisce, oltretutto e per esempio, uno dei tratti

più godibili del testo intitolato “La domesticazione dell’essere”,

dove – lo ricordo brevemente – la complessa e controversa “te-

matica” della Lichtung, parola che compare in moltissimi scritti

di Heidegger già a partire dagli anni venti, viene a trasformarsi

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