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La responsabilità sanitaria al tempo del coronavirus... e dopo

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Civile

RIVISTE WOLTERS KLUWER

La responsabilità sanitaria al tempo del coronavirus ... e dopo

giovedì 06 agosto 2020

Comandè Giovanni - Professore Ordinario di Diritto Privato comparato alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e Avvocato in Pisa

Per approfondire

PRODOTTI

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Di seguito l'articolo del Prof. Avv. Giovanni Comandé pubblicato su Danno e Responsabilità, n. 3/2020, Ipsoa, Milano.

L’autore muovendo dallo stato dell’arte del dialogo tra legislatore e giurisprudenza in tema di responsa-bilità sanitaria illustra le ripercussioni dell’emergenza da covid19 sul possibile contenzioso futuro. L’analisi pone l’accento sul ruolo delle strutture sanitarie e dei vertici organizzativi delle aziende sanita-rie offrendo indicazioni interpretative utili per operatori.

The author, moving from the dialogue between the legislator and courts of law on medical responsibility, illustrates the implications of the covid19 emergency on possible future litigation. The analysis focuses on the role of health care structures and their top management, offering useful interpretative indications for operators. 

 

Lo stato dell’arte tra L. n. 24/2017 e gli orientamenti della Cassazione

Dopo vari tentativi il legislatore, esattamente tre anni fa, era riuscito ad introdurre una riforma della responsabilità per danni connessi alla erogazione di una prestazione sanitaria, sancendo il definitivo passaggio alla nozione di responsabilità sanitaria[1], già emersa nella giurisprudenza.

Questa legge consolida molti risultati giurisprudenziali: principalmente allocare il costo risarcitorio degli eventi avversi primariamente sulla struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata che sia, anche quando il professionista sia stato scelto dal paziente o agisca in intramoenia (art. 7). Ad esso si associa il tentativo di “alleggerire” la posizione probatoria dei professionisti della sanità differenziando la loro

responsabilità, in termini di extracontrattualità, da quella delle strutture e limitando il quantum di rivalsa in caso di colpa grave (art. 9)[2].

Dunque, sul piano sostanziale si afferma:

1. responsabilità sempre e contrattuale della struttura (pubblica e privata) anche per i professionisti “scelti dal paziente” e anche “non dipendenti”;

2. responsabilità extracontrattuale del professionista che opera nelle strutture “salvo che abbia agito nell’adempimento di una obbligazione contrattuale assunta con il paziente”;

3. responsabilità contrattuale del professionista in adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente (art. 7, comma 3 e 10, comma 2), sebbene non sia chiaro quando queste condizioni si verifichino in concreto.

Danno e Responsabilità

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Idealmente il sistema si chiude con meccanismi di copertura finanziaria basati sul mercato assicurativo in concorrenza con “idonee misure” di auto-ritenzione; idealmente perché, in assenza dei decreti attuativi sul punto, l’unico risultato è quello di avere disciplinato le coperture assicurative dei soli professionisti.

L’art. 10 ribadisce per le strutture l’obbligo assicurativo o di analoghe misure (1) per responsabilità civile terzi e prestatori d’opera e per (2) la responsabilità extracontrattuale (propria) dei professionisti (sic).

Per i professionisti gli obblighi assicurativi sono più articolati. Coloro che operano in strutture dovrebbero assicurarsi per la colpa grave, per danni da adempimento di obbligazioni contrattualmente assunte (la normale polizza professionale) e eventualmente per la rivalsa; responsabilità erariale e rivalsa sono però di norma limitate al “triplo del valore maggiore della retribuzione lorda del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo”.

Per i professionisti che operano fuori da strutture, o che si avvalgono di strutture nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente, la sola polizza RCT già obbligatoria dovrebbe coprire adeguatamente l’eventuale danno, posto che idealmente non concorre con quella di strutture per le quali sarebbe solo ancillare in termini di colpa grave e per un ammontare massimo fisso.

Mentre il quadro normativo per i professionisti è completo ed operativo, così non è per i meccanismi di copertura finanziaria per le strutture sanitarie e socio-sanitarie. Questo sistema, in ideale concorrenza tra coperture assicurative e analoghe misure per le strutture, manca ancora dei necessari decreti attuativi con l’effetto che - di fatto - sussisteranno scoperture a macchia di leopardo sul territorio nazionale. Ne risulta che, allo stato, può ben succedere che primario target finanziario - perché teoricamente coperto almeno parzialmente - di azioni risarcitorie possa divenire il professionista piuttosto che la struttura presso la quale questi presta la sua opera. Una eterogenesi dei fini paradossale se si considera lo spirito dell’evoluzione giurisprudenziale cristallizzato dal legislatore del 2017.

(segue)… E la giurisprudenza

Sul quadro, patologicamente incompleto del legislatore, è intervenuta la III sezione civile del Supremo Collegio fissando alcuni punti[3] e tentando di articolare un bilanciamento di interessi e necessità sistematiche che normalmente spetta al legislatore. Prendendo anche a prestito argomenti della Corte costituzionale (235/2014)[4], lo scorso San Martino un drappello compatto di decisioni ha cercato di bilanciare esigenze di prevedibilità e tenuta del sistema con un afflato indubbiamente favorevole al danneggiato.

A vantaggio di prevedibilità, migliore assicurabilità, e più agevole chiusura transattiva depone certamente l’avere sancito con certezza l’applicabilità a tutti i processi - in corso e futuri - delle tabelle r.c.a. così come l’avere ribadito la irretroattività delle norme sostanziali della L. n. 24/2017[5].

Del resto, l’effetto della confermata responsabilità contrattuale dei medici per i fatti anteriori al 1° aprile 2017 rimane temperato sia dalla preesistente (e forse perdurante) tendenza della giurisprudenza in questo settore ad appiattire l’onere probatorio della responsabilità extracontrattuale su quella contrattuale, sia dalla

ripartizione paritaria e solidale con la struttura in caso di colpa esclusiva del medico con cui la struttura è chiamata a diventare il garante finanziario del risarcimento e a farsi carico della metà dello stesso, salvo

“negli eccezionali casi d’inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essersi obbligata”[6].

Sul piano sistemico, poi, la nuova declinazione delle preesistenze[7], con il conseguente allargamento della base di conversione monetaria del danno, potenzialmente incrementa il quantum del risarcimento per le menomazioni di maggiore gravità aumentando il costo del sistema, ma controbilanciandolo con il

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progressivo consolidamento del principio per cui la misura standard del risarcimento del danno biologico previsto dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari, pur avendo affermato la Cassazione che il danno morale debba eventualmente essere liquidato autonomamente.

Questi dati non sono senza ricadute pratiche nel disegno (legislativo o giurisprudenziale che sia) di un assetto della responsabilità sanitaria successivo alla crisi da covid-19. I principi generali affermati dal Supremo Collegio si prestano ad un apprezzamento delle situazioni in concreto realizzatesi durante l’emergenza.

Nel senso dell’allargamento delle tutele per i danneggiati muove certamente il principio dettato in materia di consenso informato[8]: la omessa acquisizione di idoneo consenso informato al trattamento sanitario, ove il paziente dimostri che avrebbe rifiutato il trattamento se debitamente informato, comporta la responsabilità per ogni danno che ad esso consegua compreso il danno biologico e il danno da lesione

dell’autodeterminazione. Il principio, nel fare letteralmente tabula rasa di anni di giurisprudenza contrastante e variegata, asserisce la piena ed autonoma risarcibilità del danno da lesione

dell’autodeterminazione (facendone un caposaldo della risarcibilità dei diritti fondamentali libera dalla menomazione della salute in quanto tale) e rende risarcibile tutto il danno biologico legato all’atto sanitario, anche quello eseguito secundumleges artis ed andato (quasi) a buon fine.

L’impatto economico su danneggiante e danneggiato non è indifferente e, forse proprio per questo, la citata giurisprudenza ribadisce che è onere (dirimente a fini risarcitori) del danneggiato dimostrare (ma con ogni mezzo di prova ammissibile) che non si sarebbe sottoposto al trattamento ove debitamente informato.

Il territorio forse più incerto rivisitato, per quanto qui ci interessa, dalle decisioni del San Martino 2019 è quello, per sua natura complesso e scivoloso, della perdita di chance. La sentenza n. 28993[9] definisce la nozione di chance, intendendola come la perdita apprezzabile, seria e consistente della possibilità di un risultato sperato (possibilità perduta di un risultato migliore e soltanto eventuale, per esempio la

sopravvivenza). Essa si distinguerebbe dalle ipotesi in cui il danno coincida con il mancato risultato sperato:

morte sopravvenuta prima di quanto ragionevolmente atteso, come per esempio nel caso deciso. Ancora una volta, questa posizione della III sezione civile non potrà non avere un impatto nelle future cause ove saranno discusse vicende, scelte, dilazioni temporali delle prestazioni e carenze organizzative pregresse legate

all’emergenza covid-19, su cui infra.

La Corte riconduce così concettualmente la chance al danno e non alla determinazione della causalità, per affermare che non “della perdita della possibilità di vivere meglio e più a lungo” si tratta quanto “della perdita anticipata della vita e dell’impedimento a vivere il tempo residuo in condizioni migliori e consapevoli”. In questo caso, però, non si risarcirebbe una perdita di chance, giacché la perdita si è materializzata (con la morte “anticipata” per l’omesso, tardivo o errato trattamento) quanto un danno effettivo, e da risarcire nella sua integralità. Questa si teme possa essere una leva esplosiva per il

contenzioso post covid-19 che certo richiamerà l’attenzione dei giudici di merito e delle leggi, se non altro se si considera che in diverse Regioni la scelta è stata quella di spostare nel tempo alcune prestazioni non salvavita, ma che possono avere inciso sulle aspettative temporali di sopravvivenza come nel caso di cure oncologiche.

Immaginando di accogliere la ricostruzione del Supremo Collegio, resta da precisare se sul piano della quantificazione ciò comporti il risarcimento integrale (come se l’operato medico avesse causato la morte) o solo del tempo non “fruito” o non “fruito in condizioni diverse” a causa della condotta professionale che ha ridotto la potenziale sopravvivenza dal tempo x al reale tempo y. Resta, inoltre, da chiarire la effettiva applicabilità della ricostruzione prospettata ad ipotesi diverse dalla morte anticipata e dalle condizioni di vita diverse cui la condotta del danneggiante ha costretto la vittima, e dunque la portata generale del

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principio affermato. Si pensi all’impatto di questo profilo sul contenzioso che potrebbe investire per esempio le RSA.

Nel tentativo di affrancarsi dalle pastoie della creazione di soglie percentuali di risarcibilità/esistenza del danno (utili per usare il danno da perdita di chance per temperare la regola del “tutto o niente”, opzione rifiutata nel citato decisum del Supremo Collegio) la Corte pare lasciare il decisore del merito privo di una guida operativa relativa ai canoni di apprezzabilità, serietà, consistenza che, superata l’onda emotiva pro professionisti in fase di emergenza, potrebbe portare ad una, ben più devastante, onda di ritorno.

Sul piano pratico, probabilmente la precisazione che il risarcimento della perduta chance non patrimoniale (rectius: del conseguimento di un risultato non patrimoniale) non “potrà essere proporzionale al risultato perduto, ma commisurato in via equitativa, alla possibilità perduta di realizzarlo” (corsivo in originale) rischia di non illuminare a sufficienza il cammino di merito e magari ad alimentare il contenzioso.

La sintesi dei princìpi

Sullo sfondo di questo nuovo dialogo muto - perché il legislatore anche delegato ha smesso di interagire- tra giurisprudenza e legislatore rimangono, però, i principi cristallizzati nell’art. 1, L. n. 24/2017 per il quale “La sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività” e “si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative”. È il terreno in cui la logica aziendalistica della gestione della sanità e lo spirito della tutela costituzionale della salute trovano un fecondo terreno di incontro destinato però a diventare campo di battaglia sulle responsabilità di sistema.

Al di là della naturale retorica legislativa, lo sforzo di tutela del diritto alla salute rimane fondato sul principio di solidarietà che passa anche attraverso la prevenzione dei danni cui tutti gli attori, senza esclusione alcuna, sono chiamati. Il passaggio non è da poco perché mette in sinergia compensation e deterrence (intesa nel senso della prevenzione e gestione dei rischi) fondandoli sul medesimo principio costituzionale (operazione già del resto fatta da Corte cost. n. 235/2014[10] per la r.c.a.). In tal modo

l’investimento in prevenzione fa parte del sistema di solidarietà assieme alla rimozione secondaria (direbbe Calabresi) dei costi subiti dal danneggiato (i danni) ed all’uso “appropriato delle risorse strutturali,

tecnologiche e organizzative” messo in dubbio con senno del post-emergenza covid-19.

Tuttavia, proprio questo profilo, il computo ideale della prevenzione nel risarcimento, giustifica le varianti al sistema puro di r.c. Ed ecco che la quantificazione dei danni non patrimoniali può legittimamente essere fatta su base tabellare, che l’impegno in prevenzione del personale sanitario è controbilanciato da una parziale schermatura finanziaria (il limite alla rivalsa o all’azione contabile per colpa grave), dal sovrapporsi parziale di garanzie assicurative (individuali e della struttura) o di fondi (delle strutture, le “analoghe misure”), il parziale ingessamento tabellare per il risarcimento è calmierato dalla certezza finanziaria di esso, e - sempre in un mondo ideale- dalla sua rapidità di erogazione...

Il sistema attuale di responsabilità che l’opera incompiuta del formante legislativo e giurisprudenziale ci consegnano presenta caratteri sufficientemente chiari che lo collocano a metà strada tra una r.c. pura e un sistema alternativo ad essa.

Pur ancorato saldamente nel territorio della responsabilità civile, l’incrocio con differenti modelli organizzativi (della sanità e della copertura finanziaria dei possibili ed a volte inevitabili danni) ha

traghettato il mondo della c.d. responsabilità sanitaria in un sistema complesso che sconta la mancanza di una progettazione organica ex ante ma che, ex post, può offrire percorsi ormai chiari. Chiari, sono almeno i suoi principi ispiratori sia nella legge che nella giurisprudenza: solidarietà con le vittime, tensione verso la maggiore prevedibilità possibile dei risarcimenti, socializzazione dei costi ma senza assoluzioni generali da

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eventuali colpe perché l’obiettivo di tutela della salute quale diritto individuale e interesse collettivo si persegue con risarcimento e prevenzione sinergicamente correlate. In questo quadro il modello di

responsabilità civile che aspira a farsi no blame entra però in tensione con la disciplina organizzativa della sanità e con la sua logica gestionale, come emerge dalle riforme dell’ultimo trentennio: l’efficacia terapeutica ha dovuto cedere il passo “all’efficienza” economica sacrificandosi sull’altare di una riduzione dei costi e della necessità della dirigenza delle strutture sanitarie di garantire parità di bilancio a fronte dei vincoli politici imposti. Il danno collaterale di questo scontro negli anni è emerso sul versante della responsabilità contabile, almeno per le strutture pubbliche, e si è riversato sulle spalle dei professionisti.

Il nodo ineludibile dei rapporti tra r.c. e responsabilità contabile o secondaria

In questo quadro, in cui i meccanismi di erogazione delle prestazioni sanitarie presentano alti gradi di interdipendenza e complessità, che si riflettono nella responsabilità sanitaria come sistema complesso, la spina dorsale del modello italiano è rappresentata dal suo carattere multistrato, generato accidentalmente per interventi successivi di giurisprudenza e legislatore di cui quanto riportato prima è solo l’ultima puntata (fino ad ora) di una trama estemporanea ma che magicamente si può fare modello.

A rischio di una eccessiva semplificazione, non esiste quasi più una prestazione professionale sanitaria che realmente viva in splendido isolamento. Anche la semplice visita a domicilio o ambulatoriale specialistica raramente sarà scollegata da analisi e test, per esempio, o sarà sconnessa dai percorsi di archiviazione della storia clinica del paziente (per esempio il fascicolo sanitario elettronico). Inevitabilmente quindi eventuali errori ed eventi avversi hanno effetti a catena che collegano le singole prestazioni. Peraltro, anche attività professionali individuali come quelle specialistiche o di assistenza primaria (medicina generale e di famiglia) sono svolte con forme organizzative più o meno strette ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. e) ed f), D.Lgs. n.

502/1992 e successive modificazioni (c.d., medicina in associazione, in rete, di gruppo) che tecnicamente dovrebbero fare scattare le coperture obbligatorie di cui l’art. 27, comma 1 bis, D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, ed avevano già richiamato una responsabilità diretta delle strutture per i medici convenzionati già prima della L. n. 24/2017.

Va da sé quindi che la stragrande maggioranza delle occasioni di erogazione di prestazioni sanitarie si trovano inserite in un quadro in cui risultano soggette a misure tecniche ed organizzative capaci di ridurre i rischi di eventi avversi, e restano idealmente coperte da un doppio livello di assicurazione (di struttura e del personale per la rivalsa e/o la colpa grave).

In tale quadro, il groviglio inestricabile tra responsabilità finanziaria primaria (dello Stato e delle strutture pubbliche e private) per i danni e di secondo livello calmierata (rilievo solo della colpa grave e riduzione assoluta del quantum massimo) dei singoli professionisti è diventato elemento strutturale del sistema, ispirato alla solidarietà verso danneggiati e professionisti, ed alla prevenzione sistemica dei danni secondo schemi più vicini al no-blame che ad un no-fault[11].

Così come l’erogazione delle prestazioni sanitarie è ormai diventata appannaggio di organizzazioni complesse, la prevenzione e la gestione degli eventi causativi di danno non può essere più delegata alla diligenza individuale ma deve ricorrere ad approcci sistemici[12]. È più importante capire come il sistema possa individuare per tempo gli errori umani e limitarne le conseguenze piuttosto che biasimare il singolo per i suoi (a volte inevitabili) errori[13]. Il problema non è il singolo professionista eventualmente imperito o imprudente da biasimare, ma il sistema che non ha soluzioni idonee a sterilizzare tale imperizia o

imprudenza e che va cambiato: la sicurezza delle cure quale elemento strutturale. In questo quadro normativo le carenze organizzative, una gestione non corretta di protocolli e modalità di gestione e minimizzazione dei rischi ordinari e straordinari, emergono quali peccati capitali solo indirettamente riconducibili ai singoli professionisti sul fronte sanitario e sempre più direttamente riconducibili a quelle figure apicali nelle strutture (direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo) chiamate a

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bilanciare le spinte efficientistiche con la tutela dei valori costituzionali ascritti alle cure delle istituzioni da loro dirette. In questa direzione l’epidemia da covid-19 rappresenta una tempesta perfetta.

Non è un caso che il sistema complesso di responsabilità sanitaria cerchi di prendere in considerazione i diversi livelli qualitativi delle strutture che erogano le prestazioni per non fare pesare errori e responsabilità gestionali sui professionisti in prima linea, esprimendo il principio che nella azione amministrativa (art. 9, comma 5, L. n. 24/2017) ai “fini della quantificazione del danni” “si tiene conto delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato”.

La norma presenta diverse implicazioni sistemiche. Innanzitutto, essa tende a non far ricadere sul professionista (la cui responsabilità si muove già entro i confini della colpa grave e del dolo) le carenze strutturali, magari dovute a responsabilità gestionali e politiche. È una giusta inversione di rotta rispetto a quegli arresti che dalla fine degli anni ‘90 avevano invece colpevolizzato il personale sanitario per non avere segnalato le carenze strutturali ai pazienti[14] e che potrebbero essere riscoperte oggi questa volta

ascrivendo le responsabilità a chi invece alla riduzione e prevenzione di queste carenze strutturali e sistemiche è preposto.

Tuttavia, nel fare ciò apre la porta ad un crescente ruolo della responsabilità politico-gestionale e ad un suo spostamento nel territorio della rilevanza giuridica e risarcitoria. Fattore questo che l’emergenza covid-19 potrà fare esplodere ed avrà riflessi nella pratica professionale.

La mina vagante della responsabilità per carenze organizzative in capo ai vertici delle strutture sanitarie

Se di fatto la responsabilità (contabile o per rivalsa) dei professionisti sanitari poteva ritenersi contenuta e sistemicamente assestata nella novella del 2017, anche se i ritardi del legislatore delegato possono porre rinnovate inquietudini al personale sanitario, si è facili profeti nel prevedere una forte rivisitazione di una area della responsabilità sanitaria poco saggiata dalla giurisprudenza, almeno civile.

In questo quadro una vera e propria mina vagante nel sistema è costituita dalla responsabilità del direttore generale, e del direttore sanitario in primis, per le carenze organizzative e gestionali delle strutture sanitarie;

un tema saggiato soprattutto dalla giurisprudenza penale[15], ma che nel quadro rinnovato dal legislatore nel 2017 tendeva già ad assumere una maggiore centralità destinata ad esplodere a valle della crisi da covid- 19.

Si noti poi che, nel tessuto normativo descritto, potrebbe emergere una distinzione di grande impatto pratico tra strutture pubbliche e private. Nelle prime la responsabilità di direttore generale (DG) e direttore sanitario (DS), che dal primo è fiduciariamente nominato e coordinato, trova il sicuro limite della colpa grave, ma non è chiaro se le ricordate previsioni dell’art. 7, L. n. 24/2017 coprano l’attività meramente amministrativa, organizzativa e gestionale del DG e del DS, che potrebbero esulare dalla nozione di “esercizio di attività sanitaria” richiesto dall’art. 7, potendosi così ipotizzare un perimetro più ampio di responsabilità per i

dirigenti di strutture private rispetto a quanto, ove applicabile, l’essere dipendenti pubblici invece garantisce.

Se l’art. 7 non coprisse queste figure dirigenziali, nel quadro attuale esse si troverebbero scoperte - almeno parzialmente - e maggiormente esposte, quantomeno in sede di rivalsa nelle strutture private rispetto a quelle pubbliche.

Dicevamo che si è facili profeti poiché, la giurisprudenza[16] prende sempre più sul serio il ruolo e le

responsabilità delle figure professionali chiamate (art. 53, L. 12 febbraio 1968, n. 128) anche nelle case di cura private a rispondere personalmente della “organizzazione tecnico-funzionale” e del “buon andamento dei servizi igienico-sanitari”.

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Peraltro, per legge, è da tempo che alle responsabilità delle direzioni sanitarie si associano i relativi poteri (cfr. l’art. 5, d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128) tra cui spiccano: a) la previsione degli schemi di norme interne per la organizzazione dei servizi tecnico-sanitari; b) le decisioni sull’impiego, sulla destinazione, sui turni e sui congedi del personale sanitario, tecnico, ausiliario ed esecutivo addetto ai servizi sanitari della struttura cui è preposto in base ai criteri fissati dall’amministrazione; c) la vigilanza sul personale da lui dipendente; d) la vigilanza sulle provviste necessarie per il funzionamento sanitario della stessa e per il mantenimento dell’infermo (è il caso dei presidi necessari in caso di pandemia e previsti dai piani di emergenza presenti nelle strutture, per esempio).

Tuttavia, le posizioni del DG e del DS sono- e forse contro intuitivamente - diverse per il differente ruolo da essi giocato nella architettura del sistema sanitario. Di conseguenza, alcuni profili specifici delle due figure - direttore sanitario e direttore generale - possono avere un impatto sulle rispettive responsabilità: essi hanno ruoli e funzioni diversi. Il primo è obbligatorio (sin dalla L. n. 412/1991) per tutte le istituzioni sanitarie

convenzionate, deve essere un laureato in Medicina e Chirurgia, in possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione e iscritto all’Albo (o professionista Medico-Chirurgo specializzato in Odontostomatologia o laureato in Odontoiatria e Protesi Dentaria, comunque iscritto all’Albo degli Odontoiatri per le strutture odontoiatriche soggette ad autorizzazione) e “risponde personalmente dell’organizzazione tecnica e funzionale dei servizi e del possesso dei prescritti titoli professionali da parte del personale che ivi opera”

(art. 4, L. n. 412/1991).

Il Direttore Generale, per altro canto, nelle strutture pubbliche rappresenta l’anello di congiunzione tra politica ed amministrazione. È scelto da un “elenco nazionale dei soggetti idonei alla nomina di direttore generale delle aziende sanitarie locali, delle aziende ospedaliere e degli altri enti del Servizio sanitario nazionale” (D.L. n. 171/2016); non deve necessariamente essere laureato in medicina, ma deve avere

“comprovata esperienza dirigenziale, almeno quinquennale, nel settore sanitario o settennale in altri settori”, e avere seguito un “corso di formazione in materia di sanità pubblica e di organizzazione e gestione

sanitaria”. L’idea di fondo è quella di una figura manageriale che, sebbene progressivamente resa sempre più autonoma - a partire dal “suo” atto aziendale -, risulta inevitabilmente e legittimamente “pilotata” dal

necessitato rispetto delle linee guida e dei vincoli posti dalla Regione, che lo nomina e ne predetermina gli obiettivi su cui poi sarà valutato e eventualmente riconfermato. I suoi doveri e funzioni, nel tempo

arricchitesi dal perseguimento di efficienza e pareggio di bilancio[17] e riassunti negli indicatori aziendalistici usati per valutarne la performance (la produttività, il raggiungimento degli obiettivi prefissati e l’impiego del budget utilizzato) e per escludere la sua responsabilità dirigenziale (fattispecie autonoma e separata dalle responsabilità civile, penale, contabile) gli confermano funzioni essenzialmente manageriali, ancorate ad obiettivi eterodiretti e con vincoli che nel settore privato non sono presenti (non può licenziare, per esempio).

Le due figure hanno quindi ruoli differenti nella architettura della gestione sanitaria esponendoli

diversamente alla attesa nuova ondata di contenzioso sanitario. Mentre infatti il Direttore Generale di una struttura pubblica, un po’ come il proprietario di una struttura sanitaria privata, è chiamato al rispetto e all’applicazione di principi di efficienza, economicità, efficacia, di matrice aziendale, ed a perseguire legittimi interessi economici[18] che garantiscano il successo e la solidità dell’attività stessa (sebbene declinati in termini di raggiungimento degli obiettivi prefissati nel settore pubblico), il Direttore Sanitario è figura pensata per svolgere un ruolo di garanzia nel sistema sanitario, controbilanciando il peso di interessi (profitto o raggiungimento di obiettivi) che, pesando sulle scelte cliniche o organizzative, potrebbero penalizzare gli interessi primari del paziente. In questa direzione operano gli specifici compiti attribuitigli dalla legge.

Questo profilo nella organizzazione gestionale[19] è di particolare importanza nella ripartizione di ruoli e responsabilità tra DG e DS facendo di quest’ultimo un vaso di coccio nella sfilacciata catena che da una difficilmente sanzionabile responsabilità politica passa per una responsabilità dirigenziale per approdare in capo al direttore sanitario in termini di responsabilità civile e penale. Quest’ultimo propone al DG che eventualmente approva in vista dei “suoi” obiettivi cui deve sottostare, ma il direttore sanitario - per quanto visto - risponde della corretta gestione dal punto di vista sanitario rispetto alle autorità pubbliche e di

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vigilanza cui dovrebbe eventualmente segnalare carenze organizzative o strutturali (il non sequitur rispetto alle valutazioni sanitarie da parte dello stesso organo da cui fiduciariamente dipende...).

Ne risulta che, secondo le regole generali, a meno che non abbia debitamente segnalato nelle forme e modi opportuni l’impossibilità di perseguire i suoi compiti istituzionali al DG - da cui è fiduciariamente nominato (sic) - di rimozione di eventuali carenze strutturali ed organizzative rimane responsabile penalmente e civilmente dei danni causati.

A sua volta il Direttore Generale è incentivato al perseguimento degli obiettivi legittimamente fissati dal potere politico e da cui, per legge, dipende la sua eventuale riconferma. In questo quadro il rischio di una serie di cortocircuiti fra responsabilità politica e dirigenziale, ma anche civile e penale emerge in tutta la sua virulenza già in assenza della emergenza da covid-19 che semplicemente solleva la foglia di fico della

responsabilità sanitaria mediata dal ruolo dei professionisti sanitari.

Le sfide dell’emergenza

È legittimo allora domandarsi se questo sistema ancora incompiuto possa tenere di fronte alla pressione dell’emergenza coronavirus? O debba attendersi una onda “anomala” di contenzioso. Il dubbio ha sfiorato pure il decisore politico. Dunque, per procedere ad una breve disamina delle ipotesi di maggiore contenzioso che in questo quadro generale è possibile pronosticare, è utile saggiare la tipologia di risposte avanzate in sede legislativa proprio per evidenziare le criticità del sistema e le esigenze da soddisfare per continuarne la sua costruzione.

A tal fine si userà come cartina di tornasole una proposta emendativa del decreto di conversione del D.L. n.

18/2020 (A.S. 1766 Emendamento all’art. 1 presentato da Stefano, Collina, Boldrini, Bini, Parrini) diretto a introdurre una “limitazione delle responsabilità degli operatori del servizio sanitario durante l’emergenza epidemiologica da COVID 19”, invero estesa indifferentemente anche alle strutture sanitarie e ai loro

amministratori. Sebbene questo emendamento non abbia visto la luce, esso è utile per riflettere sulla tenuta del sistema complesso di responsabilità sanitaria in Italia e sulle sue evoluzioni nonché sui possibili

cortocircuiti con le responsabilità dei vertici delle strutture sanitarie.

Sull’onda emotiva del sacrificio dei professionisti della sanità (al 28 aprile 2020 vi erano 19.942 contagiati e 185 morti tra il personale sanitario, 152 solo tra i medici secondo dati FNOMCEO) il citato emendamento escludeva la responsabilità civile ed erariale per “tutti gli eventi avversi che [a] si siano verificati o [b]

abbiano trovato causa durante l’emergenza epidemiologica COVID-19 di cui alla delibera” del CdM del 31 gennaio 2020. È molto diverso però che un evento avverso si sia verificato [a] a causa della situazione di emergenza (ipotesi peraltro già coperta dallo stato di necessità ex art. 2045 c.c.) o che sia verificato [b]

durante lo stesso. Si tratta di una indistinzione assai grave tra [a] la mera occasionalità temporale e [b] la causalità materiale trovata nell’emergenza che avrebbe avallato ogni irresponsabilità anche per colpevoli violazioni dello stato dell’arte totalmente scollegate dallo stato di emergenza e che sarebbero esentate da responsabilità per la sola coesistenza temporale con la emergenza covid-19.

Lungi dal seguire le linee sistemiche prima indicate, tale norma avrebbe un doppio effetto collaterale di dubbia costituzionalità. Infatti, avrebbe eliso ogni deterrenza nei confronti del personale sanitario anche fuori dall’emergenza e al contempo avrebbe negato ingiustificatamente il risarcimento del danno anche in queste ipotesi senza una base costituzionale solida. Un ingiustificato - magari anche non voluto - indiretto colpo di spugna soprattutto sulla componente gestionale della sanità piuttosto che su quella professionale, in controtendenza rispetto alle evoluzioni normative e giurisprudenziali prima indicate.

Al contrario, lo stesso principio di solidarietà che abbiamo visto spiegare la limitazione fino all’esonero da responsabilità, in certe circostanze, impone allo stesso tempo misure alternative per non privare

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ingiustificatamente del diritto al risarcimento. La stessa norma codicistica sullo stato di emergenza lo impone.

Ma il punto forse più interessante ai fini della nostra analisi è un altro. La norma proposta, sull’onda emotiva di solidarietà per il personale sanitario eroicamente in trincea, intendeva offrire una “immunità” totale che sarebbe stata controproducente per lo stesso personale coinvolto. Infatti, non distinguendo tra gli eventi avversi realizzatisi per così dire a causa dell’emergenza, da quelli meramente materializzatisi in costanza di emergenza si sarebbero equiparate situazioni che, sul piano fattuale e costituzionale, non sono parificabili.

Ovviamente le intenzioni dei proponenti erano certo buone, ma il risultato sarebbe stato quello di un colpo di spugna per reali vicende di c.d. malasanità e, più nel dettaglio, di cattiva gestione della sanità (cfr. infra l’esempio delle RSA). Non a caso la norma proposta poneva una eccezione alla eccezionale limitazione della responsabilità, escludendola per “condotte gestionali o amministrative poste in essere in palese violazione dei principi basilari delle professioni del Servizio sanitario nazionale”. Queste si voleva non fossero coperte dalla esenzione della responsabilità ove “sia stato accertato il dolo del funzionario o dell’agente che le ha poste in essere o che vi ha dato esecuzione”. Come si è visto, però, l’attuazione dei piani anti-pandemia esistenti (per esempio con l’opportuno approvvigionamento di presidi protettivi per il personale e i pazienti ovvero con la predisposizione degli opportuni protocolli e la formazione del personale) non è responsabilità di un funzionario qualsiasi ma di specifici “agenti” come li chiamava cripticamente l’emendamento di cui difficilmente si potrebbe predicare il dolo specifico.

È evidente come il testo si riferisse alla sola responsabilità erariale nel tentativo di schermare la responsabilità di chi gestisce la sanità nei momenti drammatici dell’emergenza covid1-19. Il risultato paradossale, però, sarebbe stato alternativamente quello di esacerbarla o di esonerare da responsabilità condotte a dir poco esecrabili. Infatti, l’esonero da responsabilità così congegnato sarebbe venuto meno ove l’attività gestionale/amministrativa fosse stata “in palese violazione dei principi basilari delle professioni del Servizio sanitario nazionale”. Purtroppo, come anticipato, buona parte delle logiche delle riforme del nostro sistema sanitario, da almeno un trentennio a questa parte, sono state improntate ad un supposto

efficientismo economico di riduzione dei costi, che certo cozza con i principi (anche deontologici) delle professioni sanitarie il cui canone non è l’efficienza economica ma l’appropriatezza terapeutica. Ne risulta che il mero seguire la logica imposta da dette leggi può porre in contrasto con quei principi basilari della professione medica. Viceversa, ove la costruzione testuale dell’eccezione alla esclusione di responsabilità fosse tale da coprire (e quindi da esonerare) fattispecie di semplice pessima gestione sarebbero state indistintamente schermati da responsabilità civile ed erariale tutti i danni riscontratisi, per esempio, nelle RSA oggi agli altari della cronaca.

Ulteriore esempio strettamente connesso al nostro discorso è un’altra proposta contenuta nel medesimo emendamento. Esso prevedeva che “2. Ai fini della valutazione della sussistenza della colpa grave di cui al comma 1, lettera b)[[20]], vanno anche considerati la proporzione tra le risorse umane e materiali disponibili e il numero di pazienti su cui è necessario intervenire nonché il carattere eterogeneo della prestazione svolta in emergenza rispetto al livello di esperienza e di specializzazione del singolo operatore”. La lettera della proposta novella vorrebbe evitare che i neolaureati mandati in trincea diventino prova in re ipsa della mancanza di perizia tecnica eventualmente conducente ad eventi avversi risarcibili. Ancora una volta, lodevole intento che parrebbe estendere alla responsabilità civile tout court il richiamato principio per la l’azione di responsabilità amministrativa (art. 9, comma 5, L. n. 24/2017). Tuttavia, la norma proposta non si riferisce alla quantificazione conseguente ad un accertamento della responsabilità in quella sede (e quindi senza coartare il diritto al risarcimento del paziente né sul se né sul quantum) ma ad elementi da

considerare nell’accertamento stesso della responsabilità. Il risultato è del tutto contrario rispetto ai principi ispiratori della materia nel diritto vivente prima richiamati e al piano dei valori costituzionali di riferimento.

Quel che in questa sede rileva non sono imprecisioni tecniche o genericità nel testo che avrebbero stimolato il contenzioso invece di rintuzzarlo, quanto il mettere in evidenza come la logica di contenimento di alcune fattispecie di eventi avversi ricollegabili alla emergenza covid-19 possano essere correttamente ricondotti ai

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principi di sistema del diritto vivente, ma che il sistema - con la sua cornice costituzionale - non permette di essere trasformato da no blame a mera immunità senza minarne i principi e valori di riferimento.

Tecnicamente, per esempio, uno scudo per i professionisti volontari neolaureati in prima linea sarebbe un dovere morale in linea con la lettura solidaristica del sistema che abbiamo illustrato prima, ma allora dovrebbe essere tanto netto quanto coperto sul piano dei diritti delle vittime degli eventi avversi

eventualmente causati. Difatti, brandire una responsabilità civile o erariale di fronte al neolaureato che non ha avuto neppure la possibilità di un tirocinio, pur legittima sul piano formale, non avrebbe nessuna capacità deterrente mentre avrebbe l’effetto pratico di privare interamente di una copertura finanziaria la vittima entrando in contraddizione con lo stesso principio di solidarietà che impone una limitazione della

responsabilità in capo al professionista intervenuto (ed ove ovviamente lo stato di necessità non sia capace di fornire la copertura dovuta).

La traduzione tecnica dei principi alle situazioni di emergenza rischia di confondere responsabilità civile e contabile con la responsabilità politica di scelte idealmente legittime ma di dubbia ricaduta sanitaria e con l’acquiescenza del sistema di giustizia (i giudici non possono giudicare se non ci sono avvocati che coltivano le cause!) che ha trovato a lungo terreno più fertile nell’attacco al personale sanitario e alle risorse delle strutture sanitarie piuttosto che nell’aggressione del nodo gordiano tra responsabilità politica,

amministrativa e civile.

Distinguere tra politica, policy e responsabilità: le RSA e le carenze come routine

Ed arriviamo così alle facili previsioni di contenzioso. È evidente già solo dalla cronaca giornalistica e dagli accorati appelli che lo sforzo eroico del personale sanitario meriti attenzione ben al di là delle regole di r.c., ma non può scusare un colpo di spugna per ogni responsabilità anche non correlata all’emergenza né per decenni di riforme o gestioni miopi. Numerosi strumenti sono già presenti nella complessa architettura della responsabilità sanitaria odierna.

Vediamo allora come opererebbe l’impianto sopra descritto per esempio in caso di evento avverso riconducibile ad un professionista della sanità assoldato in pendenza dell’emergenza.

Orbene la sua eventuale imperizia (mancanza di sufficiente abilità e della necessaria esperienza), alla

stregua dell’art. 2236 c.c. rileverebbe in modo automatico forse per dichiarare la responsabilità della struttura che di tale professionista si sia trovata a dovere fare ausilio. Tuttavia, nei confronti del professionista la citata norma della L. n. 24/2017 imporrebbe di tenere conto “delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato” portando ad un azzeramento della sua responsabilità in sede contabile.

Il diritto vigente e vivente schermano già dunque il neo-professionista da responsabilità ma lasciano aperto uno spiraglio alle vittime ove la carenza organizzativa non fosse causalmente riconducibile esclusivamente all’emergenza covid-19. Si pensi, per esempio, ad ipertrofie palesi di reparti a fronte di carenze di organico di altri che trovino di fatto “giustificazioni” sul piano clientelare piuttosto che della sicurezza delle cure. In queste circostanze l’emergenza covid-19 rappresenta solo una occasione di materializzazione del danno e non un elemento capace di interrompere il nesso causale (occasionalità temporale non causalità necessaria).

Quanto alla struttura, invece, essa potrebbe assai probabilmente avvalersi della norma sullo stato di necessità (ai sensi dell’art. 54 c.p. e 2045 c.c.) potendosi così escludere il risarcimento e residuando solo l’onere di “un’indennità, la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice” nel caso in cui la

carenza strutturale non trovasse radici strutturali come nell’esempio appena fatto. Idealmente, queste ipotesi dovrebbero essere coperte dalle polizze assicurative o dalle analoghe misure adottate e quindi il sistema avrebbe al suo interno tutti gli elementi per tranquillizzare i professionisti e non lasciare a mani vuote le vittime.

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Ancora una volta, però, il diavolo sta nei dettagli, o meglio negli avverbi: “idealmente”. Davvero le polizze assicurative e le “analoghe misure” - prive della dovuta regolamentazione - prevedono questi casi? È legittimo dubitarne, con la speranza di essere smentiti.

Tuttavia, l’esempio pratico assieme al tentativo di intervento normativo mettono in luce sia la resilienza del sistema complesso di responsabilità civile, che ha strumenti per sceverare la pula dal grano, sia il vero nodo gordiano da sciogliere: le responsabilità politiche e gestionali pluriennali nel SSN e specialmente in quelli regionali che spiegano la loro diversa resilienza rispetto a quelli di altri paesi. Ad oggi, l’assai diverso numero di posti in terapia intensiva e sub-intensiva spiegano il diverso numero di morti in Germania ed in Italia più che presunte imperizie del personale sanitario in trincea.

Sul piano pratico, quindi, gli eventi avversi causalmente ricollegabili alla emergenza covid-19 (saturazione dei posti letto in terapia intensiva, ritardi da sovraccarico del sistema nel prestare soccorsi in incidenti stradali o emergenze sanitarie, per esempio) potrebbero essere coperti sul piano civilistico dallo stato di necessità ove questa non fosse mera occasione. Questo potrebbe essere il caso dei danni alla salute riportati dal

personale sanitario così come, forse, ove siano state differite prestazioni sanitarie oncologiche in strutture con basso o assente rischio covid-19. Nel primo caso la responsabilità non sarebbe “sanitaria” nel senso tradizionale ma piuttosto vedrebbe nella causa di lavoro e nella mancata adozione delle opportune cautele per i dipendenti la sua origine. Nel secondo caso si potrebbe prospettare una semplice carenza organizzativa ed una errata valutazione dei rischi. Peraltro non subito si è realizzata la utilità di distinguere le strutture di ricovero rendendosi più complesso lo svolgimento delle prove.

Tuttavia, l’eventuale impiego di personale non testato, non protetto e poi risultato positivo al covid-19 potrebbe a sua volta configurare non solo la base per una causa giuslavoristica dei professionisti ma l’elemento scatenante la responsabilità della struttura per i pazienti\visitatori che nella struttura abbiano contratto l’infezione e ne siano rimasti danneggiati. Va da sé che la prova del contagio potrebbe non essere operazione semplice a meno che essa non riguardi soggetti ricoverati che non avrebbero potuto contrarre altrimenti l’infezione. E già questi casi potrebbero essere un numero non indifferente, come i dati sulle RSA stanno drammaticamente rivelando.

Ma guardiamo proprio il triste esempio, una vera e propria strage ormai acclarata statisticamente sul piano internazionale, delle residenze socio assistenziali durante l’emergenza covid-19.

I dati di una survey dell’ISS[21] mettono in evidenza le principali difficoltà riscontrate da queste strutture socio-assistenziali nel corso dell’epidemia di coronavirus facendo risaltare carenze strutturali.

Se si fa la tara delle carenze informative di cui tutti abbiamo sofferto stante la novità del virus o della scarsità di farmaci difficilmente imputabili alle strutture in quanto tali, emergono alcuni profili che invece, a nostro sommesso avviso, rientrano pienamente nella nozione consolidata in giurisprudenza di carenza organizzativa: mancanza di dispositivi di protezione individuale, carenze strutturali di personale sanitario (in media 2,6 medici per struttura ma con ben l’8% delle strutture che non ha del tutto medici), difficoltà nel trasferire i residenti affetti da covid-19 in strutture ospedaliere, difficoltà nell’isolamento dei residenti affetti da covid-19 (il 25% delle strutture intervistate); mancata o tardiva implementazione del divieto di visita di familiari/badanti ai familiari ricoverati di cui al D.P.C.M. 8 marzo 2020 (solo l’87% delle RSA intervistate aveva aderito entro il 9 marzo o anche prima). Solo il 47% delle strutture ha dichiarato di poter disporre di una stanza singola per i residenti con infezione confermata o sospetta e l’8,8% ha dichiarato di non avere sviluppato un piano/procedura scritta di gestione del residente con covid-19 sospetta o confermata. Si noti peraltro che la survey copre una parte ridotta delle strutture.

È di tutta evidenza nella letteratura scientifica specialistica[22] che i degenti in RSA presentino fragilità (pluricronicità, debilitazione fisica dovuta all’età, ...) che richiedono approcci strutturali, livelli minimi di assistenza in loco proprio per evitare il loro trasferimento in strutture ospedaliere che, oltre ad essere

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inefficienti spesso sul piano economico, sono anche particolarmente pericolose per questi pazienti vulnerabili.

Pur in assenza di dati relativi ai singoli incidenti è legittimo chiedersi sulla base dei dati richiamati nella survey se davvero la cronica carenza di idoneo personale sanitario (medici, infermieri, OS) nelle RSA sia da attribuirsi all’emergenza covid-19 o questa abbia semplicemente reso palese ed eclatante ciò che già in modo strisciante si realizzava (la tempesta perfetta). Per definizione le RSA ospitano soggetti vulnerabili la cui tutela richiede l’adozione di protocolli per la “sicurezza delle cure” in termini normali, ed a maggior ragione in tempo di epidemia e pandemia, con “l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative”.

Sui tavoli delle Regioni erano i piani contro le epidemie le pandemie, nascosto nei meandri del sito del Ministero della salute esiste il “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale”[23], in esso si prevedono (e l’esempio è legato all’influenza!) una serie di misure già in fase prepandemica reale

“per limitare la trasmissione delle infezioni in comunità (scuole, case di riposo, luoghi di ritrovo), quali evitare l’eccessivo affollamento e dotare gli ambienti di adeguati sistemi di ventilazione, nonché dotarsi di sufficienti dispositivi di protezione personale. Al di là però dell’adozione di misure di sanità pubblica, è di tutta evidenza che le strutture assistenziali dovrebbero avere normalmente previsioni per il contenimento di infezioni, stante la concentrata presenza di soggetti vulnerabili. La “banale” influenza stagionale, cui la infezione da covid-19 è stata semplicisticamente paragonata di frequente, oltre alla vaccinazione per gli anziani e tutti i soggetti più vulnerabili non dovrebbe prevedere per le case di riposo e residenze sanitarie assistite protocolli di contenimento del virus una volta che si manifesti? Non è prevedibile che un focolaio infettivo virale, almeno l’influenza stagionale, si presenti regolarmente e quindi dovrebbero essere presenti spazi di “isolamento” per i casi sospetti o acclarati? Non dovrebbero essere presenti idonee scorte di presidi di protezione per il personale che presta assistenza? Per ridurre la diffusione del contagio non dovrebbero essere previsti ed attuati protocolli per le visite ai residenti? Queste domande non sono retoriche ma indicano percorsi di approfondimento per accertare eventuali responsabilità (civili, erariali e penali) che vanno al cuore della gestione della sanità e come si è visto chiamare in causa sempre più le figure gestionali che quelle delle professioni sanitarie.

Finita l’emergenza, sarà legittimo domandarsi se i presidi minimi di prevenzione in una prudente gestione fossero presenti: febbraio era l’epoca dell’atteso picco influenzale in cui il monitoraggio di decorsi influenzali anomali doveva forse essere più stretto, non solo secondo il citato piano per la prevenzione della pandemia influenzale, ma già secondo le “norme interne per la organizzazione dei servizi tecnico-sanitari” o per la

“vigilanza sulle provviste necessarie per il funzionamento sanitario ... e per il mantenimento dell’infermo”.

Non sarà una operazione facile, ma in assenza di una risposta politica adeguata, la responsabilità sanitaria, nel sistema attuale ha gli strumenti per separare la pula dal grano. Vanno però considerati i costi di questa operazione ex post. In ciò un ruolo decisivo sarà svolto dai professionisti, chiamati a vagliare con grande oculatezza preliminare i casi sottoposti alla loro attenzione, e dalla giurisprudenza nel lanciare i segnali corretti nel continuare la costruzione di questo sistema complesso di responsabilità civile che chiamiamo responsabilità sanitaria.

La solidarietà come paradigma della deterrenza e del risarcimento: due pillole per il legislatore

Sia consentito chiudere con un auspicio. Se è vero che il modello italiano di responsabilità sanitaria, con le sue contraddizioni, lungaggini e incongruenze ha in sé adeguati strumenti di reazione nel medio e lungo periodo, è anche vero che un intervento normativo potrebbe ridurne i costi di attuazione e permettere un miglioramento generale del sistema completandone la progressiva metamorfosi, riconciliando nel nome del principio di solidarietà le tensioni tra esigenze di efficienza ed economicità del sistema e necessaria garanzia di efficacia e sicurezza delle cure così che una sana gestione non debba solo condurre a rendere conto ma

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anche a tenere conto del mandato costituzionale della sanità: la tutela della salute come diritto individuale e interesse collettivo.

Oltre a dare compiuta attuazione alla L. n. 24/2017 si potrebbe prevedere la sostituzione integrale della responsabilità civile ed erariale con un fondo di indennizzo per le vittime di eventi avversi causalmente connessi all’emergenza covid-19, e solo a quelli. I modelli nel nostro stesso ordinamento non mancano certamente (dai meccanismi della L. n. 210/1992 a quelli per le vittime del terrorismo), creerebbero meno effetti collaterali rispetto alle citate ipotesi di esenzione generale e non si presterebbero a mascherare il vero tema: molti danni in ambito sanitario rimangono prevenibili con una adeguata attenzione alla sicurezza delle cure, ma questa passa da una rinnovata capacità gestionale troppo spesso declamata piuttosto che

declinata.

Questo non vuole essere l’auspicio di una nuova caccia alle streghe per la stagione post covid-19 della responsabilità sanitaria, ma solo la speranza che una buona crisi non vada sprecata e non si lasci solo alla giurisprudenza di continuare il percorso di creazione di quel modello solidaristico di responsabilità sanitaria che faticosamente ha ormai consolidato i suoi principi generali ma ancora richiede messe a punto.

[1], Padova, 2004.La Responsabilità Sanitaria. Valutazione del rischio e assicurazione G. Comandè - G. Turchetti (a cura di),

[2] Cfr. .I limiti alla rivalsa della struttura sanitaria sul medico (e del debitore sul proprio ausiliario): la suprema corte si confronta con il sistema della responsabilità civile, 1/2020, 55 ss., con nota di Alessandro D’Adda, retroCass. 11 novembre 2019, n. 28987,

[3] Si rinvia allo Speciale Responsabilità Sanitaria del n. 1 del 2020 di questa rivista per una analisi generale delle soluzioni giurisprudenziali.

[4], 2014, retro Cfr. pp. 1024-1027,La legittimità costituzionale dell'art. 139 cod. ass con nota di A. Frigerio . .Legittimo l’art. 139 cod. ass. per la liquidazione dei danni alla persona di lieve entità. Il valore del sistema rc auto ed il rischio di non chiarire quale sia, fasc. 5, 2014, c 3820B con nota di M. Gagliardi, Giur. cost.e in

[5] Sent. .La persona, le “forzose rinunce” e l’algebra: qualche considerazione all’indomani delle sentenze di San Martino 2019 1/2020 e si veda il commento di D. Amram, retroCass. 11 novembre 2019, nn. 28990, 28994, 28986,

[6] .I limiti alla rivalsa della struttura sanitaria sul medico (e del debitore sul proprio ausiliario): la Suprema Corte si confronta con il sistema della responsabilità civile, 1/2020, 55 ss. con nota di Alessandro D’Adda, retroCass. 11 novembre 2019, n. 28987,

[7] , 1/2020, 27 ss.retroCass. 11 novembre 2019, n. 28986,

[8] .L’estate dell’autodeterminazione, a San Martino 2019, 1/2020, 11 ss. con nota di Simona Cacace, retroCass.

11 novembre 2019, n. 28985,

[9] Per una lettura critica si rinvia Colpa medica, evento di danno incerto e perdita di chances., 1/2020, 85 ss.

con nota di Roberto Pucella, retroCass. 11 novembre 2019, n. 28993, [10] Cit.

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}

[11], 2010, 977ss.retro, Dalla responsabilità sanitaria al no-blame regionale tra conciliazione e risarcimento, 01/2016, 1-28; Id., Rivista Italiana di Medicina Legale’, in La Riforma della Responsabilità Sanitaria al Bivio tra Conferma, Sovversione, Confusione E...No - Blame Giurisprudenziale Si veda per la distinzione G Comandè,

[12], cit., 977 ss.Dalla responsabilità sanitaria al no-blame regionale tra conciliazione e risarcimento G.

Comandè,

[13] Non a caso l’art. 16, L. n. 24/2017 sancisce che “I verbali e gli atti conseguenti all’attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ambito di procedimenti giudiziari”.

[14]G. Lepre., 2002, I, 193, con nota diNuova giur. civ. comm.cfr. Cass., Sez. III, 16 maggio 2000, n. 6318, in informare della eventuale, anche solo contingente, inadeguatezza della struttura,1999, 294, con nota di V.

Carbone. Per l’onere di, retro Cfr. il primo caso di contatto sociale approdato in Corte di Cassazione, Cass., Sez. I, 22 gennaio 1999, n. 589,

[15] , fasc., 10 febbraio 2020, con nota di Cinzia Altomare.Ridare.itCass. 19 febbraio 2019, n. 32477, in [16] si veda Cass. 19 febbraio 2019, n. 32477, cit.Ex multis

[17] Economicità ed efficacia nel linguaggio della Corte dei Conti.

[18], 3-4, 2015, 481.Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni (Il), in La dirigenza nella sanità tra obiettivi di risultato e principi costituzionali Sul punto si veda A. Cicchetti,

[19] Il D.P.C.M. 27 giugno 1986, n. 495600 (“Atto di indirizzo e coordinamento dell’attività amministrativa delle Regioni in materia di requisiti delle case di cura private”), all’art. 27 stabilisce che “il direttore sanitario cura l’organizzazione tecnico sanitaria della casa di cura privata sotto il profilo igienico ed organizzativo,

rispondendone all’amministrazione e all’autorità sanitaria competente”; “propone all’amministrazione, d’intesa con i responsabili dei servizi, l’acquisto di apparecchi, attrezzature ed arredi sanitari [...]; ...”.

[20] Condotte “caratterizzate da colpa grave consistente nella macroscopica e ingiustificata violazione dei principi basilari che regolano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali predisposti per fronteggiare la situazione in essere”.

[21].https://www.epicentro.iss.it/ nazionale sul contagio covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie, Istituto Superiore di Sanità. Epidemia covid-19, Aggiornamento nazionale: 6 aprile 2020. Il documento è scaricabile in formato pdf dal sito Survey Cfr.

[22], 18 (2017) 564e575; J. Am. Med. Dir. Assoc., in The Asia-Pacific Clinical Practice Guidelines for the Management of Frailty Cfr., per esempio, E. Dent et al., Morley JEJ. Am. Med. , in Frailty consensus: a call to action et al., Dir. Assoc.,14 (2013) 392 e 397.

[23] http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_501_allegato.pdf.

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