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Il pittore laureato. Il ritorno a Pisa.

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Capitolo 5.

Il pittore laureato. Il ritorno a Pisa.

1- Nella primavera del 1760, all’incirca poco dopo Pasqua (che quell’anno cadde il 6 aprile), Giovanni Battista Tempesti tornò a Pisa

1

.

Controvoglia probabilmente, considerate le strategie di rinvio che aveva messo in atto: qualche piagnisteo, e la bellissima – e colta, da nato sotto Saturno - minaccia di una china depressiva che avrebbe insterilito la sua capacità creativa. Il ritorno in città del resto era anche lo specchio di una circostanza che qui conviene brevemente accennare. Se l’artista si decise ad abbandonare Roma per ottemperare alle richieste del contratto che aveva firmato nel 1757 – segnatamente a quella che lo obbligava ad aprire una scuola di pittura -, significava che non aveva maturato alcuna autonomia finanziaria. Che insomma a Roma non era riuscito a crearsi un mercato, una rete di committenze e di protezioni tali da garantirgli una dignitosa sopravvivenza.

Del resto dalle note dei biografi traspare in controluce l’asimmetria che vi fu tra la partecipazione del Tempesti alla vita accademica romana e i suoi riconoscimenti professionali, che in pratica non esistettero o furono marginali. Il “giovine” Tempesti al suo ritorno in patria giovane lo era per modo di dire: aveva 31 anni, quelli insomma dell’artista dotato di un’arte, ma anche di una parte.

Difficile dire dei dubbi tempestiani e delle sue incertezze. La morte del suo maestro Placido Costanzi non ne aveva certo reso facile la strada, e alla morte di Benedetto XIV il nuovo pontificato di Clemente XIII come è noto non si distinse per particolare attivismo sul terreno delle arti

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. Eppoi, non sono le carte a dircelo ma un cauto azzardo, la prospettiva di tornare in una città periferica ma pur sempre la seconda per importanza del Granducato di Toscana (sede del primo Studio dello Stato e tra i primi in Italia, e meta dei Tourists di tutta Europa), dove avrebbe avuto la certezza di esercitare un ruolo di primissimo piano, resero di certo più facile il ritorno, meno recalcitrante il rimpatrio.

                                                                                                               

1 Come già ricordato nel cap. 4, il 24 aprile 1760 Tempesti venne pagato dal Lanfranchi Lanfreducci per la Maddalena penitente. Dal momento che il suo protettore non indicava il quadro come spedito da Roma, è lecito ritenere che fosse stato consegnato direttamente dal pittore. Sulla data presunta del ritorno a Pisa dell’artista v. cap. 4.

2 Sul pontificato di papa Rezzonico e le Arti v. JOHNS 2000, pp. 29-31; Clemente XIII 2008.

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Nella sua nuova stagione pisana, Tempesti giunse poi col credito di qualche amicizia importante, acquisita o affinata nei comodi romani: la famiglia Venuti, che gli tornerà utile per importanti commissioni. Ma soprattutto l’ambiente vasto e diramato dell’Arcadia. Se infatti fino a ora si riteneva che l’iscrizione del Nostro alla colonia Alfea – serbatoio locale del Bosco Parrasio – risalisse agli anni Settanta, da un ponderato scandaglio di quel che resta dell’archivio romano dell’Arcadia risulta che l’iscrizione dovette risalire ad una data assai più precoce, compresa tra il 1761 e il 1766

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, appena fatto ritorno da Roma dunque, in un periodo che sembra logico circoscrivere all’incirca poco dopo il 1762, quando Giovanni Battista venne eletto membro dell’Accademia di Firenze

4

.

La circostanza riveste una certa importanza perché attesta come il soggiorno romano avesse immediatamente funzionato come motore per un’emancipazione sociale fino ad allora solo sperata.

Giovanni Battista era il primo pittore pisano a potersi fregiare di quel privilegio (neppure i Melani c’erano riusciti), che coronava un’ascesa che era stata impostata già a partire dagli anni Cinquanta, pronubo il padre, durante i contatti con la Confraternita della Buona Morte nella chiesa di S.

Giovanni, frequentata da tutto il bel mondo locale.

Agli anni dell’immediato ritorno da Roma andrà allora anticipato un interessante dipinto conservato presso le collezioni di palazzo Reale di Pisa e raffigurante l’Allegoria della Poesia (fig. 71), considerando che il tema affrontato (la gara tra la Pittura e la Poesia riunita nell’arte dello stesso                                                                                                                

3 Il nome del Tempesti come affiliato all’Arcadia compare negli elenchi manoscritti del Morei conservati nella Biblioteca Angelica di Roma, nel tomo IV delle sue carte, relative agli anni 1761-1766: BAR, Archivio Arcadia 4, Morei, Indice dei nomi arcadici seguiti dai nomi di famiglia corrispondente, t. IV [1761-1766], c. 20 v. : n. 647,

“Clinius Tesalides. Gio. Batt.a Tempesti Pisano Pittore” (v. anche GIORGETTI VICHI 1977, pp. 60, 303; SICCA 1990, pp. 278-79).

4 Giovanni Battista comincia a pagare le tasse di adesione a partire dall’ottobre del 1762 (CIARDI 1990, p. 41 n;

ZANGHERI 2000, p. 314). Nello stesso anno del prestigioso riconoscimento accademico, a conferma di un mestiere (quello appunto dell’artista) che nel Settecento era ancora ben lontano dall’essere misurato come estraneo alla pratica artigianale, Tempesti appena tornato a Pisa non eseguì per la Casa di Misericordia una complicata pala d’altare, ma uno stendardo – perduto (ASP, Pia Casa di Misericordia 314, 20.10.1762). Nello stesso anno ne eseguì anche uno per la Compagnia di S. Michele di Calcinaia (ASF, Compagnie Religiose Soppresse da Pietro Leopoldo 2588, aff. 13, c. 152, anno 1762/63). Giacché siamo in argomento ricordiamo che un altro stendardo, pure perduto, verrà dipinto dall’artista anche nel 1791 per la Confraternita pisana di S. Rocco (CIARDI 1990 c, p. 146 n.).

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Giovanni Battista, che pure si firmava nei versi sulla tela

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) si prestava benissimo a proporsi come una autentica dichiarazione di poetica, quella stessa praticata dal pittore, che poco dopo il ritorno da Roma (nel 1766,) tentò la nobilitazione del verso scritto pubblicando un sonetto

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. Una esplicita e coerente emancipazione intellettuale che verosimilmente si appoggiava all’Emanuele Tesauro della Filosofia morale, attestato dal calco di un verso nelle finte pagine aperte del dipinto (“ciò che può far la natura”) dove si evocava la capacità dell’Arte di contraffare la Natura, della Poesia di gareggiare con l’universo dei sentimenti e di contenerli in forme espressive

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. Riflessione che certo interessò Giovanni Battista per quei capitoli dedicati dal filosofo torinese alla definizione dell’idea di grandezza e di magnificenza artistica, che sembravano una giustificazione della sua educazione romana.

L’Allegoria rispecchiava allora il clima culturale respirato nell’Accademia di S. Luca e negli ambienti arcadici (degli Strozzi ?), che, fatto non secondario, si accorderebbe anche al dato stilistico, esibito da quel volto pieno e rotondo in primo piano che risentiva ancora di una disciplina tutta romana, non distante dai volti pieni e perfetti delle Madonne di Giuseppe Bartolomeo Chiari o di Agostino Masucci, e coerente con le ricerche approfondite da Giovanni Battista con i due suoi capolavori romani della Giustizia e della Misericordia, assai prossimi a questa tela.

2- Il ritorno di Giovanni Battista fu la causa del cambio di abitazione della famiglia. Non più nella parrocchia di S. Cristina, ma in quella di S. Margherita, dall’altra parte dell’Arno, nei pressi della chiesa di S. Frediano, in quella casa dove la famiglia venne registrata giusto a partire dal 1761

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. La famiglia dove Giovanni Battista si trovò ad abitare dopo tre anni era infatti piuttosto articolata. Era composta dai genitori, dal fratello Ranieri – ormai quattordicenne -, e dall’altro fratello più anziano,

                                                                                                               

5 Il dipinto è stato fino a ora ritenuto opera degli anni Ottanta (Ciardi 1990 c, pp. 130-31, 147 n.). Sul libro aperto compare l’iscrizione: “A noi sì vani/mirar fa la pittura/quant’io so dir ciò che può far la natura/I’ son Tempesti” (Da Cosimo III 1990, p. 80, scheda di R. P. Ciardi).

6 Su questo cfr. nota 51.

7 TESAURO 1704 p. 522. Si tratta nello specifico del Libro VII: “Della Magnificenza et de’ suoi estremi”: Id., pp. 161- 89.

8L’anno precedente non si era fatto in tempo a registrare il cambiamento perché gli Stati d’Anime venivano come è noto aggiornati prima di Pasqua, e Giovanni Battista era tornato a Pisa per l’appunto dopo le festività. Il merito di aver individuato la “casa Tempesti” in quella tra via Tavoleria e via del Castelletto spetta a NOFERI 2003 a, p. 260.

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Carlo, che vi abitava con la moglie e due figli, oltre ovviamente alla “serva”, la cui presenza indicava una seppur minima agiatezza

9

.

Il vasto edificio, non di proprietà ma preso a livello, esiste ancora all’incrocio di via Tavoleria e via del Castelletto, e ad un primo esame rende credibile l’ipotesi

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sulla necessità della famiglia di dotarsi di un edificio capace di ospitarne i membri, ma anche di ricavarvi uno spazio sufficientemente grande per trovar posto allo studio di Giovanni Battista, che dovendo ospitare una scuola, necessitava di volumi generosi.

L’edificio nei vari Stati d’Anime venne spesso segnalato col nome della famiglia dell’artista (“casa Tempesti”), ma talvolta anche con un altro, che indugiava non sulle anime che vi abitavano, ma su quelle che ne detenevano la proprietà: “Casa Ruschi”

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.

Il palazzo, nonostante avesse un aspetto quasi da palazzo nobiliare, con le finestre incorniciate, un portone sormontato da una lunetta, un vasto androne e scale dignitose, non risulta sia mai stato abitato dall’importante famiglia pisana, che semplicemente lo avrà contato tra le proprie vaste proprietà immobiliari. Tuttavia la concessione in affitto del palazzo ai Tempesti fu da interpretare come il riconoscente segno di una stima e di una piena soddisfazione da parte dei proprietari nei confronti dell’ormai anziano Domenico, che aveva dipinto a più riprese parti significative del loro palazzo magnatizio.

Ecco allora che alla luce di queste vicende il cambio di casa dei Tempesti acquisì un senso nuovo e per nulla strumentale. Non rivelava insomma solo la necessità crescente di una famiglia e l’ansia di una maggiore rappresentatività, ma tradiva anche l’indizio di un rapporto rinnovato con una delle più importanti casate cittadine, reso ben disposto proprio dai legami appena instaurati dall’impresa degli affreschi nella loro Pontificalis Domus.

La nuova abitazione dei Tempesti diventò per la famiglia un punto di arrivo, che i due pittori concepirono apertamente come una sorta di controcanto di quella magnifica residenza magnatizia dei Ruschi, sulle cui pareti avevano concluso il ciclo degli Elementi iniziato dal Veracini. Nella loro                                                                                                                

9 ASDP, chiesa di S. Margherita, Stati d’anime, 8: n. 59.

10 NOFERI 2003 a, pp. 259-60.

11 Nel 1862 negli stessi registri degli Stati d’Anime l’abitazione venne per l’appunto indicata come “casa Ruschi” (che l’avevano a loro volta acquistata dai Raù): NOFERI 2003 a, p. 260. Nella successione delle Visite è possibile seguire almeno fino al 1767 (ultimo registro disponibile) lo sviluppo della famiglia, segnata dalla nascita di numerosi figli di Carlo, dalla morte di Domenico e dall’aumento della servitù.

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nuova abitazione, i Tempesti dipinsero infatti un ciclo di affreschi composto da cinque volte di altrettante stanze, raffiguranti per i Quattro Elementi e l’Allegoria della Pace

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(figg. 81).

I cinque affreschi non sembrano tradire interventi significativi da parte del padre, di cui del resto non sono note opere oltre il 1762 nonostante la morte lo abbia colpito nel 1766, e che fanno ipotizzare una redazione degli affreschi intorno al 1770. La coniugazione stilistica segna poi una netta emancipazione da quei modelli fiorentini frequentati dal padre fino agli anni Cinquanta (gabbianeschi e dandiniani in specie)

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, per avvicinarsi in modo franco a forme di più quieto e denaturato classicismo, che il figlio aveva indagato durante il soggiorno romano, e con un’adesione a modelli lutiani (specie nelle scelte cromatiche, dai toni quasi pastello), sui quali aveva avuto modo di riflettere negli anni appena trascorsi. Circostanza stilistica che trova conferma nell’unico foglio del Tempesti per questa impresa che ci è stato possibile individuare, uno studio tenue ed elegante della figura dell’Allegoria della Pace (fig. 81.1), siglata secondo le corde di un classicismo denaturato e da manuale, ma mitigato da un patetismo accostante e con un filo di mestizia

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.

La levità degli incarnati, quei sorrisi agrodolci messi di sbieco, i putti lievi e come perduti nel volo, costituiscono già tutto il futuro vocabolario di Giovanni Battista e il suo modo di declinarlo, così come le atmosfere rasserenate e talvolta festevoli. C’è in questi ovali come una deduzione non estranea a Vincenzo Meucci (nei trionfi tenui e incapricciati della cupola fiorentina di S. Lorenzo), e perfino una meditata propensione per certi nudi di Giovan Domenico Ferretti

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, e una pari attenzione verso gli incoscienti sottinsù di Sebastiano Galeotti, che aveva riempito di bellissimi affreschi i confini limitrofi di casa Tempesti

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. A tradire però il soggiorno romano di Giovanni                                                                                                                

12 BURRESI - MORESCHINI 2008, p. 254; Il Settecento 2001, p. 106, scheda di B. Moreschini.

13 C’è da chiedersi poi se le scelte di colori tenui e gradevolmente aggraziati, non costituisca anche il risultato di un rinnovato interesse per Domenico Piastrini, che Giovanni Battista ebbe ovviamente occasione di studiare a Roma (v. ad esempio l’intervento in S. Clemente) ben oltre le tele che aveva lasciato a Pisa, sulle quali, come abbiamo visto nel cap.

3, aveva riflettuto già prima del pensionato.

14 Il disegno, che nella grafia assolutamente tempestiana consente di fissare in modo certo l’autografia del ciclo alla mano di Giovanni Battista, presenta tre studi della Pace pressoché identici all’affresco, anche se stesi in controparte. In basso esiste lo studio per la testa del leone poi dipinto nel medesimo ciclo nella volta raffigurante La Terra. Per il disegno cfr. Christie’s 1998, pp. 154-55, n. 159.

15 Giova ricordare che il Ferretti aveva dipinto i soffitti di due stanze di palazzo Quarantotti (v. cap. 2), posto quasi di fronte all’abitazione dei Tempesti.

16 Pensiamo soprattutto alle volte del salone di palazzo Quarantotti (v. cap. 2), ma anche alla volta del convento di S.

Frediano, da poco riemerso da sotto l’intonaco, raffigurante la Gloria di S. Paolo, di livello modesto, ma parimenti interessante per lo studio degli scorci prospettici delle figure in volo (per l’attribuzione dell’affresco v. TITI 1751, p.

130).

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Battista vi sono gli atletismi prospettici di alcune figure (v. ad esempio Il Fuoco), e la loro salda intelaiatura anatomica, al corrente della pittura di Mengs (e uscita dai fogli di un pittore educatosi alla Scuola di Nudo di Roma), ma anche la meditazione sulla statuaria antica (l’abbandono riverso della Pace, che mima in controparte quello della celeberrima Cleopatra vaticana), e un riflesso delle atmosfere meno cupe di Domenico Corvi, come nel bellissimo Ritrovamento del corpo di Mosè di S. Marcello al Corso, dipinto proprio alla partenza di Giovanni Battista da Roma. Sebbene le due figure isolate in volo al centro degli ovali dell’Aria e del Fuoco facciano pensare ai dispositivi prospettici delle cupole correggesche, capace di suggerire un’un’attenzione verso l’Allegri forse meditato attraverso l’eco dei Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei, pubblicati da Mengs a Zurigo nel 1762

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. Sarebbe certo suggestivo, anche se non comprovato dalle fonti, pensare che quando il pittore boemo sostò a Pisa di ritorno dalla Spagna nel 1771 (“sì emaciato e di sì lurido colore” da costringere Angelo Fabroni “a pianger la perdita dell’amico”

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), abbia potuto vedere queste volte, forse appena dipinte.

Il pronunciamento di un giudizio definitivo sui cinque ovali è comunque compromesso dalla loro almeno apparente incongruità (non si capisce infatti in quale rapporto l’Allegoria della Pace stia col resto del programma), al punto che non è da scartare l’ipotesi che fa di quello che sopravvive solo una parte di un ciclo che dovette essere ben più ampio, in origine completato da possibili espansioni lungo le pareti laterali. Giovanni Battista aveva nel frattempo inaugurato la propria bottega nei fondi a piano terra del medesimo palazzo, e l’aiuto di qualche allievo forse sarà servito a mettere mano a quadrature ed episodi secondari, che avrebbero di certo reso più chiaro il programma                                                                                                                

17 Allo scopo d’indagare la ‘fortuna’ pisana di Mengs negli anni del ciclo di affreschi tempestiano, andrebbe approfondita la circostanza della pubblicazione da parte dell’avvocato pisano Antonio Francesco Raù assieme a Modesto Rastrelli della Serie degli uomini i più illustri nella pittura, scultura e architettura, uscita a Firenze in 12 volumi dal 1769 al 1775, nel cui quinto volume – uscito nel 1772 -, pubblicò una lunga biografia del Correggio scritta da Mengs (PERINI 2001, pp. 470-71).

18 “Giornale de’ Letterati”, t. XLI, 1781, pp. 118-72: recensione non firmata (ma attribuibile ad Angelo Fabroni) a Opere di Antonio Raffaelle Mengs Primo Pittore della Maestà di Carlo III […], di Giuseppe Niccola d’Azara, Parma 1780. Secondo Fabroni, Mengs in Spagna lavorò tantissimo, “e questo tenor di vita oppresse talmente la sua salute, che alla fine il Re [di Spagna] condiscese a permettergli di ritornarsene a Roma”. “Chi scrive lo rivide nel marzo del 1771 in Pisa sì emaciato e di sì lurido colore, che cominciò fin d’allora a pianger la perdita dell’amico, che avrebbe voluto trattenere presso di se non solo per tributargli gli officj d’una tenera e rispettosa amicizia, quanto per allontanarlo dall’occasioni di lavorare in Roma” (v. p. 133). Fabroni e Mengs, come è noto, di lì a poco furono protagonisti di una dotta polemica a proposito del gruppo di statue dei Niobidi, a testimonianza di un rapporto intellettuale e umano che fu franco, corretto e rispettoso: FABRONI 1779; MENGS 1783, pp. 15-28.

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d’insieme. Ma un elemento almeno sembra gettare una luce significativa nell’identificazione del senso delle scene, nonostante le probabili mutilazioni. Nelle scene sono presenti tutti gli elementi costitutivi del blasone gentilizio dei Ruschi: la bandiera percorsa da bande rosse e bianche, l’aquila, il leone. Una conferma dunque dei legami dei Tempesti con la nobile famiglia pisana, e su come il ciclo dovesse in qualche modo esprimere l’esaltazione di questa, e i singoli episodi un emblema di glorie e valori.

Questo ciclo di affreschi, seppur precoce, non fu comunque la prima impresa affrontata dal Tempesti appena tornato a Pisa. La prima fu nel 1760 la commissione del nuovo telone del Teatro del palazzo priorale, in sostituzione del precedente, lacero, dipinto da suo padre

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. Anche questo sipario non esiste più, ma è ugualmente importante perché segnò l’esordio di Giovanni Battista nel campo della scenografia teatrale, che rivestì nella sua carriera un ruolo non marginale e che trovò felici raggiungimenti anche nella progettazione di ricchi apparati festivi eretti in occasione di feste religiose (nella chiesa dei Cavalieri e in quella di S. Donnino in particolare

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).

L’esordio nel 1760 nel teatro cittadino fu importante anche perché scorrendo i protocolli del lavoro attraverso le identità dei suoi interlocutori emergeva la cerchia delle protezioni di cui l’artista cominciava a godere appena tornato da Roma. Uno dei committenti dell’impresa teatrale fu Camillo Ruschi, membro di quella famiglia che era stretta da profondi vincoli professionali a suo padre e alla sua famiglia. L’altro, il giureconsulto Flaminio Dal Borgo, il “novello Muratori” di Pisa (fratello di quel Pio ben conosciuto dai Tempesti per i lavori nella villa di Pugnano), che nel 1761 pubblicò il primo volume delle sue Dissertazioni sopra l’Istoria pisana, ornate da eleganti panoplie tempestiane e, soprattutto, da un bellissimo frontespizio inciso all’acquaforte da Veremondo Rossi su disegno del Nostro, raffigurante una malinconica Allegoria di Pisa

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(fig. 47). Un disegno assai                                                                                                                

19 Il sipario venne consegnato però nel 1761: ASP, Comune D 110, c. 81, 9.12.1760; c. 92, 28.2.1761.

20 Nel 1765 venne coinvolto per l’esecuzione del Ritratto di Francesco Stefano, da porre sul suo catafalco in occasione delle solenni esequie funebri nella chiesa dei Cavalieri di S. Stefano, ma non sappiamo con quale esito (ASP, Ordine di S. Stefano 1999, cc. 18-9, 30.9.1765, lettera di Pio Dal Borgo ad Antonio Marmorai, auditore dell’Ordine). Nel 1767 fu

“Direttore della paratura e ornamenti della chiesa” di S. Donnino del convento dei Cappuccini in occasione della beatificazione di Serafino da Montegranaro (ASD, Fondazione del Convento di Pisa, c. 20; “Gazzetta Toscana”, n. 37, 1767, p. 156; RENZONI 1997, p. 165 n.). Nella stessa chiesa nel 1783 progettò un apparato in occasione della beatificazione di Lorenzo da Brindisi, “tutto quanto di carta, e paglia” e durata ben tre giorni (ASD, Fondazione del Convento di Pisa, c. 20; “Gazzetta Toscana”, n. 47, 1783, p. 187; RENZONI 1997, p. 165 n.).

21 DAL BORGO 1761. Eccezion fatta per il frontespizio, i disegni del Tempesti furono poi incisi da Antonio Gregori. I fregi e le vignette nella loro quasi totalità vennero ripubblicati dal Tempesti nella Descrizione delle pompe funebri organizzate nella Conventuale stefaniana in onore di Francesco Stefano (v. TADDEI 1765) (figg. 62).

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importante, non solo per la qualità inventiva, ma anche perché il tema della città vista come una donna trionfante sul mare riannodava i propri fili a quella tradizione di raffigurazione del dominio militare di Pisa ben esperito a partire dagli affreschi della sala delle Baleari di fine Seicento

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, ma che più in generale esprimeva tutta quella volontà di dare giustificazione filologica alle ricostruzioni di Paolo Tronci (e a quelle che circolavano manoscritti di Brandaligio Venerosi), che nel testo del Dal Borgo apriranno la strada di lì a poco alla grande riscoperta del medioevo pisano.

Con questi accrediti, in occasione delle feste in città per il nuovo Granduca Pietro Leopoldo (1766), Giovanni Battista dipinse la volta del teatro priorale (la circostanza non è chiarissima) con

“l’Abbondanza, che con una mano teneva in alto il ritratto del Gran Duca e dall’altra versava frutti e fiori; e la religione di S. Stefano vestita coll’abito del proprio ordine, che pareva implorasse grazie dal […] sovrano, e v’erano intorno vari Puttini allusivi al soggetto”

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. Dell’impresa ci resta solo un bel disegno

24

(fig. 70.1), che mostra come il pittore sapesse ormai perfettamente adeguarsi al clima medio della cultura figurativa toscana, con una scena che rileggeva le grandi macchine celebrative del Gabbiani (v. la grande volta di Poggio a Caiano), con un segno sprezzato e sicuro di sé, e già abbreviando il tono drammatico di una scena devozionale e fitta di sovrasensi politici, con quella ridda di putti e di capelli al vento che diventerà una delle sue cifre espressive più ricorrenti

25

.

                                                                                                               

22 Ovviamente in siffatto contesto rientra anche uno dei capolavori giovanili di Benedetto Luti, quella Repubblica di Pisa nell’atto di ricevere la regina di Maiorca, che è stata recentemente ritrovata, sebbene la sua totalmente diversa impostazione escluda un tentativo di emulazione e di confronto diretto da parte del Tempesti (v. HUGHFORD 1762, pp. 54-7; BOWRON 1979, p. 67; AMBROSINI 1998, p. 181, ma soprattutto MAFFEIS 2012, pp. 282-84).

23 Per la descrizione della festa v. SEGRE’ 1902, p. 41 (ma anche SEGRE’ 1922, p. 29), dove si attesta come Tempesti avesse nell’occasione collaborato col quadraturista Mattia Tarocchi, che aveva dipinto “quattro gran pilastri color di lapislazzaro con basi e capitelli dorati”.

24 Il disegno ora nella collezioni del Louvre, schedato come l’Allegoria della Pace con gli emblemi dell’Ordine di S.

Stefano (MONBEIG GOGUEL 2005, p. 390), reca in basso la seguente iscrizione: “Di Giovanni Tempesti, dipinto a tempera in tela nel Salone del Consiglio dell’Ordine di Santo Stefano”. Secondo parte della critica il disegno a dispetto dell’iscrizione deve mettersi in relazione alla decorazione della volta del teatro, in occasione dell’ingresso dei sovrani (TONGIORGI TOMASI – TOSI 1990, pp. 308-10). La studiosa francese ha avanzato invece delle perplessità, ritenendo che potesse essere il disegno per un dipinto eseguito da Tempesti per il salone del Consiglio dei Dodici dei Cavalieri stefaniani (v. anche Acquisitions 1990, pp. 90-1). La questione resta aperta, ma riteniamo che sia davvero possibile che questo sia il disegno per il dipinto del teatro, dal momento che rispecchia nelle sue linee fondamentali la descrizione documentaria riportata dal Segrè, e perché non si hanno notizie di quadri analoghi eseguiti dal Tempesti per i Cavalieri di S. Stefano.

25 Per una panoramica sulle decorazioni teatrali, argomento impossibile da puntualizzare per la mancanza di rendiconti figurativi, ma degno almeno di una menzione allo scopo d’indicare il ripetuto interesse in materia del Tempesti, resta da

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Queste prime attività in campo teatrale servirono a Giovanni Battista anche per affinare il suo rapporto col quadraturista Mattia Tarocchi, che come visto altrove poteva addirittura risalire agli anni precedenti la sua partenza per Roma, agli affreschi sulle pareti della chiesa dei SS. Jacopo e Filippo, ma che si precisò in modo fondamentale in queste esperienze spettacolari.

Allievo dei fratelli Melani, coetaneo di Giovanni Battista (ma morto precocemente nel 1783), autore di scenografie, macchine per le Quarantore, d’imponenti apparati per la luminara

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, aggiornato sulla pubblicistica architettonica, Mattia costituì ben presto uno strettissimo sodalizio con Giovanni Battista, esattamente sul modello di quello che aveva legato il padre a Jacopo Donati.

Di tutto questo lavoro congiunto della fine degli anni Sessanta non ci resta più nulla – essendosi in gran parte attuato in opere concepite come effimere - a meno di non voler attribuire alla loro collaborazione un’impresa di grande rilevanza, purtroppo distrutta ma di cui resta almeno un’inedita documentazione fotografica: il ciclo di pitture che gli artisti eseguirono in palazzo Alliata, già esistente nel quartiere di S. Andrea

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. La volta, raffigurante L’abbraccio tra la Pace e l’Amicizia (fig. 84), non è purtroppo ricordata nel lacunoso archivio di famiglia conservato presso l’Archivio                                                                                                                

ricordare che per lo stesso teatro nel 1785 egli eseguirà un nuovo sipario su incarico dei Prini (FROSINI 1981, p. 153).

Chissà se sia stato proprio questo il “gran sipario dipinto a tempera”, che venne poi “un intelligente inglese comprò e collocollo ad’ un di quei teatri in Londra”: CIAMPOLINI 1993, p. 167, biografia di Tempesti di B. Benvenuti. Per rimanere sugli interventi del Tempesti legati ad occasioni spettacolari, occorre ricordare che i Prini si avvalsero delle sue prestazioni anche per circostanze assai più basse e ludiche, come “la pittura, disegno, e assistenza” della nuova bandiera dei Delfini per il Gioco del Ponte (ZAMPIERI 1999, p. 380). Merita poi di essere ricordata la responsabilità organizzativa che il Nostro ebbe nel 1785, quando in occasione della visita a Pisa dei reali di Napoli progettò il gran ballo ufficiale nel teatro dei Prini: DAL CANTO 1992, p. 28 (ma sulle feste v. AGOSTINI FANTINI VENEROSI 1785).

26 Mariti lo dà morto nel 1780 a 50 anni (MARITI 2001, p. 58), sbagliando sulla data di morte, ma confermando che la nascita dovette avvenire intorno al 1730. Per le macchine per le Quarantore, sulle quali Tarocchi poté cominciare a riflettere quando era ancora nella bottega dei Melani, v. POLLONI 1837, p. 54. Sugli apparati per la luminara cfr.

BARSANTI 2001, pp. 147-48. Per la sua morte, occorsa il 7 marzo 1783 nella cura di S. Sisto: RASARIO 1980, p. 180.

Tarocchi conobbe l’onore di un non banale necrologio sulla “Gazzetta Toscana” (n. 11, 1783, p. 44), dove venne giudicato “celebre pittore di Prospettiva, e di Architettura”, e morto per “un male di vescica”, dove con un gusto per le curiosità naturali davvero tipico del secolo dei Lumi, molto s’insisté sul fatto che il chirurgo Luigi Gherardi (amico e collezionista di quadri del Tempesti) vi poté trovare “una rossa pietra ovale del peso di venti once”.

27 Palazzo Alliata venne distrutto nel 1939 (e non, come spesso si ritiene, dalla guerra), per far posto al nuovo palazzo di Giustizia. In occasione del sopralluogo prima della distruzione, i tecnici della Soprintendenza valutarono l’ipotesi di operare lo strappo degli affreschi del Tempesti. Non se ne fece però di niente e tutto andò distrutto (NIGLIO 2007, pp.

250-52).

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di Stato di Pisa, ma solo in modo assai vago da qualche fonte storica, sì che risulta piuttosto difficile stabilirne una collocazione cronologica, che sarà comunque da ritenere non oltre il 1773

28

. La sostanziale laconicità delle quadrature (ridotte ad una ‘semplice’ balaustra, quasi la prova generale di soluzioni ben altrimenti approfondite del Tarocchi) ne consigliano una datazione precoce, intorno agli affreschi eseguiti da Giovanni Battista nella propria abitazione. L’ampio gesto della Pace rammenta quella di casa Ruschi, così come la spaziosa collocazione delle figure mal si concilia con gli affollati consessi della piena maturità. Fu opera assai elegante, e le due figure principali già così pienamente tempestiane, con quegli incarnati sottili e i profili levigati, e le ombre appena appoggiate sui panni e le rughe.

3- La Pisa dei primissimi anni Sessanta, tra Francesco Stefano e Pietro Leopoldo, era una città ricca d’incontri e di possibilità. Nel 1764 vi morì Francesco Algarotti, uno dei più grandi poligrafi del secolo, dal naso impostato e aquilino, i modi cortesi e ficcanti, la parrucca con la cipria sopra e un accento veneto che doveva fare tanto signor mio e ricordare in alcuni la voce di Carlo Goldoni.

Morì nella sua casa di via S. Maria, quasi sul lungarno, dove Mario Tesi aveva preso a dipingere per dilettarlo nei lunghi pomeriggi declinati sulla fine

29

. Ma in quell’ “appartamentino, che non                                                                                                                

28 In una carta sciolta dell’archivio si legge quanto segue: “Lo sfondo dipinto da Gio. Batt.a Tempesti in casa dell’Ill.mo Sig.re Cav.re Conte Agliata. Rappresenta La Pace, e l’Amicizia, che si abbracciano; e la Virtù in genere; v’è un Putto vestito co’ colori dell’emblema dell’arme di casa Agliata; perché à così vuoluto il Pittore, esprimere il genio della medesima; che da gran tempo possiede le suddette virtù, e però v’à espressa la Fama in atto di divulgare, gli Elogi di ciascuni degli individui di questa illustre famiglia” (ASP, Alliata 118). E’ possibile che l’affresco debba essere messo in relazione al matrimonio di Tommaso Alliata Campiglia con Margherita Vaglienti (del 1753) che comportò ristrutturazioni al palazzo (ASP, Alliata 354). Sull’affresco non si è mai andati oltre qualche sintetica citazione, come in Da Morrona 1812 , II, pp. 546-53; FROSINI 1981, p. 161; RASARIO 1990, p. 184 n.; CIAMPOLINI 1993, p. 167, biografia di Tempesti di B. Benvenuti.

29 Sui dipinti del Tesi (scomparsi o scialbati) v. Raccolta 1787, p. IX. L’11 aprile 1764 Algarotti chiamò a Pisa il pittore bolognese, temendo di essere prossimo alla morte. Arrivato a Pisa, “per compiacergli, dacché non d’altro mostrava il Conte maggior contento, e sollievo, che di vederlo dipingere, prese colà ad ornargli la camera medesima ove egli giacea infermo […];[…] ma non poté giungere a terminarla, perché vana riuscendo ogni arte, dovette in fine esso Algarotti cedere al comun destino”. E’ assai probabile che l’Algarotti (incapace “di reggersi in piedi né punto né poco”) assistesse alle sedute pittoriche di Maurino allietato dalla musica di Filippo Maria Gherardeschi, che aveva portato “in casa sua un Gravicembalo”, dove il conte gli faceva “suonare e cantare qualche Cantata di Benedetto Marcello, o di altro qualche simile buono autore”: BARANDONI 2001, p. 278 (lettera del Gherardeschi a padre Martini del 5.4.1764).

Il 26 aprile (ivi, p. 279) il conte era ormai morente: “è andato sempre peggiorando a segno che non ammetteva più nella

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cangerei col palagio Pitti o con quello di Versaglia, [e] dove il sole nasce e muore”

30

, aveva scritto lettere al mondo intero, e vi si diceva felice, e visitava la città, e s’imbambolava di fronte – anzi sotto – la volta della chiesa di S. Matteo affrescata dai Melani, fino a meravigliarsi della rustica abitudine dei Pisani di tenere appesi alle pareti di casa “in luogo di quadri […] gran mazzi di paternostri o pallottole di corallo di varia grandezza e di varj gradi di tinta …”, e “come noi diremmo: vedi là il bel Tiziano, il bel Raffaello; ed essi dicono: guarda quello schiuma, quel fior di sangue come brillano …”

31

. Nel testamento che l’Algarotti firmò a Pisa emerge il profilo di un intellettuale che più settecentesco non si può: lasciò ritrattini, un cammeo, porcellane con

“figurine”, scatole d’oro e di smalti, ma anche due dipinti dell’amatissimo Tiepolo, che, posti in un appartamento dove per l’appunto era passata tutta Pisa – come lui stesso scrisse -, con tutta probabilità furono visti anche da Giovanni Battista

32

, se è vero che come vedremo questi coltivò rapporti di confidenza e di stima con almeno uno degli artisti vicini al conte, e suo corrispondente anche durante i frangenti pisani.

Era insomma provincia dolce e defilata, e quando giusto negli anni del rimpatrio del Tempesti, nel novembre del 1760 Giacomo Casanova vi sostò per la prima volta come al solito fuggitivo, comprandovi una “bellissima carrozza a due posti” (di più ovviamente non servivano, all’intraprendente rubacuori), rimase perplesso dallo strabismo di Venere quando si vide tentato dallo sguardo “strabo” della poetessa Maria Maddalena Morelli, una donna vera e non letta sui libri,

                                                                                                               

sua camera altro che questo Monsignore Arcivescovo e altri suoi confidenti, avendo ricevuto con gl’altri sacramenti anche quello dell’estrema unzione”. Morirà pochi giorno dopo, il 3 maggio 1764.

30 ALGAROTTI, 8, 1792, pp. 327-28.

31 ALGAROTTI, 8, 1792, pp. 333-34; sulla chiesa di S. Matteo: “Una chiesa fanno qui vedere a’ forestieri, come un monumento in questo genere del valor pisano. La volta è dipinta a quadratura e a figura da due fratelli detti Melani.

L’accordo che vi ha tra essi è perfettissimo. Gran danno sarebbe stato, se l’uno avesse dipinto senza l’altro […]. Il tenore di questo dipinto è meraviglioso, e veramente ci si vede quello che dice il Vasari che i di sotto in su ben fatti bucano le volte”.

32 Sul testamento dell’Algarotti DA POZZO 1963-64; cfr. anche ASP, Gabella dei Contratti 276, c. 41, 24.5.1764. Sul soggiorno pisano dell’Algarotti nell’Ottocento fu scritta anche una sorta di cronaca, a cavallo tra rendiconto storico e ricostruzione narrativa, totalmente dimenticata dalla critica e che conviene invece ricordare come curiosa testimonianza di storia della cultura: TRIBOLATI 1891. Sugli ultimi anni pisani dell’Algarotti e l’edificazione del suo monumento in Camposanto, cfr. GARST 2005 (con ampia bibliografia precedente). Quanto ai due Tiepolo, occorre aggiungere che per via testamentaria furono donati dall’Algarotti a Cosimo Mari, funzionario granducale abitante a Pisa (ma su questo v. infra, cap. 7).

(12)

 

e che pure meriterà un ritratto di Pietro Labruzzi

33

. Non che si voglia indurre la convinzione di un qualche rapporto tra il gentiluomo veneto e il pittore pisano, ma certo quando qualche tempo dopo Casanova intercettò la strada del fratello di Giovanni Battista, Ranieri, gli incontri furono forse preparati da conoscenze pregresse

34

.

Gli anni Sessanta furono però attraversati anche da un lutto significativo per la città: la morte del Primo Ministro della Cancelleria dei Cavalieri, il poeta Ranieri Bernardino Fabri, avvenuta nell’agosto del 1767. Come abbiamo fatto cenno in un precedente capitolo, il Fabri si è ricavato una nota a piè di pagina nella storia letteraria italiana per essere stato il più amico tra gli amici pisani del Goldoni, al punto che questi gli dedicherà l’Arlecchino servitore di due padroni. Fu verseggiatore – poeta è attribuzione che pare eccessiva – piuttosto impegnato, e recitò comunque un ruolo di primo piano nei salotti letterari pisani di gran parte del Settecento, dal momento che la morte lo colse a 91 anni

35

. Il suo decesso non costituì certo un danno per la cultura toscana, ma ebbe la conseguenza di mettere in crisi delicati contrappesi politici e diplomatici, considerando che il Fabri per moltissimi anni aveva rivestito la carica di vice-custode perpetuo della colonia Alfea. La sua morte, spezzando equilibri evidentemente assai delicati e che oggi, in mancanza dell’archivio della colonia, è assai difficile ricostruire, mise in profonda dfficoltà gli Alfei, provocando un pandemonio cui sarà posto rimedio solo dopo circa molti anni: fino a quando Ranieri Tempesti non vi mise le mani, la colonia Alfea cessò in pratica di esistere

36

.

Eppure, in quegli anni Sessanta che videro il ritorno del Tempesti a Pisa, quando per le sue strade si aggirava un attonito Alessandro Verri, sorpreso di trovarsi “in mezzo de’ pazzi”

37

, il clima culturale manteneva alcuni punti fermi significativi. Nel 1761 era iniziata la pubblicazione delle citate Dissertazioni sopra l'istoria pisana di Flaminio Dal Borgo

38

, formidabile strumento per la

                                                                                                               

33 CASANOVA, II, 1894, p. 860. La poetessa era nota col nome arcadico di Corilla. Sottilineava perfidamente Casanova che ella non lo affascinò né “con il suo canto né la sua bellezza, ma con le graziose cose che diceva in buoni versi e in perfetto italiano. Era straba. Proprio come gli antichi raffiguravano Venere, cosa di cui non ho mai potuto capire la ragione, giacché una dea della bellezza che guarda storto mi è sempre parsa un’incongruenza”.

34 Sugli amori contesi tra Giacomo Casanova e Ranieri Tempesti, v. qui cap. 7.

35 Sulla sua morte v. “Gazzetta Toscana” n. 35, 1767, p. 148.

36 VACHETTA 1920, pp. 96-7.

37 Si tratta di un brano di una lettera scritta da Pisa da Alessandro al fratello Pietro il 26.4.1767, ora in VERRI 1923, p.

352.

38 DAL BORGO 1761.

(13)

 

riscoperta approfondita e consapevole dell’identità medievale pisana

39

, che fu un’impresa davvero importante, specie se vista in senso prospettico, perché tesa a fornire dignità culturale ad una città che nei viaggiatori stranieri a partire almeno da Montfaucon (e fino almeno a Ludovico Bianconi) aveva stimolato solo la ricerca, peraltro frustrata, delle antichità romane

40

. In questo senso non è allora forse stata fatta troppa giustizia a quella pur non straordinaria guida di Pisa di Pandolfo Titi, la prima ad essere stampata, ricca certo di giudizi frettolosi, lacune e perfino errori belli e buoni, ma che aveva rivelato l’emergere di una mentalità nuova: perché finalmente s’intendeva proporre all’attenzione dei viaggiatori, ma anche degl’intendenti pisani, una città fatta di antico e di moderno, come di una storia artistica senza pause ed in continuo divenire

41

. Una storia per giunta profondamente laica, come punto di vista e approccio tematico, se è vero che le descrizioni appena precedenti (come le descrizioni delle sole chiese di Pisa redatte nel primo Settecento da Ottavio D’Abramo e Mario Del Mosca

42

), si erano limitate ad un punto di vista strettamente legato alla storia ecclesiastica della città e alla sua vicenda religiosa, dove l’antiquaria era uno strumento ritenuto valido solo per le ispezioni dei corpi santi.

Eravamo insomma, tra Cinquanta e Sessanta, nel fuoco di una profonda rivoluzione culturale, ad un passo dagli studi del Da Morrona (e di Ranieri Tempesti), ma anche, su di un piano generale, da Girolamo Tiraboschi. L’approfondimento della storia locale non diventava storia marginale, ma strumento per guardare in modo nuovo quella ‘nazionale’. Non a caso allora Flaminio Dal Borgo adottò un metodo di ricostruzione storica apertamente muratoriano, che tendeva ad allontanarsi dall’erudizione estetizzante di tanta letteratura locale, diversamente attenta alla suggestione del pezzo raro, allo scavo meramente antiquariale o alla storia sacra. Quando le Dissertazioni erano ormai in fase avanzata d’incubazione, e se ne parlava come di un’opera d’imminente uscita con le incisioni del Tempesti, le “Novelle Letterarie” ne parlarono come di un’opera fondamentale con motivazioni considerevoli, dal momento che si riconosceva come “La connessione, che ha l’Istoria di Pisa non solo coll’Istoria della Toscana, ma di tutta l’Italia”, “rendono l’erudita impresa […] non solo utile, ma necessaria, specialmente agl’Italiani bramosi di conoscere le gesta de’ loro maggiori,

                                                                                                               

39 MILONE 2004, pp. 251-65.

40 Su questo v. le fondamentali pagine di MILONE 2004, pp. 264-70.

41 Per la guida v. TITI 1751. Per una lettura della guidastica pisana restano ancora insuperate le pagine di Pisa: tre secoli di guide 1977. Recentemente le guide pisane sono tornate al centro degli studi come in PELLEGRINI 2008;

SALANI 2009; SALANI 2009 a.

42 SICCA 1990, p. 217.

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e la Istoria della propria Nazione”

43

. La storia locale dunque come gora di quella generale: “La storiografia locale o settoriale non ha quindi solo l’importante funzione di preparare tasselli in vista di un loro futuro (e un po’ meccanico) assemblaggio […], ma è anche valida e compiuta in sé stessa, per la capacità che ogni storia particolare ha di contenere […] tutta la storia”

44

.

Come anticipato, grande ruolo svolgeva in città la colonia Alfea, e il pastore Tempesti (alias Clinio Tessalideo), non mancò certo di trarre partito dai circoli letterari che vi facevano riferimento. E vi si conformò probabilmente anche sotto la lente di un ripensamento della propria lingua figurativa, dove per arcadico si fosse inteso non solo il sentimento aggraziato, ma anche una sorta di didascalia degli affetti, di ostensione dello spettro emotivo atto a trovar specchio nel riguardante, che fu, come è noto, materia centrale nella riflessione di Gravina, ma che ebbe tracce consistenti anche nel Crescimbeni, attento ad evocare i miti fino a farne una chiave per una pedagogia estetica che fu a metà strada tra svagata penetrazione nei miti e ammonimento morale: docere et delectare.

Una storia della colonia Alfea è ancora da scrivere, ma per il nostro discorso non è difficile immaginare come Tempesti, fresco affiliato alla colonia, non avesse mancato di trovare appoggi e coltivare relazioni. Così fu con il ricordato Ranieri Bernardino Fabri (o Fabbri), amico e protagonista di consessi arcadici assieme a Pio Dal Borgo – alias Feraste Euricleo -, commediografo spesso ben recensito sulle pagine delle ‘Novelle Letterarie’, e che con Giovanni Battista collaborerà nelle feste per l’ingresso a Pisa di Pietro Leopoldo, quando in teatro Tempesti farà con Mattia Tarocchi le scenografie, mentre il letterato scriverà una cantata appositamente concepita

45

. Ma fu così anche per Anton Maria Vannucchi, professore di Diritto feudale ma poeta versatile e discreto, conosciuto in Arcadia come Soristo Filantropo, corrispondente del Muratori, di Voltaire e dell’Alfieri, e amico così intimo del Tempesti da meritare che l’artista ne disegnasse poi, a suo tempo, il monumento funebre in Camposanto

46

. Scrisse un Trionfo di Minerva in ottava rima nel 1768

47

, nel dunque del decennio del rimpatrio tempestiano, dove Pietro Leopoldo e la consorte                                                                                                                

43 “Novelle Letterarie” n. 22, 17.8.1759, coll. 518-19.

44 MARI 1990, p. 99.

45 La cantata conobbe l’onore delle stampe, DAL BORGO 1766. Su Pio Dal Borgo v. SILICANI 1992.

46 Sul Vannucchi – oltre al non banale ricordo biografico pubblicato in occasione della sua morte ( “Giornale de’

Letterati”, t. LXXXV, 1792, pp. 274-90) - vedi ora il documentatissimo saggio di LABARDI 2003. Sul monumento funebre v. infra. Sulla sua attività nell’Arcadia pisana, culminata nella contestatissima elezione a vice-custode della colonia Alfea alla morte del Fabri si rimanda a VACHETTA 2000, pp. 97-100.

47 LABARDI 2003, p. 299.

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venivano celebrati come coloro che erano destinati a riportare in Toscana i fasti artistici e culturali dell’età medicea, con una paratassi storica (o pseudo storica) che certo non poteva dispiacere a colui che quel nuovo trionfo artistico tentava di attuarlo sul piano operativo, e che per questo era andato ad addottorarsi a Roma.

Queste frequentazioni di Giovanni Battista trovarono poi una saldissima sponda nel fratello Ranieri, destinato ad una carriera di abate e di storiografo, ma che negli anni Sessanta già cominciava a spendere un certo suo genio nella poesia arcadica, specie dopo che nell’ottobre del 1766, dunque giovanissimo, avendo “trasmessi ottimi componimenti”, era stato ufficalmente accolto tra i Pastori Arcadi col nome di Alidauro Ninfeo

48

.

L’adesione di Giovanni Battista alle divise intellettuali degli arcadi risultò evidente in quel medesimo 1766, quando a premessa dell’Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova scritta da Carlo Giuseppe Ratti (che aveva con lui condiviso a Roma il discepolato presso il Costanzi

49

), pubblicò un sonetto in onore dell’amico pittore, su pagine affiancate a quelle occupate da analoghi versi del fratello Ranieri e, per l’appunto, da Anton Maria Vannucchi

50

.

Si trattò, beninteso, di versi non indimenticabili, che rievocando il pur recente trascorso romano (dove “mi trasse amica sorte un giorno/Su tele eterne a faticar la mano”), puntavano ad esaltare l’immortale bravura dell’amico, senza tentare una riflessione un poco più larga (come invece nel fratello) sulla metafisica del tempo edace e distruttore e sulla salvezza dell’arte; ma bastarono a rendere manifesto come il tentativo di coordinare gesto disegnato e verso scritto fosse non una lambiccata mozione di principio, ma la quadratura di un cerchio, quell’ut pictura poesis che fu, come è noto, luogo essenziale della riflessione arcadica

51

.

                                                                                                               

48 BAR, Archivio Arcadia VII, G. Brogi, Catalogo dei Gentilissimi, e Valorosissimi Pastori Arcadi essendo Custode Generale Acamante Pallanzio, t. VII [1766-1772], c. 132, n. 445. Per un profilo di Ranieri, che ancora aspetta il suo moderno biografo, v. la voce assai ricca in GIULI 1841 a.

49 Sul comune discepolato presso Costanzi, ALIZERI 1864, p. 281.

50 RATTI 1766, pp. n. n. Le poesie si trovano ad inizio volume, a formare come un omaggio poetico ed una dedicatoria al loro autore (su questo v. anche PELLEGRINI 2008, p. 106 n.). L’iniziativa venne poi presa come “un esempio di rara concordia” nella ristretta repubblica delle lettere, atta evidentemente più alla rissa che non alla carezza (ALIZERI, I, 1864, p. 281).

51 Dieci anni dopo il suo primo sonetto noto, l’artista compose anche una canzone, sempre sotto il nome arcadico di Clinio Tessalideo, in onore di alcuni protagonisti del Gioco del Ponte. Nello stesso anno pubblicò anche un’anacreontica “Per la festa di ballo fatta nel teatro dei nobili signori Ceuli” in onore della vittoria riportata dagli

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La rievocazione poetica degli anni romani non fu solo il segno di una commossa partecipazione agli appena trascorsi anni del pensionato, ma si alimentò anche delle fitte trame del presente, di circostanze che bene ricordarono al Tempesti come il soggiorno laziale avesse comportato anche debiti da sciogliere e valori da mostrare.

4- Il 2 ottobre 1759, giorno della morte di Placido Costanzi, il Martirio di S. Torpé che come abbiamo visto questi nel 1754 era stato incaricato di dipingere per il Duomo cittadino una volta preso atto del gran rifiuto di Pompeo Batoni

52

, giaceva incompiuto nello studio dell’artista

53

, completato solo per due terzi (fig. 53). Grazie ad una non facilissima trattativa con gli eredi, il dipinto nel luglio del 1761 fu spedito a Pisa, dove venne esposto nella chiesa di S. Ranierino sulla piazza del Duomo, perché fosse il giudizio popolare – trattandosi di un’opera che doveva esaltare la pietà pubblica – a decretare se esporlo inconcluso, o progettarne il completamento

54

. La modalità – l’affidare ai cittadini il destino della tela – non rivestì un carattere accidentale, ma sostanziale.

Perché esporre il quadrone incompleto significava affidare ad esso un valore fortemente religioso, come di una reliquia non solo della mano del maestro – l’ultima per giunta, come l’impronta definitiva -, ma reliquia esso stesso, esaltandone così il valore cultuale, cui non disdiceva la condizione frammentaria. Deciderne il completamento, sebbene sulla base del bozzetto originale del Costanzi, significava invece dirottarne il senso su di un piano più propriamente artistico e di abbellimento – di arredo – della cattedrale, come di un oggetto affidato anche al godimento visivo.

                                                                                                               

uomini di mezzogiorno ancora nel Gioco del Ponte (Raccolta di poetici 1776, pp. 62-4, 81-3; v. anche SALVESTRINI 1932, p. 167; FROSINI 1981, p. 153; GERI 1999, p. 74).

52 Batoni era stato coinvolto nel 1745, ma la vicenda si concluse solo nel 1754 con un nulla di fatto: FROSINI (1968);

INGENDAAY 2008, passim (ma v. qui cap. 3).

53 Il dipinto fu infatti tra quelli che vennero rinvenuti nello studio del Costanzi nel sopralluogo effettuato subito dopo il decesso (CORDARO 1987, pp. 97-8).

54 Il dipinto era stato assegnato nel 1754, dopo che Costanzi, assai disciplinatamente aveva accettato di “correggere quegl’errori” che evidentemente erano stati individuati nel primo bozzetto (ASP, Comune D 109, cc. 118-19, 16.12.1754). Morto il Costanzi, si aprì una polemica serratissima con gli eredi, che volevano essere compensati per spedire a Pisa modelletto e tela incompiuta. Entrambe le opere giunsero a Pisa alla fine di giugno del 1761, e nel settembre si provvide ad eseguire la cornice dorata per il modello, in modo da poterlo esporre con gli altri nel palazzo dei Priori (ASP, Comune D 1380, cartella 4, 1.7.1761; Id., 110, c. 112, 26.9.1761). Il 3 luglio la grande tela venne esposta in S. Ranierino, in modo da capire ”se si dovesse far terminare da altro celebre pittore, oppure metterlo in Duomo al suo posto tale quale era” (SICCA 1993, p. 137 e n.; SICCA 1994, pp. 53-54; Il Duomo di Pisa 1995, I, p.

440, scheda di A. Ambrosini; ma v. anche FROSINI 1981, p. 152).

(17)

 

Quando allora si decise di completarne le parti mancanti, sembrò logico darne incombenza al Tempesti – da allievo del Costanzi il S. Torpé lo aveva visto nascere nel suo studio romano -, che in questo modo veniva ufficialmente riconosciuto come degno di proseguirne l’opera: suo allievo diretto ed efficacemente svezzatosi a Roma, dunque primo tra i pittori pisani.

La vasta tela del Costanzi era tra l’altro concepita con strategie compositive di grande suggestione, e buon gioco ebbe Da Morrona a giudicarla come uno dei vertici dell’arte del pittore romano

55

, perché risolta secondo un classicismo che non intercettava la risentita oratoria dell’incipiente Neoclassicismo, ma che manteneva intatta una vena didascalica, comunicativa, che piacque tanto ai Pisani, anche perché in essa non vi lessero il difetto tanto censurato nella proposta del Batoni: la laconicità narrativa, la mancanza di figure, gli eccessivi vuoti nella tela.

A Tempesti, oltre alla scelta di un probabile illividimento dei toni originari

56

spettò di dipingere il volto del Santo, ma anche il cielo fumigante e denso, dominato dall’angelo a precipizio del martirio, che più tempestiano non si potrebbe

57

. Un viso dolcissimo e scarmigliato, con un lessico cadenzato e pronto allo sviluppo narrativo, come nel bellissimo disegno conservato a Brera (datato 1763), noto come Testa di giovinetta

58

, con due volti di fanciulle intensi e benissimo descritti, rinforzati da echi lutiani (fig. 56).

Che nei primi anni Sessanta Tempesti approfondisse un carico di ricordi visivi romani lo attestano anche quattro piccoli ovali dipinti su rame, raffiguranti altrettante figure sacre: S. Agnese, Matrimonio mistico di S. Caterina, S. Antonio da Padova, S. Andrea Avellino (figg. 51). I quadretti, provenienti dalla Collezione di Ottavio Simoneschi, si raggruppano in un piccolo insieme omogeneo non solo per la peculiarità del supporto, non presente altrove nell’artista, ma anche per una disciplina pittorica di chiara derivazione romana. Un classicismo marattesco che significava completezza del disegno e concinnitas cromatica, ma pieno di umori lutiani nella conduzione stilistica e perfino fisiognomica, dominato da un sottofondo di contenuta malinconia, che rimandava                                                                                                                

55 DA MORRONA 1787, I, pp. 143-44. Allo storico spetta tra l’altro il merito di aver indicato con sicurezza le parti completate dal Tempesti.

56 Così Sicca, che legge nella tela tangenze con Maratta e Conca, ma con colori ghiacci, vicini al Chiari (SICCA 1994, pp. 53-4).

57 Il quadro venne terminato entro la primavera del 1767, quando Giovanni Battista, indisposto, delegò alla riscossione del compenso il fratello Carlo (ASP, Comune D 1380, cartella 4, 3.4.1767).

58 ROLI – SESTIERI 1981, tav. 120, p. 76, scheda di M. C. Casali. Il disegno reca nel verso la scritta: “Gio. Tempesta da Pisa, 1763”. Come notato nella scheda, il disegno non corrisponde ad alcuna opera pittorica nota, il che rinforza l’ipotesi di una redazione svincolata da urgenze strumentali.

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ad Agostino Masucci. Le piccole teste, quasi studi di carattere acconciati da eventi sacri, bene si avvicinavano alle giovani fanciulle dell’appena citato figlio di Brera del 1763 ad attestare una datazione non troppo lontana, e tale da mostrare l’arco delle ricerche di Giovanni Battista appena tornato a Pisa

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.

5- Quando a metà degli anni Sessanta Tempesti venne coinvolto nella progettazione del gruppo scultoreo destinato alla parte superiore della fontana di piazza del Duomo, lo scultore massese Antonio Cybei dovette tradurre in opera un disegno del pittore impostato sull’intrecciata tensione di tre Putti sostenenti lo scudo con l’arme della Comunità

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. Fu una scelta iconografica ben poco ortodossa, perché rifiutava la pedagogia del santo intabarrato e benedicente, o la cortigiana esaltazione di un granduca austero e beneaugurante, per proporre invece un elemento assolutamente decorativo, tre fanciulli ben sodi e privi di un contesto narrativo, che finirono con l’attribuire alla fontana un senso di architettura posticcia, di apparato festivo.

La possibilità allora è che il gioco dei putti non potesse in qualche modo non risentire della plastica romana, quella che Tempesti ebbe ben modo di apprezzare negli atletici fanciulli di Ercole Ferrata in S. Andrea della Valle, o dello stesso in S. Agnese, o nei mille del Bernini (come quelli in S.

Maria del Popolo), o in quelli di qualità più denaturata e corriva, ma di quantità impressionante, che decoravano chiese e spazi pubblici negli apparati effimeri per le feste di canonizzazione. Fu un’opera questa a suo modo capitale nella biografia tempestiana, che segnava come un passaggio di cultura. Perché in quel gioco di corpi era pure possibile rintracciare il congedo da ricerche piuttosto                                                                                                                

59 I dipinti fanno oggi parte della collezione della Fondazione Pisa. Non sono mai stati oggetto di studi specifici, ma menzionati negli inventari come provenienti dalla stessa raccolta Simoneschi (v. qui Catalogo).

60 La fontana, priva della decorazione, era stata commissionata dall’Operaio Francesco Quarantotti nel 1746, e in quell’occasione, come ci dice espressamente il canonico D’Angelo (che di quei fatti fu testimone), il Melani aveva preventivamente approvato il progetto dello scultore massese Giuseppe Vaccà. Circa venti anni dopo il figlio di Francesco, Antonio Quarantotti, commissionò il gruppo marmoreo soprastante. Secondo D’Angelo i putti furono “di disegno del sig.re Giovanni Battista Tempesti, celebre pittore Pisano, il quale stampò il suo pensiero, ma in Massa fu mutata la situazione del Putto di mezzo, stimando forse che in quella attitudine, come l’anno collocato riuscisse più grazioso”. Il gruppo, scolpito da Giovanni Antonio Cybei, venne inaugurato nel 1765 (D’ANGELO 1767, cc. 94-6).

Secondo Noferi, fino a pochi anni fa il disegno del Tempesti per il gruppo era conservato nella collezione Simoneschi (v. NOFERI 2001, pp. 43-6, 52-60). Nelle collezioni dell’Opera del Duomo è tuttora conservato il bozzetto in terracotta del gruppo, non certo attribuibile al Tempesti (come preteso da Noferi), ma al Cybei. Sulla vicenda v. anche FUSANI 1999, pp. 42, 47-8 n.

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simili di Ciro Ferri, da quel cortonismo di seconda generazione che Tempesti aveva avuto ben presente nelle cose pisane dei Gabrielli e soprattutto dei Melani. Quei Melani che, avendo per primi ad inizio secolo pensato ad installare sulla fontana un gruppo marmoreo

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, è plausibile che avessero indicato una strada al Tempesti, secondo un’ipotesi iconografica di cui magari si servì, per potersene allontanare definitivamente nell’applicazione stilistica. Fu davvero il segno di un’emancipazione, l’attestazione dell’utile ricavato a Roma. Un congedo.

C’era poi in quei grandi putti del Tempesti, e nelle svagate allegorie che imposterà – lo abbiamo visto nella sua casa – appena tornato a Pisa, una ricerca di quel tono “aggradevole” che era facile ritrovare nelle elegie di Paolo Rolli, ma anche una dose di sensualismo e d’idillio galante, che Tempesti poteva aver ben letto nelle poesie di Tommaso Crudeli, edite a Lucca nel 1762, reduce dai soggiorni pisani e già a Napoli al servizio di Bernardo Tanucci, per il quale lavorerà lo stesso Cybei

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, le cui anacreontiche delimitavano una geografia di emozioni lievi e svilite da tensioni, che ben potevano rispecchiarsi nel marmo.

Questo tono svagato fu probabilmente alla base delle censure che Tempesti si meritò nel 1766 da Francesco Carattoli (basso d’opera in rapporto epistolare con Metastasio), il quale, scrivendo da Pisa allo storiografo bolognese Marcello Oretti, nell’esaltare il Martirio di S. Torpé lasciato

“imperfetto” dal Costanzi denunciò il “Tempesta” come pittore “molto cattivo”, che mettendo le mani sul quadro per completarlo di certo avrebbe finito per rovinarlo

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.

Il quadro completato dal Nostro non era stato ancora visto dal Carattoli, che infatti scriveva col verbo al futuro, e il suo dunque era un autentico pre-giudizio, fondato su quello che del Tempesti conosceva, quei dipinti con putti e luci piene da cui il dramma era bandito, che evidentemente                                                                                                                

61 ASF, Mediceo del Principato 5910, c. 546: Giulio Gaetani a Pier Francesco Gerini, Maestro di Camera del Gran Principe Ferdinando, Pisa 18.6.1702; c. 553, Giulio Gaetani a Pier Francesco Gerini, Maestro di Camera del Gran Principe Ferdinando, Pisa 22.4.1705. In quell’occasione la fontana non venne eseguita perché si preferì impiegare i Melani nel restauro degli affreschi del Camposanto.

62 CRUDELI 1762. L’Arte di piacere alle donne e alle amabili compagnie uscì con la falsa indicazione tipografica di Parigi, quando invece fu impressa dai torchi lucchesi.

63 Il brano completo (riportato in PERINI 1984, p. 301) è il seguente: tra poco si collocherà sull’altare del Duomo il dipinto del Costanzi, “che lo lasciò imperfetto per la sua morte, questo lo aggiusterà, o per dire il vero lo guasterà, un certo giovane pittore chiamato il Tempesta, che per la verità l’è un pittore molto cattivo: mi fa specie l’ardire del medesimo a porre mano a voler terminare un Opera così bella”. Da segnalare, giusto per ridimensionare il giudizio negativo, che in quello stesso anno il Nostro venne indicato in una lettera dell’editore Giuseppe Aubert a Cesare Beccaria come il “celebre pittore Tempesti” (LAY 1973, p. 70).

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