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La propulsione spaziale

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Academic year: 2021

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La propulsione spaziale

2.1 Introduzione

Il presente capitolo si pone l'obiettivo di enunciare brevemente i principi alla base della propulsione spaziale ed in particolare della propulsione elettrica; verranno quindi brevemente descritti i principali tipi di propulsori elettrici, con particolare attenzione al loro principio di funzionamento e alle caratteristiche generali che li distinguono.

2.2 Il volo spaziale

Al di fuori dell'atmosfera terrestre l'unico modo per ottenere la spinta propulsiva è quello di utilizzare un propulsore a reazione, ovvero un dispositivo che consente l'espulsione ad alta velocità di un fluido di lavoro in direzione opposta a quella del moto. I propulsori appartenenti a questa categoria sono denominati endoreattori, in quanto sia il fluido di lavoro che l'energia necessaria all'accelerazione dello stesso sono contenuti all'interno del veicolo.

La spinta che si produce dipende dalla portata di massa di propellente e dalla velocità con cui essa viene espulsa, a cui si somma un contributo che dipende dalla differenza di pressione esistente tra la sezione di scarico e l'ambiente circostante. In termini matematici sarà allora:

 

e e a e

Tmu  pp A (2.1)

(2)

Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

4

dove T spinta m  portata massica u  velocità di scarico e

p  pressione del getto all'uscita e p  pressione ambiente a A  sezione di uscita e Trascurando il contributo legato al salto di pressione ed integrando nel tempo l'equazione della spinta tra il momento di accensione e quello di spegnimento si ricava l'impulso totale:

0

tbo

t

I

Tdt (2.2)

Tuttavia nell'ambito generale della propulsione spaziale si preferisce utilizzare l'impulso specifico, il quale è espresso in secondi quindi rimane tale per ogni sistema di misura utilizzato:

0

0

0

bo

bo

t

t

sp t

t

T dt I

g m dt

(2.3)

dove con g0 si è indicato il modulo dell'accelerazione di gravità terrestre al livello del mare.

L'impulso specifico è indicativo della capacità del propulsore di utilizzare il propellente ai fini della spinta. Ciò risulta più evidente se si suppone che spinta e portata risultino costanti.

Si ottiene:

0 0

e sp

u I T

mg g

 

 (2.4)

L'equazione generale del moto del sistema razzo si scrive

M d M

dtv    a

T g F (2.5)

dove: M = massa istantanea g = accelerazione di gravità Fa = forza aerodinamica Si assumano le ipotesi di moto nel vuoto, di assenza di forze gravitazionali e di spinta costante nella stessa direzione del moto. L'equazione (2.5) si riduce a:

dv e

M dt mu (2.6)

Che integrata nel tempo fornisce l'equazione di Tsiolkovsky

0 0

ln 0 ln

e sp

f f

M M

v u g I

M M

   

     

   

(2.7)

(3)

Capitolo 2 La Propulsione Spaziale

5 in cui M0 e Mf rappresentano la massa iniziale e finale del veicolo.

Le operazioni spaziali sono usualmente caratterizzate e definite attraverso la variazione di velocità Δv necessaria alla loro realizzazione, con l'accortezza di interpretare tale incremento di velocità non come un incremento di velocità effettivo, ma come quell’incremento di velocità che si otterrebbe qualora le ipotesi sopra elencate fossero verificate. Il Δv in questione rappresenta quindi un valore di riferimento, ossia un modo per tradurre in un solo valore il requisito complessivo relativo alle diverse operazioni necessarie alla buona riuscita di una specifica missione spaziale. Nella tabella 2.1 si riportano valori caratteristici dell'incremento di velocità Δv necessario per alcune missioni di interesse; si noti che missioni onerose in termini di Δv (come i trasferimenti interplanetari) necessiterebbero di un elevatissimo rapporto di massa M0/Mf e quindi, ai fini di contenere tale rapporto, riducendo la quantità di propellente necessaria per la missione, si preferisce utilizzare propulsori con elevato impulso specifico, ovvero con velocità di scarico paragonabili al Δv di missione.

Missione Δv [m/s]

Fuga dalla superficie terrestre (impulsiva) 11200

Fuga da un'orbita di 540 Km (impulsiva) 3150

Trasferimento Terra-Marte e ritorno* 34000

Trasferimento dall'orbita terrestre all'orbita di Giove e ritorno* 64000 Trasferimento dall'orbita terrestre all'orbita di Venere e ritorno* 16000 Trasferimento dall'orbita terrestre all'orbita di Mercurio e ritorno* 31000 Trasferimento dall'orbita terrestre all'orbita di Saturno e ritorno* 110000 Compensazione resistenza aerodinamica (LEO ~250 Km) 320/anno

Sollevamento orbitale (da 250 a 600 Km)* 200

NSSK per satelliti geosincroni 49/anno

EWSK per satelliti geosincroni 2/anno

Tabella 2.1 - requisiti in termini di Δv per alcune missioni. *Per i trasferimenti orbitali sono state considerate manovre alla Hohmann (di minima energia).

I propulsori elettrici essendo dotati di un elevato valore dell'impulso specifico rappresentano il futuro della propulsione per missioni di lunga durata come i trasferimenti interplanetari;

tuttavia la loro più grande limitazione risiede nel fabbisogno di energia elettrica, che si traduce in un aumento della massa del sistema di generazione di potenza. Esprimendo la massa del generatore di potenza elettrica Mgen e la massa di propellente necessario come

2

sp e

gen sp el

T

M P Tu

  (2.8)

e v ue 1

e v g I0 sp

p f tot f

MM  MM (2.9)

dove γsp =massa specifica generatore Pel =potenza elettrica richiesta dal propulsore ηT =rendimento di spinta Mtot =Mp+Mf =massa totale iniziale (Mgen inclusa).

È possibile individuare il valore ottimale dell'impulso specifico per la missione richiesta:

(4)

Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

6

 

0

2

1 T

sp opt

sp

I t

g

  (2.10)

in cui Δt è il tempo di sparo richiesto dalla specifica missione. Nella figura 2.1 è indicato l'andamento della massa totale del veicolo, somma del sistema di generazione di potenza e della massa di propellente stivato. Si noti che Mtot presenta un minimo per un dato Isp.

Figura 2.1 - valore ottimale dell'impulso specifico che minimizza la massa totale.

2.3 Classificazione dei propulsori

È possibile distinguere le varie tipologie di propulsori in base a1-3:

 Il processo fisico per accelerare il fluido di lavoro

 Il tipo di energia utilizzato per generare la spinta

In base al processo accelerativo si ottiene la seguente suddivisione:

 gasdinamico: in cui il fluido di lavoro, avente alti valori di pressione e temperatura, è lasciato libero di espandere passando attraverso un condotto opportunamente sagomato (ugello);

 elettrostatico: in cui un fluido altamente ionizzato viene accelerato da un campo elettrico generato da una differenza di potenziale che viene creata tra l'inizio e la fine della una camera di accelerazione del propulsore; il fluido viene poi opportunamente neutralizzato per mantenere l'equilibrio di carica;

 elettromagnetico: in cui un fluido parzialmente ionizzato (plasma) viene accelerato da una forza (di Lorentz) generata dall'interazione tra campo elettrico e magnetico.

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Capitolo 2 La Propulsione Spaziale

7 Le fonti energetiche sfruttabili sono le seguenti:

 energia chimica: liberata a seguito di una reazione chimica esotermica;

 energia nucleare: derivante da reazioni di tipo nucleare, quali il decadimento radioattivo o le reazioni di fissione, fusione e annichilamento nucleare;

 energia elettrica: prodotta per mezzo di appositi sistemi di generazione di energia elettrica che sfruttano i processi fotovoltaici, termoelettrici, termodinamici o di ossidoriduzione.

Nella tabella 2.2 si riassume il sistema di classificazione appena descritto. Si pone inoltre in evidenza la dipendenza della velocità di scarico ue da parametri diversi a seconda del processo di accelerazione utilizzato.

Tabella 2.2 - classificazione dei sistemi di propulsione.

Nel presente lavoro di tesi non verranno trattate la propulsione chimica e nucleare in quanto non rientrano negli obiettivi di questa dissertazione.

2.4 La propulsione elettrica

2.4.1 Cenni storici

La storia della propulsione elettrica vede la sua alba con il celebre articolo dello scienziato russo Konstantin Tsiolkovsky4 "Investigation of universal space by means of reactive devices" in cui oltre alla derivazione della formula di Tsiolkovsky viene espressa l'innovativa idea secondo cui "è possibile che nel tempo si possa utilizzare l'elettricità per ottenere un'elevata velocità delle particelle emesse da un razzo". Nell’articolo, Tsiolkovsky fa riferimento alla possibilità di sfruttare un flusso di elettroni al fine di produrre spinta, pur conoscendone l’esigua massa; tale approccio si spiega facilmente considerando che all’epoca

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Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

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poco si sapeva sugli ioni e sul processo di ionizzazione. Pur avendo gettato le basi della propulsione elettrica, Tsiolkovsky non portò mai avanti studi più approfonditi a riguardo, concentrandosi su problemi più comuni inerenti la propulsione chimica.

L'enorme differenza tra le velocità ottenute dall'accelerazione elettrostatica delle particelle rispetto a quelle ottenute dalle particelle energizzate termicamente fu osservata per la prima volta nel 1906 da J.J.Thomson durante i suoi esperimenti sui raggi catodici, catturando l'immaginazione dei suoi contemporanei e delle generazioni a seguire. Nello stesso periodo, il fisico americano Robert H.

Goddard portò avanti una rigorosa campagna di studi con lo scopo di appurare la possibilità e le eventuali conseguenze dell’accelerazione di elettroni a fini propulsivi; inoltre osservò la necessità di neutralizzare esternamente le cariche espulse per mantenere l'equilibrio di carica del propulsore con l'ambiente circostante.

L’incertezza fisica riguardante il moto delle particelle cariche era giustificata dalla scarsa conoscenza dei fenomeni legati alle interazioni delle particelle subatomiche e dallo scarso interesse che avevano destato le teorie del fisico Albert Einstein circa la relatività. E’ solo nel 1913 che viene abbandonata l’idea di fluido di lavoro elettronico in favore di un fluido costituito da un altro genere di “particelle aventi carica elettrica”. In quell'anno Goddard brevettò la sua invenzione, che consentiva di produrre particelle aventi carica confinando elettroni all'interno di un gas tramite un campo magnetico, aumentando così la collisionalità tra elettroni e atomi neutri. Come conseguenza diretta, nel 1917 lo stesso Goddard brevettò una seconda invenzione, considerata il primo acceleratore elettrostatico di ioni a scopi propulsivi mai costruito.

(a) (b)

Figura 2.3 - (a) Robert Hutchings Goddard, (b) il primo propulsore a ioni.

Figura 2.2- Konstantin Eduardovitch Tsiolkovsky (1857-1935).

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Capitolo 2 La Propulsione Spaziale

9 Fu solo nel 1929 che venne compresa l'importanza per l'astronautica della propulsione elettrica grazie al trattato di Hermann J. Oberth (1894-1989) "Wege zur raumschiffahrt"

("soluzioni per il volo spaziale") in cui vennero inequivocabilmente evidenziati i vantaggi per il controllo di assetto e per le manovre orbitali in termini di riduzione di massa, pur non presentando soluzioni tecniche specifiche per la progettazione di propulsori. Negli stessi anni Valentin P.Glushko (1908-1989) costruì il primo propulsore elettrotermico ad esclusivo uso spaziale. La propulsione spaziale tuttavia subì un blocco forzato lungo 15 anni a causa dell'avvento della seconda guerra mondiale non essendo ritenuto applicabile per scopi bellici.

Gli studi sulla propulsione spaziale ottennero un nuovo slancio alla fine della guerra, con la contrapposizione di idee tra i britannici L.R.Shepherd e A.V.Cleaver, e l'americano Lyman Spitzer (1914-1997). I primi conclusero nel 1949 che l’applicazione della propulsione elettrica risultava impossibile a causa dell’elevato fabbisogno di energia elettrica in quanto non erano ancora disponibili generatori nucleari capaci di sopperire a tale fabbisogno. Il secondo (nel 1951) negava le conclusioni dei britannici fornendo quindi un nuovo slancio agli studi sulla propulsione elettrica: il progetto qualitativo di Spitzer rappresentava ciò che venne successivamente chiamato il propulsore ionico a griglia.

Il clima politico del dopoguerra portò molti finanziamenti ai programmi spaziali delle due grandi potenze russa e americana, tuttavia per quanto riguarda gli sviluppi nell'Unione Sovietica niente si è saputo fino alla caduta definitiva del blocco politico nel 1990.

Nel mondo occidentale i maggiori contributi allo sviluppo tecnologico della propulsione elettrica furono forniti prima da Ernst Stuhlinger (1913-2008) con il contributo di Oberth e Von Braun tra il 1954 e il 1964, anno in cui pubblicò

"Ion propulsion", successivamente da Robert Jahn che nel 1968 pubblica la prima trattazione completa sulla fisica dei propulsori a ioni "Ion propulsion for space flight". Le prime pubblicazioni tecnologiche sui primi propulsori a ioni, utilizzanti cesio e mercurio come propellenti, sono del 1970 ad opera di George Bewer. Un'estesa presentazione dei principi e del funzionamento dei diversi processi fisici all'interno dei propulsori elettrici fu pubblicata nel 1989 in un libro da Grishin e L.Leskov. In linea di massima, furono i russi i primi ad applicare con successo gli studi eseguiti sui propulsori elettrici, impiegando dei propulsori ad effetto Hall per le funzioni di controllo orbitale nei satelliti per telecomunicazioni: la prima applicazione russa risale al 1961, anno in cui furono montati sul satellite Meteor due propulsori ad effetto hall denominati SPT-60. Il primo sistema propulsivo a ioni per uso commerciale venne introdotto in Giappone nel 1995, al fine di garantire le operazioni di Nord-Sud station-keeping sul satellite per telecomunicazione Engineering Test Satellite (ETS). L’uso commerciale dei propulsori a ioni negli Stati Uniti iniziò nel 1997 con il lancio

Figura 2.4 - H.Oberth (di fronte), E.Stuhlinger (sinistra in basso), Werner Von Braun (destra in basso).

Army Ballistic Missile Agency, Huntsville (1956).

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Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

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di un satellite equipaggiato con un propulsore a ioni utilizzante Xenon come propellente, ma solo dal 2004 tale tecnologia venne usata su larga scala per uso commerciale. Oggi i propulsori elettrici rappresentano l'ultima frontiera della propulsione spaziale e sono molte le missioni che beneficiano di tale importante tecnologia. A parte le missioni scientifiche, la propulsione elettrica viene comunemente utilizzata in campo commerciale, per missioni che richiedono Δv di modesta entità, come lo station-keeping e, molto più raramente, il sollevamento orbitale LEO-GEO.

È interessante notare che la propulsione elettrica non è ancora stata utilizzata per lo scopo originariamente previsto dai visionari dei primi anni del novecento, ovvero la sistematica esplorazione umana dei pianeti. Il motivo di ciò risulta evidente se si considera la mancanza di dispositivi che consentano la generazione di elevatissime potenze elettriche nello spazio, obiettivo costantemente inseguito dal mondo scientifico.

2.4.2 Classificazione e analisi dei propulsori elettrici

I propulsori elettrici possono essere distinti in base al processo fisico che consente ad una scarica elettrica di accelerare il fluido di lavoro (Tab.2.2):

 propulsori elettrotermici: sfruttano il calore generato per effetto joule, prodotto dalla scarica elettrica, per riscaldare il fluido di lavoro che poi espande in un ugello; un esempio di tale tipologia di dispositivi è rappresentato dalla famiglia dei resistogetti e degli arcogetti;

 propulsori elettrostatici: il fluido di lavoro viene prima ionizzato e poi accelerato grazie ad una differenza di potenziale; a tale categoria appartengono i propulsori a ioni con griglia e i propulsori ad emissione di campo (FEEP);

 propulsori elettromagnetici: i quali sfruttano la forza di Lorentz per accelerare un gas parzialmente ionizzato; ad esempio fanno parte di questa famiglia i propulsori magnetoplasmadinamici (MPD) e i propulsori pulsati (PPT).

Anche se essenzialmente corretta, tale classificazione risulta inappropriata per descrivere a pieno le caratteristiche di alcuni tipi di propulsori, come i propulsori ad effetto Hall (HET).

Per tale motivo, in occidente, è stata adottata convenzionalmente la categoria dei propulsori al plasma, in cui convergono diversi tipi di dispositivi tra cui anche gli HET. Tale categoria abbraccia tutti i propulsori in cui il fluido mantiene le caratteristiche di plasma, ossia un mezzo

conduttivo quasi-neutro, in tutte le fasi del processo accelerativo. Ovviamente risultano esclusi da tale categoria di dispositivi i propulsori a ioni o i FEEP che impiegano nella fase di accelerazione un fluido di soli ioni.

Attualmente l’interesse della ricerca è concentrato sulle ultime due categorie, poiché la propulsione elettrotermica, facendo uso di un processo accelerativo di tipo gasdinamico, risente delle stesse limitazioni dei tradizionali propulsori chimici, con conseguenti prestazioni comparabili o inferiori. Il superamento dei limiti insiti nella propulsione chimica (ed elettrotermica) è reso possibile dall’utilizzo di campi elettromagnetici i quali sono in grado di trasferire energia cinetica al fluido di lavoro riducendo le inefficienze legate a conduzione termica, velocità finita di reazione e massima energia disponibile per unità di massa di propellente tipiche del processo accelerativo gasdinamico. La caratteristica

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Capitolo 2 La Propulsione Spaziale

11 fondamentale della propulsione elettrica, è rappresentata chiaramente dal meccanismo fisico estremamente efficiente di scambio di quantità di moto tra propulsore e fluido di lavoro. Si producono perciò i seguenti risultati:

 elevato valore dell'efficienza di spinta, definita come il rapporto tra la potenza cinetica immessa nel fluido di lavoro Wj e la potenza elettrica fornita al propulsore Wel:

1 2

2 e

kin T

el el

P mu

P P

 

(2.11)

Questa equazione dimostra il fatto che la maggior parte dell’energia viene effettivamente utilizzata per ottenere la spinta: in questo caso gran parte delle perdite sono legate alla ionizzazione del propellente, alla presenza di un neutralizzatore, al funzionamento di alcuni apparati del propulsore come riscaldatori ed elettromagneti, e alle interazioni con le pareti del propulsore per il confinamento del plasma.

 Elevato valore della velocità di emissione del propellente ue, ovvero elevato valore dell’impulso specifico (Eq. 2.4) da 2 a 200 volte superiore rispetto alla propulsione chimica. Dall’equazione (2.9) risulta peraltro che un incremento nella velocità di scarico corrisponde a una riduzione esponenziale della frazione di propellente necessario per un dato Δv (e quindi per una data missione). Questa caratteristica costituisce il principale vantaggio della propulsione elettrica

Si è detto, nel paragrafo 2.2, che il valore di ue dovrebbe risultare dello stesso ordine di grandezza rispetto al Δ di missione per limitare la frazione di carburante a livelli accettabili.

La propulsione elettrica allora trova la sua principale applicazione nelle missioni a lungo raggio e di lungo periodo come viaggi interplanetari o controllo di assetto e posizionamento per molti anni, che necessitano di Δ relativamente elevati nel tempo (Tab. 2.1), e dove la propulsione chimica è inadatta proprio per l’eccessivo consumo di propellente. I vantaggi della propulsione elettrica non si limitano al risparmio di carburante, ma coinvolgono altri aspetti quali:

 possibilità di modulare l’entità della spinta su intervalli relativamente ampi;

 buona risoluzione e ripetibilità della spinta;

 ridotte dimensioni dei propulsori e bassi livelli di spinta ottenibili, con l'effetto di ridurre ingombri e sollecitazioni, e rendere la navigazione del veicolo più precisa;

 possibilità di effettuare accensioni multiple.

L'impiego di propulsori elettrici comporta tuttavia anche degli svantaggi, i quali ne hanno limitato la diffusione fino agli anni '60 nell'Unione Sovietica e fino ai primi anni '90 nel mondo occidentale. Tali controindicazioni si identificano (Fig. 2.1) nella limitata capacità dei generatori di produrre elevate potenze elettriche (usualmente 3÷4 W per Kg del veicolo) con la conseguenza di poter utilizzare i propulsori elettrici solo nel campo delle basse spinte (1μN ÷ 100 N). La potenza elettrica richiesta viene fornita da:

o celle fotovoltaiche per la conversione di energia solare (35÷50 W/Kg)5 o celle a combustibile (13÷90 W/Kg; ~0.6 W per Kg di combustibile)6 o generatori termoelettrici a radioisotopi (2÷20 W/Kg)

o batterie (solo per micropropulsori, fino a 300 Wh/Kg)

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Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

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Risulta allora interessante quantificare l'entità della potenza elettrica necessaria per produrre una determinata spinta. È utile definire potenza specifica il seguente paramentro:

30 50 kW/N

el el

sp

e

P P

WTm u  

 (2.12)

È quindi evidente, in riferimento anche alle equazioni 2.8-10, la possibilità di determinare il massimo valore della spinta ottenibile per un dato propulsore quindi la classe di missioni nelle quali può operare. Tali limitazioni di potenza comportano infatti tempi di missione molto più lunghi per ottenere il Δv desiderato rispetto a quelli di missioni che adottano propellenti chimici (alta spinta). Inoltre si producono maggiori perdite di gravità e possibili perdite per resistenza aerodinamica: sono tutte peculiarità che possono rendere impossibile l'applicazione della propulsione elettrica in caso che non siano soddisfatti i requisiti di missione.

2.4.3 Propulsori elettrotermici

Nei propulsori elettrotermici il fluido di lavoro utilizzato viene accelerato sfruttando un processo di tipo gasdinamico: in questo caso il fluido viene riscaldato nella parte iniziale del condotto di accelerazione e poi viene lasciato espandere in un ugello supersonico.

Rispetto ai tradizionali propulsori chimici, il vantaggio maggiore che presentano tali propulsori è rappresentato dalla possibilità di svincolare la scelta del fluido di lavoro dalle caratteristiche chimiche necessarie per una corretta combustione. Lo svantaggio più grande invece risiede nella necessità di inserire un dispositivo aggiuntivo capace di generare l’energia necessaria al riscaldamento del fluido, riscaldamento che, nella propulsione chimica, viene fornito dalla reazione di ossidoriduzione dello stesso. Inoltre restano le limitazioni legate alle perdite di prestazioni dovute ai limiti tecnologici per le alte temperature e ai vincoli relativi al trasferimento di calore e alle perdite legate a quella porzione di energia "congelata" nei modi interni e nella dissociazione delle molecole.

Esattamente come accade per i propulsori chimici, la velocità efficace di scarico può essere espressa attraverso la relazione:

e 2 p c

uc T (2.13)

In cui: cp =calore specifico a pressione costante per unità di massa del propellente Tc =temperatura massima tollerabile dal propulsore

I propulsori che fanno parte di questa categoria sono:

 resistogetti: il riscaldamento del fluido di lavoro avviene per effetto Joule grazie ad una resistenza interna alla camera di combustione o inserita nelle pareti della stessa (Fig.2.5). Hanno un impulso specifico tra i 250 e i 450 secondi e una potenza specifica dell'ordine di 10 kW/N;

 arcogetti: il propellente viene riscaldato da un arco elettrico fatto scoccare tra un catodo posto all'interno della camera di combustione e le pareti della gola del canale di

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Capitolo 2 La Propulsione Spaziale

13 espansione, più lunga rispetto alle configurazioni classiche (Fig.2.6). Sono più vantaggiosi dei resistogetti perchè mostrano efficienze più elevate a bassi valori dell'impulso specifico, che per questi propulsori si avvicina a 1000 s a causa delle temperature più elevate che vengono raggiunte. Per quest'ultimo motivo e per la difficoltà di immagazzinamento dell'idrogeno, si preferisce usare gas molecolari complessi, che hanno un calore specifico maggiore e la capacità di dissociarsi in elementi dal peso atomico minore (idrazina e ammoniaca)

Figura 2.5 - Disegno al CAD di un resistogetto.

(a) (b)

Figura 2.6 - (a) schematizzazione di un arcogetto, (b) arcogetto alimentato con una miscela di argon, idrogeno e ammoniaca (Università di Bristol).

2.4.4 Propulsori elettrostatici

Le limitazioni imposte dal processo accelerativo gasdinamico possono essere superate utilizzando forze di massa generate da campi elettrici esterni applicate ad un fluido di lavoro costituito da soli ioni. Il campo elettrico che consente l'accelerazione del propellente è generato da una caduta di potenziale tra due elettrodi posti ad una certa distanza reciproca; il fascio ionico, espulso a grande velocità, viene esternamente neutralizzato con un flusso di elettroni, precedentemente rimossi durante la ionizzazione, tale da mantenere la neutralità del propellente e quindi del propulsore.

Il propulsore a ioni è il dispositivo più semplice che opera in tal senso: la sorgente di ioni introduce le particelle nella camera di accelerazione, all'interno della quale è applicato il

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Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

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campo elettrico necessario prodotto dalla differenza di potenziale tra la sorgente e la griglia acceleratrice. Un neutralizzatore, all’esterno della camera, restituisce al fascio ionico gli elettroni precedentemente sottratti, ripristinando così la neutralità del fascio (Fig.2.7).

Figura 2.7 - schema generale di un propulsore a ioni.

La velocità di scarico di qualunque dispositivo che operi un processo di accelerazione di tipo elettrostatico è dato dalla relazione

2 5

10 m/s

e

i

u qV

M  (2.14)

Dove V=differenza di potenziale tra sorgente ionica e griglia acceleratrice q/Mi =rapporto carica-massa dello ione

Figura 2.8 - Un propulsore a ioni - NASA Evoultionary Xenon Thruster (NEXT).

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Capitolo 2 La Propulsione Spaziale

15 L'uso di questa tipologia di propulsori è stato tuttavia limitato da alcune importanti controindicazioni quali:

 un'importante penalizzazione in termini di peso del sistema di generazione di potenza, in quanto richiedono un'elevata differenza di potenziale per ottenere spinte accettabili (richiedono potenze per unità di superficie dell'elettrodo dell'ordine di 105 W/m2);

 basso valore della densità di spinta (vista come il rapporto tra la spinta e la superficie dell'elettrodo), dell'ordine di pochi N/m2;

 problemi di carica spaziale, legati all'addensamento di cariche positive vicino l'elettrodo acceleratore (caricato negativamente), con la conseguenza di un'abbattimento della differenza di potenziale esistente tra i due elettrodi, e ciò implica una minore velocità di scarico.

I propulsori elettrostatici possono essere ulteriormente suddivisi in sottocategorie legate al processo di ionizzazione del propellente:

 propulsori a bombardamento elettronico

 propulsori a radiofrequenza (RIT)

 propulsori a emissione di campo (FEEP) Propulsori a bombardamento elettronico

Il propellente (generalmente Xenon) viene ionizzato grazie alle collisioni con gli elettroni emessi da un catodo, che può essere un catodo cavo (hollow cathode) o incandescente (quindi operare per effetto termoionico). Gli elettroni, nel loro moto verso un anodo cilindrico posto in corrispondenza delle pareti laterali della camera, sono impediti da un campo magnetico esterno applicato (assiale e radiale) che li forza a spiraleggiare aumentando così le propabilità di collisioni anche delle coppie elettrone-ione appena formate con gli atomi neutri, creando in regime stazionario all'interno della camera di accelerazione una miscela costituita da una maggioranza di elettroni e ioni (Fig.2.9). Valori caratteristici dell'impulso specifico variano tra i 2500 e i 4000 secondi.

Figura 2.9 - Schematizzazione di un propulsore ionico a bombardamento elettronico.

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Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

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Propulsori a radiofrequenza (RIT)

In tali dispositivi, la ionizzazione del propellente (solitamente Xenon o Kripton) avviene in una camera di ionizzazione costruita in materiale isolante (allumina o quarzo), in cui gli elettroni vengono eccitati tramite onde elettromagnetiche a frequenze radio. Tali dispositivi hanno i vantaggi di avere un rendimento elevato (circa il 60%) e tempi di vita maggiori di quelli a bombardamento elettronico, grazie al fatto che non vi sono catodi immersi nel gas caldo. In figura 2.10 è riportata, a titolo di esempio, una fotografia del propulsore RIT-XT prodotto da EADS Astrium.

Figura 2.10 - Un propulsore a ioni a radiofrequenza - modello RIT-XT di EADS Astrium7.

Propulsori ad emissione di campo (FEEP)

È un innovativo concetto di propulsione elettrostatica (Bartoli e allievi, 1984) basato sulla ionizzazione diretta da parte del campo elettrico di propellente liquido ionizzabile. Il propulsore è costituito essenzialmente da tre elementi (Fig.2.11a). Il primo elemento, denominato emettitore, è il più complesso a livello strutturale ed è costituito dalla sovrapposizione di due piastrine munite di una lama di estremità e di una zona centrale ribassata creata per l’alloggiamento del propellente. Il contatto tra le due piastrine è ottenuto interponendo uno strato di nichel, di spessore controllato, deposto su tutto il perimetro di ogni piastrina eccetto che nella zona centrale della lama, dove è posta un’adeguata maschera protettiva. Tale procedura costruttiva garantisce la creazione, nella zona centrale delle due lame contrapposte, di una fessura di altezza dell'ordine del micron, all’interno della quale il propellente (solitamente Cesio, comunque un metallo liquido) per capillarità forma una sorta di menisco (Fig.2.12a). Il secondo elemento, denominato acceleratore, è rappresentato da una piastrina posizionata a distanza ravvicinata dalle lame dell'emettitore e munita di un'asola centrale che permette la fuoriuscita del propellente. Il terzo elemento è ovviamente il neutralizzatore posto a valle dell’acceleratore, il cui scopo è già stato analizzato precedentemente. Quando l'emettitore e l’acceleratore vengono polarizzati, si forma in

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Capitolo 2 La Propulsione Spaziale

17 corrispondenza della lama un intenso campo elettrico il quale determina sul menisco di Cesio la formazione di coni, detti di Taylor (Fig.2.12b), dai cui vertici per effetto di concentrazione del campo elettrico avviene l’emissione diretta degli ioni, i quali vengono accelerati attraverso la feritoia dell'acceleratore, e successivamente neutralizzati esternamente.

La legge che determina la velocità di scarico per tali propulsori è la medesima dei propulsori a ioni, e gli impulsi specifici ottenibili sono molto elevati dell’ordine di 4500÷8000 secondi, mentre le potenze specifiche per questo tipo di propulsori sono dell’ordine di 55 kW/N, le densità di spinta dell’ordine di 0.2 mN/cm2. Limiti tecnologici consentono di produrre propulsori fino a 5 mN di spinta per i valori elevati di potenza specifica, quindi i FEEP trovano applicazione nel campo delle basse spinte dell'ordine di 101

÷102 μN adatte al puntamento fine e al controllo d'assetto. La propulsione ad emissione di campo presenta delle caratteristiche uniche che non si presentano in nessun altro propulsore, quali:

 modulazione della spinta in un intervallo molto ampio8 (anche tra 1 μN e 1 mN)

 brevissimi transienti all'accensione e spegnimento: si giunge allo stazionario quasi istantaneamente

 fine modulazione della spinta (1/104 dell'intervallo di spinta) sia in modalità continua che pulsata

 nessun sistema di controllo richiesto per la portata di propellente, controllata indirettamente dalla potenza applicata al propulsore e dall'azione capillare del propellente

(a) (b)

Figura 2.11 - (a) schematizzazione di un FEEP, (b) foto di un propulsore da 30 μN8.

Figura 2.12 - fessura dell'emettotore: menisco del metallo liquido prima (a) e dopo l'applicazione del campo elettrico (b)

(16)

Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

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2.4.5 Propulsori elettromagnetici

Il funzionamento dei propulsori elettromagnetici si basa sull’interazione tra una corrente elettrica passante attraverso un propellente conduttore e un campo magnetico ad essa ortogonale. Tali sistemi consentono di ottenere velocità di scarico superiori rispetto a quelle relative alla propulsione elettrotermica e densità di spinta superiori rispetto a quelle dei propulsori elettrostatici, ma con rendimenti inferiori rispetto questi ultimi.

In figura 2.13 è illustrata la configurazione di un tipico canale di accelerazione: al suo interno un fluido di lavoro elettricamente conduttivo e ionizzato, ma nel complesso neutro, è soggetto ad un campo elettrico E e ad un campo magnetico B, mutuamente ortogonali ed entrambi ortogonali alla velocità u del fluido. La densità di corrente j guidata dal campo elettrico, interagisce con B generando una forza di massa F=j×B, denominata forza di Lorentz e diretta perpendicolarmente ad ambedue i campi; è

proprio tale forza che accelera il fluido lungo il canale. Il processo può essere rappresentato anche dal punto di vista degli elettroni, i quali, seguendo il campo elettrico ed interagendo con il campo magnetico, trasmettono la loro quantità di moto alle particelle pesanti del plasma per collisioni e/o microscopici campi polarizzati.

E’ importante notare che in entrambe le rappresentazioni il fluido di lavoro, pur essendo ionizzato, risulta macroscopicamente neutro, e quindi non presenta le limitazioni legate alla carica spaziale tipiche dei propulsori elettrostatici e non necessita quindi di un neutralizzatore esterno.

Mentre le tipologie di propulsori precedentemente analizzate offrono poche opzioni circa la propria configurazione, i propulsori elettromagnetici possono essere progettati agendo su un discreto numero di fattori, ovvero:

 i campi applicati e le correnti interne possono essere stazionari, pulsati o alternati;

 il campo magnetico B può essere applicato esternamente o autoindotto dal moto delle cariche;

 la scelta del propellente può ricadere su gas o solidi (che vaporizzano con la scarica);

 la geometria e la disposizione degli elettrodi e il sistema di iniezione del propellente;

 il sistema di ionizzazione;

da cui si ottengono una moltitudine di configurazioni differenti. La tipologia di propulsore a cui si fa più comunemente riferimento quando si parla di propulsori elettromagnetici è rappresentata dai propulsori magnetoplasmadinamici (MPD). In essi, il propellente fluisce nello spazio tra gli elettrodi e viene ionizzato dalla scarica di corrente instaurata tra anodo e catodo; l’interazione tra la corrente che attraversa il fluido ed il campo magnetico, che può essere solo autoindotto o anche indotto esternamente, produce la forza di massa che accelera il fluido fornendo la spinta. In tali propulsori l'impulso specifico si attesta in 2000÷5000 secondi con densità di spinta che superano i 1000N/m2 e potenze specifiche di circa 40kW/N

Figura 2.13 - Schema di funzionamento di un propulsore elettromagnetico.

(17)

Capitolo 2 La Propulsione Spaziale

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z

y

x X

Y

Z B

E*

jxB -j/

B

j x

y z

ma bassi valori del rendimento (<40%). Un altro limite dei propulsori MPD è l'elevata potenza richiesta per il loro funzionamento, che è dell'ordine dei kW per propulsori a campo magnetico applicato e dei MW per quelli a campo magnetico autoindotto. Inoltre questi propulsori hanno bisogno di alte correnti e bassissime resistenze elettriche (difficili da ottenere), con il conseguente aumento del fabbisogno energetico: ciò si traduce in rendimenti ancora più bassi rispetto alla teoria. A tale richiesta di potenze così alte si può ovviare scegliendo un funzionamento pulsato quasi stazionario utilizzando dei condensatori (in fase sperimentale) che consentano una scarica dell'ordine dei MW per durate dell'ordine dei millisecondi. Di seguito si riportano gli schemi di funzionamento di alcune tipologie di propulsori magnetoplasmadinamici.

Propulsori magnetoplasmadinamici a campo magnetico autoindotto

Nella sua forma base il propulsore MPD (Fig.2.14) è costituito da due elettrodi metallici: un catodo cilindrico opportunamente sagomato nella parte terminale e un anodo concentrico.

Tra anodo e catodo si produce un arco elettrico costituito da una elevata corrente di scarica.

Durante il riscaldamento del catodo esso emette elettroni che collidono con il propellente neutro ionizzandolo. L’interazione tra la corrente elettrica ed il campo magnetico indotto da essa, produce una forza di massa distribuita, che, integrata sul volume della camera di scarica, porta ad una espressione della spinta del tipo:

Tb j2 (2.15)

dove b rappresenta un fattore che tiene conto delle particolari geometrie del canale e degli elettrodi. Si noti che la legge di spinta sopra scritta non dipende dalla portata del propellente bensì dal quadrato della densità di corrente.

Figura 2.14 - Schema di funzionamento di un MPD a campo magnetico autoindotto.

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Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

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Ciò che ha reso e rende inutilizzabile la tecnologia MPD per applicazioni spaziali reali è, oltre al loro fabbisogno di elevate potenze elettriche, la tendenza del propulsore a far sorgere un fenomeno di instabilità caratteristico, denominato onset, il quale si verifica quando si oltrepassa un certo valore limite del rapporto j2 m . Sono state sviluppate diverse teorie per spiegare l’onset, ma, fino ad oggi, ogni tentativo è risultato vano o comunque incompleto, perchè è un fenomeno fisico di complessità elevata correlato ad instabilità sia di tipo macroscopico che microscopico. Per questo tipo di propulsori i rendimenti non superano il 35% e gli impulsi specifici si attestano nell'intervallo 2000÷3500 secondi.

Propulsori magnetoplasmadinamici a campo magnetico applicato

Hanno lo stesso principio di funzionamento e le stesse problematiche dei precedenti, eccetto per il fatto che in essi è presente anche un campo magnetico applicato esternamente, con lo scopo di stabilizzare la scarica e aumentare il rendimento di spinta in corrispondenza delle potenze più basse (<100kW). Infatti, a parità di spinta, un campo magnetico assiale applicato assolve il compito di impedire il moto degli eletroni verso l'anodo diminuendo così la corrente quindi la potenza utilizzata. La forza di Lorentz che agisce sul propellente ionizzato sarà allora somma di due componenti: una dovuta, come nel caso precedente, al campo magnetico autoindotto, l'altra dovuta al moto azimutae degli elettroni (corrente di Hall), per il campo magnetico assiale che esternamente diverge (Fig.2.15). La caratteristica che contraddistingue questi propulsori dai precedenti è rappresentata dal fatto che le linee di corrente si chiudono sull’anodo solo al di fuori del canale, rendendo più critici i test a terra a causa della richiesta di camere a vuoto di dimensioni maggiori onde evitare interazioni con le pareti.

x y z

B

j

z

y

x

X Y

Z

B

E*

jxB -j/ 

Figura 2.15 - Schema di funzionamento di un MPD a campo magnetico applicato.

(19)

Capitolo 2 La Propulsione Spaziale

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2.5 Propulsori ad effetto Hall

I propulsori ad effetto Hall, pur essendo dispositivi la cui legge di spinta è regolata dal meccanismo di accelerazione elettrostatico (Eq.2.14), non possono essere inseriti nella famiglia dei propulsori a ioni, in quanto il campo elettrico autocostituente che genera la spinta è generato dall'interazione di un campo elettrico assiale con un campo magnetico radiale. In un propulsore ad effetto Hall, la spinta viene generata dall’accelerazione di un plasma ad opera della differenza di potenziale

esistente tra un anodo (iniettore) posizionato all’inizio della camera di scarica anulare e un catodo (neutralizzatore) posto esternamente al canale (Fig.2.16). Inoltre la particolare fisica del propulsore fa si che tale differenza di potenziale tra i due elettrodi risulti concentrata in corrispondenza della bocca di uscita, grazie alla formazione di una nuvola elettronica per la presenza del campo magnetico, che ha il ruolo sia di ionizzare che di accelerare elettrostaticamente gli ioni prodotti. Per tale motivo gli HET sono posti nella stessa categoria dei propulsori a ioni, pur differenziandosi notevolmente da questi ultimi. La tendenza degli elettroni ad addensarsi in corrispondenza dell’uscita del canale si spiega considerando il particolare processo fisico a cui essi

vanno incontro quando arrivano nella regione a forte campo magnetico: come si vedrà nel capitolo 3, il moto degli elettroni in corrispondenza della regione fortemente magnetizzata è caratterizzato da una velocità di deriva assiale di molto inferiore a quella di deriva azimutale e ciò si traduce in un aumento della resistività del plasma in corrispondenza della sezione d'uscita. Inoltre la deriva degli elettroni verso l’anodo porta alla ionizzazione del propellente in uscita dallo stesso, senza l’apporto di appositi dispositivi atti alla ionizzazione.

Questo tipo di propulsori mostra rendimenti superiori rispetto ai MPD (40÷70%), un ampio intervallo di impulsi specifici ottenibili (1500÷4500 s) e potenze specifiche di 45÷50 kW/N.

Vengono utilizzati a basse potenze, solitamente inferiori a 10kW, perchè la nube libera di elettroni genera forti perdite per interazione con le pareti della camera, come si vedrà nel prossimo capitolo, proporzionali all'energia del plasma (temperatura elettronica) nella zona di deriva azimutale. Le due principali configurazioni per un propulsore ad effetto Hall sono (Fig.2.17):

 Stationary Plasma Thruster (SPT)

 Thruster with Anode Layer (TAL)

La differenza più rilevante tra le due configurazioni risiede nella dimensione e nel materiale della camera di scarica, e, in particolare, negli SPT la camera è in materiale ceramico e risulta essere più lunga della camera metallica dei propulsori TAL; ciò si traduce in una rilevante differenza di localizzazione e intensità dei diversi fenomeni fisici, i quali possono aver luogo interamente all’interno del canale (SPT) oppure parzialmente al di fuori di esso (TAL).

Figura 2.16 - Schema di funzionamento di un HET

(20)

Uso di propellenti alternativi allo Xenon in propulsori a effetto Hall

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Figura 2.17 - SPT (a sinistra) e TAL (a destra) a confronto

2.5.1 Cenni storici sui propulsori ad effetto Hall

Lo sviluppo dei propulsori ad effetto Hall ha inizio nei primi anni ’60 in maniera indipendente negli Stati Uniti e in Unione Sovietica9. I primi dispositivi risalgono al 1962 e sono statunitensi, ma, a causa del concomitante sviluppo dei propulsori a ioni e dei risultati insoddisfacenti circa i rendimenti di spinta, la sperimentazione cessò intorno agli anni ’70.

Nell’URSS, invece, l’attività di ricerca su questi propulsori coinvolse due distinti gruppi di ricerca. Il primo guidato da A. I. Morozov studiò e perfezionò un propulsore di tipo SPT, mentre il secondo gruppo guidato da A. Z. Zharinov, lo stesso ad aver concepito l'idea alla base degli HET, concentrò i propri sforzi sulla messa a punto della configurazione TAL. Il 29 Dicembre 1971, volò il primo prototipo di propulsore ad effetto Hall, l’SPT-60 sul satellite sovietico Meteor. Dopo questo altri propulsori furono impiegati dall’Unione Sovietica per applicazioni satellitari, ma è solo dopo la guerra fredda che l’occidente comprese le potenzialità di tale propulsore. Dagli anni ’90 ad oggi l’interesse per tale categoria di propulsori è aumentato e attualmente lo sviluppo di tali propulsori per le manovre di station-keeping e riposizionamento orbitale è nei programmi spaziali di tutte le più grandi aziende mondiali che si occupano di propulsione. Il primo propulsore HET europeo (PPS-1350 di Snecma, Fig.2.18) è stato lanciato in orbita il 27 settembre 2003 ed è stato utilizzato con successo come sistema propulsivo principale per il trasferimento Terra- Luna (terminato il 14 novembre 2004) della sonda sperimentale europea SMART-1.

(a) (b)

Figura 2.18 - PPS®135010 - (a) foto del propulsore e (b) un'immagine dello stesso in funzione

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