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L’approccio alle fonti popolari come fonti storiche a tutti gli effetti – nel caso concreto da me analizzato - necessita anche alcune brevi annotazioni relative alla critica delle fonti medesime.

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Academic year: 2021

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Conclusione

Il mio lavoro di tesi si proponeva di narrare la vicenda di un italiano emigrato in Tunisia e della sua famiglia, coinvolta più o meno direttamente nell’esperienza di mobilità, attraverso l’analisi di fonti soggettive ed eminentemente private. A tal proposito, ho riordinato cronologicamente il fondo Federici presente alla Fondazione Cresci e costituito per la maggior parte da corrispondenze epistolari.

Il primo dato da mettere in evidenza è che, seppure di origine familiare, i documenti analizzati rivelano quanto gli eventi macrostorici e i fenomeni di lunga durata abbiano influito ed inciso sulla vita di ogni singolo personaggio e, di conseguenza, anche su quella dell’intero nucleo familiare. In questo senso, come esposto nella quarta e quinta sezione, i Federici si sono trovati a dover reimpostare la propria vita dall’oggi al domani a causa di una querelle politico-diplomatica tra Francia e Italia; sullo stesso piano

agiscono anche altri fenomeni e meccanismi apparentemente meno irruenti - come l’andamento dei prezzi e dei cambi, che influenza l’entità delle rimesse e le modalità di spedizione – e le caratteristiche dell’ambiente naturale ed antropico – miniere, clima, paesaggio – che impongono l’adozione di precise strategie di sussistenza e di lavoro.

L’approccio alle fonti popolari come fonti storiche a tutti gli effetti – nel caso concreto da me analizzato - necessita anche alcune brevi annotazioni relative alla critica delle fonti medesime.

In primo luogo devo sottolineare che l’impossibilità di poter fruire di

entrambi i contesti comunicativi coinvolti nella relazione a distanza

ha reso piuttosto difficile indagare la ricezione del fenomeno di

frantumazione familiare anche dal punto di vista di chi o di coloro

sono rimasti in Italia. Inoltre è da aggiungere che per il tipo di fonti

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utilizzate, essenzialmente lettere, l’attendibilità e la rappresentatività del corpus risulterebbero tanto maggiori quanto più fosse possibile definire l’estrazione sociale, la formazione culturale, l’area di provenienza e la personalità del soggetto scrivente. Purtroppo, come già ampiamente spiegato, il fondo Federici è un fondo frammentario e polifonico, di cui niente di certo si sa a proposito del versamento o dei versamenti al collezionista Cresci e per il quale non ho ritenuto opportuno, in questa sede, procedere ad indagini più approfondite, come tentare di individuare e contattare eventuali discendenti della famiglia.

In secondo luogo, da una prima rassegna degli studi sulle scritture della “gente comune”, ho notato che le indagini si sono soffermate soprattutto sulle scritture di guerra, e, in misura minore, su quelle d’emigrazione. Anche per queste ultime, però, l’approccio storiografico ha finora preso soprattutto in considerazione attori propriamente “popolari” – contadini, braccianti, disoccupati, operai, piccoli artigiani – emigrati tra Ottocento e primo Novecento, studiando molto più sporadicamente scritture di altri soggetti di diversa estrazione sociale e di diverso periodo storico, e quindi portatori di un’identità e di un sistema di valori peculiari, come per l’appunto, negli anni Venti e Trenta, entrambi i fratelli Federici 1 . Questa situazione, se da un lato mi ha comunque permesso di individuare alcuni elementi tipici delle scritture di emigrazione - al di là di chi, ricco o povero, proletario o borghese, le producesse - dall’altro non mi ha dato la possibilità di fruire di casi che fossero

“termini di paragone” all’interno dello stesso gruppo sociale.

1

Emilio Franzina, il più attento studioso italiano di emigrazione ha concentrato, ad esempio, i suoi studi principalmente sulle esperienze di migranti di estrazione contadina provenienti dalle regioni del Nord-Est. A tal proposito, cfr. E. Franzina, Scritti autobiografici di emigranti italiani in America Latina: il caso brasiliano, in

“Materiali di lavoro”, 1-2, 1990, pp. 185-222; E. Franzina, Merica! Merica!

Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti e friulani in

America Latina 1876-1902, Verona, Cierre Edizioni, 1994; E. Franzina, Una

patria straniera. Sogni, viaggi e identità degli italiani all’estero attraverso le fonti

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Consapevole sin dall’inizio del mio lavoro di ricerca di queste lacune interpretative, oltre, ovviamente, dei miei limiti conoscitivi, ho comunque deciso di proporre durante la narrazione quelle che ho ritenuto essere le osservazioni e le considerazioni più interessanti a proposito del fondo analizzato. Da qui l’attenzione a come Mario percepiva l’ambiente circostante, sia fisico che antropico, in relazione al suo ambiente di origine; al doloroso dualismo dell’appartenenza familiare – la vera e buona famiglia in Italia, la famiglia artificiale e negativa in Tunisia; alla dimensione lavorativa, prevista come occasione di arricchimento veloce e rivelatasi invece fonte di molte sofferenze. E ancora, più avanti nella narrazione, lo spazio dedicato alla vicenda delle miniere del vecchio Luciano Federici, arrivato in Tunisia intorno agli anni Ottanta dell’Ottocento;

e infine l’irrompere evidente della Storia nella micro-storia, attraverso le lettere inviate da Mario sempre più preoccupato per la situazione politica in Tunisia nel 1938-9, e da Pasquale, fortemente disilluso - era stato fascista fervente - di fronte all’impossibilità di trovare lavoro in un’Italia mussoliniana prossima al tracollo.

Al di là di queste osservazioni, posso dire con convinzione che l’“esperimento” di studio del fondo Federici è stato faticoso ma molto stimolante.

Le vicende dei “senza storia”, della gente comune, si sono rivelate già da molti anni bacini interessantissimi da cui attingere informazioni e notizie utili sia sul mondo “oggettivo” delle aree di partenza e di quelle di arrivo, sia sul mondo “soggettivo”

(sentimenti, aspettative, immaginario) degli individui impegnati, spesso per la prima volta, a scrivere di sé.

In questo senso, soffermarmi sull’esperienza di un personaggio

comune (il singolo individuo e la sua famiglia), ha significato

confrontarmi con un archivio involontario, composito, sfuggente,

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molto diverso dagli archivi che raccolgono documentazione burocratica, tipica degli enti e delle istituzioni.

Nell’ambito delle fonti popolari ogni lettera ed ogni racconto, espressione dell’Io scrivente, costituisce uno strumento utile per sondare la dimensione psicologica e sociale degli individui, rendendo possibile, in una prospettiva allargata e comparativa, la ricostruzione di una storia dei comportamenti e delle relazioni. Le testimonianze della gente comune costituiscono un punto di osservazione interno agli eventi e sono in grado di fornire all’osservatore scorci di storia e di storie non trascurabili. È così possibile cogliere le ricadute della Grande Storia sulla quotidianità soggettiva di uomini, donne e bambini, evidenziando le complesse connessioni che le esperienze personali stabiliscono con il piano generale della storia.

Ogni testo è evidentemente una risposta soggettiva agli eventi in corso, ma se tante storie di vita fossero messe in relazione e confrontate secondo un’accurata griglia metodologico- interpretativa, si potrebbero delineare traiettorie piuttosto definite, seppur nel loro moto irregolare. In tal senso, ad esempio, è proprio grazie all’uso di fonti popolari - lettere, diari, autobiografie - che è stata ridefinita e sfumata l’esclusiva interpretazione dei fenomeni migratori come legata necessariamente e imprescindibilmente a fattori espulsivi (dalla terra di origine) e fattori attrattivi (delle aree di arrivo). Alla base della mobilità di tanti individui stanno anche motivazioni personali, familiari, comunitarie e fenomeni di tradizione migratoria di lunga durata che possono essere scoperti e conosciuti studiando le “vite di carta” che ci offrono le scritture private.

Ciò che mi ha mosso ad avvicinarmi con passione e curiosità

alla storia della famiglia Federici ed in particolare del suo

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riconoscimento dell’utilità delle fonti popolari in una prospettiva di comprensione dell’attualità. Nella fattispecie, infatti, l’epistolografia popolare di emigrazione, con la sua attenzione al caso specifico, al personaggio comune, alla peculiarità di ognuno, alla microstoria, ci propone – se così si può dire - un approccio analitico e non generico né generalizzante alla realtà complessa ed eterogenea che stiamo nostro malgrado vivendo. Far tesoro della lezione che ci è offerta dal corretto uso delle fonti popolari in un ambito di indagine storica, dovrebbe favorire – o quantomeno potrebbe farlo – un approccio diverso all’attualità dei fenomeni migratori che, oggi più che mai, investono in entrata il nostro Paese e pongono all’attenzione di tutti problematiche di convivenza e di confronto.

È come se, in qualche modo, le lettere dei migranti del passato ci allenassero al presente, suggerendoci che ha poco senso e potrebbe essere rischioso e portare a derive pericolose categorizzare gli Altri 2 . Credo, in quest’ottica, che sarebbe più coerente parlare di singoli individui, di singole persone, come di Alin, di Camelia, di Mohammed, di Xij Liu, ognuno con una propria soggettività, con proprie aspirazioni, con proprie idee e sistemi di valori, ognuno residente in un Paese dove non è nato, proprio come in Tunisia era il nostro “vecchio” Mario Federici.

È in questa dimensione che riconosco alle fonti storiche popolari del passato un’inconsapevole proiezione di conoscenza della

“modernità” (che in realtà non è intrinsecamente loro, ma di chi, come me, le legge e prova a interpretarle), un valore costitutivo che è strumento utile per affrontare le sfide che la realtà di oggi ci impone come imperativo ineludibile in una cornice non riduttiva ma di inevitabile complessità.

2

Mi riferisco in particolare a generalizzazioni raramente solo descrittive, come

quando si parla de “gli albanesi”, “i rumeni”, “i marocchini”, “i cinesi” eccetera,

contrapposti agli italiani, a “noi”. Queste etichette sono utilizzate frequentemente

sia dai media che dalla bassa politica che dalla vulgata popolare e fomentano

l’erezione di barriere impermeabili e sempre più spesse.

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Concludo riportando ancora le illuminanti parole pronunciate da Pietro Clemente al termine del terzo Seminario nazionale degli Archivi della scrittura popolare: «E forse in questa nozione della scrittura come intersoggettività-possibilità di comunicazione, c’è uno dei segreti che ci prende quando studiamo gli individui della scrittura popolare e li mettiamo in comunicazione con noi, e poi li mettiamo in una comunicazione circolare nella comunità degli studiosi. C’è un senso attuale in questo: per noi è un incontro leggere il diario di una famiglia contadina […], oppure incontrare le scritture degli ospedali psichiatrici; è un incontro, è un evento, non è soltanto una fonte storiografica o un oggetto di ricostruzione di sistemi di pensiero o sociali. È il segno di una possibilità della scrittura di rimettere in comunicazione esseri umani e di dare senso alla nostra vita collettiva. Ecco: queste sono motivazioni che non stanno né all’antropologia né alla storiografia, ma forse sono una pista di ricerca del senso non solo specialistico o ideologico che ci spinge a un progetto di conoscenza che è insieme, […], anche un progetto di incontro sia con chi ha scritto i testi che studiamo, sia tra noi che ne parliamo; un progetto del quale non dobbiamo nascondere ma esplicitare e capire le motivazioni profonde, quelle per cui lo spirito di ricerca diventa anche un impegno appassionato» 3 .

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