• Non ci sono risultati.

Capitolo 4 I TESTI E L’ANALISI TRADUTTOLOGICA 1. Selezione dei capitoli.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Capitolo 4 I TESTI E L’ANALISI TRADUTTOLOGICA 1. Selezione dei capitoli."

Copied!
27
0
0

Testo completo

(1)

  LVI  

Capitolo 4

I TESTI E L’ANALISI TRADUTTOLOGICA

1. Selezione dei capitoli.

Dei ventisette capitoli che costituiscono il romanzo Sweet Hope, per il lavoro di traduzione svolto in questa tesi ne sono stati presi in considerazione sei, con l’aggiunta del prologo e dell’epilogo. La scelta è stata fatta sia in base alle peculiarità linguistiche riscontrate, e perciò significative per un’analisi traduttologica, sia in base ai contenuti degli stessi capitoli, in modo da fornire una visione quanto più omogenea e lineare degli eventi che si susseguono nel romanzo.

I capitoli tradotti sono il secondo, il quarto, il dodicesimo, il diciottesimo, il ventiduesimo e il ventisettesimo.

Il secondo capitolo, intitolato “Gratitude”, presenta al lettore il primo vero confronto culturale tra la famiglia italiana dei Pascala e quella afroamericana degli Hall. Nel primo capitolo il protagonista italiano Serafin Pascala aveva salvato dall’annegamento il figlio più piccolo degli Hall, e questi ultimi si sentono in dovere di ringraziare gli italiani portando loro dei doni. La scena si svolge alla baracca dove alloggiano i Pascala, e il lettore assiste all’incontro tra tutti i membri – adulti e bambini – delle due famiglie, percependo le differenze culturali

(2)

  LVII   attraverso i dialoghi dei protagonisti. Fancy Hall cucina pannocchie di mais per tutti e nel frattempo, mentre i personaggi cercano di vincere la diffidenza reciproca, si osservano particolari dell’abitazione dei Pascala e si vengono a conoscere dettagli sulla loro vita e sul loro viaggio in America.

Nel quarto capitolo, intitolato “Ceravone’s Visit”, si assiste all’incontro degli ultimi italiani arrivati con Ceravone, membro della prima ondata di immigrati che raggiunse Sweet Hope. Nella riunione segreta a casa di Lazzaro e Fiorenza, amici dei Pascala, si parla delle condizioni di lavoro nella piantagione e l’anziano narra ai nuovi arrivati la storia degli schiavi neri, così come è stata raccontata a lui. Il lettore, insieme ai protagonisti, scopre il meccanismo sconcertante che lega gli italiani a Sweet Hope, quello che è successo in precedenza ai loro connazionali e il razzismo che serpeggia nei loro confronti: quando, il giorno seguente, Serafin e il suo amico Lazzaro si recano all’emporio della piantagione per acquistare attrezzi da lavoro da far noleggiare ad altri agricoltori, vengono bloccati dal commesso e dall’interprete. Scoprono così che agli italiani non è permesso comprare strumenti, ma solo noleggiarli, che non possono fare nulla per affrancarsi al di fuori di ciò che è contemplato nel contratto e che gli amministratori bianchi americani li considerano appartenenti a una razza inferiore. Per la prima volta, Serafin e Lazzaro si rendono conto che il viaggio in nave verso il paradiso li ha portati dritti in un vero inferno.

Il capitolo dodici, “Stealing the Priest’s Rowboat”, è tutto al femminile e si apre con le due madri protagoniste che si recano di nascosto al villaggio

(3)

  LVIII   attraversando il lago su una barca a remi. Fancy Hall ha deciso di andare a cercare un lavoro migliore per il figlio Calvin e porta con sé Amalia Pascala, che ha confezionato alcuni abiti con l’intento di venderli al negozio del villaggio. Insieme a loro, le rispettive figlie minori Birdie e Isola. Dopo aver assistito alla trattativa per la vendita degli abiti, sulla scena rimangono soltanto le bambine, che in un primo momento si avvicinano a una chiesa e discutono di religione (e il lettore osserva la visione distorta che gli afroamericani hanno del Cattolicesimo). Dopo essersi recate all’emporio, si avvicinano a un recipiente di sottaceti ma, quando vengono scoperte dal proprietario, Birdie riesce a scappare mentre Isola, spaventata, si nasconde sotto un mobile. A prenderla con sé è una signora americana che, incuriosita dalla bambina, la porta in albergo a bere una limonata fresca e si intrattiene con lei. La signora tratta la bambina come uno “strano animaletto”, la trova buffa, è incuriosita, non conosce la realtà delle piantagioni (non dal punto di vista dei lavoratori). Alla fine, quando Isola decide di tornare al lago per cercare sua madre e Birdie, la signora americana le consegna due monete di diversa valuta, spiegandole che una è per lei e una è per l’amica. Quando, tornando verso casa, racconta a Birdie cosa le è successo e cosa le ha dato la signora, Isola viene offesa dall’altra bambina, che si sente sminuita dalla diversità delle monete e la accusa di essere una “bambina bianca”. Ferita e dispiaciuta, Isola getta le monete nel lago.

Il diciottesimo capitolo, “Love Across the Delta”, ha una struttura particolare perché è composto principalmente da immagini suggestive – a tratti fotografiche – e brevissimi spezzoni, ciascuno dei quali mette in luce il rapporto

(4)

  LIX   che lega tra loro personaggi, oggetti, situazioni all’interno della piantagione. Alcune parti sono più lunghe e articolate di altre, e sono quelle dedicate al legame delle coppie protagoniste, in particolar modo quella formata da Calvin e Angelina. Si scopre che i due giovani vivono un amore clandestino, che altrimenti sarebbe osteggiato sia dai rispettivi genitori sia da Lee Horton, sgherro e amministratore della piantagione per conto del proprietario Harlan Gates. La relazione tra i due ragazzi si complica quando Angelina scopre di essere incinta e Horton li sorprende insieme.

Il ventiduesimo capitolo, “The Wedge is Driven”, è uno dei più drammatici. Calvin Hall è stato barbaramente ucciso da Lee Horton e a Sweet Hope si crea una frattura insanabile tra la comunità nera e quella italiana. Lo sguardo del lettore si sposta dalla casa degli Hall, dove Fancy è distrutta dal dolore, al resto della piantagione, dove Step si avventura a piedi per riflettere in solitudine sul proprio dolore e sulla propria esistenza, e decide di recarsi di persona sul luogo del delitto per poi arrivare alla segheria dove Fred Titus sta preparando la bara per suo figlio. Calvin viene sepolto al cimitero Hyner e il giorno dopo Step decide di affrontare Serafin Pascala, che continua a ritenere il vero responsabile della morte del figlio. Il drammatico confronto a casa Pascala, dove i protagonisti si rinfacciano l’appartenenza a razze diverse, raggiunge il culmine quando Angelina dichiara a entrambe le famiglie di essere incinta. Amalia rimane sbigottita per l’aspetto religioso che la vicenda assume ai suoi occhi, perché Angelina ha peccato non essendo unita in matrimonio, mentre Step ritiene che questa gravidanza possa aver costituito un ottimo movente per spingere Serafin a uccidere Calvin, e pronuncia

(5)

  LX   l’accusa contro l’italiano. L’offesa è troppo grossa per entrambi, la distanza di pensiero è ormai incolmabile. Quella che era sembrata una solida amicizia è ormai ridotta a un cumulo di macerie.

Il ventisettesimo capitolo è quello conclusivo e s’intitola “Morning”. I Pascala e la famiglia di Lazzaro vengono allontanati da Sweet Hope per volere del proprietario della piantagione. Il capitolo si apre con i tormenti di Amalia la notte prima della partenza, tormenti che proseguono la mattina successiva quando Angelina non si trova. Le famiglie devono partire e la ragazza sembra svanita nel nulla. Le ricerche vanno avanti per un po’, finché gli agenti incaricati di portare gli italiani alla nave e assicurarsi che si imbarchino non decidono che i Pascala devono partire comunque, anche senza la figlia maggiore. Arrivati al punto d’approdo, Amalia e Serafin tentano in ogni modo di non salire sulla nave per non rinunciare alla figlia, ma vengono portati a bordo con la forza e legati. Quando l’imbarcazione è abbastanza lontana dalla riva e vengono slegati, i due si scagliano con tutta la loro forza e frustrazione contro gli americani che li scortano, ma ormai è troppo tardi e indietro non si può tornare. Nella disperazione generale e nella promessa di Serafin – impossibile da mantenere – di tornare a Sweet Hope per cercare Angelina, i protagonisti italiani lasciano per sempre la piantagione. Mentre la nave si allontana, Serafin si volge per l’ultima volta verso la terra distante e alza una mano in segno di saluto verso la sagoma indistinta che gli sembra di scorgere. La sagoma c’è davvero, ed è quella di Step Hall che osserva i vecchi amici andarsene. Vicino a Step, nascosta fra i cespugli, c’è anche

(6)

  LXI   Angelina, sconvolta. Ha deciso di rimanere nella terra dove è sepolto il padre del suo bambino e, nonostante il grande dolore, viene accolta dalla famiglia Hall.

2. Onomastica e toponomastica: tradurre o no?

Il primo grande dilemma traduttivo scaturito dall’approccio a questo romanzo è stato il titolo, poiché si tratta di un nome parlante che cela una serie di significati: “sweet hope”, tradotto letteralmente, significa “dolce speranza” e sottintende una serie di elementi che, intrecciati tra di loro, racchiudono il senso di tutto il romanzo. Sweet Hope è il nome della piantagione di cotone dove si svolge la vicenda e assume una sfumatura tristemente ironica se pensiamo a quanto la vita lì dentro sia, in realtà, tutt’altro che dolce. La “dolce speranza”, però, è anche quella che accompagna gli italiani nel loro viaggio verso gli Stati Uniti e che li fa guardare con positività verso la nuova vita. La “dolce speranza” è quella di Harlan Gates, che sogna una brillante carriera politica ostentando la piantagione come fiore all’occhiello della sua abilità amministrativa. Nella “dolce speranza”, infine, si può identificare il bambino che cresce nel grembo di Angelina, simbolo di futuro, riscatto, possibilità e unione di culture.

La traduzione letterale del termine inglese non racchiuderebbe, agli occhi del lettore italiano, tutte le sfumature comprese dal lettore madrelingua, e ancor meno lo farebbe la mancata traduzione del toponimo. Trattandosi di un toponimo inventato dall’autrice, ho deciso di ricorrere a una traduzione che conciliasse quanto più possibile i significati sopra elencati e li riproponesse alle orecchie del lettore italiano. Serviva un’espressione che andasse bene come nome di una

(7)

  LXII   piantagione – riallacciandomi alla realtà italiana, ho pensato al nome possibile per un podere o una tenuta –, contenesse al suo interno più livelli interpretativi e, non ultima cosa, risultasse abbastanza accattivante anche come titolo, che rappresenta il biglietto da visita di un romanzo. Ho optato per una traduzione a termine unico, “Bellasperanza”, legando nome e aggettivo – perché ho privilegiato l’aspetto toponomastico – e sostituendo “bello” all’originale “dolce” per una questione di sonorità che, a mio avviso, si sposano meglio senza variare sensibilmente il significato: l’obiettivo è quello di accattivare il lettore, ma è necessario mantenere una certa coerenza semantica con il testo di partenza.

Nei capitoli tradotti compare il nome di un’altra piantagione, “Three Points”, che ho tradotto per coerenza con la traduzione della piantagione protagonista ma che, in assenza di ulteriori significati, ho semplicemente adattato nell’italiano “Tre Punte”; gli altri toponimi presenti sono rimasti invariati perché fanno riferimento a luoghi reali.

I nomi dei personaggi sono rimasti pressoché invariati nella traduzione, poiché già nell’originale i personaggi americani avevano un nome americano e gli italiani un nome italiano. L’unica modifica ha riguardato “Serafin Pascala”, divenuto “Serafino” nella traduzione: ritengo che, in questo contesto, per il lettore italiano sia più apprezzabile leggere tutti i nomi italiani presenti nella propria lingua, anche per distinguerli meglio dai personaggi di altra etnia.

(8)

  LXIII  

3. Variazione diamesica-diatopica-diastratica e culture a

confronto.

Partendo dal concetto di lingua standard (ossia di genere linguistico codificato in una serie di norme che accomuna un determinato gruppo di parlanti), che è considerato grado zero, neutro, e “pietra di paragone per capire le altre multiformi manifestazioni nelle quali si materializza la […] lingua”1, si può definire marcata qualunque manifestazione linguistica trasgredisca queste norme. La variazione linguistica rispetto allo standard è valutata secondo cinque parametri:

diamesia, il mutamento della lingua secondo il mezzo fisico impiegato, […] diastratia, la variazione legata alle condizioni sociali dell’utente, […] diafasia, la variazione che dipende dalla situazione comunicativa, […] diacronia, la trasformazione legata alla dimensione cronologica, all’evoluzione della lingua nel tempo, e la diatopia, i mutamenti della lingua nello spazio.2

Una delle principali caratteristiche di Sweet Hope è quella di essere un romanzo molto ricco di dialoghi; l’autrice fa ampio ricorso al discorso diretto e a tutte le particolarità che esso implica poiché, a dialogare, sono personaggi appartenenti a diverse categorie etniche e sociali, due in particolare:

• gli afroamericani • gli italiani

Ciascuna categoria di personaggi dialoga con membri della stessa o di categoria diversa, creando un incrocio di variazioni linguistiche su base diatopica e diastratica che rendono evidente sia la provenienza geografica e                                                                                                                

1 Cfr. Masini, Andrea, “L’italiano contemporaneo e le sue varietà”, in Bonomi, Ilaria, Masini,

Andrea, Morgana, Silvia, Piotti, Mario, Elementi di linguistica italiana, Roma, Carocci, 2003, p. 16.

(9)

  LXIV   sociale dei personaggi, sia la difficoltà di comprensione reciproca (elemento-chiave nella storia degli italiani deportati nelle piantagioni).

Partiamo da un esempio di dialogo che coinvolge personaggi italiani, nello specifico Serafin Pascala e Ceravone:

«There’re plenty Italians working against you, my friends,» Ceravone told them. «They don’t care a rat’s ass if you live or die, as long as they get paid.»

«Anybody else around here is afraid to open their mouths,» Serafin said. His voice was accusatory, distrustful.

«Look at me,» Ceravone said. «I’ll be dead pretty soon, thank God. What do I care what I say anymore?» (S.H., 56-7)

In traduzione ho riprodotto lo stesso dialogo come segue:

«È pieno di italiani che remano contro di voi, miei cari,» proseguì Ceravone. «Non gliene frega un accidente se siete vivi o morti, basta che loro vengano pagati.»

«Tutti gli altri qui c’hanno paura di parlare,» sentenziò Serafino. Il tono della voce era accusatorio, diffidente.

«Guardate me,» disse Ceravone. «Tra poco sarò morto, grazie a Dio. Ormai che me ne frega di stare attento a quel che dico?»

Le soluzioni che ho adottato comprendono espressioni del parlato (“non gliene frega un accidente”, “che me ne frega”) e costruzioni con il “ci” attualizzante, rafforzative e ridondanti (“[…] gli altri qui c’hanno paura […].” Ho cercato di riprodurre lo scambio di battute con verosimiglianza, tenendo conto del fatto che si tratta di personaggi provenienti da un ambiente incolto. Il fatto che siano tutti originari della stessa zona d’Italia, le Marche, spinge a pensare che in realtà dovessero parlare un italiano molto popolare, se non un dialetto vero e proprio, ma non ho ritenuto adeguato ricorrere al dialetto in traduzione perché non ci sono, nel testo originale, reali indicazioni in tal senso. Pur inserendo elementi

(10)

  LXV   tipici dell’italiano parlato, ho preferito restare fedele alla traccia dell’autrice, che racconta i dialoghi tra italiani con un inglese colloquiale ma non stravolto da errori.

Nella riproduzione del parlato, in questo come in molti altri dialoghi presenti nel testo, ho cercato di attenermi alle caratteristiche che distinguono l’oralità dalla lingua scritta: rispetto allo scritto, la prima è caratterizzata da ridondanza, da surplus informativo. Ci sono microridondanze anche all’interno di una stessa frase e una serie di forme non ammesse dalla lingua scritta codificata (ad esempio dislocazioni a destra o a sinistra, “c’è” presentativo, clitici ridondanti, frasi scisse, “che” polivalente, contrazioni tipo “m’ha detto”).3

Il seguente è un esempio di dialogo tra afroamericani; a parlare sono Fancy Hall e il figlioletto Tobe:

«You kids g’on outside,» Fancy ordered. «This house ain’t big enough.» She caught Tobe by the collar as he scampered from beneath the table. «Cep’ you. You ain’t goin nowheres.»

«Aw, Ma,» he said. He trew himself miserably at the table, leaning over it as if in pain. (S.H., 31)

In traduzione:

«Bimbi, fuori,» ordinò Fancy. «Questa casa non è grande abbastanza.» Afferrò Tobe per il colletto appena schizzò da sotto il tavolo. «Te no. Non vai proprio da nessuna parte.»

«Ma uffa mamma,» replicò il bambino. Si gettò tristemente sul tavolo, piegandosi come fosse in preda al dolore.

In questa circostanza, se facciamo un confronto con il linguaggio degli italiani appena analizzato, l’autrice ha marcato in maniera molto forte il modo di                                                                                                                

3 Cfr. Cavagnoli, Franca, Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese,

(11)

  LXVI   parlare dei personaggi, ricorrendo allo slang dei neri. La distanza tra la cultura del testo di partenza e quella del testo di arrivo induce a non utilizzare un dialetto in sostituzione dell’African American English (detto anche Black English o ebonics4), perché sarebbe fuori luogo e non avrebbe la stessa forza dell’originale. Lo slang è credibile perché radicato nel contesto socio-culturale dove è ambientata la vicenda, perderebbe efficacia e credibilità se trasportato in una cultura diversa (immaginiamo gli ex schiavi di Sweet Hope che parlano siciliano, napoletano o milanese!). Ritengo che la soluzione migliore sia quella di utilizzare, anche per tradurre i dialoghi dei neri, una lingua colloquiale che, pur se non intrisa di errori di pronuncia o grammatica come risulta il Black English rispetto all’inglese standard americano, mantenga tratti tipici dell’italiano parlato e renda l’idea dell’estrazione sociale dei personaggi.

Le differenze culturali sono molto più spiccate quando personaggi appartenenti a due diverse etnie parlano tra di loro: in questo caso, la diversità si palesa direttamente nel modo di parlare oppure negli argomenti di alcuni dialoghi. Vediamo un paio di esempi:

«They kill a goat or a pig,» […] «Sometimes they even kill a baby. Make you drink the blood an’ eat the raw meat right off the bone. Then they hang a chain ‘round your neck and say some hoodoo words. You got to say ‘em back right or else they pound nails in your feet and throw you in a fire.» (S.H.,164)

Questo intervento di Birdie è stato tradotto nel modo seguente:

                                                                                                               

4 Cfr. Rickford, John J., “What is Ebonics (African American English)?”,

http://www.linguisticsociety.org/content/what-ebonics-african-american-english (ultimo accesso: 31/03/2014).

(12)

  LXVII   «Ammazzano una capra o un maiale,» […] «A volte ammazzano anche un neonato. Ti fanno bere il sangue e mangiare la carne cruda, proprio dall’osso. Poi ti legano una catena intorno al collo e dicono qualche formula vudù. E te le devi ripetere per bene, sennò ti mettono i chiodi nei piedi e ti buttano nel fuoco.»

Birdie sta parlando a Isola della religione cattolica secondo la visione che ne ha. Si riconoscono immagini snaturate relative all’Eucaristia e alla Crocifissione (“ti fanno bere il sangue e mangiare la carne”, “ti mettono i chiodi nei piedi”) e le preghiere sono diventate “formule vudù”, “hoodoo words”. Le parole di Birdie sono quelle di una bambina che vive in una società avulsa dalla cultura cattolica, ed è facile immaginare che la sua fantasia abbia rielaborato frasi sentite da gente che ignora questa realtà religiosa, perciò anche in traduzione è stato necessario riprodurre questa catena confusa di simboli facendo sottintendere al lettore (italiano e conoscitore della cultura cattolica) ciò che vi è posto dietro. In questo caso, la distanza culturale è rappresentata mettendo gli occhi del lettore dietro al filtro del modo semplicistico e confusionario in cui un elemento basilare della cultura italiana viene percepito da un estraneo.

Passiamo ora a un esempio prettamente linguistico:

«Mr. Serafin,» he said. «Time for us to go. You come work wi’ me t’morrow, okay?»

«Work?» Serafin answered.

Step raised his hand in the air to slow the man down. «Not now. Tomorrow.»

[…]

Step gestured as if he were slepping, then waking up. Birdie laughed. «T’morrow,» he said. «I come for you, we work.»

Serafin nodded, «Come work.» «T’morrow.»

«Da marrah. E anche Lazzaro? Mi amico?» Serafin asked. «My friend, work too?» (S.H., 35)

(13)

  LXVIII   Questo dialogo tra Serafin e Step, collocato alla fine del secondo capitolo, è stato tradotto come segue:

«Signor Serafino,» disse, «Noi si deve andare. Domani viene a lavorare con me, va bene?»

«Lavorare?» chiese Serafino di rimando.

Step alzò una mano per frenarlo. «Non ora. Domani.» […]

Step si espresse a gesti, fingendo di dormire e poi svegliarsi. Birdie scoppiò in una risata. «Domani,» proseguì. «Vi vengo a prendere, si lavora.»

Serafino fece un cenno di assenso col capo. «Vengo lavorare.» «Domani.»

«Dimani. E anche Lazzaro? Mi amico?» domandò Serafino. «Il mio amico, anche lui lavora?»

In questa circostanza l’autrice ha ricreato una sorta di lingua pidgin ricca di frasi brevi, elementari (“Work”-“Lavorare”, “Come work”-“Vengo lavorare”), corredandola con la descrizione della gestualità: la scena è fotografica, i due personaggi stanno cercando di comunicare e la difficoltà, oltre al bisogno di ricorrere a gesti, è rappresentata dallo scambio di battute “T’morrow”-“Da marrah”. Entrambe le parole sono fonologicamente scorrette e indicano un errore di pronuncia sia da parte di Step che da parte di Serafin, che cerca di imitarlo. In traduzione l’errore di pronuncia compiuto da Step va perso, mentre ho riprodotto quello dell’italiano. Avendo deciso di non associare allo slang afroamericano alcun dialetto italiano e tradurre i dialoghi di entrambe le etnie con un italiano parlato emendato da regionalismi spinti, al lettore rimane soltanto l’errore nel passaggio da Black English a italiano (“Domani”-“Dimani”), e va perso il precedente abbassamento di livello, implicitamente presente nel testo di partenza (“Tomorrow”-“T’morrow”). Si perdono alcune sfumature, indubbiamente, e si

(14)

  LXIX   perde la distinzione linguistica tra gruppi etnici di cui gode il lettore madrelingua (standard American English à Black English à inglese parlato da immigrati italiani), ma è un compromesso necessario.

D’altro canto, un punto a favore della somiglianza linguistica tra afroamericani e italiani lo porta Bucci Bush stessa, in un passo del romanzo che non è stato oggetto di traduzione. Dice che gli italiani che imparavano l’inglese lo imparavano dal Black English, poiché le due comunità vivevano a stretto contatto:

And the few who spoke English, the children in particular, sounded not like the Americans he had met from New York, nor even like the Southern plantation owners and managers, but rather like the Black ones whose English rose and fell in that same unusual cadence. (S.H., 132).

In traduzione si perdono le differenze presenti nel romanzo, dove si fa distinzione tra il modo di parlare degli afroamericani e quello degli italiani, ma queste frasi ci dicono che quando alcuni italiani arrivavano a parlare inglese nella piantagione, lo parlavano come i neri. La scelta di tradurre nello stesso modo i due linguaggi, seppur obbligata come spiegato sopra, risulta perciò comunque verosimile.

4.

L’aspetto grafico del testo: un problema di traduzione.

L’ultimo dialogo proposto come esempio nel paragrafo precedente, introduce un altro problema che mi sono trovata a dover risolvere nella traduzione, ed è rappresentato da parole o intere frasi in corsivo. Per caratterizzare ancora di più gli immigrati, Bucci Bush inserisce nel testo inglese alcune espressioni in italiano, scrivendole in corsivo (es.: «E anche Lazzaro? Mi

(15)

  LXX   amico?»). Il problema, in traduzione, non si porrebbe se il corsivo si limitasse esclusivamente a questi casi. In realtà, nel testo di partenza, il corsivo viene utilizzato sia per frasi/parole riportate direttamente in italiano, che acquistano maggior peso all’interno del testo o che sono pronunciate dagli italiani in difficoltà con la lingua inglese, sia per frasi in inglese che indicano determinati pensieri o sottolineano concetti (es.: “[…] Tomorrow their real life began. Valerio, I’ll make you proud. For you, this new life on land” (S.H., 37), che tradotto diventa “Domani sarebbe iniziata la loro vera vita. Valerio, ti renderò orgoglioso. Questa nuova vita terrena la dedico a te.”)

Nel testo di partenza la distinzione dei due corsivi è data direttamente dalla lingua in cui vengono scritti. Nella traduzione italiana tale distinzione si perde, perciò diventa necessario trovare un modo per recuperarla visivamente e far capire al lettore che si tratta di due corsivi differenti. La mia scelta è stata quella di mantenere il corsivo e distinguere ciò che nel prototesto è scritto in italiano o in inglese modificando il tipo di carattere a seconda della lingua usata dall’autrice.

5. Realia.

Con il termine “realia” vengono definite le parole e le espressioni che fanno riferimento a elementi tipici di una determinata cultura di partenza e che non trovano una corrispondenza esatta nella cultura di arrivo: sono sostanzialmente intraducibili. È compito del traduttore, in questo caso, riuscire a trasportare il testo da una cultura all’altra, tenendo sempre ben presente l’obiettivo primario di

(16)

  LXXI   rendere al lettore di una traduzione, quanto più possibile, la stessa atmosfera e le stesse sensazioni che il prototesto fornisce al proprio pubblico.

Quando il traduttore si imbatte nei realia, giunge a un bivio con due strade principali da poter percorrere, vale a dire due metodi traduttivi da poter applicare:

• Addomesticamento • Straniamento

Il primo metodo consiste nel trasformare il concetto culturalmente connotato di partenza in un concetto della cultura di arrivo che possa sostituirlo, pur non replicandone fedelmente il significato, e che sia più familiare al lettore; il secondo metodo prevede che si rispetti la distanza culturale posta dal prototesto e si mantenga, nel testo di arrivo, la patina straniante che non modella la traduzione sul lettore destinatario ma cerca di avvicinare quello stesso lettore alla cultura di partenza.

Nella mia proposta di traduzione ho cercato di decidere, a seconda dei casi, se ricorrere ad addomesticamento o straniamento, e in che grado farlo (se parzialmente o totalmente). Le mie scelte sono state spesso determinate da una visione d’insieme del testo: quando mi sono trovata a tradurre realia, ho cercato di confrontare il testo di partenza e il testo di arrivo fin a quel momento tradotto come fossero allo specchio, cercando di capire se avessero forma e colore molto simili e se il lettore della traduzione, di conseguenza, vedesse praticamente le stesse cose del lettore del testo di partenza. All’appiattimento di una riproduzione di dialoghi dove il modo di parlare è spesso simile, per quanto colloquiale, e si perde il forte contrasto tra il Black English e l’inglese che viene utilizzato dagli italiani, fanno da contraltare le descrizioni e le azioni inserite dall’autrice nel

(17)

  LXXII   corpo della storia, che rendono l’idea del contesto in cui si svolge la vicenda anche a un lettore ignaro di quella determinata realtà. Ciò che in viene perso nella mancata differenziazione del linguaggio, come si evince dai paragrafi precedenti, viene tenuto in vita dai contenuti dei dialoghi e dalle azioni compiute dai personaggi, che permettono al lettore di capire il ruolo svolto da ciascuno di loro.

Nella traduzione dei realia ho ritenuto necessario bilanciare il livello di addomesticamento e straniamento a seconda delle circostanze, tenendo ben presente due punti focali: l’atmosfera del testo di partenza e la comprensione del lettore destinatario. Di seguito, illustro alcuni esempi.

Il termine che mi ha creato più difficoltà in tal senso è stato “dago”. Si tratta di un epiteto molto offensivo destinato agli immigrati europei che giungevano negli Stati Uniti dall’area mediterranea, in particolar modo di provenienza italiana o spagnola, e la sua origine è probabilmente da ricercare nel nome proprio “Diego”, molto comune in Spagna. Nel romanzo viene usato in prevalenza dai bianchi come insulto razzista verso gli italiani, ed esempio nella scena del quarto capitolo dove Serafin e Lazzaro sono all’emporio per fare acquisti e hanno uno scontro verbale con il commesso, che chiama l’interprete per allontanarli: “«Come get this stupid Dago,» the clerk called to him.” (S.H., 64) Il problema traduttivo è stato posto dal fatto che “dago” non ha un traducente italiano e, nonostante un precedente letterario illustre come la raccolta di racconti Dago Red di John Fante, lasciare in traduzione il termine inglese mi sembrava fin troppo oscuro per un lettore italiano che non necessariamente è cultore della materia. Ho tradotto la frase sopra indicata come segue: “«Vieni a prenderti questo stupido guappo,» gli gridò il commesso.” Al traducente “guappo” sono arrivata cercando sinonimi di

(18)

  LXXIII   “dago”: uno di questi è “wop”, altro epiteto molto offensivo indirizzato a inizio Novecento agli immigrati italiani negli Stati Uniti (nasce probabilmente come acronimo di “WithOut Papers”) e la cui presunta origine è da ricercare nell’italiano “guappo” e nello spagnolo “guapo”.

Le mie alternative, a questo punto, erano due: mantenere l’originale “dago”, bizzarro alle orecchie del lettore italiano ma proprio della cultura di partenza, oppure ricorrere al traducente “guappo”, più familiare al lettore della traduzione e comunque associato a un sinonimo del vocabolo usato dall’autrice. Ho optato per la seconda proposta, e quindi per un leggero addomesticamento. La scelta – perché alla fine, vagliate tutte le possibilità, quelle del traduttore sono scelte – è stata determinata dal fatto che, pur provenendo dal dialetto napoletano, il termine “guappo” è comprensibile a tutti i parlanti italiani, è riportato nel dizionario della lingua italiana e indica una persona con atteggiamento arrogante e strafottente che ben si abbina alla spavalderia di alcuni personaggi del romanzo. Basti pensare a Serafin Pascala che, in determinate circostanze, assume un atteggiamento di sfida e indomita fierezza verso i bianchi, non da ultimo quando tenta di aggredire i due americani che stanno conducendo lui e la sua famiglia alla nave per lasciare la piantagione: conoscendo le vicissitudini, quella di Serafin non è strafottenza, ma lo è agli occhi del pregiudizio razziale americano, poiché non dobbiamo dimenticare che il termine originale “dago” filtra il punto di vista del WASP e così deve essere anche per il suo traducente. Alla parola “guappo” come italianizzazione di un insulto razziale americano, inoltre, hanno fatto ricorso sia

(19)

  LXXIV   Vittorio Zucconi, in un articolo del 1993 intitolato “La rivincita dei guappi”5 dedicato a elezioni americane dove gli italoamericani trionfarono, sia lo scrittore Domenico Starnone, autore della prefazione all’edizione Einaudi del Dago Red di Fante, che dice che “Dago red” è “il vino rossorubino e dolceamaro fatto dai dago [… ] i guappi col coltello sempre pronto […] i neri ripugnanti italoamericani.”6

L’espressione usata da Starnone – che parla di gente con un coltello a portata di mano – richiama un’altra possibile origine del nome “dago”, quale storpiatura dell’inglese “dagger”, “pugnale”, a voler sottolineare la natura rissosa degli immigrati. La somiglianza fonetica è evidente, tuttavia la tesi più accreditata, tra le molte formulate nel corso del tempo, rimane quella che vede l’origine della parola nel nome maschile spagnolo.

Altra parola, sempre appartenente alla categoria degli insulti razziali, che è profondamente radicata nell’ambiente culturale che fa da sfondo al romanzo è “pickaninny”. L’autrice la fa dire a Miss Irene, ricca signora americana, nel dodicesimo capitolo, quando la donna e Isola sono sedute al tavolo dell’hotel e l’americana rivolge alla bambina domande sulla sua vita: “Then she leaned over the table and peered at Isola. «Is it true you Italians live together with the pickaninnies?»” (S.H., 169) Ho tradotto questa battuta di dialogo come segue: “Poi si piegò sul tavolo e scrutò la bambina. «È vero che voi italiani vivete insieme ai negretti?»”

                                                                                                               

5 Cfr. Zucconi, Vittorio, “La rivincita dei guappi”, La Repubblica, 4 novembre 1993,

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/11/04/la-rivincita-dei-guappi.html (ultimo accesso: 02/04/2014).

6 Cfr. Starnone, Domenico, “Prefazione”, in Fante, John, Dago Red. Racconti (orig.: Dago Red),

(20)

  LXXV   “Pickaninny” è l’appellativo, divenuto in breve tempo offesa, con cui negli Stati Uniti ci si rivolgeva ai bambini di colore, discendenti degli schiavi (per identificare lo stereotipo si può prendere, come esempio, il personaggio di Farina in Little Rascals7). La sua origine, stando al Merriam-Webster, è da ricercare nel portoghese “pequenino”, che significa “piccolino”. Il traducente “negretto” è, a mio avviso, il migliore e il più aderente all’originale, perché comprende la parola “negro”, che esprime semanticamente un forte senso di discriminazione razziale8, ma vi aggiunge una desinenza vezzeggiativa che ben si sposa al fatto che a pronunciarla sia una donna, come a volerle imprimere una sfumatura più giocosa, materna.

Realia sono anche i termini che fanno riferimento a flora e fauna locali, all’ecosistema dell’area geografica dove si svolge la vicenda, e che possono o non avere un traducente in italiano, o raffigurare qualcosa che, se tradotta mantenendo fedeltà al prototesto, il lettore italiano non conosce bene e apprende leggendo, familiarizzando così con il background geografico del romanzo.

I cinque termini che prendo come esempio per questa categoria di realia sono “yellow warbler”, “grey catbird”, “crawfish mud”, “cottonmouth snake” e “bayou”.

                                                                                                               

7 Cfr. Scena tratta da Little Rascals, http://www.youtube.com/watch?v=iev8kRsnNwU (ultimo

accesso: 04/04/2014). Nella scena sono inseriti due costituenti dello stereotipo del bambino nero: il modo di parlare e l’immagine dell’anguria (lo stereotipo del “pickaninny” rappresenta un bambino che mangia una fetta di anguria).

8 Per quanto riguarda l’uso della parola “negro”, si rimanda a Faloppa, Federico, “Negro, nero e di

colore”, Crusca per voi, 43, 2011,

(21)

  LXXVI   “Yellow Warbler” è una specie di uccello che vive in America, fra Stati Uniti e Messico, in prossimità di territori paludosi. L’autrice la utilizza per descrivere la risata di Miss Irene, nel dodicesimo capitolo: “Miss Irene tilted her head back and laughed in a soft thrilling way, like someone trying to imitate a yellow warbler” (S.H., 169), che nella mia proposta di traduzione diventa “Miss Irene piegò la testa all’indietro e rise trillando, come a imitare una dendroica.” Ho mantenuto la specie, evitando di addomesticare la traduzione ricorrendo a un animale più familiare al lettore del testo di arrivo, ma ho tolto l’aggettivo perché mi sembrava troppo specifico per un lettore cui, probabilmente, il solo termine “dendroica” è già sufficientemente esotico, e perché trovo la frase in italiano più scorrevole così.

Il “grey catbird” è un’altra specie di uccello che vive nei territori americani e, a seconda della stagione, spazia dal Canada alle zone caraibiche. Il nome deriva dal caratteristico canto che ricorda un miagolio. Nel romanzo compare al capitolo ventidue, quando Step esce dalla segheria di Fred Titus e vede quest’animale appollaiato sulla ruota di una carriola: “On its rusted wheel a grey catbird perched, eyeing him with cold, accusing eyes” (S.H., 313), che diventa “Un uccello gatto testanera era posato sulla ruota arrugginita e lo guardava con occhi freddi, accusatori.” Anche in questo caso, per coerenza con il caso della dendroica, ho deciso di non addomesticare e ho utilizzato la denominazione completa che questa specie, pur se probabilmente ignota a un lettore non esperto della materia, ha acquisito in italiano, “uccello gatto testanera” (la denominazione italiana e quella inglese hanno sottolineato due aspetti diversi della livrea dell’animale).

(22)

  LXXVII   “Crawfish mud” si trova in una descrizione dei passatempi preferiti di Tobe, all’interno del diciottesimo capitolo. Tra le cose che Tobe amava c’era anche “the slap of his bare feet in oozing crawfish mud” (S.H., 247), che ho tradotto “i piedi nudi che sbattevano nel fango melmoso pieno di piccoli gamberi.” Il “crawfish” (o “crayfish”, nella grafia dell’inglese britannico) è un tipo di gambero che vive in prossimità di corsi d’acqua e costruisce la propria tana con il fango, creando una specie di torre con un foro nella parte superiore da cui entra ed esce. Se le parole “crawfish mud” forniscono questa immagine al lettore del testo di partenza, non ho avuto modo di poter fare la stessa cosa traducendo in italiano, poiché la frase avrebbe dovuto essere più particolareggiata e sarebbe risultata più farraginosa, allontanandosi dallo stile dell’autrice che, in particolar modo nel capitolo diciotto, ricorre a frasi brevi e d’impatto, come fossero pennellate su un quadro. L’”oozing crawfish mud” è diventato il “fango melmoso pieno di piccoli gamberi”, che porta comunque al lettore l’immagine della fanghiglia di palude dove vivono questi piccoli animali.

“Cottonmouth snake” è un tipo di serpente acquatico velenoso che vive nel Sud degli Stati Uniti, nei pressi di paludi e fiumi a corso lento. Per quanto sia un serpente lontano dalla realtà del lettore italiano, vanta due traducenti: “mocassino acquatico” e “bocca di cotone”, quest’ultimo per la particolarità della sua bocca, che all’interno è bianchissima e contrasta con le squame molto scure che lo ricoprono. Tra le due opzioni ho scelto “bocca di cotone”, perché anche se il lettore della traduzione non lo conosce, questo nome è sufficiente, da solo, a

(23)

  LXXVIII   richiamare l’atmosfera della piantagione in cui è ambientata la vicenda del romanzo.

Per il “bayou”, per dirla con le parole di Umberto Eco, ho dovuto fare ricorso “all’ultima ratio, quella di porre una nota a piè di pagina – e la nota a piè di pagina ratifica la […] sconfitta.”9 Una consolazione giunge dalle parole di Bruno Osimo, secondo il quale

l’esplicitazione e la compensazione prodotte dall’uso di una nota possono essere positive o negative, in un determinato contesto, indipendentemente dal fatto che siano prodotte da una nota o da altro artificio metatestuale o testuale.10

Il termine in questione, nella selezione di capitoli che ho tradotto, si trova nel ventiduesimo capitolo, quando Step ripercorre la strada che ha portato il figlio al luogo del delitto: “He followed the plantation farms along the tree line, the same path Calvin would have taken down toward the bayou” (S.H. 309), che nella mia proposta diventa “Seguì il percorso delle fattorie lungo il filare di alberi, lo stesso che doveva aver preso Calvin per andare verso il bayou.”

“Bayou” fa riferimento a un preciso ecosistema della zona sud degli Stati Uniti, caratterizzato da un ambiente satellite al fiume Mississippi e al Golfo del Messico, ricco di acquitrini, corsi d’acqua che scorrono lentamente e inondano la vegetazione circostante, habitat naturale di alligatori, zanzare, gamberi (“crawfish”) e serpenti (“cottonmouth snake”), reso celebre anche dalla raccolta di

                                                                                                               

9 Cfr. Eco, Umberto, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani, 2003,

p. 95.

(24)

  LXXIX   racconti della scrittrice Kate Chopin, intitolata Bayou Folk, il cui racconto “Beyond the Bayou” si apre proprio con una descrizione di questo ambiente.11

Non trovando alcun traducente che riportasse con fedeltà il significato originario, ho ignorato l’addomesticamento perché avrebbe impoverito il testo in modo sensibile e avrebbe privato il lettore italiano dell’autenticità della location. Ho optato, quindi, per il mantenimento del termine americano, premurandomi di aggiungere una nota a piè di pagina che ne spiegasse il significato anche a un lettore ignaro della geografia del Sud degli Stati Uniti.

6. Italiano vs. Inglese: ulteriori difficoltà.

Altre difficoltà che ho dovuto affrontare nella traduzione dei capitoli dal romanzo di Bucci Bush hanno riguardato ulteriori differenze strutturali e lessicali che separano l’inglese e l’italiano.

È stata problematica, ad esempio, la resa degli aggettivi possessivi, poiché trattandosi di un romanzo narrato in terza persona l’inglese si affida alla distinzione “his/her”, non riproducibile in italiano con altrettanta chiarezza, dato che l’italiano dispone dell’unico aggettivo possessivo di terza persona singolare “suo/a”. Per determinare “chi fa cosa” e anche per interrompere l’alternanza “his/her” che è propria dell’inglese ma non dell’italiano, è stato necessario esplicitare questo possessivo come nel passo seguente, tratto dal diciottesimo capitolo, dove i protagonisti sono Calvin e Angelina:

                                                                                                               

11 Cfr, Chopin, Kate, “Beyond the Bayou”, in Chopin, Kate, Lilacs and Other Stories, Mineola,

(25)

  LXXX   «Did anybody see you?» she whispered.

«You know I’m too slick t’ get caught.»

Her brow crinkled.«I hate sneakin around. We shouldn’t have to.» (S.H., 251)

«T’ha visto qualcuno?» gli sussurrò.

«Lo sai che sono troppo furbo per farmi beccare.»

La ragazza corrugò le sopracciglia. «È una cosa che odio sgattaiolare di nascosto. Non dovevamo.»

Ho scritto “La ragazza corrugò le sopracciglia” perché, se avessi omesso il soggetto o avessi scritto “corrugò le sue sopracciglia” – forma da evitare, in italiano – non sarebbe stato chiaro se a compiere l’azione fosse il ragazzo o la ragazza, fatto che è invece lampante nel testo in inglese, data la presenza del possessivo femminile “her”.

È stato necessario, inoltre, ovviare all’obbligo inglese di esplicitare il soggetto di ogni frase, regola che non vale per l’italiano che, al contrario, spesso lo omette e lascia che sia la desinenza verbale a far capire chi sta compiendo una determinata azione. Ci sono, tuttavia, situazioni in terza persona singolare per le quali in italiano si creano ambiguità rispetto all’inglese, e in questo caso è necessario dichiarare il soggetto. Prendiamo un altro esempio con Calvin e Angelina, anche questo tratto dal capitolo diciotto:

Finally Calvin arrived, apologetic: «Pa wanted me to stay help ‘im with a broke wagon wheel.»

«Hmm,» she said. He could see she didn’t believe him. He kicked the ground. (S.H., 256)

Alla fine Calvin arrivò, scusandosi. «Pa’ ha voluto che lo aiutavo a riparare una ruota del carretto.»

«Mmh,» rispose la ragazza. Era evidente che non gli credeva. Calvin dette un calcio al terreno.

(26)

  LXXXI   In questo caso ho fatto ricorso a due sostituzioni. La prima è “she said” che diventa “rispose la ragazza”, proprio perché l’omissione del soggetto avrebbe comportato un dubbio su chi dei due ragazzi fosse a compiere l’azione; la seconda è collocata nell’ultima frase, “he kicked the ground”, dove ho utilizzato il nome proprio, dato che l’omissione avrebbe creato altra ambiguità su chi desse un calcio al terreno, mentre la formula “il ragazzo dette un calcio al terreno” avrebbe creato una fastidiosa ripetizione con “rispose la ragazza” scritto due frasi prima.

Data l’abbondanza di dialoghi, è stato anche necessario spezzare la monotonia causata dal largo uso che l’inglese fa dei verbi “to say” e “to tell”, ripetizione che stona nella lingua italiana dove il verbo “dire” appesantisce il testo se ripetuto a distanza troppo breve. In questo caso, ho attinto dalla varietà lessicale di cui l’italiano dispone per evitare le ripetizioni. Come esempio, propongo un passo tratto dal capitolo dodici, quando Isola decide di andarsene dall’hotel per tornare alla barca e Miss Irene scambia una battuta con la cameriera di colore:

«I have to go,» she said, standing up. «I have to find Birdie.»

Annie came out to take their empty glass away. «Isn’t she darling?» Miss Irene told her. «She’s worried about her little pickaninny friend.»

«Yes ma’am,» Annie said, carrying the glasses away. (S.H., 173)

«Devo andare,» disse alzandosi. «Devo trovare Birdie.»

Annie venne per portare via i bicchieri vuoti. «Non è un amore?» le chiese Miss Irene. «È preoccupata per la sua amichetta negra.»

«Sì, signora,» rispose Annie portando via i bicchieri.

La ripetizione a stretto giro di “said” e “told” è stata evitata con la traduzione di verbi che potessero logicamente sostituire i due inglesi, tenendo

(27)

  LXXXII   presente lo svolgimento dell’azione. Trattandosi di un dialogo con una domanda e una risposta, ho ritenuto opportuno alternare le due azioni “chiese Miss Irene” e “rispose Annie” per vivacizzare il testo, evitando la monotonia che sarebbe sorta se avessi ripetuto tre volte di seguito il verbo “disse”.

Riferimenti

Documenti correlati

In questo contesto, si colloca il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza che, a seguito delle tendenze internazionali e del lavoro svolto da prassi e

In this sense, school choice was now genuinely understood as a means to improve the quality of schools, and the reform of structures rather than standards moved up on the agenda:

As it has been shown, where the presence of a market for substitute performance is a criterion for matching analogous contractual disputes, some issues of delimitation

The key aspect we want to explore here is continuity and change in defence policy as it emerges from policy documents, and to account for the evolution of main strategic aims of

A new understanding of the nature of society changed the way people thought about equality and solidarity in the late nineteenth century.. The founding fathers of European sociology

When private organizations that complement public rule-making (state or international) also exercise monitoring powers some devices must be introduced like those provided

Two survey items measure respondents’ support for Euro- pean solidarity depending on the policy issues involved: Would respondents support or oppose financial solidarity with

Dans ce cadre, le CARIM a pour objectif, dans une perspective académique, l’observation, l’analyse et la prévision des migrations dans la région d’Afrique du Nord et de