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Giocando sul doppio senso che questa parola ha in francese, di “posto”

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Academic year: 2021

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«Abbandonate ogni speranza di totalità, futura come passata, voi che entrate nel mondo della modernità fluida»

Zygmunt Bauman

“E te, qual è il tuo posto?”.

Giocando sul doppio senso che questa parola ha in francese, di “posto”

nella vita, ma anche di “posto di lavoro”, Laurent Cantet chiude il suo primo lungometraggio, Risorse Umane. La questione di questo posto, vacante, riempibile, fisso, critico, instabile, nelle due accezioni, guiderà questo studio, attraverso l’analisi della problematica della disoccupazione in un corpus di film definito nel tempo e nello spazio.

Si è scelto di procedere all’osservazione di questo fenomeno nella cinematografia di lingua francese europea, perché presentava una più densa produzione di opere ad interesse sociale, attenta a posare il suo sguardo sulla contemporaneità e ai suoi riflessi negli individui. Si tratta di opere generalmente intime, personali, ognuno con un suo angolo di veduta, ma con un pezzo di attualità portato dietro col cuore.

C’è da precisare innanzitutto che non si è operata una scissione di

frontiera tra Francia e Belgio francofono, nonostante la rivendicazione

della propria differente identità, dato il cospicuo numero di coproduzioni

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tra i due paesi, l’unità linguistica e la prossimità territoriale. Basti pensare ai film di Bruno Dumont, nei quali i francesi di frontiera rappresentati (così come i paesaggi fotografati) non si differenziano di molto dai “vicini” valloni. A conferma di questo, spesso i libri dedicati alla giovane produzione cinematografica francese includono nelle analisi anche i registi belga, unendoli in una unica ondata di “nuovo cinema francese” 1 .

Molti autori hanno rilevato, tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90, una esplosione di creatività portata avanti da giovani registi (nati tra gli anni

’50 e ’60), che, lanciandosi in opere prime di rilevante qualità, talvolta inaspettati successi di pubblico, hanno saputo dimostrare una coerenza nell’esplorazione delle proprie risorse creative e nel portare avanti un discorso cinematografico proprio anche nelle opere seguenti.

Lo studio più completo a questo proposito è Le jeune cinéma français di René Prédal 2 , in cui l’autore, prendendo atto dell’ondata di rinnovo generazionale, passa in rassegna tematiche, stili e tendenze di questi nuovi autori. Non vuole certo tentare di unificare il tutto in una indifferenziata attitudine comune, anzi, provvede a ben delineare le diversità negli approcci.

Pertanto certe tendenze sono rilevate. Una di queste è il comune radicamento di questo “giovane cinema” alla contemporaneità, il quale

«abbonda di personaggi turbati, marginali, imprevedibili in un mondo disperatamente conforme al secco grigiore del quotidiano» 3 , e la cui attenzione è quindi più rivolta al reale che non all’immagine 4 . Questo non significa che i film siano carenti nella costruzione formale, ma solo che fanno ricorso in modo parco agli effetti, ai trucchi, alle sovrimpressioni, e anche alle complesse costruzioni in flash back. Una semplicità che avvicina i propositi dei registi ad una descrizione più

1 Tra gli altri, in Christophe Chauville (sous la direction de), Dictionnaire du jeune cinéma français, les réalisateurs, Scope, Paris, 1998.

2

René Prédal, Le jeune cinéma français, ed. Nathan, Paris, 2002.

3

«Le jeune cinéma abonde de personnages perturbés, marginaux, imprévisibles dans un monde, lui, désespérément conforme à la grisaille sèche du quotidien.» (Traduzione mia), Ivi, p. 97.

4

«Les cinéastes sont davantage du côté du réel que de celui de l’image», Ivi, p. 95.

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vicina alla realtà. Ognuno a suo modo. Bisogna far notare comunque, che anche una vecchia guardia come Costantin Costa-Gavras (classe 1933) è stato inserito nella bibliografia con il suo ultimo film, per fare da contrappeso, per non limitarsi ad una sola “generazione”, ma per dare conto dell’intera produzione contemporanea, che continua a comprendere anche un habituè della fiction sociale spettacolare come il franco-greco.

Per la selezione del corpus filmico, l’interesse è stato cercare di creare un sottoinsieme di film che si occupassero in modo più puntuale, nello sviluppo narrativo, delle problematiche lavorative. L’argomento mi sembrava interessante per vedere come, partendo da una volontaria restrizione del campo di osservazione, andando a indagare nei dettagli similitudini e differenze, si potesse arrivare a dimostrare come, attraverso la finzione, la generazione attuale di registi pone uno sguardo a tutto tondo sulla società.

In questo lavoro di scelta mi è stato molto d’aiuto il testo redatto da Michel Antony per l’Accademia di Besançon, pubblicato su Internet:

Syndicalisme, monde ouvrier et cinéma 5 . Si tratta di una completa lista di film e documentari reperiti a partire dagli inizi del cinema e in continuo aggiornamento. Trovato fortuitamente, esso mi ha fornito una completa panoramica delle produzioni, divise cronologicamente e per nazionalità, ordinate in sottoinsiemi tematici, grazie alla quale ho potuto iniziare a muovermi e a capire più esattamente lo studio che intendevo portare avanti.

Ho da subito escluso la produzione documentaria, che meriterebbe uno spazio a parte, data la ricca e differenziata produzione contemporanea;

ma il mio interesse non era semplicemente di rendere conto dello stato di “disoccupazione” della Francia, o Europa, di oggi, ma di vedere come

5

I n d i r i z z o d e l d o c u m e n t o : h t t p / / a r t i c . a c - b e s a n c o n . f r h i s t o i r e / g e o g r a p h i e n e w / l o o k R e s s /

t h e m a t i q t h e m a t i q h i s t / c i n e . h t m

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questa problematica veniva declinata attraverso il ricorso a storie di finzione, attraverso un filtro artistico di diversa natura.

Pierre Sorlin nella sua opera capitale, Sociologia del cinema 6 , parla del visibile, di come ogni film, in quanto costruzione arbitraria e selettiva, mostri della società quello che la società stessa ritiene rappresentabile.

Così facendo, attraverso una sorta di autocensura culturale dovuta all’ambiente nella quale i film sono prodotti, e di cui sono indiscutibilmente figlie (anche perché opere collettive), le opere che agiscono attraverso le immagini rendono comunque un’idea di come un determinato paese in un preciso contesto storico, vede se stessa. Ma se sull’intera produzione Neorealista, quella presa in analisi dall’autore, solo tre film parlano della disoccupazione (flagello dell’Italia del dopoguerra), una decina la evocano indirettamente 7 .

L’analisi storica, a posteriori, riesce quindi a rilevare anche gli aspetti elusi dalla rappresentazione diretta, e a far venire a galla i tabù e il rimosso di un’epoca. La mia filmografia, opera in senso uguale e contrario, perché non prende in analisi l’intera produzione contemporanea per evincerne i riferimenti alla disoccupazione, ma seleziona quei film che volontariamente la descrivono, ne fanno un nodo portante, o perlomeno un motore iniziale. Il confronto dei vari aspetti collegati alla problematica della disoccupazione porterà a dare un’immagine di quello che i film si propongono di rappresentare, ma anche di andare oltre e cercare di vedere quello che si nasconde, sotto pelle, oltre le intenzioni dirette degli autori.

La crisi c’è. È davanti ai nostri occhi, intorno alle persone che conosciamo, udibile alla televisione o alla radio.

Il neoliberismo impera, travolge ogni dominio della vita, la “crescita” è sbandierata come unica soluzione possibile, e il “progresso” l’unico

6

Pierre Sorlin, Sociologie du Cinéma, Aubier-Montaigne, Paris, 1977.

7

Ibid., p. 208.

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orizzonte prevedibile. E questo tornado trascina nelle sue trasformazioni il mondo del lavoro. E di conseguenza tutto il resto.

Perché il lavoro ha una ruolo molto importante nella creazione della nostra identità, che lo si cerchi disperatamente o che lo si eviti, il rapporto lavoro è parte integrante della nostra vita, del nostro quotidiano.

In questo il cinema francese è molto più attento nel portarlo allo schermo che non quello Italiano o Inglese. Nella nostra cinematografia nazionale i problemi legati alle nuove politiche e etiche lavorative sono molto marginali, portate a tematica principale di un film solo due volte:

Mobbing-Mi piace lavorare, di Francesca Comencini, Volevo solo dormirle addosso di Eugenio Cappuccio, e in parte riflesso in Vento di terra di Vincenzo Marra, tutti usciti nel 2004. Questo sembra segnalare un improvviso risveglio della tematica in alcuni autori italiani, ma si è rivelato puramente contingente, episodico, per non dire casuale; in tutti modi non abbastanza profondo per poter fare sintomo.

La varietà degli approcci, e la grande quantità di autori che si sono confrontati con queste realtà si sviluppa in Francia, invece, a partire dal 1990/91 e prosegue, con momenti più o meno intensi, fino ad oggi.

Questo non significa che sia presente un filone al quale i vari registi facciano riferimento, dato che ognuno procede con i mezzi espressivi che gli sono più consoni, passando dalla commedia, al dramma, al comico, al film “d’autore”…

La cinematografia Inglese, invece, vanta una tradizione molto più lunga nel tempo, ma fondamentalmente incentrata sulla figura di un solo autore, Ken Loach, e dei discepoli, diretti o indiretti, reali o prodotti dalla moda, obbligati a passare attraverso il confronto con il Re del “film politico”.

La forza dei film francesi sta anche nel rinnovo del discorso politico al

cinema, e cioè nella «“laicizzazione” dei film militanti», come definito da

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Tangui Perron nel suo saggio 8 , il loro distacco da prese di posizioni ferree, ma, in modo più complesso, il loro attaccamento alla realtà, al proprio vissuto di individui sociali, ad una consapevolezza che la Politica e le Ideologie, così come erano concepite una volta, non aderiscono più alla realtà dei fatti 9 . La realtà in cui viviamo è cambiata, e senza avere la pretesa di fare un “grande discorso” i registi francesi ci parlano di storie intime, personali in modo più vero e vicino di grandi pamphlet che, nell’intento didattico, restano sterili esercizi fini a se stessi.

Lo studio presentato procede seguendo principalmente due punti di riferimento teorici. Innanzitutto l’analisi prettamente cinematografica portata da Michel Cadé sul cinema operaio e sulla rappresentazione del lavoro, nella filmografia francese di tutto il novecento. Il testo in questione è L’écran bleu – La représentation des ouvriers dans le cinéma français (Lo schermo blu- la rappresentazione degli operai nel cinema francese), ed opera una precisa analisi dell’apparizione allo schermo della tematica operaia. La disoccupazione ne fa ovviamente parte, ma come sintomo accessorio alla totalità delle problematiche che toccano la classe operaia.

Nella definizione del suo corpus, Cadé si rende subito conto di quanto le tematiche sociali non siano “popolari”. Infatti il tema da lui analizzato è ben lontano dall’essere frequente nel complesso della produzione cinematografica. L’autore ci ricorda allora come il cinema sia “arte della distrazione” più che “della conoscenza” 10 , e che, tessendo con gli spettatori soprattutto una relazione di identificazione, è comprensibile

8

«”laïcisation” des films militants» (Trad. mia) in Tangui Perron, Vie, mort, et renouveau di cinéma politique, in Cinéma engagé ; cinéma enragé, Revue L’homme et la société, 127/128, 1998, L’harmattan, Paris.

9

Si può ricordare a questo proposito come, nel 1997, sessantasei cineasti francesi della giovane generazione si siano mobilitati firmando un manifesto contro le leggi Debré sull’immigrazione (istiganti la delazione dei clandestini), riportando l’attenzione dei media su un modo diverso di fare politica, spontaneo e personale (ognuno firmava a suo nome dichiarando di aver ospitato un clandestino). Cf. “Positif” 434, aprile 1997, p. 56 e “Positif”, 436, giugno1997, p. 44. Su internet è ancora visitabile il sito ufficiale:

http://www.bok.net/pajol/ manifeste66.html

10

«Le cinéma est avant tout un art de la distraction, une machine machine à rêver avant d’être un éventuel

instrument de connaissance », in Michel Cadé, L’écran bleu – La représentation des ouvriers dans le cinéma

français, Presses Universitaires de Perpignan, Perpignan, 2000, p. 45.

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come gli operai stessi, in un momento di svago, non amino vedersi rappresentati, e tendenzialmente preferiscano dimenticare per quel poco di tempo possibile, le preoccupazioni legate al proprio lavoro e alla propria classe.

Ma l’autore continua affermando che «la debolezza quantitativa delle rappresentazione dell’operaio, e più in generale della classe operaia, nel cinema francese, è in parte compensata dalla qualità di certe opere» 11 . Nonostante i film da me individuati per la rappresentazione della disoccupazione non coincidano strettamente con la sua filmografia, tra di essi si leggono effettivamente i nomi di alcuni tra i più importanti registi francesi contemporanei, oltre a una serie di titoli che si sono fatti riconoscere in festival, e internazionalmente acclamati da pubblico e critica.

La problematica da me presa in esame è, a partire dalla prospettiva di Cadé, un sottoinsieme del film “operaio”, al quale è dedicato un capitolo del suo libro 12 . Inserito nella dinamica generale della separazione tra operai e società, la disoccupazione è analizzata come simbolo della fragilità di una classe sulla quale pesa lo spettro del licenziamento e come metafora del rapporto di forza tra padroni e operai, spesso contrapposta alla solidarietà tra lavoratori.

Ma dato che la sua analisi si ferma ai film usciti tra 1997 e 1998, la sua visione è troppo strettamente ancorata al passato. Oggi la precarietà lavorativa è diffusa a macchia d’olio in tutti gli strati della società, è agevolata dalla politica e subita dagli individui, e sorpassa il semplice dato della “quantità” di persone senza lavoro, perché inventa una nuova categoria di disoccupati: i precari, occupati per brevi lassi di tempo che si alternano, in maniera discontinua durante molti anni, a frequenti periodi di disoccupazione.

Per quanto riguarda la mia filmografia, sui 22 film individuati in quindici anni (1991-2006), l’intensificarsi delle opere che presentano dei

11

«La faiblesse quantitative des représentations de l’ouvrier, et, plus généralement, de la classe ouvrière dans le cinéma français, est en partie compensée par la qualité de certaines œuvres» (Trad. mia), Ivi, p. 47.

12

Ivi, p. 137 e segg.

(8)

disoccupati allo schermo si concentra nel periodo 1997-99 (10 film su 22) ma è a partire proprio da questi anni che si assiste anche a una diversificazione della problematica, che, con più regolarità e sempre più di frequente, porta allo schermo anche dei disoccupati che niente hanno a che fare con l’ambiente operaio: oltre al precedente comico di Formidabili amici… nel 1991 e La crisi nel 1992, troviamo Niente da Fare (1999), A tempo pieno (2001), Il cacciatore di teste (2005), Oublier Cheyenne (2005), La raison du plus faible (2006), potendo aggiungere Risorse umane (1999) e L’apparenza inganna (2001) nei quali il licenziamento è, o una scelta di etica personale (e di solidarietà tra

“padrone” e operai) o una minaccia sempre aleggiante.

Per l’autore di L’écran bleu, inoltre, la disoccupazione operaia è sovra- rappresentata in percentuale al totale dei film dell’ultimo decennio (della sua filmografia), se comparata ai dati “reali”, soprattutto a partire dal 1993. Forse questa prolificazione di disoccupati in tutte le classi non rispetta le percentuali di licenziamenti del momento storico in cui sono prodotti, ma è sintomo non irrilevante di un’attenzione da parte degli artisti francesi ad una problematica che sta cambiando volto, che si sta trasformando e che travolge e coinvolge sempre più persone. Se prima la disoccupazione poteva essere il simbolo della debolezza di una classe, adesso, il suo spargersi a macchia d’olio riflette una fragilità che colpisce anche le classi che si sono sempre ritenute al sicuro, e dimostra come la società stia cambiando rapidamente e senza tenere in conto i singoli individui, i cittadini, di qualunque strato sociale. In nome di un progresso che non si sa più a chi porterà dei vantaggi.

La prima parte del mio studio partirà comunque dal metodo individuato

dall’autore per definire una precisa mappa della manifestazione della

tematica, in modo da preparare il terreno per la seconda, di ordine più

generale e sociologico.

(9)

Per oltrepassare la semplice visione della disoccupazione allo schermo, e cercare di individuare i più complessi ingranaggi di senso prodotti dall’affronto di questa tematica, mi sono aiutata delle riflessioni del sociologo Zygmunt Bauman, illustrate nel saggio Modernità liquida. La sua tesi utilizza la metafora della liquidità, della “fusione degli stati solidi” del passato e del capitalismo che è passato da “pesante” a

“leggero”.

«Se la “scienza manageriale” del capitalismo pesante verteva sull’attirare la “forza lavoro” e allettarla, o costringerla, a restare immobili e lavorare secondo i piani, l’arte della gestione nell’epoca del capitalismo leggero consiste nel disfarsi della “forza umana” e meglio ancora nel costringerla a sbaraccare» 13 , quindi ne conseguono smantellamenti, delocalizzazioni, piani di riassesto aziendali, magari un po’ di mobbing, e come per magia, tanti posti di lavoro che vanno in fumo, e tanti soldi di indennità per tappare la bocca a manifestanti e sindacati. Questa prassi è oramai assodata e piomba la nostra società nell’era del precariato perenne. E non solo del mondo del lavoro.

L’interessante analisi del sociologo investe infatti tutti i campi della vita moderna: la libertà, l’indentità e i rapporti interpersonali… tutto all’insegna di liquidità, fluidità, leggerezza, movimento, quindi:

precarizzazione.

Tutte le caratteristiche individuate dal sociologo si rispecchiano in modo variegato nei film presi in analisi, in quanto questi, attraverso il prisma della disoccupazione, si fanno specchio per una riflessione sulla contemporaneità e sull’individuo nella società moderna.

Nella seconda parte si opererà quindi un’analisi delle problematiche sociali riscontrabili oltre la mera rappresentazione della disoccupazione, e si passerà ad osservare i comportamenti sociali (l’individualismo e le relazioni interpersonali), la questione della mancanza esistenziale associata alla mancanza di lavoro (empatica o divergente) a livello narrativo come formale, per poi dare uno sguardo ai differenti tipi di

13

Zygmunt Bauman, Modernità liquida, editori Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 138.

(10)

violenza portata in superficie dai film del corpus. Infine allargheremo lo spettro addentrandoci nella zona più cinematografica della relazione degli oggetti al lavoro e alla condizione economica, e della ricorrenza di alcuni di essi attraverso la filmografia, che li porta a fungere da simboli dell’era neocapitalista e iperconsumista. In questo capitolo saranno utilizzate le riflessioni di Jean Baudrillard sul sistema degli oggetti 14 , analisi del ruolo degli oggetti nella società che, pur partendo da un taglio e da un’analisi diversa, si avvicina, per momenti, alle tesi di Bauman.

L’intento di questa parte è quello di portare in superficie elementi più sotterranei, non strettamente legati all’immagine, ma in perfetta correlazione con essa. Uno studio che vorrebbe porre in relazione le scelte tematiche a quelle cinematografiche sotto l’angolo di lettura sociologico della rappresentazione della precarizzazione all’epoca contemporanea.

14

Jean Baudrillard, Le système des objets, Gallimard, Paris, 1968.

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