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Teorie della Complessità

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Academic year: 2022

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(1)

Teorie della

Complessità

(2)

Uno sguardo globale

(3)

Si parla di:

•teorie della complessità

•epistemologia della complessità

•pensiero della complessità

•scienze della complessità

•…

(4)

• Non è facile riassumere in poche parole il concetto di complessità in quanto esso

rappresenta più un nuovo di modo di pensare che una branca scientifica compiuta.

• Si potrebbe dire, con L. Pietronero, che

lo studio dei sistemi complessi riguarda l'emergere di proprietà collettive in sistemi con un gran

numero di componenti in interazione tra loro.

(5)

“Il tutto è più della

somma delle parti”

(6)

Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come causa del suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forse di cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la

compongono, se perdipiù fosse

abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi.

Pierre Simon Laplace,

Essai philosophique sur les probabilites, 1814

(7)

Pensiero profondo

Nel romanzo di fantascienza Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams una razza di esseri

superintelligenti programma un calcolatore gigantesco – chiamato Pensiero Profondo – con lo scopo di

trovare «la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto».

Pensiero Profondo impiega sette milioni e mezzo di

anni di elaborazioni, ma alla fine riesce a trovare la

risposta alla Domanda fondamentale…

(8)

Guida galattica per autostoppisti – Garth Jennings (2005)

(9)
(10)

La vita non è un mero meccanicismo

• Per i teorici della complessità la vita non può essere ridotta a un meccanismo.

→ prospettiva antimeccanicista

→ La natura che si comporta in maniera

meccanica non è la “natura originaria” (Metzger, 1954, tr. it. 1971, p. 253), ma è quella costretta a funzionare alla stregua di una macchina: si tratta di una natura “violentata dall’uomo”, i cui processi

sono stati isolati e costretti a funzionare entro certi

limiti ben precisi (Ibidem, pp. 253-54).

(11)

…sappiamo che il disordine si può escludere e l’ordine instaurare di forza imponendo dall’esterno controlli

adeguati sull’azione dei fattori in gioco. […] possiamo

obbligare le forze della natura a un lavoro ordinato. Ma in genere si sottintende come certo che questo sia anche il solo modo in cui si possa ottenere dell’ordine negli eventi fisici. A questo modo l’uomo ha concepito la natura per migliaia di anni: e allo stesso modo oggi noi imponiamo

ordine alla natura nella stessa maniera quando costruiamo e azioniamo i macchinari delle nostre industrie. In tali

macchine permettiamo alla natura di produrre, per

esempio, del moto, ma la forma e l’ordine di questo moto

sono prefissati dall’anatomia delle macchine che l’uomo e

non la natura ha stabilito. (Köhler 1947, tr. it. 1989, p. 75)

(12)

• Un sistema meccanico è anche,

fondamentalmente, un sistema morto.

Le interazioni che tengono in vita un cane non possono essere studiate in vivo. Se si volesse studiarle correttamente, bisognerebbe uccidere il cane (N. Bohr. cit. in Morin, 1985, p. 26).

→ L’ideale sottostante è, in questo caso, quello del corpo-macchina. Siccome questo è formato da

parti altrettanto meccaniche, la “forma pura” del

comportamento di un organo la si può avere per

assurdo quando questo è avulso dall’organismo

intero (Metzger, 1954, tr. it. 1971, p. 60).

(13)

Meccanicismo e esperimenti in laboratorio

• Ciò ha delle ripercussioni sul modo con cui ci approcciamo alla conoscenza degli organismi viventi. Infatti

deriva fondamentalmente da questo principio anche la credenza che un animale con il corpo integro, ma

costretto a stare immobile in una situazione

sperimentale, si comporti di fronte agli aspetti di tale

situazione nello stesso modo di un animale che abbia

libertà di movimento (Ibidem).

(14)

– Ad esempio, che la percezione visiva di un

animale anestetizzato e in determinate situazioni di laboratorio possa essere descritta in termini di stimoli singoli piuttosto che di configurazioni

globali, come evidenzia anche F. Varela, deriva

dall’applicazione di tutta una serie di costrizioni

che rendono quell’animale diverso da come si

comporta nel contesto reale.

(15)

→ Più che osservare l’animale in tutte le sue possibilità di azione, pertanto, si vanno ad

indagare le reazioni dell’ “animale da

laboratorio” nell’ambito di una situazione creata ad hoc:

…la natura interrogata dall’esperimento è una natura semplificata, preparata appositamente e

occasionalmente, mutilata in funzione dell’ipotesi

preesistente (Prigogine, Stengers, 1979, tr. it. 1981, p.

43).

(16)

• Ottica meccanicista

 gli oggetti, anche assai complicati, e gli individui sono costituiti da “cose semplici”, potenzialmente conoscibili in modo

esaustivo: padroneggiando gli elementi semplici e le leggi in base alle quali essi interagiscono, si può arrivare a

comprendere interamente il loro

funzionamento.

(17)

• Un oggetto inteso nell’ottica del

meccanicismo, pertanto, può essere assai

complicato , ma ciò non esclude che, in linea di principio, possa essere ridotto alla dinamica delle parti semplici di cui è costituito.

– Qualcosa è «complicato», cioè, se il suo

funzionamento può essere «ridotto» a degli

elementi e a delle leggi semplici.

(18)

Si parla di « riduzionismo » quando si assume

«che la grande diversità delle cose che appaiono alla nostra esperienza, quotidiana e scientifica, possa essere spiegata completamente e

perfettamente come conseguenza dell’operatività di un insieme assoluto e finale di leggi puramente

quantitative che determinano il comportamento di alcuni generi di entità e variabili fondamentali»

(Bohm, 1997, pp. 54-55, in De Toni, Comello, 2005, p. 30)

(19)

L’ ottica della complessità esprime un diverso atteggiamento scientifico, che si libera

«dalla convinzione di fondo che il mondo

microscopico sia semplice e governato da leggi matematiche. Ciò ci appare oggi una fallace

idealizzazione. La situazione potrebbe essere simile al ridurre i fabbricati a conglomerati di mattoni; con gli stessi mattoni si può costruire una fabbrica, un

palazzo o una cattedrale. È a livello dell’intera

costruzione che noi possiamo vedere l’effetto del

tempo, dello stile in cui il fabbricato è stato concepito»

(Prigogine, Stengers, 1979, tr. it. 1981, p. 9).

(20)

Phil Anderson, More is different

(«Science», 1972)

(21)

1. «the ability to reduce everything to simple fundamental laws (riduzionismo) not

imply the ability to start those laws and reconstruct the universe

(costruzionismo)»

→ la scienza è esplicativa, ma non necessariamente predittiva;

→ il riduzionismo sembra incapace di

cogliere «the very real problem of the

rest of the science, much less to those

of society»

(22)

2. «The behavior of large and complex aggregates of elementary particles, it turns out, is not to be undertstood in terms of a simple extrapolation of the properties of a few particles».

→ A ogni livello di complessità (fisica delle particelle, chimica, biologia, fisiologia,

psicologia…) «entirily new laws, concepts, and generalizations are necessary, requiring

inspiration and creativity […] Psychology is not

applied biology, nor is biology applied chemistry»

proprietà emergenti

(23)

• Tuttavia Anderson ammette che possa esistere una forma di riduzionismo

“filosoficamente corretta”: cioè la

convinzione che l’universo sia governato

da leggi naturali. Ciò comporta il credere

nell’unità della natura a livello più profondo

(Waldrop, 1992, tr. It. 2002, p. 118).

(24)

• Il Premio Nobel fu conferito ad Anderson nel 1977 per aver descritto teoricamente la sottile transizione di fase per cui certi

metalli si trasformano da conduttori

elettrici in isolanti

(25)

La prima pagina dell’articolo del 1972 di Anderson

(26)

«Dio non gioca a dadi con l'universo»

(Einstein)

• «Sembra difficile dare una sbirciata alle carte di Dio. Ma che Egli giochi a dadi e usi metodi "telepatici" [...] è

qualcosa a cui non posso credere nemmeno per un attimo»

(lettera del 4 dicembre 1926 a Niels Bohr, cit.

in Bill Bryson, Breve storia di (quasi) tutto, traduzione di Mario Fillioley, TEA, 2009).

• Niels Bohr rispose "Non dire a

Dio come deve giocare".

(27)

«Dio gioca a dadi con l’universo.

Ma sono dadi truccati. E il

principale obiettivo della fisica di oggi è di trovare per mezzo di

quali regole essi sono stati truccati e in che modo possiamo usarli ai nostri fini»

(Joseph Ford, 1983)

(28)

In tutta la storia del pensiero umano vi sono stati paradigmi dominanti riguardo all’universo: queste rappresentazioni mentali spesso ci

dicono poco dell’universo, ma molto delle società impegnate a

studiarlo. Per quegli antichi greci che avevano elaborato una visione teleologica del mondo, in seguito ai primi studi sistematici degli esseri viventi, il mondo era un grande organismo. Per altri, propensi a

venerare la geometria al di sopra di tutte le altre categorie del

pensiero, l’universo era un’armonia geometrica di forme perfette. Più tardi, nell’epoca in cui furono costruiti i primi meccanismi di orologeria e i primi pendoli, divenne dominante l’immagine post-newtoniana

dell’universo come meccanismo e schiere di apologeti furono spinte alla ricerca dell’Orologiaio cosmico. Per la cultura vittoriana

dell’epoca della Rivoluzione industriale, il paradigma prevalente era quello della macchina a vapore […] L’immagine dell’universo come

calcolatore forse non è altro che l’ultimo prevedibile frutto del

protrarsi delle nostre abitudini mentali: domani, un nuovo paradigma

potrà prenderne il posto. Quale? (Barrow, 1991, tr. It 1992, pp. 366-

67)

(29)

Smilzo, un po' curvo, con un abitino di tela che gli sventolava addosso, l'ombrello aperto sulla spalla e il vecchio panama in mano, il signor Aurelio s'avviava ogni giorno per la sua speciosa villeggiatura.

Un posto aveva scoperto, un posto che non sarebbe venuto in mente a nessuno; e se ne beava tra sé e sé, quando ci pensava, stropicciandosi le manine nervose.

Chi sui monti, chi in riva al mare, chi in campagna: lui, nelle chiese di Roma. Perché no? Non ci si sta forse freschi più che in un bosco? E in santa pace, anche. Nei boschi, gli alberi; qui, le colonne delle navate; lì, all'ombra delle frondi; qui, all'ombra del Signore.

— Eh, come si fa? Ci vuol pazienza.

Aveva anche lui, un tempo, una bella campagna sotto Perugia, ricca di cipressetti densi, e lungh’esso il canale quell'eleganza di gracili salici violetti e tanto dolce azzurro d'ombra che dilaga; la magnifica villa, con dentro una preziosa raccolta d'oggetti d'arte: ah, quella poi! invidiato decoro di casa Vetti.

Gli restavano le chiese, ora, per villeggiare.

— Eh, come si fa? Ci vuol pazienza.

Il vecchio Dio (di Luigi Pirandello, 1905)

(30)

Da parecchi anni a Roma, non gli era ancora riuscito di visitarne tutte le chiese più famose. L'avrebbe fatto quest'anno per villeggiatura.

Speranze, illusioni, ricchezza e tant'altre belle cose aveva perduto il signor Aurelio lungo il cammino della vita: gli era solo rimasta la fede in Dio ch'era, tra il buio angoscioso della rovinata esistenza, come un lanternino: un

lanternino ch'egli, andando così curvo, riparava alla meglio, con trepida cura, dal gelido soffio degli ultimi disinganni. Errava come sperduto in mezzo al rimescolio della vita, e nessuno più si curava di lui.

— Non importa: Dio mi vede! — si esortava in cuor suo.

E n'era proprio sicuro, di questo, il signor Aurelio, che Dio lo vedeva per quel suo lanternino. Tanto sicuro, che il pensiero della prossima fine, non che

sgomentarlo, lo confortava.

Le strade, sotto il cocente sole, erano quasi deserte. Tuttavia per lui c’era sempre qualcuno, un monellaccio, un vetturino di stazione, che, vedendolo passare col lucido cranio scoperto, la barbetta lieve tremolante sul mento, e la zazzeretta grigia, tremolante anch’essa su la nuca, gli lanciava qualche lazzo.

— Guarda oh: due barbette! una davanti e l’altra dietro!

Ma il cappello in capo, d’estate, il signor Aurelio non lo poteva sopportare.

Sorrideva anche lui al lazzo e affrettava, quasi senza volerlo, quei suoi

passettini da pernice, per levar la tentazione d’un altro lazzo a quegli oziosi.

— Eh, come si fa? Ci vuol pazienza.

(31)

Entrando nella chiesa designata quel giorno per villeggiatura, voleva prima di tutto goder della giunta: sedere. E traeva un gran respiro; s’asciugava il sudore; poi, con diligenza, ripiegava in quattro il fazzoletto e se lo poneva in capo, così ripiegato, per riguardarsi dall’umida frescura.

Qualche rara divota che si voltava appena a spiarlo, vedendolo con quel buffo copricapo, sbruffava tra sé una risatina.

Ma il signor Aurelio, in quel momento, si sentiva beato, respirando quell’umido insaporato d’incenso che stagnava nella solenne vacuità

silenziosa dell’interno sacro; né gli nasceva il sospetto che qualcuno, pur lì, nella casa di Dio, potesse provar gusto a ridere di lui.

Riposatosi un po’, si metteva a esaminare la chiesa, pian pianino, come uno che ci abbia da passar la giornata. E ne studiava con amorosa

attenzione l’architettura, le singole parti. Si fermava davanti a ogni pala

d’altare, a ogni opera musiva, a ogni cappella, a ogni monumento funerario, e con l’occhio esperto scopriva subito le peculiarità del tempo, della scuola a cui l’opera d’arte doveva ascriversi e se era sincera o deturpata da toppe e rimessi di restauri infelici. Poi tornava a sedere; e se in chiesa, come

spesso avveniva a quell’ora, di quella stagione, non c’era altri che lui, ne approfittava per segnar rapidamente in un modesto taccuino qualche nota, un dubbio da chiarire, le sue impressioni.

(32)

Soddisfatta così la prima curiosità e adempiuto per quel giorno il compito d’arte che si era prefisso, traeva di tasca qualche libretto d’amena lettura, che per la dimensione poteva parere un libro di preghiere, e si metteva a

leggere. Di tanto in tanto levava il capo per riassumere o ungersi davanti agli occhi la scena descritta dal poeta. E con quella lettura di libri profani non

temeva d’offendere la casa del Signore. Secondo il suo modo di vedere, Dio non poteva aversi a male delle cose belle create dai poeti per innocente

delizia degli uomini.

Stanco della lettura s’abbandonava, con gli occhi fissi nel vuoto e

strofinando a lungo tra loro l’indice e il pollice delle due manine, alle proprie fantasie o ai ricordi degli anni perduti. Talvolta, mentre fantasticava così, tutto assorto, gli s’avvistava da una nicchietta nel pilastro di fronte qualche busto che pareva se ne stesse lì affacciato a guardare in chiesa.

— Oh! — faceva allora, tentennando il capo con un sorriso. — Te beato, amico mio. Si sta bene da morti?

E si levava di nuovo per leggere nell’inscrizione funeraria il nome di quel sepolto, poi tornava a sedere e si metteva a conversare con lui

mentalmente, guardandolo.

(33)

— Siamo qua, caro il mio Hieronymus! Peccato che non sia più permesso farsi seppellire in chiesa. Mi farei scavare una bella nicchietta nel pilastro di fronte e, tu di là, io di qua, tutti e due affacciati, sentiresti che belle

conversazioncine! Ce l’hai di buon uomo, la faccia, poveretto, e certi guai perciò mi conteresti. Mah! Come si fa? Ci vuol pazienza. Mi sembra però che in chiesa ci si debba star meglio, da morti. Questo buon odor

d’incenso; e messe e preghiere tutti i giorni. Nel camposanto, se vogliamo dirla, ci piove.

La morte però, anche lì nel camposanto, eh... una liberazione; quando sulla terra, più che per viver bene, ci si duri per prepararsi a morir senza paura.

Premi di là, il signor Aurelio, non se n’attendeva; gli bastava portarsi di qua, fino all’ultimo passo, la coscienza tranquilla, di non aver mai fatto il male per volontà. Conosceva i dubbi tenebrosi accumulati dalla scienza come tanti nuvoloni su la luminosa spiegazione che la fede ci dà della morte, sì per averne fatta lettura in qualche libro, e sì per averli quasi respirati

nell’aria; e rimpiangeva che il Dio dei suoi giorni, anche per lui, credente, non potesse più esser quello che in sei dì aveva creato il mondo, e s’era nel settimo riposato.

(34)

Quella mattina, entrando in chiesa, era rimasto meravigliato dell’aspetto del sagrestano, bel vecchio enormemente barbuto e capelluto e orgoglioso di quel barbone lanoso e di quella chioma partita nel mezzo e ondulata su le spalle e nei cernecchi. Bella, la testa soltanto. Il corpo tozzo, curvo,

cadente, pareva penasse a sorreggerla, con tutto quel volume di peli.

Ora, il signor Aurelio, riflettendo intorno alla vita e alla morte, considerando amaramente ai meschini profitti dell’anima in questo tanto decantato secolo dei lumi, rivolto col pensiero al vecchio Dio dell’intatta fede dei padri, a poco a poco s’addormentò. E quel vecchio Dio, nel sogno, ecco che gli venne innanzi, curvo, cadente, reggendo a fatica su le spalle la testa

enormemente barbuta e chiomata del sagrestano della chiesa; gli sedette accanto e cominciò a sfogarsi con lui, come fanno i vecchietti seduti sul muretto davanti ai gerontocomi:

— Mali tempi, figlio mio! Vedi come mi son ridotto? Sto qui a guardia delle panche. Di tanto in tanto, qualche forestiere. Ma non entra mica per me, sai! Viene a visitar gli affreschi antichi e i monumenti, monterebbe anche su gli altari per veder meglio le immagini dipinte in qualche pala! Mali tempi, figlio mio. Hai sentito? hai letto i libri nuovi? Io, Padre Eterno, non ho fatto nulla: tutto s’è fatto da sé, naturalmente, a poco a poco. Non ho creato Io prima la luce, poi il cielo, poi la terra e tutto il resto, come ti avevano

insegnato ne’ tuoi gracili anni. Che! che! Non c’entro più per nulla Io.

(35)

Le nebulose, capisci? la materia cosmica... E tutto s’è fatto da sé. Ti faccio ridere: uno c’è stato finanche, un certo scienziato, il quale ha avuto il

coraggio di proclamare che, avendo studiato in tutti i sensi il cielo, non vi aveva trovato neppur una minima traccia dell’esistenza mia. Di’ un po’: te lo immagini questo pover’uomo che, armato del suo cannocchiale,

s’affannava sul serio a darmi la caccia per i cieli, quando non mi sentiva dentro il suo misero coricino ? Ne riderei di cuore, tanto tanto, figliuolo mio, se non vedessi gli uomini far buon viso a siffatte scempiaggini. Ricordo

bene quand’Io li tenevo tutti in un sacro terrore, parlando loro con la voce dei venti, dei tuoni e dei terremoti. Ora hanno inventato il parafulmine,

capisci? e non mi temono più; si sono spiegati il fenomeno del vento, della pioggia e ogni altro fenomeno, e non si rivolgono più a Me per ottenere in grazia qualche cosa. Bisogna, bisogna ch’io mi risolva a lasciare la città e mi restringa a fare il Padreterno nelle campagne: là vivono tuttora, non dico più molte, ma alquante anime ingenue di contadini, per cui non si muove foglia d’albero se Io non voglia, e sono ancora Io che faccio il nuvolo e il sereno. Su, su, andiamo, figliuolo! Anche tu qua ci stai maluccio, lo vedo.

Andiamocene, andiamocene in campagna, fra la gente timorata, fra la buona gente che lavora.

(36)

A queste parole, il signor Aurelio, nel sogno, sentiva stringersi il cuore. La campagna! il suo sospiro! - La vedeva come se vi fosse; ne respirava l’aria balsamica... - quando, a un tratto, si sentì scuotere e, aprendo gli occhi, stordito, oppresso di stupore, si vide davanti vivo e spirante, il Padre Eterno, proprio lui, che gli ripeteva ancora:

— Andiamo, su, andiamo...

— Ma se è tanto che... — barbugliò il signor Aurelio, con gli occhi sbarrati, atterrito dalla realtà del suo sogno.

Il vecchio sagrestano scosse le chiavi:

- Andiamo! La chiesa si chiude.

(37)
(38)

• Il Boeing 747, conosciuto anche come Jumbo Jet, è un

quadrigetto di linea prodotto dall'azienda statunitense Boeing dagli anni settanta. Il 747 è uno degli aerei di linea moderni più famosi. Per via della sua forma, delle sue dimensioni e della sua capacità di carico è diventato nel tempo un vero e proprio simbolo di potenza meccanica, oltre che di elegante maestosità.

• Dimensioni e pesi

– Lunghezza 70,66 m – Apertura alare 64,44 m – Altezza 19,41 m

– Peso a vuoto 178 800 kg; Peso max al decollo 442 253 kg (747-8) – Passeggeri: 524

• Prestazioni

– Velocità max 988 km/h

– Velocità di crociera 913 km/h – Corsa di decollo 3018 m

– Autonomia 13 445 km

– Dati estratti da 747-400 specifications, (fonte: wikipedia)

(39)

• Mario Rasetti (ordinario di fisica teorica, UNITO) dice che utilizza il seguente esempio durante le lezioni di fisica per spiegare la differenza fra qualcosa di

«complicato» e qualcosa di «complesso»:

Un jumbo 747 è un oggetto molto complicato perché è

composto da 50 milioni di pezzi. Se io smontassi un jumbo

e lo mettessi su un campo di calcio e chiedessi a qualcuno

di ricostruirlo gli darei un problema molto complicato, ma

non complesso, perché del jumbo abbiamo i progetti. Se

invece si studia una rete sociale, o internet, o il cervello

umano non si ha a disposizione un progetto. Per cui dai

dati, dalle informazioni occorre ricostruire…

(40)

Sistemi

semplici Sistemi

complicati

Complicato, dal latino cum – plicàre, piegato insieme

Sistemi complessi

Complesso, dal latino cum - plexus, tessuto insieme, intrecciato assieme

Pochi elementi,

Poche connessioni fra elementi

Molti elementi

Molte connessioni «fisse»

fra gli elementi

Molti elementi

Moltissime connessioni

«non lineari» fra gli elementi

(41)

Pensiero Semplice vs. Pensiero Complesso

(Edgar Morin)

Il Pensiero Semplice ritiene che il mondo sia

«complicato». Ne segue che (come spiega I. Licata):

•accumulare conoscenza dipana progressivamente

l’ignoranza → esiste pertanto un Progresso della conoscenza che procede lungo la strada maestra del definire chiaramente i concetti e le cose da conoscere;

•se un sistema è troppo difficile da risolvere può essere

suddiviso in tanti sotto-problemi, per i quali è disponibile una spiegazione. Sommando le micro-spiegazione avremo la

spiegazione dell’intero fenomeno

•esistono questioni che possono essere poste in modo chiaro

e che possono essere pertanto essere affrontate da un punto di

vista scientifico e questioni «confuse» da relegare nel gioco,

nelle opinioni ecc.

(42)

• Quindi, dire che «il tutto è più della somma delle parti» significa ammettere che i sistemi possono generare «proprietà emergenti».

• Naturalmente occorre capire cosa vuol dire,

in ogni situazione concreta, che il tutto è più

della somma delle parti.

(43)

Stuart Kauffman (1939) (istituto di Santa Fe):

Darwin non sapeva nulla dell’autoorganizzazione

→ la storia della vita non è la storia di eventi

accidentali e casuali, ma quella dell’ordine, di un tipo di creatività

profonda, intessuta

nella trama stessa della natura

(cit. in Waldrop, 1992, tr. it. 2002, p. 151).

(44)

→ Kauffman voleva dimostrare che l’ordine è

presente sin dall’inizio, che l’autoorganizzazione è l’altra faccia della selezione naturale. → per

Kauffman la complessità dei sistemi biologici e degli organismi è il risultato sia dell'auto-organizzazione e da dinamiche lontane dall'equilibrio sia della

selezione naturale darwiniana.

→ I dettagli specifici di ogni singolo organismo sarebbero il risultato della selezione naturale, in perfetto accordo con la teoria di Darwin. L’organizzarsi della vita stessa,

l’ordine, sarebbe invece qualcosa di più profondo ed

essenziale. Trarrebbe origine dalla struttura della rete,

non dai particolari. L’ordine, dunque, sarebbe uno dei

segreti del Grande Vecchio

(Waldrop, p. 161)

(45)

• Kauffman non trovava convincente la teoria sull’origine della vita di Urey-Miller: gli

sembrava strano che l’origine della vita

dipendesse da qualcosa di così complicato e improbabile come il DNA. Egli propendeva per l’idea che il brodo primordiale avesse costituito un insieme “auto-catalitico”, frutto della

naturale tendenza all’autoorganizzazione.

→ Una volta che un insieme di elementi ha raggiunto una certa complessità, c’è da

aspettarsi una transizione.

(46)

• Kauffman credeva in Dio: non in un Dio

personale, ma un Dio intelligente, che spiega come funzionano le cose a chi ascolta. Una volta ebbe addirittura un’esperienza definibile come mistica (Waldrop).

→ La tendenza all’ordine era una risposta al mistero dell’esistenza umana, capace di

spiegare la nostra condizione di creature viventi e pensanti in un universo apparentemente

governato dal caos .

(47)

Stuart Kauffman

Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione

I progressi della scienza degli ultimi quattro secoli hanno preteso un prezzo elevato: un divario

sempre più ampio tra fede e ragione. Nella sua forma più estrema, il riduzionismo sostiene che tutta la realtà, dagli organismi a una coppia di innamorati a passeggio, sia fatta di sole particelle:

le società devono essere spiegate da leggi sulle persone, che sono spiegate da leggi sugli organi, sulle cellule, dalla chimica e infine dalla fisica delle particelle. Per Kauffman il solo riduzionismo è inadeguato sia a praticare la scienza sia a comprendere la realtà: viviamo infatti in una biosfera e in una cultura che, oltre ad essere

emergenti, sono radicalmente creative; un universo di creatività esplosiva di cui spesso non possiamo prevedere gli sviluppi. La proposta di Kauffman è quindi quella di porci come co-creatori di una

biosfera che letteralmente costruisce se stessa e si evolve, e di una cultura nuova e infinita. Un Dio pienamente naturale identificato con la creatività stessa dell’universo, e una sua concezione che può essere uno spazio spirituale condiviso da tutti,

credenti o non credenti (dalla seconda di copertina).

(48)

• I processi universali di autoorganizzazione

permettono di riavvicinare le scienze umane e le

altre scienze, di stabilire una nuova alleanza, come recita un celebre libro di Prigogine e di Stengers

In molte università chi studia le scienze umane si sente

spesso un cittadino declassato. Einstein o Shakespeare,

ma non entrambi nella stessa stanza. Questa scissione è

una frattura che spacca al centro l’integrità della natura

umana (Kauffman, 2008, tr. it. 2010, p. 9)

(49)

• L’approccio delle teorie della complessità si può definire, in prima approssimazione, di tipo “olista”

→ ma questo termine è inadeguato e può generare errori in quanto anche l’olismo è un riduzionismo in quanto ambisce a

fornire spiegazioni onnicomprensive e

semplificanti.

(50)

→ non c’è una «legge» della complessità.

Anche il parlare della complessità come

«emergenza», come processi bottom-up,

piuttosto che top-down, o processi dal basso è una semplificazione.

Nozioni come quella di emergenza o di complessità non sono nulla indipendentemente dall’intenzione di quelli che la utilizzano. […] Quanto alla nozione di

complessità, essa è portatrice di un problema – non

sappiamo a priori che cosa significhi “somma delle parti”

– e questo implica che non possiamo trattare tutte le

“somme” secondo lo stesso modello generale, con il

pretesto che hanno le “stesse” parti (Isabelle Stengers)

(51)

• La Stengers sottolinea come l’olismo e il riduzionismo siano due «fratelli nemici»

Ognuno dei due è alla ricerca del buon accesso, che renderà un fenomeno semplice e intelligibile. Mentre i discorsi riduzionisti negheranno a priori che tutte le

questioni possano, in ultima analisi, non essere ridotte a quelle che si addicono in modo generale al

comportamento degli elementi associati nel tutto, i

discorsi “funzionalisti” cercheranno altre caratteristiche o proprietà unitarie che assicureranno sia un modello

generale sia un procedimento sicuro. È per esempio il caso dell’insieme delle variazioni a proposito

dell’affermazione secondo la quale un “sistema” tende a

mantenersi […]

(52)

[…] In questo senso la complessità come problema ha, credo, quale primo effetto quasi estetico un arretramento di spiegazioni, antitetici forse, ma vicini, come del resto Bergson aveva già notato ne L’evoluzione creatrice: la

spiegazione attraverso la deduzione in senso riduzionista, e la spiegazione attraverso la genesi, nel senso in cui è la struttura finale che, in un modo o nell’altro, spiega la

propria formazione.

(53)

• L’approccio della complessità avvalora

piuttosto, a livello metodologico, la specificità della situazione concreta, per comprendere la quale leggi e tradizioni sono importanti, ma

debbono essere declinate nel momento presente.

→ occorre «star dentro» la situazione per capire come la situazione evolve: è

importante tanto le «competenze» che si

possiedono ma anche la sensibilità con cui si riesce a «sentire» la situazione e le

«opportunità» in essa disponibili

(54)

• Per «leggere» la situazione occorrono teorie;

utilizzando «teorie» vi è sempre il rischio di

oscurare l’oggetto che si sta indagando e di far parlare solamente le nostre teorie

– L’egittologo ritaglia il proprio Egitto “egittologizzabile ”

L’insuperabile problema della pertinenza della

manipolazione, della pertinenza della questione, non apre la porta all’irrazionalismo, ma al

riconoscimento del rischio sempre presente di “far tacere” l’oggetto stesso che interroghiamo

(Stengers)

(55)

→ solo il «procedimento analitico» sembra veramente rispettoso dell’oggetto in quando a svincolarsi al «niente altro che» ed è in

grado di comprendere che ciò che porta a

«questo» in altre circostanze può portare a

«quello» e poi «a quello ancora» (Stengers)

→ «rendersi artificialmente ciechi» (Freud,

Bion)

(56)

T.S. Eliot e il valore limitato della conoscenza

C’è, così ci pare,

Nel migliore dei casi, solo un valore limitato Nella conoscenza che deriva dall’esperienza La conoscenza impone una trama e falsifica, Perché la trama in ogni momento è nuova,

E in ogni momento è nuova e sconcertante […]

Nel mezzo, non solo nel mezzo del cammino

Ma per tutto il cammino, in una selva oscura, tra i rovi,

Sull’orlo di un pantano, dove il piede non è sicuro, E tra minacce di mostri, luci fantastiche,

Col rischio dell’incantesimo. Non voglio sentir parlare Della saggezza dei vecchi, bensì della loro follia

La loro paura della paura e della frenesia, la loro paura del possesso, Di appartenere a un altro, o ad altri, o a Dio.

La sola saggezza che possiamo sperare di ottenere La saggezza dell’umiltà: l’umiltà è sconfinata

(T.S. Eliot, East Coker)

(57)

La complessità fra ordine e caos

• Un altro modo di inquadrare l’approccio

della complessità è quello di pensare la

complessità come qualcosa che sta «al

bordo fra ordine e caos»

(58)

• La scienza classica aveva avvalorato l’idea di un mondo governato da leggi, totalmente prevedibile, auspicando di giungere a

«teorie del tutto» onni-esplicative

→ concezione di un «mondo orologio» o

«mondo macchina», totalmente prevedibile

e quindi… morto!

(59)

“Le interazioni che tengono in vita un cane non possono essere studiate in vivo. Se si volesse studiarle correttamente, bisognerebbe uccidere il cane” (N. Bohr)

«Quando si raggiunge un equilibrio in biologia si

è morti» (Arnold Mandell, cit. in Gleick, p. 292)

(60)

• Un sistema vivente deve contenere qualcosa di imprevedibile, altrimenti sarebbe morto.

• Ma non deve essere neppure totalmente

«fuori controllo», come avviene nelle

evoluzioni caotiche dei fenomeni, che sono imprevedibili, impedendo così qualsiasi

strutturazione di conoscenza.

→ Si suole dire allora che la scienza

della complessità si situa fra

ordine e caos

(61)

• La realtà non un insieme di particelle inerti mosse da forze, ma un fermento di sistemi autoorganizzantesi, sempre sull’orlo del

caos e della distruzione

(62)

Stabilità, ordine

↓ 

“Margine del caos”, complessità ↓ 

Caos

(63)

Ordine perfetto, “cristallizzato”

Massima connessione e assenza di differenziazione.

Il sistema è descrivibile deterministicamente

(64)

Mobilità totale, caos

Massima differenziazione e assenza di connessione.

Il sistema è descrivibile solo statisticamente

(65)

Complessità

Le molecole dell’acqua sono differenziate e connesse perché le molecole sono legate fra loro, ma ciascuna si può spostare rispetto alle altre e il sistema può assumere molteplici configurazioni. Il sistema è descrivibile con meccaniche non lineari

(66)

Parmenide e Eraclito

Essere o divenire?

(67)

Parmenide

(515 a.C. – 450 a.C.)

• «L'essere è, e non può non essere»

• «Il non-essere non è, e non può essere»

(68)

« … Orbene io ti dirò, e tu ascolta accuratamente il discorso, quali sono le vie di ricerca che sole sono da pensare: l'una che "è" e che non è possibile che non sia, e questo è il sentiero della Persuasione (infatti segue la Verità);

l'altra che "non è" e che è necessario che non sia, e io ti dico che questo è un sentiero del tutto

inaccessibile: infatti non potresti avere cognizione di ciò che non è (poiché non è possibile), né potresti esprimerlo.

… Infatti lo stesso è pensare ed essere»

(Parmenide, Della natura)

(69)

• L'Essere è immobile (dimostrazione: se si si muovesse sarebbe soggetto al divenire, e quindi ora sarebbe, ora non sarebbe);

• L’Essere è Uno (dimostrazione: se non fosse uno, si

darebbero due Esseri. Ne segue che l’Essere è uno e che qualsiasi cosa sia al di fuori di Esso non può essere);

• L’Essere è Uno (dim.: se l'essere fosse solo per un certo periodo di tempo, a un certo momento non sarebbe. Ciò sarebbe contraddittorio);

• L'Essere è ingenerato e immortale (dim.: se fosse soggetto a nascita significherebbe che prima di nascere non era; e se potesse morire, significherebbe che cesserà di essere);

• L'Essere è indivisibile (dim.: se non fosse tale richiederebbe

la presenza del non-essere come elemento separatore).

(70)
(71)

• Ritenere, basandosi sui dati sensibili, che esista il movimento non è pensare

secondo verità, ma rimanere in balìa

dell’opinione (doxa).

(72)

Eraclito

(535 a.C. – 475 a.C.)

• Il mondo è un flusso perenne

«non è possibile discendere due volte nello

stesso fiume né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato; per la velocità del

movimento, tutto si disperde e si ricompone di

nuovo» (frammento 91)

(73)

«Questo mondo, che è lo stesso per tutti,

nessuno degli dei o degli uomini l’ha creato, ma

fu sempre, è e sempre sarà fuoco eternamente

vivo che con ordine regolare si accede e con

ordine regolare si spegne» (frammento 30)

(74)
(75)

• Eraclito è stato considerato lo scopritore della dialettica : il logos – il principio

creativo – è uno, ma si manifesta per opposizioni, conflittualità, lotta.

«La lotta è la regola del mondo e la guerra è

comune generatrice e signora di tutte le cose»

(76)

• Hegel disse che non c’era proposizione di Eraclito che non avesse accolto nella sua Logica. Ma Hegel interpretò la dialettica fra opposti come

contrapposizione fra Tesi e Antitesi (Assoluto e Realtà) che poi si conciliano nella Sintesi.

• Per Eraclito, invece, non c’è annullamento

dell’opposizione. È per questo che l’armonia che soggiace alla discordia è difficile da trovare: perché non è per Eraclito la sintesi degli opposti

(Abbagnano, 1993, vol. 1, p. 23)

«Gli uomini non sanno come ciò che è discorde è in

accordo con sé: armonia di tensioni opposte, come

quelle dell’arco e della lira» (Frammento 51)

(77)

• Per Heisenberg (1952) la posizione di Eraclito è estremamente moderna

aggiunse che noi abbiamo solamente nell’attuale fisica sostituito la parola

«fuoco» con «energia»

• Eraclito, come evidenziò anche Popper, colse il mondo come colossale processo, più che come edificio; non i fatti, ma i

mutamenti.

(78)

Logos vs doxa

• Per Eraclito, il logos è ciò che regola ed è

comune a tutte le cose, l’opinione (doxa) è la verità privata

« tutte le leggi umane si alimentano dell’unica legge divina, poiché quella impone quanto vuole e basta per tutte le cose e avanza ».

«[occorre] seguire ciò che è comune. Ma benché

comune sia questa verità che io insegno, i molti vivono

come se avessero un proprio pensiero per loro».

(79)

• «Il retto pensiero è la massima virtù e la sapienza è dire e fare cose vere

ascoltando e seguendo l’intima natura

delle cose».

(80)

• Per Eraclito la sapienza è difficile a

conseguirsi perché comporta il pensare assieme l’unità e la conflittualità,

«struttura» e «processo», come potremmo

dire oggi.

(81)

• La sapienza non è connessa a un

«sapere» ma a un «ricercare»: la natura

«ama nascondersi»; ma non bisogna desistere: «se non speri, non troverai

l’insperato, introvabile essendo questo e

inaccessibile» (fr. 18)

(82)

• La via per arrivare alla sapienza è la

conoscenza della propria anima («Io ho indagato me stesso», frammento 22)

«Tu non troverai i confini dell’anima, per quanto vada innanzi, tanto è profonda è la sua

ragione» (frammento 45)

(83)

• Parmenide: visione «statica» della realtà

→ la conoscenza è conoscenza dei

principi primi dell’essere in cui «tutto è»

• Eraclito: visione «dinamica» della realtà

→ la conoscenza è conoscenza della

dialetticità del reale e dell’armonia a esso

soggiacente

(84)

• Per rimanere sempre alle radici del pensiero occidentale, già i primi pensatori ebbero la

necessità di pensare la coesistenza di regolarità e irregolarità.

• Ad esempio, come ricorda Prigogine, Epicuro sentì la necessità di prevedere che «cadono in linea retta nel vuoto», possano, in certi momenti deviare, impercettibilmente la loro traiettoria,

appena sufficiente perché si possa appunto parlare di modifica dell’equilibrio.

– Il discepolo di Epicuro, Lucrezio, definì

questa attitudine degli atomi come clinamen.

(85)

…ne consegue

…che la vita è un «processo» di continuo

cambiamento, nell’ambito del quale sempre

nuove e imprevedibili perturbazioni portano i

sistemi viventi sull’orlo del caos.

(86)

Le TEORIE DELLA COMPLESSITÀ

formulano l’idea che la vita sia un continuo

cambiamento utilizzando la formula che la vita è un «processo» che avviene sull’orlo

del caos

• sempre nuove e imprevedibili

perturbazioni portano i sistemi viventi

sull’orlo del caos.

(87)

→ la vita è un insieme di struttura e

movimento, di caos e ordine, di essere e di divenire: se le strutture non cambiassero, sarebbero rigide e morte; se cambiassero incessantemente, non potrebbero acquisir forma e sarebbero ugualmente morte per

«eccesso di cambiamento».

(88)

• Tali intuizioni hanno sempre fatto parte della sensibilità di filosofi, scienziati, ma anche artisti e studiosi di scienze umane.

• Il merito dell’approccio della complessità sta nell’averle codificate e di aver dato loro un linguaggio matematico, di aver offerto un paradigma.

• Vediamo alcuni esempi

(89)

Pirandello e il flusso continuo della vita

La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza,

costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate in certi momenti di piena straripa e sconvolge tutto.

(90)

Vi sono anime irrequiete, quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, d’irrigidirsi in questa o in quella forma di

personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in una o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti.

E per tutti però può rappresentare talvolta una tortura, rispetto all’anima che si muove e si fonde, il nostro stesso corpo fissato per sempre in fattezze immutabili. Oh perché proprio dobbiamo essere così, noi? - ci domandiamo talvolta allo specchio, - con questa faccia, con questo

corpo? - Alziamo una mano nell’incoscienza; e il gesto ci resta sospeso.

Ci pare strano che l’abbiamo fatto noi. Ci vediamo vivere. […]

In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più

penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita e in sé stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana

impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista

umana, fuori delle forme dell’umana ragione.

(91)

Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi

sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo, e quella realtà diversa ci appare orrida nella sua crudezza impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni consuete di sentimenti e d’immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistar la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito. Ma a questa coscienza normale, a queste idee riconnesse, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o d’impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita, allora, che s’aggira

piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle

importanza? come portarle rispetto?

(92)

Oggi siamo, domani no. Che faccia ci hanno dato per rappresentar la parte del vivo? Un brutto naso? Che pena doversi portare a spasso un brutto naso per tutta la vita... Fortuna che, a lungo andare, non ce

n’accorgiamo più. Se ne accorgono gli altri, è vero, quando noi siamo

finanche arrivati a credere d’avere un bel naso; e allora non sappiamo più spiegarci perché gli altri ridano, guardandoci. Sono tanti sciocchi!

Consoliamoci guardando che orecchi ha quello e che labbra quell’altro; i quali non se n’accorgono nemmeno e hanno il coraggio di ridere di noi.

Maschere, maschere... Un soffio e passano, per dar posto ad altre. Quel povero zoppetto là... Chi è? Correre alla morte con la stampella.. . La vita, qua, schiaccia il piede a uno; cava là un occhio a un altro... Gamba di

legno, occhio di vetro, e avanti! Ciascuno si racconcia la maschera come può - la maschera esteriore. Perché dentro poi c’è l’altra, che spesso non s’accorda con quella di fuori. E niente è vero! Vero il mare, sì, vera la

montagna; vero il sasso; vero un filo d’erba; ma l’uomo? Sempre

mascherato, senza volerlo, senza saperlo, di quella tal cosa ch’egli in buona fede si figura d’essere: bello, buono, grazioso generoso, infelice, ecc. ecc.

(93)

E questo fa tanto ridere, a pensarci. Sì, perché un cane, poniamo, quando gli sia passata la prima febbre della vita, che fa? mangia e dorme: vive come può vivere, come deve vivere; chiude gli occhi,

paziente, e lascia che il tempo passi, freddo se freddo, caldo se caldo; e se gli dànno un calcio se lo prende, perché è segno che gli tocca anche questo. Ma l’uomo? Anche da vecchio, sempre con la febbre: delira e non se n’avvede; non può fare a meno d’atteggiarsi, anche davanti a sé stesso, in qualche modo, e si figura tante cose che ha bisogno di creder vere e di prendere sul serio.

L’ajuta in questo una certa macchinetta infernale che la natura volle

regalargli, aggiustandogliela dentro, per dargli una prova segnalata della sua benevolenza. Gli uomini, per la loro salute, avrebbero dovuto tutti lasciarla irrugginire, non muoverla, non toccarla mai. Ma si! Certuni si

sono mostrati così orgogliosi e stimati così felici di possederla, che si son messi subito a perfezionarla, con zelo accanito. E Aristotile ci scrisse

sopra finanche un libro, un leggiadro trattatello che si adotta ancora nelle scuole, perché i fanciulli imparino presto e bene a baloccarcisi. È una specie di pompa a filtro che mette in comunicazione il cervello col cuore.

La chiamano LOGICA i signori filosofi.

(94)

Il cervello pompa con essa i sentimenti dal cuore, e ne cava idee.

Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di

torbido: si refrigera, si purifica, si i-de-a-liz-za. Un povero sentimento, così, destato da un caso particolare, da una contingenza qualsiasi, spesso dolorosa, pompato e filtrato dal cervello per mezzo di quella

macchinetta, diviene idea astratta generale, e che ne segue? Ne segue che noi non dobbiamo affliggerci soltanto di quel caso particolare, di quella contingenza passeggera; ma dobbiamo anche attossicarci la vita con l’estratto concentrato, col sublimato corrosivo della deduzione logica E molti disgraziati credono di guarire così di tutti i mali di cui il mondo è pieno, e pompano e filtrano, pompano e filtrano, finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero e il loro cervello non sia come uno stipetto di farmacia pieno di quei barattolini che portano su l’etichetta nera un teschio fra due stinchi in croce e la leggenda: VELENO.

L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un

sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo.

(95)

E aggrava un male già grave per sé stesso. Perché la prima radice del nostro male è appunto in questo sentimento che noi abbiamo della vita.

L’albero vive e non si sente: per lui la terra, il sole, l’aria, la luce, il vento, la pioggia, non sono cose che esso non sia. All’uomo invece, nascendo è toccato questo triste privilegio di sentirsi vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di sé questo suo interno sentimento della vita, mutabile e vario.

Gli antichi favoleggiarono che Prometeo rapì una favilla al sole per farne dono agli uomini. Orbene, il sentimento che noi abbiamo della vita è

appunto questa favilla prometèa favoleggiata. Essa ci fa vedere sperduti su la terra; essa proietta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se la favilla non fosse accesa in noi; ombra che noi però dobbiamo

purtroppo creder vera, fintanto che quella ci si mantiene viva in petto.

Spenta alla fine dal soffio della morte, ci accoglierà davvero quell’ombra fittizia, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà rotto soltanto le vane forme della ragione umana?

(96)

Tutta quell’ombra, l’enorme mistero, che tanti e tanti filosofi hanno invano speculato e che ora la scienza, pur rinunziando all’indagine di esso, non esclude, non sarà forse in fondo un inganno come un altro, un inganno

della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se tutto questo mistero, in somma, non esistesse fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita? Se la

morte fosse soltanto il soffio che spegne in noi questo sentimento penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia oltre il breve àmbito dello scarso lume che ci proiettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo

sentimento di esilio che ci angoscia? Non è anche qui illusorio il limite, e relativo al poco lume nostro, della nostra individualità? Forse abbiamo

sempre vissuto, sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo; non lo

sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo quella favilla che Prometeo ci volle donare ci fa vedere soltanto quel poco a cui essa arriva.

(dal saggio sull’Umorismo)

(97)

• Vita / forma

• Sentimento mutabile e vario che dipende dalle circostanze / Logica che astrae dalla vita

– cfr. Bergson: istinto/intelligenza: «vi sono cose che l’intelligenza sola è capace di cercare ma che per conto suo non troverà mai. Queste cose solo

l’istinto le troverebbe; ma non le cercherà mai»

(98)

• Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico (1944), tr. it. Adelphi, Milano 2008

• Schrödinger (1887–1961) è stato un fisico e

matematico austriaco,

famoso per l’ equazione di Schrödinger che contribuì in maniera fondamentale a

«codificare» la meccanica

quantistica e che gli valse il

Premio Nobel nel 1933.

(99)

• In Che cos’è la vita? Schrödinger si chiede come la fisica e la chimica possono spiegare l’esser vivo di un organismo vivente, considerando che la fisica di pochi atomi è assai disordinata e solo i legami molecolari riescono a renderla stabile; le altre leggi che governano gli atomi sono quelle di carattere statistico, che valgono quando ci sono aggregati di molti atomi.

• Egli sostenne che deve esistere un gene dotato di stabilità

e ordine che permette alla vita di replicarsi. Ma che tipo di

struttura ha questo gene?

(100)

• Schrödinger utilizza le nozioni di «salto quantico» – di cui la

«mutazione» genetica sarebbe un equivalente – e di

«cristallo aperiodico» per rendere conto di come la natura

«fabbrichi» corpi non secondo il meccanismo della

ripetizione meccanica, ma essendo capace di generare

«molecole organiche via via più complicate nelle quali ogni atomo e ogni gruppo di atomi ha una funzione particolare, non interamente equivalente a quella di molti altri».

– Watson, Crick e Wilkins identificheranno nel 1953 la

struttura a doppia elica della molecola del DNA. Watson,

nel suo libro DNA, The Secret of Life, dirà che fu l’intuizione

di Schrödinger a dargli l'ispirazione per ricercare il gene.

(101)

• La «stabilità» del gene non spiega, tuttavia, come si possa arginare la tendenza della materia all’entropia, a passare cioè dall’ordine al disordine, dove il disordine comporta un equilibrio inerte, ovvero ciò che per il vivente corrisponde alla «morte», in contrasto con il funzionamento dell’organismo che invece si

fonda sul meccanismo della conservazione dell’ordine interno e della «vita». Dice Schrödinger che «ci deve essere qualcosa nel meccanismo della vita che impedisce alla vita di

degradarsi, ci deve essere un fenomeno irreversibile»

• Schrödinger sostiene che l’organismo «può tenersi lontano da tale stato [di massima entropia e di «morte»] solo

traendo dal suo ambiente continuamente entropia negativa» (p. 123). La vita consisterebbe pertanto in

quell’insieme di «originali» strutture fisico chimiche che si ‐

oppongono alla disgregazione. Prigogine rileva come tuttavia Schrödinger non riuscì a dire molto sull’irreversibilità delle

strutture viventi.

(102)

• Quanto al libero arbitrio?

«Il mio corpo funziona come puro meccanismo», oppure «io dirigo i suoi movimenti, dei quali io prevedo gli effetti, che possono essere gravi di conseguenze, nel qual caso io sento e assumo piena

responsabilità di essi» (p. 148).

• Per Schrödinger, che in questa circostanza abbandona le

vesti del fisico e si rifà nientemeno che ai vedanta (per i quali mostrò sempre interesse) bisogna postulare l’esistenza di un

«io» «che controlla il "movimento degli atomi” secondo le

leggi di natura» (p. 148).

(103)

La democrazia secondo Lewin

Kurt Lewin (1890 – 1947) è stato un celebre psicologo gestaltista, che

riuscì a declinare sul versante della psicologia sociale. Come per i

gestaltisti della percezione, per Lewin la nostra esperienza non è costituita da un insieme di elementi puntiformi che si associano, ma da percezioni che già sono strutturate come degli interi. E ciò vale anche per le

dinamiche dei gruppi e lo sviluppo

delle organizzazioni.

(104)

• I tre stili di leadership secondo Lewin:

– Autoritario

– Permissivo (laissez faire)

– Democratico

(105)

• Lewin aveva osservato che il gruppo democratico possedeva un «ideale del “noi”» mentre nel

gruppo autocratico vi è un maggior uso del sentimento della parola «io».

• Coerentemente con l’approccio gestaltico per cui

«il tutto è più della somma delle parti», il

cambiamento significativo di un gruppo è quello di passare dal regime di una moltitudine di «io» al

gruppo inteso come appartenenza ad un «noi»

che persegue scopi comuni (Lewin 1942, tr. it.

1972, p. 154).

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