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Teresa Agovino - Discorsi tra padri e figlie nel romanzo del Novecento

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Academic year: 2022

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Indice

1. IL MODELLO MANZONIANO ... 3

2. IL PESO DELLA PAROLA NEL GATTOPARDO ... 5

3. LA PAROLA SCRITTA. IL TESTAMENTO NEI VICERÉ. ... 7

4. LE MEMORIE SCRITTE IN NOI CREDEVAMO ... 9

5. IL DIALOGO TRA PADRI E FIGLIE ... 10

BIBLIOGRAFIA ... 11

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1. Il modello manzoniano

«Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre) non rispose direttamente […]». È questa la più nota frase manzoniana che illustra il controverso rapporto che lega la Monaca di Monza al principe suo padre. Unica figura paterna nei Promessi Sposi, il principe si rivelerà all’interno di un ruolo totalmente negativo per la giovane Gertrude verso la quale non nutrirà né affetto né pena e che tenderà a soggiogare totalmente al proprio volere.

In Manzoni l’unico esempio di rapporto padre-figlia si rivelerà fallimentare, autodistruttivo e psicologicamente devastante per la giovane Gertrude, causa anche la totale assenza di una figura materna imponente. Nel romanzo novecentesco si tenderà ad invertire tale tendenza e a ristabilire rapporti affettivi, seppure forse non meno controversi e dolorosi, tra padri e figlie.

I romanzi che analizzeremo in questa lezione sono: I Vicere (1894), Il Gattopardo (1958), Noi Credevamo di Anna Banti (1967), che non a caso si apre con la dedica «Alla memoria di mio Padre» e narra le vicende del vecchio Domenico Lopresti (vero cognome della Banti, e dunque anche del padre di lei) che annota le sue memorie di combattente mazziniano durante i moti unitari, capito e aiutato segretamente in questa operazione di scrittura (che si rivelerà alla fine non l’autobiografia che Lopresti crede di aver scritto, ma un ammasso di scarabocchi illeggibili tracciati da un morente fuori di sé) proprio dalla figlia Teresa.

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Le coppie: don Giacomo e Teresa Uzeda in De Roberto, don Calogero e Angelica Sedara da un lato e don Fabrizio e Concetta Salina dall’altro in Tomasi di Lampedusa, don Domenico e Teresa Lopresti in Anna Banti. Padri e figlie si riveleranno costantemente in rapporti speculari composti da una molteplicità di sentimenti e atteggiamenti gravanti spesso sulla controparte femminile. Capita, infatti, che il padre si identifichi psicologicamente nella figlia, anche quando in famiglia è presente un erede maschio (come nel caso dei Vicere, del Gattopardo o di Noi Credevamo). Tutti i rapporti padre-figlia, dunque, seppur sofferti e complessi, si riveleranno diversi rispetto al modello manzoniano e, con la sola eccezione dei Sedara (in cui un rapporto vero e proprio, lungi comunque dall’essere negativo, manca del tutto), sostanzialmente positivi, reciproci e interdipendenti.

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2. Il peso della parola nel Gattopardo

Tutti i personaggi alterneranno momenti di affetto sincero a momenti di compassione per le sventure della controparte (padre o figlia). L’unica eccezione è quella dei Sedara: leggendo attentamente Il Gattopardo si noterà che mai in tutto il romanzo padre e figlia si rivolgono la parola.

Il rapporto non è negativo: don Calogero lascia ad Angelica ogni libertà e dichiara

«Io però sono un padre moderno e non potrò darvi una risposta definitiva [in occasione della proposta di matrimonio avanzata da Salina per conto del nipote Tancredi] se non dopo aver interrogato quell’angelo che è la consolazione della nostra casa».

Tutto ciò però non è frutto di amore paterno, ma parte di un sentimento interessato:

Calogero Sedara, borghese arricchito, punta all’ascesa sociale della bella Angelica e mai le permetterebbe di rifiutare un’offerta tanto generosa come l’ingresso in casa Salina e il titolo nobiliare che ne deriva, al punto da proseguire il discorso come segue:

«I diritti sacri di un padre, però so anche esercitarli: io conosco tutto ciò che avviene nel cuore e nella mente di Angelica; e credo di poter dire che l’affetto di don Tancredi, che tanto ci onora tutti, è sinceramente ricambiato».

Il rapporto tra i due Sedara, dunque, non è negativo, né positivo, semplicemente non c’è.

Angelica è degna figlia di un padre caratterizzato da un «rampantismo spietato» oltre che da alte ambizioni sociali e ne condivide appieno idee e sentimenti di ascesa. Eppure i due non si rivolgono mai la parola; raramente inoltre all’interno del Gattopardo il padre parla della figlia o viceversa, né alcuno dei due personaggi pensa mai all’altro. Eppure non c’è astio né rancore tra di loro,

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semplicemente padre e figlia non hanno bisogno di confrontarsi, Angelica è lo specchio perfetto del padre: da lui educata e formata a sua immagine e somiglianza.

Diversamente da quanto accade nella famiglia Sedara, tra i Salina padre e figlia intercorre invece un rapporto di affetto e compassione, sia pur incrinato a tratti da reciproca incomprensione. Don Fabrizio, consapevole di ciò che prova per Tancredi la figlia Concetta, soffre nel sacrificare questo sentimento a ragioni sociali più grandi di lei:

E Concetta, con tutte le sue virtù passive, sarebbe stata capace di aiutare un marito ambizioso e brillante a salire le sdrucciolevoli scale della nuova società? Timida, riservata, ritrosa com’era? Sarebbe rimasta sempre la bella educanda che era adesso, una palla di piombo al piede del marito. […] L’amore. Certo, l’amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta […]. E Tancredi, poi…

Concetta ormai anziana in chiusura di romanzo, dopo aver provato astio verso il padre e averlo visto come il più grande impedimento alla sua felicità con Tancredi, capirà che in fondo egli aveva agito non contro di lei, ma in suo favore impedendole di sposare il cugino che pure forse a suo modo l’amava, sapendo che quella felicità da lei sperata sarebbe stata inconsistente:

Fino ad oggi […], si sentiva sostenuta da un senso di martirio subìto, di torto patito, dall’animosità contro il padre che l’aveva trascurata. Ora, invece, questi sentimenti derivati che avevano costituito lo scheletro di tutto il suo modo di pensare si disfacevano anch’essi. Non vi erano stati nemici, ma una sola avversaria, essa stessa.

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3. La parola scritta. Il testamento nei Viceré

Un rapporto allo stesso modo speculare e contrastante intercorre tra Giacomo e Teresa Uzeda. La giovane Teresa, ancora bambina, riceve dal padre maggior indulgenza rispetto a quella riservata al fratello Consalvo e d’altro canto mai si ribella ai disegni di lui, accettandoli in toto. Tutto ciò non per dedizione ma per autocompiacimento, derivante dalle lodi sulla sua obbedienza e rettitudine che da ogni parte arrivano. Teresa vuole essere per Giacomo e la madre Margherita la figlia preferita, ci riesce, mostrando sempre una totale accettazione di ciò che le viene imposto dall’alto, dalla scelta del collegio fino al matrimonio con un uomo che non ama e che non la ama:

Teresa, adesso vicina ai dodici anni, formava il suo orgoglio, per la bellezza della persona e la bontà dell’animo. Mai un dispiacere da quella bambina; lo stesso principe che a giorni pareva cercasse col lanternino i pretesti per andare in collera, non la coglieva mai in fallo. Bastava che le dicessero una volta “Teresina, ciò dispiace a tuo padre”, oppure “Tuo padre vuole così”, perché ella chinasse il capo senza fiatare. Per l’obbedienza esemplare, per la dolcezza del cuore, ella raccoglieva dunque lodi e premii. […] E queste lodi sì, l’inorgoglivano; per guadagnarsele sopportava tutto in pace. Anch’ella, come tante altre sue piccole amiche, desiderava le belle vesti nuove, dai colori gai, dalle ricche guarnizioni: o le prime buccole, un anellino; ma suo padre le diceva che queste cose guastano le ragazze; e invece di piangere e di gridare, come facevan tante, ella chinava il capo…

D’altronde Teresa, allo stesso modo del padre è preda di manìe: «La manìa del principe Giacomo è la iettatura, quella di Teresina la fama di santità, che si tramuterà infine nel più cieco e superstizioso bigottismo». E ancora, «Per Teresa, l’assillo narcisistico consiste nell’ansia di elogi, nella voluttà di farsi esempio di devozione filiale e immacolatezza morale».

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Si noti inoltre, nel testo sopra citato, come De Roberto, memore sicuramente del modello manzoniano batta sulla centralità dell’orgoglio, ripetendo ben due volte in cinque righe i termini

‘orgoglio’ e ‘inorgoglivano’.

Giacomo Uzeda arriverà a diseredare Consalvo in favore di Teresa, giungendo addirittura a chiederle di conservare il nome di famiglia, anteponendo il suo cognome a quello del marito nella discendenza. La richiesta di Giacomo è al di fuori di ogni immaginazione. Solo in quel momento il destino di tutti gli Uzeda, che pare rivelarsi nella disobbedienza alle ultime volontà testamentarie dei genitori, si compie in Teresa. La giovane potrà ribellarsi al volere del padre, dividendo il patrimonio col fratello diseredato, solo dopo la morte di lui, contravvenendo a quanto espressamente dettato all’interno del testamento. Il cerchio si chiude: se Giacomo aveva disobbedito alle ultime volontà della madre Teresa, spogliando i fratelli di quanto loro dovuto, sua figlia Teresa, specularmente, riparerà sul piano morale e materiale a questo torto riconsegnando al primogenito Consalvo parte di quanto gli spettava anche se, per farlo, dovrà per la prima volta nella sua vita disobbedire all’imperante volontà paterna.

«Il “testamento” è l’ultima volontà, l’atto per cui, in limine mortis si stabilisce presso i posteri la sopravvivenza d’un se stesso identificato con i propri beni materiali» ma anche biologici, ideologici e spirituali, le eredità, siano esse materiali o immateriali vengono a questo punto consapevolmente destinate dai padri alle figlie predilette, perché ne custodiscano i beni, continuandone l’operato anche dopo la loro morte.

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4. Le memorie scritte in Noi credevamo

Teresa Lopresti del padre diverrà invece complice. Accorgendosi dei vaneggiamenti scrittori del vecchio mazziniano, di nascosto, e senza mai fargliene parola, gli fornirà inchiostro e fogli puliti:

«Tuttavia Teresa deve essersi accorta di questi miei maneggi, me ne avvedo dalla cura con cui mi spolvera il calamaio e controlla inchiostro e pennino». «Una muta complicità si è stabilita tra me e lei, io scrivo adesso anche in sua presenza. Faccio il gesto di raccogliere le mie carte ed essa mi previene […] ha capito che sono un mio segreto».

Tale dedizione verrà ricambiata dal padre con sincero affetto e preoccupazione per il futuro della giovane. Il padre vorrebbe ringraziarla per ciò che fa ma non riesce ad esternarle la propria gratitudine, che resta confinata nei propri pensieri di malato terminale:

«Avrei voluto ringraziarla per quella fedeltà alla terra e alla famiglia da cui è nata, ma avevo paura d’intenerirmi troppo […]. I miei pensieri sono sconvolti, tutto quel che non riguarda Teresa mi sembra frivolo, vacuo».

Teresa Lopresti, è riflessa così nei pensieri del padre morente: «Per qualche tempo Teresa vorrà conservare i miei brogliacci, poi si deciderà a bruciarli senza rimorsi».

Teresa è l’unica o quasi ad avere accesso alla camera del padre allettato e ai segreti scrittori che vi sono contenuti.

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5. Il dialogo tra padri e figlie

Tra Gertrude e suo padre le parole sono poche, nette e imperanti, e vengono per lo più rivolte in tono di comando dall’alto verso il basso, dal padre alla figlia, sottintendendo spesso minacce e punizioni

Ricorrono infatti di ben due sospensioni in un unico virgolettato:

«potrebbe far credere ch’io avessi preso una vostra leggerezza per una ferma risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi … che so io? […] O svelare il vero motivo della vostra risoluzione e …».

I Sedara non si rivolgono mai la parola per tutta la durata del romanzo, forti del loro intento comune; Fabrizio Salina e Domenico Lopresti non riescono ad esprimere, se non nei loro più intimi pensieri, il

proprio affetto alle figlie, che pure lo intuiscono ma a loro volta tendono a dimostrarlo in azioni piuttosto che con le parole. Giacomo Uzeda, in questo senso l’anello di congiunzione tra imposizione padronale e affetto paterno, impone alla figlia la sua volontà sulla scelta di collegio, matrimonio e tanto altro, ma le dimostra apertamente la propria predilezione, sia materialmente col lascito testamentario, che sentimentalmente col suo volerla accanto durante l’ora più buia dell’operazione chirurgica.

Allo stesso modo i sentimenti della giovane verranno corrisposti: mai lei dichiarerà apertamente a parole affetto al padre, ma non cesserà di tenergli la mano durante l’intervento, nonostante la forte

impressione che ne prova, consapevole di mitigare la paura della morte che pesa su di lui.

Padri e figlie, dunque, ancora negli autori novecenteschi, se non si parlano quanto dovrebbero, migliorano però i loro rapporti a livello umano e di interscambio personale e sentimentale.

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 T. Agovino, Il rapporto padre-figlia nel romanzo del Novecento. De Roberto, Tomasi di Lampedusa, Anna Banti, in La scrittura e la modernità, Avellino,

Sinestesie, 2017.

 G. Tellini, Manzoni, Salerno Editrice, Roma 2007.

 Manzoni, I Promessi Sposi, Milano, Bur, 2015.

 G. Grana, “I Vicere” e la patologia del reale, Marzorati, Milano 1982.

 F. I. Caldarone, Federico De Roberto continuatore dell’opera verghiana: il tema del “testamento”, in Italica, Vol. 64, N. 2 (1987).

 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1963.

 F. Del Vecchio, La verita romanzesca di Federico de Roberto, in The Rsorgimento of Federico de Roberto, a cura di J. Dashwood e M. Ganeri,

Peter Lang, Bern 2009

 M. Bertone, Tomasi di Lampedusa, Palumbo, Palermo 1995.

 F. De Roberto, I Vicere, Mondadori, Milano 2009.

V. Spinazzola, Federico De Roberto e il verismo, Feltrinelli, Milano 1961.

V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Editori Riuniti, Roma 1993.

A. Pupino in Manzoni Religione e romanzo, Salerno Editrice, Roma.

A. Banti, Noi Credevamo, Mondadori, Milano 2010.

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