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Cultura – Pag. 96 31 agosto 2007

Architetti all’inferno

CORAGGIO.CULTURA. E COMMITTENTI. È LA FORMULA DI FUKSAS PER RILANCIARE I PROGETTI IN UN PAESEIN CUI IL PRESENTE LASCIA UN SOLO SEGNO: IL DEGRADO DELLE PERIFERIE. COLLOQUIO CON MASSIMILIANO FUKSAS DI WLODEK GOLDKORN

L'architettura è eros, desiderio, voglia di vivere, scommessa sul futuro. Ma è troppo importante per lasciarla ai soli architetti. Per costruire città vivibili e edifici non banali c'è bisogno di una classe dirigente coraggiosa, capace di mettersi in gioco e di rischiare.

C'è bisogno non solo di architetti ma prima di tutto di committenti. E siccome tutto questo manca, tra cent'anni non avremo in Italia nessun segno dell'epoca degno di questo nome, niente che assomigli, nel bene e nel male, alla piramide del Louvre, alla cupola di vetro del nuovo Reichstag, allo skyline rivoluzionario di Londra contemporanea.

Siamo fermi a un linguaggio architettonico ottocentesco, mentre i sindaci delle nostre città si limitano a lucidar le vecchie pietre dei centri storici. L'unica novità? È Scampia, mostruosa periferia, simbolo di questa architettura italiana d'oggi. Eppure le nostre città sono delle scenografie meravigliose, basterebbe poco per trasformarle in luoghi di gioia e di bellezza. Ha voglia di provocare Massimiliano Fuksas, 62 anni, romano, uno degli architetti più famosi del mondo, lavora in America, Francia, Germania, Lituania, Israele, Russia - critico de "L'espresso", autore di edifici importanti come le Bolle della Distilleria Nardini a Bassano del Grappa, la nuova Fiera di Milano, la Nuvola in costruzione a Roma Eur, alcuni contestati come il suo ultimo progetto, il Faro galleggiante di Savona.

Parlando dal suo buon ritiro a Pantelleria, vuole però partire da una premessa:

«L'architettura è arte della pace, non è certo atte della guerra, non è il nostro fine costruire i bunker. Ragione per cui, in questo momento, non è facile parlare d'architettura».

Proviamoci lo stesso. A cominciare dalla cosa più elementare. Qual’è, secondo lei, lo stato dell'architettura, oggi, nel nostro paese?

«Porrei la domanda in un altro modo. Siamo, oggi in Italia, in grado di creare segni, simboli, immagini che ci assomiglino nel bene e non solo nel male? Quanti edifici considerati "importanti", monumentali, religiosi o di alto valore simbolico per la nostra identità sono stati costruiti? Oppure si può partire dalla domanda: quante città italiane si sono attrezzate per resistere alla banalità della cultura architettonica d'oggi? Vede, fra cent'anni, non ci saranno nelle città italiane, segni della nostra epoca».

Perché oggi non si riescono a fare le cose che si facevano nel non lontano passato? Prendiamo ad esempio Firenze. Nella seconda metà dell'Ottocento ha cambiato radicalmente volto. Sono state abbattute le mura; Poggi ha creato il piazzale Michelangiolo introducendo l'idea di paesaggio; hanno costruito le facciate di chiese importanti, completando opere iniziate 500 anni prima; è stata edificata un'enorme sinagoga, dalla cupola verde, un linguaggio eterogeneo rispetto ad altri edifici. L'esempio vale anche per Roma e altre città.

Gli italiani avevano fatto uno sforzo per adeguare le loro città alla modernità di allora. Perché oggi,non più?

«Diciamolo francamente. Non è vero che non si costruisce in Italia. Negli ultimi 50 anni abbiamo costruito più che negli ultimi dieci secoli. Non c'è una crisi nell'edilizia. C'è una crisi di identità. Facciamo un'ipotesi da fantascienza: in Italia arriva un marziano, si affaccia nel mio studio, e mi chiede, caro Fuksas mi porti a vedere i segni della società in cui vivi?».

E lei dove lo porta?

«A Selinunte. Ma non ai templi. Alla città abusiva cresciuta a fianco dell'area dei templi, una città senza fogne, senza infrastrutture, costruita da niente e su niente. Oppure lo porterei alle periferie. A Scampia. Sono questi i segni della nostra epoca. Nell'Ottocento

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invece eravamo un'altra società. Eravamo perfino capaci di dare una sede a qualcosa che non l'aveva, come appunto la sinagoga. Che non è un oggetto necessario, e, di cui non ne esiste una tipologia. Per altro, con il suo stile "moresco" di stampo "orientalista" e che allude a un luogo di provenienza mitico, la sinagoga di Firenze assomiglia a una chiesa di vago sapore mediorientale. Abbiamo creato un immaginario».

Oggi,si potrebbe fare un'operazione simile con le moschee?

«No. Guardi la moschea di Roma. È un oggetto architettonico mediocre senza la capacità di essere riprodotto. Riprodotto non come tipologia, ma come forza di aggregazione e di riflessione».

Colpa dell'architetto Paolo Portoghesi che l'ha progettata?

«L'architetto è mediocre. Ma c'è una questione di fondo: e faccio un esempio che mi riguarda, ma che ha una valenza universale. Sto costruendo una chiesa, la chiesa di San Giacomo, a Foligno. Ebbene, il vescovo mi ha fatto notare che mi sono scordato della croce. Ed è vero. Ma poi, ci ho riflettuto: l'importante non è il simbolo, ma la luce che proviene dallo spazio, la manipolazione della luce. È la luce a dare l'emozione, e comunicare spiritualità. Non è quindi solo la questione della moschea di Roma».

In un'Italia il cui simbolo, secondo lei, è Scampia, parla di luce e di spiritualità?

«E di emozione. E quindi di precarietà. L'architettura non è fatta per resistere, è temporanea. Sono ridicoli coloro che dicono: costruiamo in pietra, così l'edificio dura di più. La durata di un edificio, di un monumento non dipende più da noi. Il mito dell'eternità ci è sfuggito. E poi, è giunto il momento di usare nuovi materiali, leggeri, sperimentali. In Italia invece si insiste con la pietra, avendo come orizzonte l'impossibile eternità, appunto. Ma così si fanno solo dei brutti edifici, dove aumenta lo spazio, ma non la luce, il contrario di ogni buona architettura».

Le ragioni di tanto degrado?

«Manca l'idea di una classe sociale dirigente con una visione, giusta o sbagliata che sia, della società. I simboli della classe dirigente oggi sono il Billionaire di Briatore e l'Ikarus di D'Alema».

Dove vuole arrivare?

«Alla mancanza di Eros. A questa classe dirigente manca il desiderio, mentre l'architettura è Eros, non Tanatos. È amore, non morte. Non è l'eternità, ma è un progetto molto lungo, di pace».

Però a Londra si costruisce per l'eternità. Hanno fatto il Millennium Dome, stanno cambiando lo skyline della città. Loro hanno l'Eros mentre noi abbiamo solo Tanatos?

«Loro hanno il committente. Ed è il committente a decidere che tipo di architettura si fa.

Londra è una capitale che ha due centralità. La prima è quella finanziaria. La seconda è culturale. Hanno scoperto che la cultura integra e smussa l'aspetto arido del pragmatismo anglosassone. Mentre in Italia abbiamo un capitalismo che non è mai stato capitalismo e una borghesia che non è mai stata borghesia. Nel mondo anglosassone è considerato importante costruire istituzioni culturali per il pubblico. Da noi invece, a un Caltagirone non gli viene in mente di costruire una collezione d'arte e farvi partecipe il pubblico, se non altro per mettere in mostra i frutti del proprio lavoro. Non abbiamo i segni dell'epoca perché manca il committente».

Per quale motivo?

«Perché alla nostra classe dirigente manca la cultura intesa come il coraggio e la capacità di mettersi in gioco. La prima questione di ogni architettura è la quantità di rischio che è disposto a prendersi il committente. E siccome in Italia il committente non esiste, o non vuole correre il rischio…»

Gli architetti non possono fare niente...

«Neanche gli architetti si prendono i rischi. Il mondo degli architetti si è chiuso in se sresso. Non ha voluto diventare un pedagogo di un ipotetico committente. Costruendo qua e là in Italia (la Fiera di Milano, il centro ricerche Ferrari, il museo Piaggio, le Bolle Nardini) ho visto che ci sono persone, Luca di Montezomolo, Chiamparino, Nardini,

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Colannino, per citare alcuni, che avevano voglia di fare delle cose. Ma ci voleva l'architetto che volesse rischiare e che fosse in grado di convincere il committente che il rischio era controllato. È il rischio a rendere l'opera non banale. Ed è la collaborazione paritaria tra architetto e committente a renderla possibile e fruibile in un futuro».

Rimane il fatto che ci sono opere in apparenza decise, ma che poi non vengono realizzate. Per esempio la nuova uscita dagli Uffizi di Isozaki. Ora Rutelli ha detto che avrebbe incontrato l'architettogiapponese...

«È un'altra questione ancora, quella dei concorsi. Altrove, nel mondo, si parte dal finanziamento dell'opera, poi si fa il concorso. In Italia, al contrario, si finanziano i concorsi di idee. Vengono cioè pagati i progetti, e solo dopo si cercano i soldi per realizzarli.

E chi sceglie le giurie dei concorsi?

Sarebbe bello che i sindaci avessero dei consulenti, giovani, che cambiassero ogni anno.

Sarebbe tutto più dinamico e passerebbe anche la paura di rischiare».

Ma perché un sindaco di una città d'arte, ben conservata,dovrebbe mettersi in gioco,anziché lustrare le vecchie pietre per la gloria e la soddisfazione dei turisti? Forse la verità è che si può costruire solo in città che hanno subito traumi pesanti: a Berlino,a Varsavia,dove non c'è niente da perdere...

«È vero: è più facile costruire altrove, mentre noi abbiamo salvaguardato abbastanza bene i nostri centri storici. E poi... Faccio un esempio: non c'era nessun bisogno di costruire a Roma in piazza Augusto Imperatore un edificio di dubbio gusto, come quello di Meier. Era più contemporaneo di Meier Louis Kahn, motto più di trent'anni fa.

Dobbiamo invece capire che è la periferia la grande sfida dell'architettura contemporanea. E in quel campo abbiamo combinato dei disastri».

La loggia di Isozaki la farebbe?

«Sì. Perché ha vinto il concorso. E bisogna stabilire la regola, che una volta fatto il concorso, si costruisce, anche sbagliando. Detto questo, Isozaki non mi piace».

C'è qualcosa di nuovo in Italia che le piace?

«Il Maxxi di Zaha Hadid, di Roma, ancora in costruzione e che ha difficoltà a trovare dei finanzia menti, il quartiere del gruppo Ciry Life a Milano, la torre del San Paolo di Renzo Piano, a Torino».

Un'ultima domanda. Se dovesse indicare un solo maestro...

«Louis Kahn. Mi ha insegnato il passaggio dall'ombra alla luce, il cuore di ogni architettura».

Quell’eccellenza italiana

L’architettura, si ripete, è sempre più un fenomeno mediatico. E il rischio che è proprio la sovraesposizione dei megastudi internazionali calati nel Bel Paese negli ultimi anni metta in ombra il lavoro degli architetti italiani, vecchi e nuovi, nelle nostre città. Tra gli esempi più significativi, di realizzazioni recenti.

Area Falck

Parco Scientifico Polaris

(Pula, Cagliari). Progetto: Gregotti Associati

Interessante esempio di architettura e landscaping in ambiente mediterraneo. Promosso da un consorzio pubblico con fondi regionali e Ue, l’insediamento, dieci edifici per la ricerca e altri spazi comuni, dialoga con la morfologia della vallata del rio Palaceris nel parco del Sulcis tra foresta e macchia, con un bel sistema stradale ad anello, sentieri pedonali intagliati nella collina, uso coerente dello splendido granito sardo.

Enrico Arosio

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