ALBERTO BAGNAI di Marxista dell’Illinois
Clinicament e parlando, malgrado si sia inabissato, Bagnai dovrebbe essere ancora in vita. Politicamente parlando, invece, egli, col voto di fiducia al governo Draghi, è morto, per la precisione si è suicidato.
Tuttavia c’è da tenere in conto quel che dice un vecchio proverbio russo: chi è sepolto ancora in vita è destinato a vivere ancora a lungo. Per autodifesa scaramantica evito dunque di affermare che Bagnai è deceduto. Mettiamola così: è uno zombi, un morto non morto (non fosse mai ritrovarselo in futuro tra i piedi).
Mi vengono in mente i tanti che gli han dato retta, e che lo hanno seguito come cani segugi. Quelli che come replicanti gli facevano il verso anche quando noi si veniva derisi dal nostro come “Marxisti dell’Illinois”. Noi che avevamo intravisto (e previsto) il suo atterraggio gattopardesco nel campo della destra pseudo-sovranista.
Alcuni, convinti che all’ultimo Bagnai avrebbe avuto un sussulto, gli sono andati appresso fin alla fine. Ma il sussulto non c’è stato, hanno assistito all’estremo gesto di obbedienza al “capitano”. Gli illusi ora sono disillusi e stanno elaborando il lutto.
Sulla striminzita combriccola di sodali che ancora lo giustificano, consolandosi che non c’è suicidio politico bensì dissimulata e sofisticata mossa strategica, meglio non spendere parole.
Come epitaffio ripropongo ai lettori quanto scrissi circa un anno fa.
C’ERA UNA VOLTA ALBERTO BAGNAI
Anche grazie al nostro modesto contributo (Convegno Fuori dall’euro, Fuori dal debito, dell’ottobre 2011) Bagnai salì alla ribalta, nel 2012, come economista keynesiano no euro.
La collaborazione fu breve…
Capirete lo stupore (e il giramento di coglioni) quando scoprimmo, nel gennaio 2013, che il nostro sottoscrisse, assieme ad economisti ordoliberisti di primo pelo il cosiddetto MANIFESTO DI SOLIDARIETÀ EUROPEA.
Da lì partì la polemica con lui. Ne ricapitoliamo le tappe fondamentali per chi voglia scartabellare tra le scartoffie e
farsi un’idea.
– LE DIVERGENZE TRA IL COMPAGNO BAGNAI E NOI
– SOVRANISMI (DI SINISTRA, DI DESTRA… E DI CENTRO – BAGNAI, BOLKESTEIN E I LIBERISTI ANTI-EURO
– BAGNAI COLTO (NUOVAMENTE) CON LE MANI NEL SACCO e BAGNAI IL GATTOPARDO.
La ragione principale della nostra critica (alla quale Bagnai rispose con altrettanta durezza), al netto di questioni di dottrina, fu che noi denunciammo le sue piroette di allora come avvisaglie del suo passaggio politico nel campo del centro-destra, che poi diventerà adesione piena e acritica alla Lega di Salvini.
Che colpimmo nel segno, alla luce dei fatti, non c’è alcun dubbio.
Ci fu un momento in cui avvenne una riappacificazione. Se non sbaglio era l’autunno del 2015. Di contro ad una sinistra tutta schiacciata sul sostegno all’Unione europea e all’euro, Stefano Fassina venne allo scoperto con una lucida posizione di critica alla moneta unica e al dogma del vincolo esterno.
Bagnai colse in quella mossa di Fassina la possibilità che nella sinistra di regime (cioè il luogo da cui egli stesso proveniva), ci fosse un ripensamento, una svolta.
Fassina restò invece una voce isolata, così il pendolo di Bagnai rioscillò ben presto a destra, fino al suo ingresso nella Lega. In una Lega che al tempo Salvini schierò nel campo anti-euro.
Comprendemmo le ragioni, come dire, psicologiche, di quella scelta, ma la criticammo. Per quanto anti-euro, per quanto
“populista”, il salvinismo restava immerso fino ai capelli in una visione complessiva sordidamente liberista. Condannammo insomma quello che a noi parve un mercimonio, lo scambio per cui “tu, Salvini, mi dai l’uscita dall’euro e io, Bagnai, chiudo un’occhio sulla tua becera visione liberista”.
Erano i tempi in cui Bagnai, tanto per fare un esempio, aveva il pudore di dissociarsi dal più classico paradigma liberista, la flat tax.
Di acqua ne è passata sotto i ponti. Bagnai è ormai un disciplinato alfiere di Salvini. Avendogli giurato imperitura fedeltà, e nella speranza di sostituire Giorgetti come capo economista della Lega, ne ha condiviso tutte le ultime capriole: l’uscita dal governo giallo-verde, l’inversione di marcia sull’euro, fino all’invocazione di Mario Draghi a primo ministro.
Tuttavia al peggio non c’è limite.
E così abbiamo il nostro che non solo difende l’ultraliberista
“Piano Colao” ma, a domanda se lo Stato debba nazionalizzare la acciaierie ex-ILVA di Taranto, non solo schiva la domanda, ma difende le ragioni della Arcelor Mittal.
Un esempio pornografico di trasformismo italiano….
Ci viene alla mente il memorabile confronto tra Bagnai ed Emiliano Brancaccio. Quest’ultimo colse nel segno quando, per svelare la doppiezza del nostro, raccontò la storiella del Predicatore che faceva proseliti in Hyde Park:
«Nudo come mamma l’aveva fatto, con il Vangelo secondo Giovanni sotto il braccio e con una vigorosa erezione in bellissima mostra»
QUALE EUROPA DOPO L’UNIONE
EUROPEA – seminario di
approfondimento
S a b a t o
prossimo, 13 marzo, con inizio alle ore 15:00, si svolgerà il secondo seminario teorico-politico, organizzato da Liberiamo l’Italia. Ricordiamo ai lettori che il primo seminario — Come uscire dall’Unione europea e dall’euro — si svolse il 13 febbraio scorso.
Questa volta ci occuperemo di geopolitica. QUALE EUROPA DOPO L’UNIONE EUROPEA. PER UN’ITALIA SOVRANA IN UN MONDO MULTIPOLARE.
Interverranno analisti e storici che negli anni, con libri, saggi e articoli, hanno osservato i grandi mutamenti avvenuti nel mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il fallimento del tentativo degli Stati Uniti di stabilire un “nuovo ordine mondiale” basato sul predominio planetario americano, quindi l’avvento della Cina come grande potenza mondiale.
In molti concordano che si sta andando verso un ordine multipolare o policentrico. Ma che tipo di multipolarismo avremo? E questa transizione sarà pacifica o, al contrario, sarà segnata da nuovi e più aspri conflitti?
In questo contesto, quale sarà il destino dell’Unione europea?
Riusciranno le élite eurocratiche a consolidare la Ue come grande polo imperialistico mondiale? Oppure prevarrà la tendenza alla disgregazione? E l’Italia che ruolo geopolitico potrà giocare in questa grande transizione?
Ne parleremo con Paolo Borgognone, Carlo Formenti, Alessandro Leoni, Diego Fusaro e Moreno Pasquinelli.
Il Seminario verrà trasmesso in diretta streaming sulla pagina facebook di Liberiamo l’Italia.
Fonte: Liberiamo l’Italia
IL DECLINO ITALIANO E SAN DRAGHI di Leonardo Mazzei
Le cifre del declino italiano sono tante e tutte convergenti. La caduta
del Pil nel 2020 (-8,9%) non ha precedenti nel dopoguerra. Un vero tracollo, che non è stato però un fulmine a ciel sereno, bensì il picco negativo di una decadenza iniziata vent’anni fa. Ce lo ricorda un pezzo del Sole 24 Ore del 25 febbraio.
L’articolo di Gianni Trovati – Il gelo italiano lungo 20 anni – si basa su un’elaborazione dei dati ufficiali della Commissione europea. Il fine è quello di mettere a confronto l’andamento dell’economia italiana con quello dell’intera Eurozona. Il risultato è impressionante. Dal 2001 al 2020 l’Italia ha perso oltre il 18% rispetto all’insieme dell’area euro. Una vera catastrofe, ma ovviamente il quotidiano di Confindustria si guarda bene dal chiedersi cosa sia successo di particolare 20 anni fa.
I numeri del Sole non lasciano comunque spazio a troppe discussioni sulla drammatica decadenza del nostro Paese.
Leggiamo:
«La lunga stagnazione italiana ha ridotto del 18,4% il peso del nostro Paese sul complesso della produzione cumulata dall’Eurozona nei suoi confini attuali. Oggi il Pil italiano vale il 14,5% di quello dell’area euro, contro il 17,7%
coperto nel 2001, all’interno di un quadro che negli anni a cavallo del 2000 era piuttosto stabile».
Quale la conseguenza sul reddito medio degli italiani è presto detto:
«Nel 2001 a ogni italiano toccava in media un reddito esattamente in linea con i livelli europei, e pari all’85,9%
di quelli tedeschi. Oggi il Pil pro capite da noi è fermo all’82,8% della media dell’Eurozona, e arriva al 67,6% dei valori registrati in Germania».
Tradotto in cifre, se in Italia nel 2001 il reddito medio per abitante era di 22.888 euro, praticamente identico ai 22.884
euro della media dell’Eurozona; nel 2020 il reddito italiano (29.636 euro) è stato del 17,8% più basso rispetto a quello dell’intera area della moneta unica (35.809 euro).
Attenzione! Quando si parla di reddito medio non scordiamoci m a i i l p o l l o d i T r i l u s s a . E ’ c h i a r o i n f a t t i c o m e l’impoverimento abbia colpito essenzialmente le fasce medio- basse della popolazione. Del resto, quarant’anni di n e o l i b e r i s m o h a n n o l a s c i a t o u n s e g n o p e s a n t e . L a disuguaglianza è in crescita costante dagli anni ’80 del secolo scorso, ma essa è aumentata a dismisura proprio con il C o v i d . L ’ i n d i c e G i n i , c h e n e d à u n a m i s u r a z i o n e necessariamente approssimativa ma sostanzialmente corretta, è salito dallo 0,348 del 2019 allo 0,411 del 2020. Un +18,1% in un anno! Una cifra che dovrebbe essere sempre ricordata a chi nell’epidemia vede solo il virus…
Detto questo, è chiaro come il crollo del reddito medio segnali comunque l’inarrestabile decadenza dell’Italia. Un declino costante, così descritto da Gianni Trovati:
«L’ultimo significativo balzo in avanti della nostra performance, che ha visto il Paese correre in misura percettibilmente più veloce della media europea, risale al 1995-1996, quando la quota italiana nel prodotto dell’attuale eurozona è salita di un punto e mezzo. Poi più nulla: per la regola della crisi, che da noi attenua i rimbalzi e accentua le cadute. Da allora i numeri compongono una litania: che vede l’Italia sfondare al ribasso quota 17% nel 2008, 16% nel 2014 e 15% nel 2019. Sempre più ai margini».
Strano, bizzarro, davvero stravagante! Pensate un po’, nel 1995-96 c’era ancora la provinciale e bistrattata “liretta”, quella che faceva inorridire gli economistoni ultraliberisti!
Dopo arriverà invece il grande, mitico e straordinario
“eurone”, e guarda caso è da lì che inizierà prima la decadenza, poi l’autentico tracollo dell’economia italiana. I
20 anni di gelo del titolo del Sole coincidono infatti esattamente con il ventennio dell’euro. Che sia un caso? Come no!
Per semplicità abbiamo parlato fin qui solo di Pil, assoluto e pro-capite, ma a nessuno deve sfuggire come questi numeri siano strettamente legati alla vita delle persone in termini di reddito, potere d’acquisto, occupazione e sicurezza sociale. La cosa è talmente ovvia che non occorre insistervi.
Il signor Mario Draghi non viene da Marte
Il signor Mario Draghi, questo freddo calcolatore dall’eloquio imbarazzante, ha la sua (grande) parte di responsabilità nel disastro italiano degli ultimi decenni. Responsabilità di tutti i tipi. Prima, in veste di Direttore generale del Tesoro, è stato il liquidatore fallimentare delle grandi aziende di Stato. Poi, come presidente entrante della Bce, è stato colui che ha dettato (nella famosa lettera del 5 agosto 2011, insieme all’uscente Trichet) le regole della cura austeritaria cui veniva condannata l’Italia. Infine, come numero 1 della banca di Francoforte, è stato l’estremo difensore della gabbia che stritola il nostro Paese, quella dell’euro appunto. Una ferrea volontà, politicamente criminale, confermata non a caso e con gran vanto nel discorso di insediamento al Senato. «L’euro è irreversibile», ha ribadito. Un’insistenza che si potrebbe commentare in vario modo, ma che a me a fatto venire in mente il detto popolare che ci dice che “la lingua batte dove il dente duole”…
Il signor Mario Draghi non viene certo da Marte, bensì dai più importanti palazzi del potere. Egli (si scusi l’ovvietà) è dunque tutt’altro che estraneo alla condizione in cui è stata gettata l’Italia. L’articolo del Sole da cui siamo partiti parla non a caso di “crollo italo-greco”. La Grecia è infatti l’unico Paese che, sempre negli ultimi vent’anni, ha visto una caduta dell’economia (-28,9% rispetto all’Eurozona) superiore a quella del nostro Paese. Ma in questo periodo Italia e
Grecia hanno avuto in comune principalmente una cosa: le tremende politiche di austerità imposte proprio per tenere in piedi il feticcio dell’euro. Politiche che, guarda caso, hanno prodotto un disastro sia al di là che al di qua del Mar Ionio.
Alcuni dati del disastro italiano
Quelle politiche di austerità – datate soprattutto dall’arrivo, nel novembre 2011, dell’altro Salvatore nazionale M a r i o M o n t i – s a r a n n o l a c a u s a p r i n c i p a l e d i quell’approfondimento del gelo ventennale che ci ha portato fino alla crisi del Covid. Se fino al 2011 gli investimenti (pubblici e privati) erano rimasti allineati a quelli dell’Eurozona, da allora inizierà la discesa italiana. Oggi gli investimenti nel nostro Paese rappresentano solo il 18%
del Pil (e di un Pil che nel frattempo è calato), contro il 21% dell’Eurozona. Tre punti percentuali possono sembrare pochi, ma tradotti in euro essi significano più di 50 miliardi all’anno che dal 2012 sono venuti a mancare all’economia italiana.
Questo ha portato con sé un altro disallineamento: quello del tasso di disoccupazione, che dal 2013 ha visto sprofondare l’Italia ad un livello assai più alto di quello dell’insieme dell’Eurozona. Qui le statistiche ufficiali ci parlano di uno scostamento di due punti (10% circa l’Italia, contro l’8%
dell’Eurozona), ma con il Covid questi dati sono diventati del tutto aleatori. Il boom della disoccupazione nel nostro Paese è infatti oggi mascherato dal ricorso al blocco dei licenziamenti e della cassa integrazione in deroga. E non è difficile comprendere come i numeri veri della disoccupazione siano nettamente superiori a quelli che Istat, governo e mezzi di informazione vorrebbero farci credere.
Tra i tanti grafici che potremmo produrre per evidenziare il rapporto diretto tra la crisi italiana e l’entrata nell’euro, questo sulla produzione industriale è uno dei più chiari e definitivi.
Fonte: Dipe (Dipartimento Programmazione Economica – Presidenza del Consiglio dei ministri)
Ma non c’è solo l’economia. Il suo gelo ventennale ha prodotto in parallelo un altro disastro, quello demografico.
Fonte: Dipe
Come si vede, qui l’anno chiave è il 2008, quello dell’inizio della grande crisi sistemica globale. Il calo della natalità
ha certamente anche altre motivazioni, sulle quali adesso non entriamo, ma il rapporto con la crisi economica, dunque con l’incertezza esistenziale che ha prodotto nella vita delle persone, non potrebbe essere più evidente. Questo legame è sempre esistito, ma esso diviene grave e socialmente patologico nel momento in cui la crisi diventa infinita e senza soluzione, proprio come avvenuto in Italia a partire da quell’ormai lontano 2008.
Adesso è arrivato il Covid. Peggio, è arrivata la sua gestione terroristica. Ed i suoi effetti sugli indicatori demografici non sono difficili da prevedere. Non si tratta solo dell’aumento della mortalità, sulla quale bisognerebbe comunque distinguere tra le vittime del virus, quelle dei mali di una sanità devastata dai tagli imposti dall’austerità targata euro (sempre lì inevitabilmente si torna) e quelle per così dire “indirette”, causate cioè dalla integrale covidizzazione di una sanità dove si è smesso di curare le altre malattie. Si tratta anche e soprattutto dell’ulteriore crollo della natalità.
Secondo i dati evidenziati dal presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, lo scorso 1 febbraio, il vero gelo demografico deve ancora arrivare. E non è difficile comprendere come questa sia una facile previsione. E’ molto probabile che il dato finale delle nascite del 2020 sfondi verso il basso la soglia dei 400mila nati. Ancora mancano i dati nazionali di novembre e dicembre, ed è chiaro che saranno proprio quelli dell’ultimo mese dell’anno, che si colloca a 9 mesi dall’inizio della crisi del Covid, a darci un’indicazione più precisa soprattutto per quanto ci si si può aspettare nel 2021.
Sul 2020 ci sono invece i dati completi di 15 grandi città, un campione piuttosto rappresentativo e sicuramente indicativo della tendenza generale. Sentiamo cosa ci dice in proposito Blangiardo:
«Nell’ambito di tale insieme, che aggrega circa 6 milioni di residenti e ha dato luogo nel 2019 al 10,6% dei nati in Italia, la frequenza di eventi nel corso del 2020 è diminuita mediamente del 5,21%. Un valore che è tuttavia la risultante di dinamiche ben distinte in corso d’anno: si ha infatti un calo medio del 3,25% nel complesso dei primi dieci mesi, che poi sale all’8,21% in corrispondenza del mese di novembre e raggiunge il 21,63% in quello di dicembre».
E’ a quel -21,6% che bisogna guardare per capire la gravità della situazione. Perché gli aridi numeri dell’economia non possono dirci tutto sul dramma sociale in corso. Ma essi, uniti alla narrazione terroristica dell’epidemia, impattano violentemente sulla vita degli esseri umani in carne ed ossa.
Impattano da sempre sul lavoro e sulla sua sicurezza, sul reddito e sulle aspettative ad esso legate. Ma con il panico da Covid, così alimentato da media e potere, l’impatto è ancora più profondo e radicale, come dimostra l’inarrestabile aumento dei disturbi psichici, vera punta dell’iceberg di un malessere ancora più profondo.
Conclusioni
Potrà San Draghi – Santo subito!, Santo subito!, Santo subito!
– fare il miracolo della fuoriuscita da una tale situazione?
La mia risposta è no. No, non perché non vi sia via d’uscita, ma perché quella via è proprio quella che il Santo di Goldman Sachs non può intraprendere: la via dell’uscita dal neoliberismo e da quella gabbia eurista che ne è la sua concreta realizzazione.
Certo – ricordiamoci l’Helicopter Money di Milton Friedman – anche i liberisti sanno bene che non è questo il momento dell’austerità. Ma la politica espansiva oggi proposta da Draghi, peraltro non difforme da quella ipotizzata dal precedente governo, ha il solo fine di parare la botta, salvare il sistema ristrutturandolo, favorire quella
“distruzione creativa” che per milioni di persone significherà solo perdita del lavoro e del reddito.
Dopo un anno come quello passato, ad un certo punto vi sarà ovviamente un rimbalzo. Ma di che tipo? Per avere l’ennesimo, quanto probabilissimo rimbalzo del gatto morto, non c’era bisogno di scomodare la scienza di San Draghi. A tale scopo bastava pure un Conte qualsiasi, pure quello dell’Inter.
E’ naturalmente troppo presto per emettere una sentenza di questo tipo. Ma il fatto che già si parli di un ritorno ad avanzi primari attorno all’1,5% del Pil ci dice già quanto sarà asfittica e puramente emergenziale la politica espansiva di Draghi.
Per iniziare a portare l’Italia fuori dal gelo ventennale, di cui pure il Sole ci parla, occorre ben altro. Diciamo che servirebbe una shock economy al contrario. Al posto di quella teorizzata dai guru neoliberisti e poi realizzata dalla cupola mondialista – sfruttare le grandi crisi per arricchirsi, privatizzare e liberalizzare tutto in nome di un’emergenza alla fine della quale nulla tornerà come prima (esattamente il modello Covid, per chi non lo avesse ancora capito) – servirebbe l’esatto contrario: un’economia guidata da uno Stato deciso a debellare disoccupazione e povertà, risoluto nel riprendere in mano i settori strategici dell’industria e della finanza, determinato a riconquistare una piena sovranità a partire da quella monetaria.
Solo in questo modo avremmo l’inizio della svolta necessaria, soltanto così non solo l’economia ma pure la società comincerebbe a risollevarsi anche spiritualmente.
Ma questa strada è esattamente quella che il banchiere Mario Draghi non potrà mai intraprendere. Con buona pace di quelli che credono che dopo il Draghi 1, distruttore dell’Italia, avremo adesso per qualche strana magia il Draghi 2, il Salvatore. E con grande delusione per tutti coloro che,
disperati e in buona fede, continuano a credere alla leggenda dell’uomo del destino.
Con Draghi il declino italiano non si arresterà. Del resto, non è questa la sua vera missione. Lo scopo principale della s u a v e n u t a i n T e r r a è u n a l t r o : q u e l l o d i l e g a r e definitivamente il nostro Paese (che, come si è capito al Senato, egli non considera invece il suo) alle insostenibili regole dell’oligarchia eurista ed agli interessi più generali della cupola globalista di cui fa parte. Da qui l’altro obiettivo di San Draghi, quello di fare dell’Italia un luogo privilegiato della trasformazione del Great Reset.
Costruire l’opposizione a tutto ciò è dunque il compito dell’oggi. L’unico modo di preparare concretamente la strada dell’alternativa politica e sociale. All’inizio non saremo in tanti, ma non ci vorrà molto a dissipare la nebbia in cui è adesso avvolta l’ennesima grande illusione messa in campo dai dominanti. A quel punto aver giocato la carta Draghi potrebbe rivelarsi un boomerang per lorsignori. A quel punto ne vedremo delle belle. Non facciamoci trovare impreparati.
LA DITTATURA DEL DRAGO di
Umberto Bianchi
Riceviamo e pubblichiamo
In tutta la complicata vicenda ingeneratasi in Italia ed in Europa con la pandemia, il varo del governo Draghi costituisce, di per sé, un vero e proprio salto di qualità.
Mario Draghi, anzitutto, è stato elevato al soglio di Premier, senza passare per quel certificato di consenso popolare dato dalla prova delle urne, rimarcando ulteriormente (se mai ve ne fosse stato il bisogno…sic!) quella che senza mezzi termini, possiamo definire una involuzione autoritaria del nostro sistema democratico. Ma l’elemento di maggior novità, nell’intero contesto, è sicuramente rappresentato dal fatto che, tramite la carismatica figura di Mario Draghi, i centri dei poteri finanziari globali, hanno direttamente assurto le redini del governo di un paese, senza passare per la mediazione politica, come poteva essere per il caso del precedente premier Conte o nel caso del governo Monti che, sebbene, al pari di Draghi, fosse un “tecnico”, di questo non aveva la caratura e l’alto profilo operativo, in termini di precedenti incarichi e responsabilità.
Ora, partendo da queste premesse, evitando la tentazione di f i n t r o p p o f a c i l i e s u p e r f i c i a l i s c o r c i a t o i e e
semplificazioni, bisognerebbe cercare di capire, quali sono le prospettive ed in quale direzione va il nuovo esecutivo. E qui veniamo all’ulteriore elemento di novità, rappresentato dalla massiccia compresenza nella compagine esecutiva, di quasi tutte le forze dell’arco parlamentare, con l’eccezione di una parte di Sinistra Unita, di Nicola Fratoianni e di Fratelli d’Italia, di Giorgia Meloni. Da più parti, si parla di un esecutivo scombinato e raffazzonato, la cui eterogenea composizione, prima o poi, ne causerà la paralisi ed infine la caduta, nel solco di una italica consuetudine, tutta all’insegna di un’endemica instabilità politico-istituzionale.
A riannodare il bandolo dell’intera matassa, l’elemento che abbiamo poc’anzi messo in risalto, dato dal fatto che quella di Draghi non è un nomina né casuale né pro tempore, bensì il frutto di un preciso indirizzo,dettato da quei centri di potere finanziario, (di cui Bruxelles è l’espressione più visibile), a cui l’intera politica italiana ha clamorosamente e sfacciatamente, deciso di abiurare e delegare le proprie funzioni di coordinamento. In questo contesto, i partiti politici, nel tentativo di non perdere la faccia davanti all’opinione pubblica ed al fine di trarre dei benefici elettorali, hanno deciso di entrare a gamba tesa in un esecutivo tecnico, senza andar troppo per il sottile.
I Cinque Stelle, sempre più divisi e lacerati al proprio interno tra favorevoli e contrari al nuovo esecutivo, dopo la disastrosa gestione del governo Conte, con la coscienza di un sempre più deciso sfaldamento delle proprie fila,cercano di rimanere, ora più che mai, attaccati alle proprie poltrone, accettando qualunque tipo compromesso con la figura del neo Premier. La sinistra istituzionale (Pd e Leu…), invece, abiurata definitivamente qualsiasi valenza libertaria, qualunque istanza di difesa dei ceti meno abbienti e più deboli, sta sempre più assumendo al ruolo di stampella dell’ala liberista dei centri di potere globale, attraverso una prassi politica sempre più connotata da un liberticida
emergenzialismo e dal supporto ad una serie di odiose ed ottuse forme di burocratismo e di fiscalismo, addolcite con delle forme di ridicolo pseudo assistenzialismo; e qui basterebbe pensare alla politica dei “ristori” alle attività colpite dai provvedimenti “anti pandemia”.
Se dall’altro versante dell’arco istituzionale, la scelta collaborativa di partiti come Forza Italia o di Italia Viva, non meravigliano più di tanto, quello che invece dà maggiormente nell’occhio, è lo sfaldamento della italica destra, frettolosamente definita “sovranista” e/ o
“identitaria”, divisa tra il nuovo indirizzo “collaborativo”
della Lega di Salvini e la sinora tiepida, opposizione di Fratelli d’Italia. Nel primo caso, la Lega e la figura del suo leader, Matteo Salvini, hanno dimostrato di non essere assolutamente all’altezza del ruolo di capofila di tutta un’area di istanze declinate all’insegna del sovranismo.
Dall’anti europeismo, alla contrarietà alla moneta unica, sino alle politiche fiscali, passando per le politiche sul fenomeno del traffico di esseri umani, chiamato “immigrazione”, la Lega, schierandosi con chi, di “euro forever”, ha fatto il proprio manifesto politico ed esistenziale, ha de facto totalmente abiurato a quelli che diceva essere i propri principi fondativi, sempre più, pertanto, condannandosi ad un ruolo di irrilevanza o, comunque, accettando di assurgere al ruolo di componente interna di “destra”, all’interno dello schieramento globalista.
Capitolo a parte merita, invece, Fratelli d’Italia. Ad ora, non si capisce se il suo è l’inizio di un vero e proprio percorso di dura opposizione politica o se è, soltanto, una forma di diversivo che, attraverso un’opposizione di “sua maestà” possa recuperare quei voti di destra che, scontenti d e l l e s c e l t e l e g h i s t e o i t a l o f o r z u t e , v e r r e b b e r o successivamente re immessi nell’alleanza di centro destra. A dimostrazione di quanto detto, potrebbero andare le recenti dichiarazioni di Giorgia Meloni, sul proseguio dell’alleanza
di centro destra alle elezioni amministrative. Ma, anche in questo caso, il “se” è d’obbligo.
C’è la concreta possibilità che il leader della Lega, sostenendo l’esecutivo Draghi, abbia voluto “coprirsi le spalle”, sia per dare un volto di maggior rispettabilità politica al suo partito che, non ultimo, per cercare di frenare la corrosione del suo bacino elettorale da parte di Fratelli d’Italia. De facto, ad oggi la Lega, assieme a Forza Italia governa con la sinistra ed i Cinque Stelle e la tentazione di far fuori, nel tempo, uno scomodo “competitor politico”, potrebbe farsi sempre più strada nella mente sia del leader leghista, che in quella del suo co-inquilino politico, Silvio Berlusconi.
Al di là di tutto, però, un fatto è certo. Da una parte, l’Europa Comunitaria, non poteva accettare che i soldi del
“recovery fund” finissero nelle mani di Pentastellati o Piddini, magari bruciati o dispersi nei meandri dell’italica burocrazia e nelle tasche dei suoi gregari. Dall’altra, l’incubo di un repentino cambio di rotta della politica italiana e l’ipotesi di un uso dei fondi comunitari, per operazioni nel reale interesse del paese, era sempre presente.
L’imposizione dall’alto di Draghi a guida dell’attuale esecutivo, va proprio in questa direzione.
I soldi del “recovery”, debbono andare per tutte quelle operazioni gradite a Bruxelles. E, al di là delle belle parole e dei salamelecchi vari, Draghi ha subito dato prova di quanto abbiamo detto. Il progetto di modificare il sistema tributario italiano, attraverso l’istituzione di una tassazione progressiva, (ponendo così, una pietra tombale sui vari progetti di flat tax…), la proroga delle misure restrittive, la proposta di ancor più restringere le già scarse elargizioni di risarcimenti , ad un sempre minor numero di aventi diritto, sono tutti segnali che vanno nella direzione di quanto abbiamo sinora detto. Con buona pace di una classe politica e di un sistema democratico che, lo ripetiamo, hanno oramai,
definitivamente abiurato e ceduto i propri ambiti di competenza, al liberismo finanziario, mantenendo solo, le solite, comode, immarcescenti poltrone, con “benefit” annessi.
Alla faccia delle attività che chiudono, dei posti di lavoro che vanno in fumo e dei conti da pagare…
NON TUTTI I MALI VENGONO PER NUOCERE di Sandokan
« N o n tutti i mali vengono per nuocere. Nella disgrazia costituita dal “momento Draghi” c’è almeno questo di positivo, che ci siamo tolti dai piedi saltimbanchi come Bagnai Alberto, Borghi Aquilini Claudio , Rinaldi Antonio Maria , Zanni Marco, Donato Francesca…»
I segnali che Salvini ed i suoi sodali si sarebbero riposizionati, spostandosi dal campo no-euro al sì-euro, erano
evidenti da tempo. Nessuno stupore. La piena disponibilità a far parte del governo Draghi è tuttavia qualcosa di più che la semplice consacrazione della svolta. E’ evidente che non si tratta soltanto di una mossa tattica, bensì di una svolta irreversibile.
Taglio con l’accetta: nella Lega convivono due anime, quella populista e quella liberista. Quest’ultima ha preso il sopravvento. Un ribaltamento che se avviene senza drammatiche fatturazioni è per tre fondamentali ragioni (più una quarta).
Primo perché entrambi condividevano una matrice ideologica liberale; secondo perché, la forza sociale egemone di ultima istanza si è rivelata essere, non la piccola e media borghesia, bensì quella grande; terzo perché la sconfitta di Trump oltreoceano ha privato il “sovranismo” leghista del suo vero retroterra strategico (quello russo era fuffa).
La quarta ragione dello smaccato sostegno a Draghi è presto detta: Salvini & Company debbono essersi convinti che Draghi riuscirà davvero non solo a portare l’Italia fuori dalla lunga stagnazione, ma a condurla sulla via di un veloce risorgimento economico anche tenendo testa all’egemonismo tedesco.
Ecco dunque l’azzardo, la decisione di scommettere su Draghi puntando non una cifra modesta, ma tutti i propri averi. Va da sé che se Draghi non riuscisse nell’ardua impresa, Salvini e la Lega, invece di condividere un trionfo, si romperanno l’osso del collo.
Che la mossa di Salvini sia una lampante manifestazione di italico trasformismo non c’è alcun dubbio. Nel suo gergo padano egli lo chiama pragmatismo — ultimo rifugio degli opportunisti e delle canaglie politiche.
Alcuni sono stupiti, altri addirittura si strappano le vesti perché non riescono a spiegarsi come, in questa sceneggiata, Salvini sia riuscito ad arruolare come figuranti e avvocati d’ufficio quelli che erano considerati gli esponenti
“oltranzisti” no-euro. Tutti e di botto convertiti, tutti a giustificare la mossa del Capitano, tutti penosamente allineati nel santificare quello che fino a ieri consideravano il demonio.
Non tutti i mali vengono per nuocere. Nella disgrazia costituita dal “momento Draghi” c’è almeno questo di positivo, che ci siamo tolti dai piedi saltimbanchi come Bagnai Alberto, Borghi Aquilini Claudio, Rinaldi Antonio Maria, Zanni Marco, Donato Francesca…
COME USCIRE DALL’UNIONE E DALL’EURO – Seminario di approfondimento
COME USCIRE DALL’UNIONE E DALL’EURO: MISURE ECONOMICHE E
PROVVEDIMENTI POLITICI
COSA CAMBIA CON L’ARRIVO DI DRAGHI
Questo il titolo del seminario di approfondimento organizzato da Liberiamo l’Italia che si svolgerà sabato 13 febbraio, dalle ore 15:00 e che verrà trasmesso in diretta streaming sulla pagina facebook di Liberiamo l’Italia.
Interverranno Gennaro Zezza (economista), Fabio Dragoni (editorialista de La Verità), Vadim Bottoni (economista) e Leonardo Mazzei (direzione nazionale Liberiamo l’Italia).
Fonte: Liberiamo l’Italia
IL M.E.S. PER FILO E PER
SEGNO
Com’era facilmente prevedibile, anche in Senato il governo ha trovato la maggioranza per dire sì alla “riforma” del MES. A poca distanza, mentre in Senato si svolgeva l’ennesimo atto di sottomissione all’Unione europea, sfidando la pioggia e la campagna di disinformazione mediatica, duecento persone si sono radunate per dire No, per denunciare come si stesse compiendo un altro strappo costituzionale e un nuovo tradimento ai danni del popolo italiano. Malgrado il tempo inclemente è stata una manifestazione combattiva, nella consapevolezza che la battaglia decisiva sul MES deve ancora venire. La prova del fuoco l’abbiamo davanti a noi, nel caso chi si trovasse al governo chiedesse l’attivazione del MES, appunto. E sarebbe una catastrofe nazionale. Il perché lo spiega a chiare lettere il DOSSIER* che pubblichiamo qui sotto, che svela cosa il MES sia davvero e perché la “riforma”
è una pezza peggiore del buco.
Il contesto da cui nacque il MES 1.
Dopo decenni di finanziarizzazione dissennata, nel 2007-2008,
scoppiò negli Stati Uniti la bolla dei mut subprime, in sostanza la più grave crisi finanziaria dopo quella del 1929.
La conseguenza fu il cosiddetto “credit crunch”, il sostanziale blocco dell’offerta di credito da parte delle banche. L’onda d’urto globale travolse anzitutto l’Occidente, ma colpì in modo letale l’eurozona. I governi di Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna, dopo qualche esitazione, decisero di obbligare le loro banche centrali ad esercitare la funzione di prestatore di ultima istanza (lender of last resort), ovvero stampare la moneta necessaria per prestarla a banche e istituti simili in grave crisi di liquidità. Il paracadute fornito dalla banche centrali evitò in effetti la catastrofe e l’economia poté riprendersi presto.
Per farci un’idea di quanto massiccia fu la manovra della Federal Reserve, basti ricordare che questa acquistò titoli sul mercato per circa 4500 miliardi. Risultato: vero che il deficit salì al 4,2% e il debito pubblico passò al 102% del Pil, ma la disoccupazione scese sotto il 5%, il Pil tornò a crescere del 2% e Wall street tornò presto ai livelli pre- crisi. Una linea “interventista” che la FED non ha mai abbandonato, se è vero, com’è vero, che nel settembre scorso è intervenuta con una gigantesca operazione di 260 miliardi in soccorso di diverse banche a rischio di collasso.
Non fu così nell’eurozona. Alla BCE, del tutto indipendente dai governi e dal Parlamento europeo, tenuta per statuto a rispettare le sue ferree regole monetariste (stabilità dei prezzi e tasso d’inflazione non superiore al 2%) è proibito di agire come prestatore di ultima istanza o di correre in soccorso degli Stati. Avemmo così, tra il 2010-2012, la cosiddetta “crisi dei debiti sovrani”: la finanza predatoria, proprio a causa di questa sua natura speculativa, e dato che la BCE non sarebbe intervenuta per assistere gli stati in sofferenza, cessò di finanziarli (i PIIGS in particolare) ed iniziò a sbarazzarsi dei titoli di debito che aveva acquistato. Non soltanto la BCE non corse in soccorso degli
Stati sotto attacco ma, ubbidendo al comando della Germania e della Francia, impose alla Grecia di passare sotto il criminale comando della Troika — ricordiamo che il cosiddetto bazooka del “Quantitative easing” arriverà solo nel 2015. Per quanto concerne l’Italia, ottenute le dimissioni del governo Berlusconi che recalcitrava ad adottare draconiane misure antipopolari (lettera di Trichet e Draghi del 5 agosto del 2011) impose il governo commissariale di Mario Monti che adottò politiche austeritarie senza precedenti.
Fu il fallimento di queste politiche (debito pubblico e deficit dei paesi posti sotto comando come la Grecia o auto- commissariati come l’Italia crebbero invece di scendere) che spinse l’Unione europea a dare vita al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità).
Il MES com’era…
2.
Il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), contestualmente alla modifica del Trattato di Lisbona, venne approvato in fretta e furia dal Parlamento europeo il 23 marzo 2011. Venne quindi ratiticato dal Consiglio europeo il 25 marzo.
Il Parlamento italiano, governo Monti in carica (sostenuto anzitutto da Pd e Pdl), lo approverà assieme al Fiscal Compact, nel luglio 2012. Solo la Lega votò contro, anche se ci furono molti altri parlamentari contrari e astenuti (sul MES 108 addirittura gli assenti al momento del voto).
Finanziato dai singoli Stati membri con una ripartizione percentuale in base alla loro importanza economica — la Germania, contribuisce per il 27,1 %, seguita dalla Francia, 20,3%, e dall’Italia,17,9%. Il finanziamento diretto da parte degli Stati ammonta a 80 miliardi di euro (l’Italia ha versato 14,3 miliardi, la Francia 20 e la Germania 27) La cosiddetta
“potenza di fuoco” prevista a pieno regime è di circa 700 miliardi — i restanti 620 miliardi, proprio come qualsiasi altro fondo speculativo che deve fare profitto, il MES li
raccoglierà sui mercati finanziari attraverso l’emissione di propri bond.
Fondato formalmente come un’organizzazione intergovernativa esso, per la natura e le smisurate discrezionalità consegnategli, è stato concepito, né più e ne meno, che come una super-banca d’affari privata con in più poteri politici e strategici di vita o di morte sui Paesi che dovessero cadere sotto la sua “tutela”.
Scopo principale dichiarato ed essenziale del MES era ed è quello salvare la moneta unica e l’Unione europea, mettendo entrambi al riparo dal rischio di collasso, esito altamente probabile nei casi eventuali di default di questo o quello stato membro, quindi la loro uscita dall’eurozona. A questo scopo esso doveva reperire sul mercato le necessarie risorse finanziarie per poi fornire “assistenza” (prestiti) ai Paesi dell’eurozona che si trovassero in difficoltà nel finanziarsi sui mercati.
In cambio di questa “assistenza” il MES, costituzionalmente investito di funzionare come prestatore di ultima istanza, ha l’autorità insindacabile di imporre agli Stati “assistiti”
feroci politiche economiche e di bilancio: tagli alla spesa pubblica, a pensioni e salari, aumenti dell’imposizione fiscale, privatizzazione e vendita dei beni pubblici. Sotto mentite spoglie proprio il massacro che la Troika ha compiuto in Grecia. In sostanza, come accaduto alla Grecia, i paesi che dovessero ricorrere allo “aiuto” del MES, in cambio, dovranno cedergli piena sovranità, così che il Paese diventi un suo protettorato semicoloniale.
Come se non bastasse il Trattato consegnava, all’interno del comitato direttivo del MES, il potere di veto solo a Germania e Francia. Ergo: questi due Paesi avevano l’ultima parola sugli “aiuti” e nell’imporre le condizioni per erogarli. Tra quests condizioni la stessa “ristrutturazione.
Peggio ancora: il MES si sceglieva motu proprio i controllori del suo operato; ad esso era consentito di operare al di sopra di ogni legge nazionale e comunitaria; i suoi membri potevano agire nell’assoluta segretezza; essi godevano di una illimitata immunità civile e penale (nessuno poteva essere perseguito in caso di abusi ed anche crimini); il MES gode infine della cosiddetta “neutralità fiscale”, di fatto si appoggia ai paradisi fiscali per non pagare tasse sui suoi utili.
I “sovranisti”, ovvero i pesci in barile 3.
Attenti adesso alle date. Il vertice dell’Unione europea tenutosi il 29 giugno del 2018 (era in carica il governo giallo-verde) annuncia di voler “rafforzare” il MES,
“riformandolo”. La ragione di questa “riforma” è palese: il vecchio MES non viene più considerato adeguato a fare fronte al rischio di una tempesta finaziaria globale che, considerata altamente probabile, potrebbe far saltare l’eurozona. Una conferma palese che, al di là delle chiacchiere di circostanza e dei peana verso Draghi, gli stessi tecnocrati prendono atto del fallimento loro e della politica di Quantitative Easing della BCE.
I tecnici si mettono al lavoro per emendare e aggiornare il vecchio Trattato del MES.
Così il 14 dicembre 2018 (governo giallo-verde in carica) il vertice dei paesi dell’eurozona approva le linee generali il
“prospetto” con gli emendamenti per la revisione del MES.
E quindi arriviamo al 21 giugno 2019 quando si prende atto dell’accordo generale sul nuovo testo del Trattato. A nome del governo giallo-verde sempre in carica c’erano Conte e Tria che danno l’assenso. In questi giorni assistiamo alla baccano assordante della Lega che accusa Conte di aver “tradito” la Risoluzione approvata dal Parlamento il 19 giugno 2019.
Salvini e company vorrebbero fra credere che quella
Risoluzione impegnava Conte e Tria a respingere la riforma del MES.
Per quanto sia chiaro che Conte e Tria siano asserviti alla cupola eurocratica, l’accusa è falsa. La Risoluzione, riguardo al MES affermava solo quanto segue:
«è opportuno sostenere l’inclusione, nelle condizionalità previste dal MES e da eventuali ulteriori accordi in materia monetaria e finanziaria, di un quadro di indicatori sufficientemente articolato, compatibile con quello sancito dal Regolamento (UE) n. 1176/2011, dove si consideri quindi fra l’altro anche il livello del debito privato, oltre a quello pubblico, la consistenza della posizione debitoria netta sull’estero, e l’evoluzione, oltre che la consistenza, delle sofferenze bancarie, onde evitare che il nostro Paese sia escluso a priori dalle condizioni di accesso ai fondi cui contribuisce».
La Risoluzione, come si vede, non solo non respingeva il MES, accettava la riforma chiedendo solo venissero considerati altri criteri per accedere all’assistenza del MES medesimo e respinti eventuali automatismi nella ristrutturazione del debito pubblico.
In barba alle resistenze di economisti come Alberto Bagnai e Claudio Borghi, c’è stato un evidente e implicito cedimento politico (dopo quello compiuto a dicembre 2018 sulla Legge di Bilancio). De facto la Lega non ha mai deviato dalla “linea Giorgetti”.
Non dimentichiamo che erano i giorni in cui la Commissione europea minacciava una procedura d’infrazione. I giallo-verdi, Lega compresa se l’erano praticamente fatta sotto: non consegnarono a Conte e Tria alcun mandato, né quello di dire no alla riforma, né tantomeno di dire no al MES. Peggio: chi abbia letto la selva di inaccettabili emendamenti è portato a chiedersi se dirigenti e parlamentari di Lega a 5 Stelle li
abbiano letti davvero. Temiamo di no, altrimenti avrebbero dovuto convenire, almeno, per un rifiuto categorico della
“riforma”.
Il MES com’è diventato 4.
Veniamo ora a questa famigerata “riforma”. Le cose, sono peggiorate o migliorate per il nostro Paese? Fermi restando i già terribili criteri del vecchio MES, sono peggiorate. Sono infatti diventate molto più severe, e di molto, le cosiddette
“condizionalità” per poter accedere allo “aiuto” del MES. Per di più con le modifiche apportate vengono aumentati sia i poteri del MES che le sue facoltà di ingerenza negli Stati, e si rafforza la sua indipendenza — che diviene totale, anche rispetto agli organismi Ue come la Commissione o il Consiglio, per non parlare del cosiddetto “Parlamento europeo”. Altro che
“democrazia”! Il MES è l’incarnazione stessa della natura oligarchica e tecnocratica, oltre che liberista dell’Unione europea.
Non è facile, per un comune cittadino, capirci qualcosa. Si tratta di 35 pagine di farraginosi e contorti emendamenti, quasi quanto l’intero Trattato originale, scritti nel tremendo linguaggio dei tecnocrati, cioè comprensibile solo a degli iniziati.
Incombente minaccia. Vengono istituite, in caso di tempesta finanziaria, due linee di credito, di fatto dividendo i Paesi dell’eurozona, in barba ad ogni principio di solidarietà europea, in affidabili (seria A) e inaffidabili (serie B).
A – Quelli di serie A, che rispettano un deficit sotto il 3%, un rapporto debito/pil entro il 60% (riconfermate come si vede come intangibili le assurde due regole alla base della Ue), e che non abbiamo procedure d’infrazione, potranno accedere facilmente ai crediti del MES. Per di più il nuovo Trattato terrà conto dell’assenza di problemi di solvibilità bancaria e che abbiano avuto accesso ai mercati finanziari a “condizioni
ragionevoli”. Questa prima linea di credito è chiamata PCCL (Linea di Credito Precauzionale Condizionata).
B – Quelli di serie B i quali, come scrivono lorsginori
“deviano” dal Patto di stabilità e crescita. E’ palese che l’Italia è esclusa da questa categoria, mentre verrebbe collocata nella seconda linea di credito denominata ECCL (Linea di Credito Condizionata Rafforzata). Il MES fornirebbe aiuto solo a determinate condizioni, ovvero che il Paese in questione adotti politiche di bilancio e sociali per un rientro forzoso entro i parametri del 3% e del 60%. Ergo: ove l’euro barcollasse a causa di una nuova tempesta finanziaria globale e l’Italia dovesse ricorrere allo “aiuto” del MES, dovrebbe procedere a tagli immani della spesa pubblica, al massacro sociale, a svendere a predatori stranieri gran parte dei beni e delle aziende pubbliche.
E’ facile intuire come non solo sia falso che nel Trattto non siano contemplati “automatismi”, che date le condizioni terribili e di ardua attuazione, ove l’Italia dovesse ricorrere a questo eventuale “soccorso” del MES, il Paese verrebbe gettato nel girone infernale dei Paesi insolventi, con rischio effettivo di un caotico default.
La spada di Damocle. Per i Paesi di serie B i tecnocrati hanno previsto che il MES, prima di concedere “assistenza” possa chiedere loro la “ristrutturazione” maligna del debito pubblico, ovvero una brutale svalutazione del valore dei titoli di stato in mano ai suoi possessori. Tecnicamente questa “ristrutturazione si riferisce alle famigerate CACs (Clausole di Azione Collettiva) che implicano, in barba all’Art. 47 della nostra Costituzione, che i titoli di Stato potrebbero non essere più garantiti.
Il MES interverrebbe quindi solo dopo il default, comprando quindi i titoli di debito a prezzi stracciati. Perché questa
“ristrutturazione” sarebbe nefasta? Perché milioni di cittadini che hanno acquistato titoli italiani, si
troverebbero dimezzato il valore del loro risparmio. Va da sé che davanti a questo rischio è altamente probabile che si inneschi una fuga dai titoli italiani, coi paperoni e le stesse banche che vorranno sbarazzarsi di BTP, Bot ecc., per acquistare quelli di Paesi a tripla A. Non si fa altro, quindi, che incoraggiare la fuga dei capitali dal nostro Pese ed aggravare il pericolo di una crisi di debito, con spread in rialzo ecc.
Banche: la corda sostiene l’impiccato 5.
Al peggio non c’è limite. Il Trattato riformato stabilisce che esso verrà applicato contestualmente all’attuazione della letale (non solo per l’Italia) Unione Bancaria europea.
Si istituisce, allo scopo di impedire agli Stati ogni salvataggio, un “Fondo Unico di Risoluzione” costituito dalle banche europee, ma sotto la stringente sorveglianza del MES.
Le conseguenze per le banche italiane sarebbero devastanti.
Non a caso addirittura due europeisti di ferro come il governatore di Bankitalia Visco e il Presidente dell’ABI Patuelli, hanno lanciato l’allarme.
Nel Trattato del MES, nascosto tra le pieghe degli arzigogolati emendamenti riguardante il “completamento dell’Unione bancaria”, su pressione anzitutto tedesca (in particolare del Ministro delle Finanze Olaf Scholz), è stato introdotto il criterio di “rischio rating sui titoli di debito”. Dato che le banche italiane hanno in pancia centinaia di miliardi di titoli di stato, non solo per esse si renderebbe altamente pericoloso acquistarne di nuovi, il punteggio negativo le spingerebbe in un tunnel senza via di scampo. Ed è evidente che ciò avvantaggerebbe la Germania.
Dato infatti che circa 400 miliardi titoli pubblici italiani è oggi in possesso delle banche italiane, esse si troverebbero con i loro asset falcidiati. Quella che lorsignori, con linguaggio criptico, chiamano “ponderazione dei titoli di stato”, che null’altro sarebbe se non una decurtazione lineare
del valore dei titoli, farebbe saltare il sistema bancario italiano.
I tecnocrati hanno previsto pure questo, e hanno stabilito che le banche, se vorranno sopravvivere e non essere mangiate da quelle tedesche e francesi, dovranno ricorrere al bail-in, ovvero pagheranno un prezzo salatissimo i costi del salvataggio non solo gli azionisti e gli obbligazionisti ma pure i correntisti — come già accaduto a Cipro.
Viene così brutalmente calpestato l’Art. 47 della Costituzione che obbliga lo Stato a “favorire” e “proteggere il risparmio”.
Si tratterebbe dell’ultimo strappo anticostituzionale, visto che da decenni i governi, accettando di sottomettersi alle regole dell’Unione europea, hanno già ucciso il medesimo articolo recita che “la Repubblica disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. Sarà il MES e solo il MES ad arrogarsi questa funzione, obbligando le banche italiane, diventate suo ostaggio, a chiudere i rubinettti del credito a cittadini e imprese, con ciò facendo precipitare il Paese in una depressione spaventevole.
Abbiamo così che i Paesi che coi criteri ordoliberisti avrebbero un sistema bancario “sano” — per lorsignori sarebbero “sane” le banche tedesche, francesi e olandesi piene zeppe di derivati tossici mentre sarebbero “malate”
quelle italiane dati i crediti deteriorati che ancora hanno in pancia — sono palesemente avvantaggiati, mentre quelli come l’Italia, malgrado le banche abbiano compiuto enormi sforzi di ricapitalizzazione, per godere dell’assistenza dovrebbero non solo sottomettersi a cure da cavallo —tagli drastici ai costi e una stretta nel credito— ma ricorrere al bail-in. E’ quindi un fatto, visto che i Paesi di serie A godranno di una corsia preferenziale per accedere al soccorso del MES, che coi soldi versati dall’Italia al MES saranno salvate in prima battuta le banche tedesche, francesi o olandesi.
Il soccorso del MES è come la corda che sostiene l’impiccato.
Potremmo continuare scendendo in dettagli che confermano l’impianto vessatorio (anzitutto verso il nostro Paese) della
“riforma”. La morale è che lassù sono disposti a tutto pur di salvare l’euro e questa Unione liberista e matrigna, anche a far affondare l’Italia.
Come uscire dalla gabbia 6.
Le destre “sovraniste” non la dicono tutta. Non basta chiedere che il governo ponga un veto alla riforma del MES. Il veto va posto sul MES in quanto tale. Ove non lo facesse è giusto che esso si dimetta e che gli italiani siano chiamati al voto.
Tanto più risibile, lo diciamo ai 5 stelle e a LEU, limitarsi a chiedere un “rinvio” per riformare la riforma.
Le destre “sovraniste” predicano bene ma razzolano male. Esse stanno sbraitando sul MES, ma cosa effettivamente propongono in alternativa alle direttive che vengono dall’Unione europea in caso di un altamente probabile schock finanziario globale?
Essendo, come il loro compari del PD di provata fede liberista, e avendo abbandonato l’uscita dall’euro e la riconquista della sovranità monetaria, non riescono a proporre nulla di serio e credibile.
Se il male è grave la terapia non può che essere radicale.
Quando arriverà il prossimo schock finanziario tutto dipenderà fondamentalmente da una questione: quella della sovranità nazionale, che include ovviamente la decisiva sovranità monetaria. Ciò è tanto più vero per un paese come l’Italia. E’
sicuro che un’Italia ancora prigioniera dell’euro e con le mani legate dai vessatori meccanismi europei, non potrà che restare in balia dei mercati finanziari (cioè delle grandi banche d’affari, fondi, etc.).
Un Paese che avesse scelto l’uscita dalla moneta unica avrebbe invece la possibilità di attuare misure difensive di notevole efficacia.
La prima di queste misure è quella del nuovo ruolo da
assegnare alla Banca d’Italia, riportata a tutti gli effetti sotto il controllo dello Stato, come prestatrice di ultima istanza. In questo modo l’arma del debito puntata contro il nostro Paese risulterebbe del tutto spuntata.
La seconda misura è la nazionalizzazione dell’intero sistema bancario, a partire dalle principali banche nazionali (che non potranno più svolgere le funzioni proprie delle banche d’affari). In questo modo lo Stato provvederebbe ad eventuali salvataggi salvando il risparmio popolare senza alcun bisogno di interventi esterni. Al tempo stesso le banche pubbliche sarebbero la base di ampi progetti di investimenti pubblici, senza i quali non è possibile immaginarsi alcuna uscita dalla crisi.
La terza misura consiste nel blocco all’esportazione dei capitali, sia attraverso drastiche misure d’emergenza, sia con un’intelligente politica di investimenti nazionali in grado di ridare credibilità ad un percorso di ripresa economica.
La quarta misura dovrebbe consistere in provvedimenti tesi a favorire lo spostamento delle attività finanziarie da quelle speculative ed estere, a quelle interne e volte a finanziare il piano di investimenti pubblici (che andrà visto anche come grande piano per il lavoro). Se si riuscisse a riportare una quota del 20% della ricchezza finanziaria complessiva (4.500 miliardi) ad investire o direttamente nell’economia reale, o a finanziare gli investimenti statali con l’acquisto dei titoli del debito pubblico, la crisi finirebbe sia sul lato del lavoro che su quello del bilancio statale. A tale proposito utile sarebbe l’emissione di nuovi titoli di stato rivolti esclusivamente alle famiglie italiane, garantiti al 100%, e adeguatamente remunerati a condizione della loro non negoziabilità sul mercato secondario per un certo numero di anni.
*Questo DOSSIER, curato da Moreno Pasquinelli, venne diffuso nel dicembre 2019 dal Coordinamento nazionale di Liberiamo
l’Italia in occasione del presidio che si svolse il 6 dicembre sotto Montecitorio.
Fonte: Liberiamo l’Italia
FERMIAMO IL MES! Manifestiamo perché il Senato dica no!
Fermiamo il Mes!
Manifestiamo perché il Senato dica no!
Mercoledì prossimo, 9 dicembre, la riforma del Trattato del Mes andrà in scena al Senato. In aula Giuseppe Conte farà le solite comunicazioni che precedono le riunioni del Consiglio europeo. E quello che si svolgerà nei giorni successivi (10 e
11 dicembre) tratterà proprio della micidiale riforma del Mes.
Ma intanto il ministro dell’Economia, l’euroinomane Roberto Gualtieri, ha già espresso il suo sì alla recente riunione dell’Eurogruppo, anticipando così la gravissima decisione politica del governo italiano. Il Mes è nato per piegare gli Stati, obbligarli a politiche pesantemente austeritarie, commissariarli con la Troika come successo alla Grecia. Ma con la sua “riforma” si vuole andare anche oltre, assegnando di fatto al Mes un potere assoluto nella gestione del debito pubblico e della sua eventuale ristrutturazione.
Ove un simile riforma passasse, saremmo alla totale cessione di ogni sovranità. Sarebbe come consegnare le chiavi di casa a chi non vede l’ora di poterla svaligiare a piacimento.
Contrariamente a quel che si vuole far credere, il Covid non ha minimante cambiato l’Unione europea. Messa in frigorifero per un anno, la riforma del Mes è stata ora riproposta esattamente com’era stata impostata fin dall’inizio. Mettere il potere di default degli Stati nelle mani degli eurocrati del Mes equivale per l’Italia ad un suicidio.
Non c’è nessun motivo per dire oggi di sì allo stesso meccanismo che era stato bocciato nei fatti un anno fa.
MERCOLEDI’ 9 DICEMBRE, DALLE ORE 15:30 PROTESTEREMO IN PIAZZA DELLA ROTONDA (PANTHEON)
Il Senato dica No al Mes!
No ai sacrifici che l’UE ci vuole imporre!
No ad un’Italia schiava della tecnocrazia europea!
Sì alla piena sovranità del nostro Paese!
Per una svolta politica radicale che affronti la crisi e mandi a casa i burattini di Bruxelles!
Liberiamo l’Italia, Marcia della Liberazione, Vox Italia, Riconquistare l’Italia – Roma, SìAmo, Movimento Stop euro, No Mes
IL RICATTO DEL RECOVERY FUND di Leonardo Mazzei
Abbiamo già spiegato quanto sia infondata la leggenda del Recovery Fund. L’analisi del funzionamento tecnico di questo nuovo strumento europeo non lascia spazio ai dubbi. In esso non c’è nulla di virtuoso, tantomeno di risolutivo rispetto alla crisi in corso.
Ma limitarsi a vederne la sostanziale inefficacia economica sarebbe un grave errore. Dedichiamo perciò questo nuovo articolo agli aspetti più propriamente politici. Il tentativo è quello di capire quale sia il vero accordo che sta dietro il Recovery Fund. Impresa in verità non troppo difficile.
Lo choc di primavera
Di fronte alla crisi innescata dal Covid, e più ancora dalla sua disastrosa gestione, l’UE ha dovuto prendere atto del baratro che gli si parava davanti. Un baratro che avrebbe potuto aprire la strada alla disintegrazione. Sulla base di questa banale constatazione i soliti illusi hanno perfino immaginato la tanto sognata “riforma” dell’Unione. Ma la riforma di ciò che è irriformabile è per definizione impossibile. Nel caso dell’UE le dimostrazioni in tal senso sono talmente tante che non è necessario insistervi.
La cupola eurista ha dovuto perciò inventarsi l’ennesima soluzione che serve a prender tempo, che non risolve i problemi ma che è utile intanto a salvare la baracca. Tutti sanno che, di fronte al drammatico crollo dell’economia, l’unica misura sensata ed efficace sarebbe stata la monetizzazione del debito. Lo hanno fatto i più importanti stati del pianeta, ma l’UE non può farlo. E, cosa ancora più importante, chi al suo interno detiene le leve del comando non vuole farlo.
Ecco allora il pannicello caldo col trucco denominato Recovery Fund. Pannicello caldo in quanto strumento del tutto inadeguato. Col trucco, per il suo meccanismo teso ad azzerare l a r e s i d u a s o v r a n i t à d e i P i g s , g l i “ s t a t i m a i a l i ” dell’immaginario del mainstream eurista, di cui l’Italia è senz’altro il bersaglio più grosso.
Ma come far digerire questo rospo alle vittime designate?
Banale, con un ricatto semplice, semplice. Un ricatto forte quanto invisibile. Che, proprio perché basato su un patto non scritto, tiene sempre in canna il colpo mortale mirato alla tempia della vittima.
Il ruolo della Bce
La chiave di volta di questo ricatto si chiama Bce. Abbiamo detto che la Banca Centrale non può e non vuole monetizzare il debito, e difatti non lo fa. Però acquista i titoli degli
stati più in difficoltà, e questo è uno strumento di ricatto formidabile. Reso ancora più forte proprio dal fatto di non essere tenuta a farlo.
Ovviamente la Bce non agisce da sola. La leggenda della sua autonomia è solo una storiella per gonzi. Per tutti gli altri dovrebbero essere evidenti due cose: che essa si muove di concerto con la Commissione e con l’intera cupola eurocratica;
che la sua azione è parte di un disegno e di un patto più complessivo.
Qual è questo patto?
Ovviamente non abbiamo la sfera di cristallo, ma con un pizzico di immaginazione non è difficile figurarsi quel che in primavera devono aver detto i caporioni di Bruxelles e Berlino ai timorati rappresentanti del governo di Roma:
«Col vostro debito, che ora crescerà a dismisura, solo la Bce potrà salvarvi dal default. Noi silenziosamente glielo consentiremo, ma voi dovrete accettare un bel pacchetto di interventi diretto giusto ad impacchettarvi, ma ovviamente confezionato in modo da apparire attraente, così voi potrete addirittura vendervelo in patria come salvifico. Cosa volete di più?».
Ora, è chiaro come questo accordo ha visto anche altri contraenti, sia sul lato dei ricattatori che su quello dei ricattati, con la Francia sempre intenta a barcamenarsi tra i suoi problemi e le sue velleità. Ma la sostanza non cambia. E l’obiettivo grosso della manovra resta comunque l’Italia.
A chi pensa che si tratti solo di fantasie di un fissato anti- UE, risponderò con le parole scritte da un personaggio autorevole quanto schierato con il blocco eurista, Lucrezia Reichlin. Sul Corriere della sera del 24 ottobre, la figlia di quello che fu un importante dirigente del Pci vuota il sacco, riconoscendo di fatto la natura e la sostanza del patto (e del ricatto) in questione.
Il ricatto spiegato da Lucrezia Reichlin
Ci eravamo arrivati da soli, ma l’editoriale di Reichlin conferma quanto era già intuibile da maggio. Il patto politico c’è, quello che ci viene chiesto è di rispettarlo, di non giocare col fuoco, che in caso contrario saranno solo guai.
Eccola di nuovo la bella Europa! Quella che conosciamo da anni, che ci dice cosa fare e cosa no. Che ci prepara per bene i “compiti a casa”. Che estorce il consenso con la minaccia.
Ma che lo fa sempre per il nostro bene.
Cosa ci dice la Reichlin?
Dopo aver criticato la convinzione secondo cui, qualunque cosa accada, la Bce garantirà comunque all’Italia bassi tassi di rifinanziamento del debito, Reichlin avverte che il patto che l’ha consentito finora potrebbe saltare.
E questo perché:
«I margini di flessibilità di Christine Lagarde dipendono dal grado di consenso politico alla condivisione del rischio all’interno dell’Unione. In generale, una banca centrale, nonostante la sua grande potenza di fuoco, non ha legittimità ad intervenire in modo illimitato senza il sostegno dell’autorità di bilancio che a sua volta si poggia su una decisione politica».
Fino a qui siamo all’esposizione di una cosa perfino banale.
Dove sta quindi il problema?
«Ma se è così, la posizione dell’Italia riguardo al Mes o quella della Spagna che dice di non volere attingere ai prestiti del Recovery Fund è molto pericolosa. Il pacchetto europeo prevede una molteplicità di strumenti e su questo si basa l’accordo politico».
Eccoci dunque al famoso “pacchetto”, che di fatto non è rappresentato solo – come si usa dire – da Recovery Fund, Mes,
Sure e prestiti Bei, ma include pure il non detto: la politica della Bce. Che ovviamente non è incondizionata, laddove le condizioni per gli Stati sotto ricatto stanno proprio nella piena accettazione degli altri strumenti messi graziosamente a punto dalla Commissione Ue. Tra questi il più sostanzioso è appunto il Recovery Fund.
Pretendere di svincolarsi da questo patto, dice l’economista che della Bce è stata per tre anni (2005-2008) Direttrice generale alla Ricerca, sarebbe una mossa semplicemente azzardata. Il perché ce lo dice in poche righe che, se lette attentamente, sono la più autorevole conferma di quel che andiamo dicendo sul “pacchetto europeo” fin dalla primavera scorsa.
Leggiamo:
«Pensare che il rubinetto Bce sia incondizionato è pericoloso.
Inoltre va sfatata un’altra illusione. I prestiti, certo, andranno restituiti nel tempo ma anche gli interventi della Bce non sono gratis. Permettono oggi di espandere il debito pubblico senza impennate sui tassi così da poter prendere tempo, ma non prevedono un aumento permanente del debito finanziato con emissione di moneta… Aggiungo che anche i sussidi non sono gratis e andranno finanziati con tasse europee in modo ancora da definire». (sottolineature nostre) Grazie Reichlin! Grazie per aver liquidato in poche frasi la montagna di sciocchezze che viene normalmente raccontata su Recovery Fund e dintorni. Grazie poi per aver precisato un punto decisivo, quello sul vero scopo dell’intero pacchetto, che non ha la pretesa di avviare l’uscita dall’ultradecennale crisi, tantomeno quella di uscire dall’austerità con la svolta verso un’immaginifica quanto inesistente “Europa solidale”, quanto piuttosto quello di prendere tempo per salvare la baracca eurista.
Casomai la notazione del fatto che non ci sono “sussidi
gratis” andrebbe segnalata ad un altro illustre editorialista del Corriere, quel Paolo Mieli che ancora ieri sparlava, sull’assai meno autorevole testata, di una metà dei soldi del Recovery Fund come semplicemente “donata” dalla caritatevole UE. Ma si può? E poi questi sarebbero i campioni della lotta alle fake news…
Ma torniamo a Reichlin. La cui conclusione, dopo quanto detto, è perfino scontata:
«In conclusione, mentre ci si prepara a sostenere l’economia con nuovi strumenti nazionali e ad emettere nuovo debito, dobbiamo stare attenti a non fare errori sulla strategia europea. Questo comporta chiari programmi per il Recovery Fund e un piano per la sanità da finanziare subito con il Mes».
Mettiamoci subito in gabbia! Ecco l’inevitabile parola d’ordine di questa nostrana esponente dell’oligarchia eurista.
Facciamolo obbedendo ai diktat europei sul come utilizzare il Recovery Fund e, per sovrapprezzo, aggiungiamoci pure (unici di un’Unione a 27!) il simpaticissimo Mes!
Il vero obiettivo politico (il gioco tedesco)
Le parole di Reichlin trovano un puntuale riscontro in quando detto negli ultimi giorni dai vertici della Bce.
Il lussemburghese Yves Mersch, membro del board della Banca Centrale Europea, ha detto minacciosamente che:
«La Bce dovrebbe agire se scoprisse che i governi stanno approfittando dei costi di indebitamento estremamente bassi che ha contribuito a creare per evitare di sfruttare i 750 miliardi di fondi dell’Unione europea».
«Evitare di sfruttare». Da notare qui quanto lorsignori tengano più di ogni altra cosa all’utilizzo di quei fondi, che pure insistono a presentarci come una magnifica opportunità che ci viene gentilmente concessa. Chissà perché!