SUPERVISION
Irene Fenara
OLTRE ALTRE IMMAGINI
Mauro Zanchi
Sto parlando con te tra qualche anno. Cerco di ricordarmi cosa ti ho detto nel futuro che non è ancora accaduto. Mi pare di ricordare: ti starò dicendo che i nostri flussi di immagini interiori interessano a qualcuno, che è in grado di vederli e di memorizzarli in uno spazio (in un locus) che è stato messo diretta- mente nella testa. Ti ricordi quando tu accedevi nei dispositivi di sorveglianza di qualcuno, digitando codici privati, in ogni luogo del mondo, e osservavi quel flusso di immagini? Ti ricordi che poi scopristi di essere osservata a tua volta da qualcuno che era interessato al tuo lavoro? Avevano messo telecamere di sorveglianza nei luoghi dove tu osservavi gli altri, a tua insaputa. E un artista russo aveva esposto le immagini di te mentre elaboravi le tue strategie e la tua poetica, e in tempo reale proiettava quello che tu stavi vivendo. E aveva anche messo in mostra il tempo che io avevo dedicato a studiare il tuo lavoro, le progressioni della ricerca sulla “surveillance” e sulla “sousveillance”, i nostri scambi di mail, i messaggi, le telefonate, le mostre. Avevamo riso quando ab- biamo capito di essere dentro l’opera e l’osservazione di qualcun altro. Ma il riso e la nostra ironia nel giro di poco tempo si erano subito allarmati per quello che era successo e per quello che sarebbe accaduto nei giorni successivi. E quell’artista russo sarà stato osservato a sua volta da qualcun altro? Allo stesso tempo abbiamo compreso quanto poteva diventare pericoloso questo gioco.
Prima sorvegliavano i nostri cellulari, i nostri PC, i nostri conti bancari, tutto quello che vivevamo. Ti starò dicendo che ora lo fanno direttamente nella no- stra mente? Te lo dirò io o mi sarà indotto? Dovremmo esercitarci a trasmettere immagini e pensieri per via telepatica, forse. Sperando che non siano ancora in grado di captare i nostri sforzi immateriali. Sarà necessario diventare sempre più abili nella pratica del pensare senza pensare? Loro osservano l’anticipo, quello che precede le nostre intenzioni, quello che potrebbe avere un valore, le nostre idee, l’archivio delle nostre immagini interiori. Sondano i nostri desi- deri, soprattutto quelli che ci verranno in seguito. Prendono in considerazione gli impulsi inconsci, quello che vorremmo possedere, le nostre paure. Induco- no nelle nostre coscienze quello che serve a loro. Ti ricordi quando ti avevo mostrato quell’articolo sul giornale, era un giorno di maggio 2018 mi sembra, che analizzava come il governo cinese aveva investito moltissimi soldi nella ricerca per riuscire a mappare tutti i volti delle persone, per potere riconoscere con strumenti tecnologici avanzati ogni singolo individuo anche nascosto tra migliaia di suoi simili, anche durante concerti, manifestazioni, o altro.
Se hanno inventato anche strumenti in grado di registrare i nostri sogni,
cosa rimarrà inviolato? E se sapranno leggere nel pensiero come potremo opporre resistenza?
Riescono a registrare o a imprigionare anche gli archetipi? Abbiamo spesso letto e interpretato l’invisibile con l’immateriale. Le immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza vengono cancellate dopo un certo periodo di tem- po o giornalmente. Ci interessava indagare ciò che è legato alla sparizione, al segno che non rimane, all’ulteriore non visto. Quel qualcosa che si sottrae alla vista diventa veramente qualcosa privo di materia? Ci siamo avvicinati agli sciamani e a chi è in grado di attingere ad ulteriori possibilità presenti nello spazio e nel tempo, per mettere a punto un tipo di trasmissione antico eredi- tato da un’evoluta umanità. Le immagini trasmesse per via telepatica appar- tengono alla sfera del virtuale e dell’intangibile, ma sono realmente qualcosa che esiste, e che è presente ma invisibile. Attingono alla memoria universale, ancora forse. La rete, il campo, lo spazio cibernetico, la (o il) “cloud”, il flusso delle immagini riprese dalle telecamere, e tutte le possibilità tecnologiche ete- ree, sono correlativi oggettivi di una memoria archetipale o del possibile. A noi interessava indagare la dimensione del sublime tecnologico, il corpo mistico di internet, il lirismo catturato inconsapevolmente dalle telecamere di sorveglian- za o da altre macchine che sentono o che registrano. Ma a noi interessavano sopra ogni cosa le immagini rivelatrici, o almeno quelle che in potenza sem- bravano rivelarci qualcosa che non avevamo ancora compreso. Ti ricordi Clai- re Tourneur, la protagonista del film Fino alla fine del mondo, di Wim Wenders?
Lei era ossessionata dalla visione dei suoi sogni registrati da una macchina in grado di farlo. Dava un altissimo valore alle immagini del suo inconscio, perché era alla ricerca di qualcosa che avrebbe dovuto rivelarle qualcosa che non conosceva ancora di sé. O forse cercava una lucidità superiore. Riteneva prezioso comprendere i suoi ricordi non ancora svelati. Anche noi siamo vicini a una ricerca continua, allo scandaglio nelle immagini dell’esistenza. Per dirla con le parole di Charles Baudelaire, noi abbiamo cercato di “sconfinare nella sfera dell’impalpabile e dell’immaginario, in tutto quello che vale soltanto per- ché l’uomo vi infonde qualcosa della sua anima”, e anche soprattutto oltre la nostra presunzione umanistica, per intuire ciò che esula il dominio del pensiero umano nel paesaggio, mettendoci in contatto con i mondi vegetali, animali e minerali. Ma ora tutto quello che ti sto dicendo ha ancora senso?
Oltre le immagini cosa si muoverà? L’immaginazione, forse. E quali saranno le nuove strategie interpretative della realtà? Quali vari futuri incombono su di noi?
Ti ricordi quando ti chiesi come mai avevi voluto fissare sulla carta il flusso
delle immagini di sorveglianza? Mi rispondesti che forse l’avevi fatto per os- servare ulteriormente qualcosa che non era ancora stato colto, al di là di ogni questione lirica, estetica o artistica. Ora tutto quello che è stato stampato e memorizzato potrebbe divenire prova di una colpevolezza. E la colpa risiede già nei nostri pensieri che vengono letti. La colpa di non essere riusciti a non pensarli o a celarli.
Tutte le cose che stiamo dicendo sono un riflesso delle società che le hanno generate, adottate, sviluppate, imposte. In questo processo in evoluzione si aprono continuamente nuove possibilità e altrettante nuove problematiche. Noi vorremmo andare oltre il medium, ma probabilmente il medium siamo noi stes- si o è parte sostanziale del nostro essere. Ci siamo detti che tutti abbiamo avu- to paura di perdere qualcosa, qualche pezzo del nostro passato, il nostro pre- sente, le potenzialità del futuro. E così abbiamo continuamente memorizzato immagini, e immagini della nostra vita privata, stipato nelle memorie artificiali, stampato per ricordare meglio, per documentare il nostro passaggio. Forse c’è stato un momento in cui avremmo potuto buttare via tutto per dare più spazio e respiro alla complessità del nostro esserci nel tempo, alla potenzialità della rivelazione, alla possibilità non ancora accaduta. Non abbiamo buttato via nul- la per poter riguardare, e per vedere se non ci fosse sfuggito qualcosa di noi e del mondo. Non abbiamo gettato via tutto, perché quel tutto forse significava qualcosa per noi e per chi abbiamo scelto di avere accanto. Forse per questo ancora diamo valore a un’immagine stampata sulla carta o memorizzata in un archivio e visibile a monitor, a un video proiettato su uno schermo.
Forse perché non siamo ancora evoluti come avremmo desiderato o come vorremmo.
INTERVISTA A IRENE FENARA
a cura di Mauro Zanchi
Prima di iniziare l’intervista, per non creare malintesi con chi leggerà, ti chiederei di definire cosa è per te immagine e cosa fotografia.
Diversi studi di cultura visuale fanno una distinzione interessante per quel che riguarda il termine immagine. Nella lingua inglese, infatti, il termine ha due varianti che sono image e picture, dove la prima è l’immagine e la seconda è l’immagine su un supporto mediale. Intraducibile in italiano o in altre lingue come il tedesco, in cui i due termini sono accomunati sotto la stessa parola, immagine appunto, che non prevede una declinazione oggettuale. La visibilità di un’immagine e la sua efficacia dipendono strettamente dai fattori materiali, tecnici e spaziali che devono essere presenti e che trasformano un’immagine in una picture, nella sua incarnazione. L’immagine è quindi un’idea immateriale che si manifesta mentalmente o virtualmente, ed è trasferibile in differenti mez- zi e separabile dalla sua materialità, qualunque essa sia. Forse, per me fare fotografia è dare un supporto alle immagini con cui lavoro. Renderle corpo, renderle oggetto, renderle concrete.
Osservando parte della tua opera pare che vi sia un dichiarato tenta- tivo di annullare ciò che di solito viene utilizzato per fare fotografia.
Anche nello spazio di Baco hai allestito stampe di immagini non rea- lizzate da macchine fotografiche, bensì momenti particolari scelti dal flusso di ripresa di telecamere di sorveglianza.
Quello che m’interessa principalmente è indagare l’atto di visione, nella sua complessità, per questo mi sembra limitativo parlare solamente di imma- gini fotografiche nel senso comune. Più che un tentativo di annullare ciò che solitamente viene utilizzato per fare fotografia il mio è un tentativo di allargar- ne i confini, prendendo in considerazione le più disparate tecnologie visuali.
L’acquisizione di immagini è una funzione che mi interessa esplorare perché ormai appartiene a qualsiasi tipo di apparecchio, elettrodomestico, macchi- na ecc.. è una funzione che hanno anche i frigoriferi.. Una recente pubblicità recita: “Guarda dentro al frigo dal tuo Smartphone. Le tre fotocamere interne consentono di controllare ovunque e in qualsiasi momento cosa c’è dentro al frigorifero”. Oggi l’esperienza umana è costantemente visualizzabile in imma- gini, anche mentre fai la spesa, o stai guidando la tua macchina, o cammini per strada o fai una visita medica.
È uno spostamento ulteriore rispetto a quello che Vaccari ha scritto nel suo Inconscio tecnologico?
Il concetto di Franco Vaccari di non utilizzare la macchina fotografica in maniera forzatamente artistica e di lasciarla agire come strumento che può produrre immagini autonome è sicuramente insito nelle videocamere di sor- veglianza, come nelle webcam abbandonate a se stesse di tutto il mondo.
Quindi non solo la videocamera di sorveglianza non è forzata alla creazione di immagini artistiche ma anche il dispositivo stesso non è stato creato per que- sta funzione. Credo che sia importante oggi chiedersi per cosa sia stata creata la macchina che si sta utilizzando per poi profanarne la funzione primaria. Per dirla con le parole di JTW Mitchell bisogna chiedersi What do pictures wants?
che cosa vogliano le immagini, non per personificarle ma per capirle nel moti- vo della loro creazione, che può essere ricercato nello script di una macchina, cioè nell’ovvia funzione di base che un sistema di visione può compiere ag- giunto a tutto ciò che il dispositivo vieta fortemente, ciò che può o non può fare.
Nel caso in cui però le immagini non vogliano nulla saremo allora di fronte alla condizione che attribuiamo alle immagini che riteniamo grandi opere d’arte, al di là delle funzioni.
Precedentemente avevi posto fotografie “trovate” (tu le chiami imma- gini-oggetto, mi sembra) sul piano bidimensionale di uno scanner e poi avevi ottenuto delle distorsioni e rielaborazioni. Ci puoi parlare di cosa entra nell’immagine mentre l’osservazione digitale è assistita da un tuo movimento manuale?
Per me le scansioni in movimento sono state un tentativo di traduzione di quel che l’occhio percepisce guardando qualcosa che ne attira l’attenzione.
Si tratta della trasposizione dei movimenti saccadici sulla macchina, tentando di sottoporre un’immagine al suo occhio laser. Le scansioni ambientali invece sono un tentativo di traduzione del reale su un piano bidimensionale.
Che valore hanno le tracce e immagini create attraverso un’azione concreta, che precede il risultato mediato attraverso uno strumento digitale, con dispositivi tecnologici?
La ricomposizione dell’immagine avviene, nelle mie scansioni, preferendo la successione temporale a quella spaziale. Si possono rintracciare, analiz- zando le immagini, le varie posizioni che le fotografie come oggetto hanno assunto nel tempo, la traccia che hanno lasciato sul piano dal loro muoversi nello spazio. Lo spazio, il tempo e il movimento si spostano su un altro piano di lettura, un quinto orizzonte che si trasforma in una dimensione in cui le storie si
sovrappongono e scorrono allo stesso tempo.
La tua è una ulteriore riflessione sulla possibilità del ready-made? Le immagini delle telecamere di sorveglianza si possono considerare fi- glie ed evoluzioni di un’intuizione di Duchamp?
Se un’immagine già esistente viene isolata dal suo contesto funzionale, de- funzionalizzata e rifunzionalizzata, probabilmente si. E anche se la sola scelta è ciò che determina l’esistenza o la sparizione di queste immagini, allora si avvicinano sicuramente all’idea di Duchamp. D’altronde però lo spostamento oggi è un dato assodato e i confini del mondo dell’arte contemporanea sono talmente allargati che possono potenzialmente comprendere qualsiasi cosa e anche niente.
Mi interesserebbe approfondire il tuo gesto del volere salvare imma- gini dalla sparizione. Come scegli le immagini che reputi interessanti per te, da salvare?
Per quel che riguarda le immagini che raccolgo dalle videocamere di sor- veglianza la mia scelta diventa l’unica salvezza prima che esse svaniscano nel flusso che le cancella ogni 24 ore, la mia selezione è determinante per la loro esistenza. Quando l’immagine che sto osservando mi porta a chiedermi del motivo della sua esistenza, allora la salvo. Salvo il file digitale, ma salvo anche l’immagine da un destino certo, dalla sua scomparsa a un giorno di vita.
Salvo queste immagini quando è in dubbio la loro ontologia, come se fossero domande a cui, a volte, riesco a rispondermi ma tante altre no. Queste imma- gini rappresentano il non visto degli attimi persi, assenze delle realtà che non vedremmo altrimenti, è un tentativo di guardare dove non si guarderebbe, con attenzione all’ordinario, al banale e all’inutile. La sparizione dipende però, non dalla sua importanza o inutilità ma dalla sua persistenza corporea e memoria.
La funzione di memorizzazione una volta svolta dalla mente e dalla memoria è in parte oggi sostituita dalla fotografia di cui viene quindi a mancare, con l’automazione, quel diritto all’oblio cui in realtà teniamo tanto. Per esempio, il recente Regolamento generale sulla protezione dei dati che ha riempito le no- stre mail per giorni è in realtà molto importante perché da diritto alla cancella- zione dei nostri dati personali in determinati database. La paura di dimenticare ci porta a trovare sempre nuovi modi per accumulare, d’altra parte la paura che potrebbe essere registrato veramente tutto quanto, ci porta a desiderare l’oblio. Inoltre, la smaterializzazione degli oggetti e di ciò che osserviamo che causano sempre più velocemente le tecnologie, porta ad un inevitabile spari- zione dell’uomo in un ipotetico futuro, sostituito in tutto e per tutto nelle più as- surde automazioni. Tutta la nuova tecnologia tende all’a-corporale e ritornare
concreti è un modo per salvare noi stessi da questo rischio.
Ci puoi definire cosa intendi per il concetto di strumento miope?
La cecità è innata nei dispositivi di acquisizione immagini perché produco- no una visione senza sguardo. Uno strumento miope è uno strumento che non viene utilizzato nel modo per cui era stato pensato e progettato, è uno strumen- to sempre al limite dell’errore. Mi interessa riuscire ad arrivare ai confini che certe tecniche lasciano percorrere. Lo strumento miope è quello che va contro al suo script. Nel caso dello scanner quando ho iniziato a fare le scansioni ambientali ho notato che lo strumento non riusciva a distinguere forme e colori, oltre i due centimetri di altezza proprio perché è una macchina che è stata pro- gettata per riprodurre immagini piane, da qui il termine miope, che porta l’at- tenzione su una disabilità che può favorire la nascita di situazioni interessanti.
Lo scanner, a una distanza superiore ai due centimetri, non distingue più né forme né colori e li registra come variazioni di luminosità. Come hai diretto invece le conseguenze di ciò che accade oltre le lenti delle telecamere di sorveglianza? Cosa ti ha interessato del loro sguardo sul mondo sorvegliato?
Stavo cercando nuovi dispositivi della visione che mi potessero portare a vedere in maniere differenti e quello che mi ha subito colpito delle video- camere di sorveglianza era il contrasto tra un’attività fortemente funzionale e un’estetica altrettanto potente. Si tratta di immagini provenienti da videoca- mere di sorveglianza, principalmente di privati che probabilmente non sanno o non danno peso al fatto che quando viene acquistata una videocamera di sorveglianza abbia codici di sicurezza standard, uguali per ogni marca, che se non vengono cambiati rimangono gli stessi, quindi facilmente accessibili tramite internet da chiunque conosca quel codice. Le videocamere di sorve- glianza rientrano nel cosiddetto Internet of Things che comprende tutti quei prodotti che utilizzano il web per accrescere le proprie potenzialità. Il proble- ma dell’Internet of Things è che il rapporto è sempre reversibile, ovvero che se tu puoi osservare, allo stesso modo puoi essere anche osservato, e che tutti i dispositivi che crediamo di utilizzare in realtà sono in grado di utilizzare noi e i nostri dati, evidenziando il carattere bivalente di un dispositivo ottico, la videocamera, spesso e volentieri usato come strumento di controllo. Per lo più si tratta di un mondo fermo e vuoto, quello che si vede attraverso le video- camere di sorveglianza. Non ci sono molti esseri umani, perché trattandosi di videocamere private spesso le persone una volta arrivate a casa le spengono.
A volte però qualcosa accade, è sembra incredibile solo perché ci sei tu che lo stai guardando, non sarebbe così stupefacente se succedesse nella normalità
di un momento qualunque, lontano da ogni tipo di sguardo. Sarebbe soltanto qualcosa che succede, a volte, come il volo di un uccello vicino alla videoca- mera che mi ha permesso di compiere un vero e proprio birdwatching tecnolo- gico da videocamere di sorveglianza. Di volta in volta scorgo nuove tematiche su cui lavorare, spesso hanno a che fare con il vedere e l’osservazione, in linea appunto con i concetti di videosorveglianza e controllo. Alcuni dei soggetti più ricorrenti sono la religione (l’incredibile quantità di videocamere di sorve- glianza sistemate all’interno delle chiese, in posizione perfettamente centrata fa supporre che Dio stia davvero guardando), il bird watching, le macchine al lavoro, le stesse cctv a loro volta riprese e le immagini provenienti da video- camere rotte, o videocamere in cui è stata offuscata la visione. Per quel che riguarda il bird watching, ad esempio, mi ha interessato l’enorme quantità di videocamere puntate su nidi o in luoghi frequentanti dalle specie volatili, pro- babilmente è una conseguenza dell’enorme riduzione nella popolazione degli uccelli, cambiamento che modifica l’aspetto e il suono del mondo. Monitorare questi luoghi potrebbe essere anch’esso un modo per esorcizzare la sparizio- ne, in questo caso di una specie.
Quale percorso di riflessione e di analisi sta dentro, attorno alle tue opere?
In tutto il mio lavoro il mio interesse ruota attorno all’atto di visione e alla ne- cessità di disorientare gli elementi assodati nel vedere, per poter guardare in maniera nuova. Cerco un punto di vista che si crea dalla fusione di ottica e ci- nematica. Per ora seguo principalmente due percorsi, la sperimentazione con la fotografia e la videoinstallazione: di entrambi forzo l’uso per spingermi oltre la consuetudine, in assonanza con il concetto trattato da Giorgio Agamben in Profanazioni, dove per profanazione di un dispositivo si intende il riappropriar- si di ciò che era stato ‘sacralizzato’ riportandolo all’uso comune o al di fuori dei canoni per i quali è stato pensato. Il movimento, nello spazio e nel tempo, l’allontanamento e l’avvicinamento, sono stati per me un primo tentativo di ri- baltare i punti di vista e modificare le prospettive. Lo sguardo stesso è un atto prospettico con un punto di vista concreto spazialmente e temporalemente, che si propone di disporre gli oggetti nel campo visivo a seconda del dispo- sitivo tecnologico che ne inquadra la visione, che sia una macchina, un paio di occhiali, la televisione o internet. Con questo atteggiamento, utilizzando e analizzando gli strumenti del linguaggio visivo mi ritrovo vicina al concetto di dispositivo nel senso in cui lo intende Agamben: come “qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”.
Ci puoi parlare del complesso rapporto fra l’arte e la velocità con cui la tecnologia si sviluppa e influenza la vita, la visione e le prospettive delle persone.
La velocità dello sviluppo della tecnologia è così rapido per cui l’osser- vazione delle videocamere di sorveglianza fra poco tempo, o forse lo è già, sarà acquisito come normalità, come potrebbe diventare normale avere una videocamera nel frigorifero. D’altra parte trovo anche interessante la velocità e il tempo che dedichiamo nell’osservare un’immagine. Anche io sono ormai abituata a guardare le immagini delle videocamere a velocità straordinarie, magari le guardo più volte e trovo qualcosa di diverso di volta in volta in base a quello che sto cercando, l’occhio è guidato dal cervello e vede solo quello che cerca. Trovi cercando, tra la miriade di videocamere nuove o già viste, seguendo il corso ciclico del mondo, tra fusi orari e stagioni. È importante com- prendere che la visione è una costruzione culturale che si impara e si coltiva.
Infatti impariamo a vedere e a elaborare informazioni visive sempre più velo- cemente, e non si tratta di un normale attributo umano ma di una capacità che si impara. Anche se a volte siamo incapaci di metabolizzare immediatamente quello che ci sta avvenendo, come per esempio nell’Ottocento, in Inghilterra, quando stava prendendo piede la ferrovia, i treni venivano fatti andare molto piano inizialmente, nonostante la potenza potesse già essere elevata, perché si temeva che la mente umana non avrebbe retto la visione alla velocità del treno.
Hai aderenze con la ricerca di Trevor Paglen e con le Seeing Machines, ovvero al suo concetto ampliato di fotografia?
Certo mi interessa moltissimo il concetto di Seeing machines che è un termine che Trevor Paglen prende in prestito da Paul Virilio, che prevedeva l’arrivo di macchine in grado di vedere, di riconoscere i contorni delle forme ma anche di interpretare il campo visivo inquadrato da una videocamera. A partire da questo termine Paglen sviluppa un concetto ampliato di fotografia che comprende non solo le immagini prodotte ma anche i dispositivi di visione di qualsiasi tipologia, i dati che producono, di cui le immagini sono solamente una delle possibili manifestazioni, e le pratiche che determinano tali dispositivi.
Cosa possono rivelare gli strumenti tecnologici solitamente estranei all’arte? Visioni anche molto differenti?
Mi ha sempre interessato la moltitudine e la difformità delle visioni, mi ha sempre molto colpito il modo in cui cerchiamo di riprodurre un’immagine che abbiamo già visto e che si è formata nella nostra testa, per esempio quando
viaggiamo, facciamo sempre tutti la stessa fotografia interiorizzata dentro di noi dei posti che andiamo a visitare e che riconosciamo dalle fotografie che abbiamo già visto. Ecco, forse, gli strumenti tecnologici meno usuali possono aiutarci a dissuadere questo nostro atteggiamento umano.
Fotografia legata al solo scopo di controllo ambientale che invece con una poetica concettuale diviene una sorta di automazione della per- cezione?
L’automazione delle percezione è sicuramente dovuta all’innovazione di una visione artificiale, a cui deleghiamo l’analisi della realtà, quindi sicuramente connessa ai temi di controllo ambientale e sociale a cui sono legate le videoca- mere di sorveglianza. La sostituzione della macchina all’umano è oggi tale per cui non sia più possibile farne a meno per determinate operazioni, come anche solo comprare un biglietto del treno e rende inevitabile la nascita di fenomeni come l’Internet of Things. Ci sono sensori per l’internet delle cose, introdotti in tutti i dispositivi smart che vanno ad aggiungersi ai sensori fissi che si trovano negli spazi pubblici con cui i nostri meccanismi elettronici si collegano senza nemmeno che lo sappiamo. Che poi molti degli strumenti smart siano dotati di una fotocamera rende l’automazione della percezione molto semplice. Si tratta di un gigantesco disposivito, nel senso in cui lo intende Foucault, di control- lo sociale sperimentato. L’automazione della percezione e l’evanescenza del soggetto plasmato dai dispositivi portano immancabilmente ad una immobilità del corpo organico, continuamente sotto controllo, anestetizzato e intorpidito, di cui forse solo la pratica artistica può favorirne un risveglio.
La fotografia - che fino a poco tempo fa era ritenuta un documento at- tendibile, una testimonianza che rispecchia fedelmente la realtà – che ruolo ha nella tua visione?
Non mi ha mai interessato particolarmente la presunta verità della fotogra- fia, non perché io non ricerchi la verità, anzi è qualcosa di cui ho bisogno, ma perché credo che la verità si palesi in maniere differenti, meno dirette. Credo nella ricerca del vero per mezzo del dubbio, temo ci si allontani quando si cre- de di sapere con certezza, quindi diffido da ciò che pretende di rappresentare in maniera fedele la realtà. D’altro canto, è probabile che tra qualche anno o decennio, le immagini che sto raccogliendo dalle videocamere di sorveglian- za potrebbero diventare documento del contesto storico e sociale in cui ci troviamo.
Mi interessa sapere qualcosa di più rispetto all’aspetto lirico o al fattore estetico delle opere che hai installato a BACO.
Le immagini che ho scelto di portare a BACO girano attorno ad una sug- gestione e a un colore in particolare, il rosa, di cui si tingono i cieli ripresi da al- cune marche di videocamere di sorveglianza che non percependo in maniera corretta la luminosità del cielo e il colore bianco delle nuvole, lo ricostituiscono diversamente. Lo spazio espositivo di BACO diventa quindi il luogo di un er- rore di percezione e il cielo fuori si colora tramite un’installazione ambientale.
Il resto delle immagini si muove sui colori caldi del rosa e arancio andando dalla vegetazione ai pannelli solari, dai pappagalli agli abbagli che creano rifrazioni sulle lenti, passando per un’infinità di visioni differenti. In mostra è anche presente un video che si concentra sull’impossibilità di tenere lo sguar- do fisso al cielo da una videocamera di sorveglianza, che svolgendo il suo compito di controllore riporta sempre lo sguardo automatizzato verso il basso, verso ciò che va osservato. La possibilità di comandare la videocamera da un computer a grande distanza permette di deviare questo sguardo e perdersi per brevi momenti nel passaggio delle nuvole nel cielo, per poi subito tornare alle rigide architetture di un allevamento danese. La possibilità di guardare in ogni direzione è consentita dai movimenti di macchina della videocamera che permette di volgere lo sguardo verso l’alto, ma non ne permette la contempla- zione. L’impossibilità di tenere lo sguardo fisso al cielo riflette la difficoltà di te- nere vivi i grandi sogni e continuare a credere in essi. Il movimento verso l’alto è una tendenza, la forza ascensionale è la necessità di sognare e guardare verso l’alto per continuare ad alzare la testa nonostante le costrizioni. Lo spo- stamento verticale dal basso verso l’alto e viceversa è la tensione che muove tra i grandi sogni e la realtà quotidiana, una continua battaglia tra leggerezza e pesantezza. Sfidare la forza di gravità, che ci impone una determinata pro- spettiva, ci rende sognatori.