• Non ci sono risultati.

Responsabilità extracontrattuale e vizi della volontà contrattuale - Judicium

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Responsabilità extracontrattuale e vizi della volontà contrattuale - Judicium"

Copied!
48
0
0

Testo completo

(1)

www.judicium.it

1

MARIO BARCELLONA

Responsabilità extracontrattuale e vizi della volontà contrattuale

Sommario: 1.- I comportamenti turbativi del potere di autodeterminazione e la responsabilità della controparte negoziale: la deriva “correttiva” del rimedio aquiliano. - 2. (segue) rimedio risarcitorio e contratto invalido: sulla pretesa generale esperibilità dell’azione aquiliana in luogo delle possibili azioni demolitorie; 3. (segue) rimedio risarcitorio e contratto valido: sulla dottrina dei c.d. vizi incompleti e sulla loro generale tutela risarcitoria. - 4. Gli illeciti antitrust e l’azione di risarcimento ex art. 33 L. n. 287/1990: ancora sui rapporti tra rimedi contrattuali (demolitori) e rimedio aquiliano.

1.- I comportamenti turbativi del potere di autodeterminazione e la responsabilità della controparte negoziale: la deriva “correttiva” del rimedio aquiliano.

Prim’ancora che da terzi del tutto estranei al contratto, i comportamenti che costringono o inducono un soggetto a scelte e determinazioni diverse da quelle cui si sarebbe spontaneamente orientato possono provenire dalle controparti negoziali (o da persone con esse variamente colluse).

Tuttavia, il problema dei pregiudizi che da tali comportamenti possono scaturire, fino a qualche tempo addietro, ha interessato il rimedio aquiliano in modo molto marginale.

La communis opinio della dottrina e la prassi giurisprudenziale, per lo più, muoveva dall’idea generale che la protezione di un contraente rispetto alle insidie provenienti dalla sua controparte trovasse risposta nelle tutele demolitorie (annullabilità e rescissione), che un problema risarcitorio potesse insorgere, di norma, solo in conseguenza dell’esperimento di tali tutele e che esso trovasse esaustiva disciplina nell’art. 1338.

Proprio in ragione di questa idea sistematica generale la comunicazione tra il sistema delle invalidità ed il rimedio del risarcimento era rimasta fino a poco tempo addietro confinata all’ambito dell’art. 1338 e non aveva interessato l’istituto della responsabilità civile se non per quell’aspetto, alla fine abbastanza marginale, che riguardava la “natura” della responsabilità prevista in tale norma e la disciplina (di prova, prevedibilità e prescrizione) ad essa applicabile (1).

Ma quel che più conta è che in quest’ordine di idee si dava per pressoché scontato che il rimedio risarcitorio dell’art. 1338, quale che ne fosse la natura, si prospettasse come successivo al rimedio demolitorio e dipendente dalla sua disciplina: successivo, perché si riteneva

(1) Per una rassegna dei diversi orientamenti in proposito si v. G. Patti – S. Patti, Responsabilità preontrattuale e contratti standard, in Il Codice civile - Commentato diretto da P. Schlesinger, Milano, 1993, 34 ss. e V. Cuffaro, Responsabilità precontrattuale, in Enc. del dir., XXXIX, Milano, 1988, 1269 ss.

(2)

www.judicium.it

2

supponesse che il contratto fosse stato invalidato; dipendente, perché proprio per questo la sua esperibilità si riteneva supponesse necessariamente che si dessero le condizioni di accesso alle azioni di invalidità.

Nel sistema ricevuto, dunque, un contratto invalidabile non dà luogo a responsabilità ove non sia stato invalidato e un contratto valido non dà luogo a responsabilità se non nel caso, ritenuto eccezionale, dell’art. 1440.

Da qualche tempo a questa parte, però, questo assetto dei rapporti tra invalidità e responsabilità appare insidiato da enunciazioni dottrinarie che lo vorrebbero addirittura, in tutto o in buona parte, capovolto.

Con sempre maggiore insistenza si sostiene, infatti:

(a) che di fronte ad una causa di annullabilità o di rescissione del contratto si dia (al contraente la cui volontà sia viziata da errore, dolo, violenza o da stato di necessità o di bisogno), in generale e senza limiti, l’alternativa tra l’esperimento dell’azione di annullamento o di rescissione e l’esperimento di un’azione di responsabilità che mantenga in vita il negozio annullabile o rescindibile (2);

(b) che a carico della parte che abbia insidiato scorrettamente l’autonoma determinazione negoziale dell’altra sia configurabile in via generale una responsabilità anche quando la scorrettezza commessa non giunga ad integrare gli estremi di uno dei vizi della volontà nominati dalla disciplina del contratto (3).

Come appresso si vedrà, l’esito manifesto (ma anche il proposito dichiarato) di entrambe queste proposte interpretative è quello di utilizzare la responsabilità extracontrattuale in funzione correttiva di un equilibrio contrattuale che appare impropriamente raggiunto: consentendo il ricorso al rimedio aquiliano nonostante il mancato esperimento dell’azione di annullamento o di rescissione o in assenza delle condizioni per esperirla si attribuisce al contraente, la cui volontà sia stata turbata dai comportamenti scorretti dell’altro, un “compenso” volto a ripristinare l’equilibrio contrattuale mancato.

(2) R. Sacco in R. Sacco – G. De Nova, Il contratto, I, in Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, Torino, 2004, 620 ss. e, almeno in parte, P. Gallo, I vizi del consenso, in Trattato dei contratti diretto da p. Rescigno, I Contratti in Generale, II, 1999, 469-470.

Questa tesi è sostenuta anche muovendo dall’assunto che l’art. 1338 non richiederebbe come necessaria condizione del risarcimento in essa previsto la previa invalidazione del contratto: cfr. G. Patti – S. Patti, La responsabilità precontrattuale, cit., 220 ss., riprendendo le vecchie posizioni di F. Carresi, In tema di responsabilità precontrattuale, in Temi, 1965, 458. Ma per la critica di questa tesi v. le approfondite considerazioni di G. Grisi, L’obbligo precontrattuale di informazione, Napoli, 1990, 57 ss. e 164 ss., il quale, giustamente, conclude ribadendo che la responsabilità dell’art. 1338 suppone la dichiarazione di invalidità del contratto.

(3) V. per tutti M. Mantovani, «Vizi incompleti» del contratto e rimedi risarcitori, Torino, 1995, passim., ma anche le critiche di G.

D’Amico, La responsabilità precontrattuale, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, V, I rimedi-2, Milano, 2006, 977 ss.

(3)

www.judicium.it

3

Fra l’altro, di tali enunciazioni dottrinarie (soprattutto della seconda) una recente e nota sentenza di merito ha fatto letterale e clamorosa (per l’ammontare del risarcimento concesso) applicazione.

Per decidere sull’ammissibilità di una domanda di risarcimento del danno causato dalla conclusione di una transazione svantaggiosa imputata all’influenza che sulla determinazione delle sue condizioni sarebbe stata esercitata dall’emanazione di una sentenza (relativa alla controversia transatta) inquinata dalla corruzione di un giudice, il Tribunale di Milano (4) muove, per l’appunto, dai due seguenti assunti:

a) che “non è del tutto vero che, ontologicamente e da un punto di vista fattuale, detto fatto illecito (= la corruzione di un giudice del Collegio giudicante) non ingenerò alcun vizio della transazione: detto vizio c’è ed è grave … [ma poiché] non sussiste nessun rimedio contrattuale al fatto illecito [e, però] un illecito vi fu, [allora] è gioco forza far rifluire detto illecito nella previsione generale dell’art. 2043” (5);

b) che, comunque,”la fattispecie … presenta una certa “vicinanza” con la fattispecie normativa, di cui all’art. 1440 cc, relativa al dolo incidente: in entrambe le fattispecie la trattativa negoziale è inquinata; in entrambe le fattispecie il contratto rimane valido ed efficace; in entrambe le fattispecie il contraente in mala fede è tenuto al risarcimento del danno in favore della controparte”.

Così, infatti, tale decisione, per la prima volta, si giova apertamente del principio enunciato da questa dottrina: quello che assegna alla responsabilità aquiliana una funzione supplente della disciplina delle invalidità rispetto alle “zone franche” da questa lasciate e che, perciò, generalizza il dispositivo dell’art. 1440 che vede convivere la validità del contratto con l’obbligo di risarcire il danno che dalla sua conclusione sarebbe derivato (6).

Per il vero, qualche recente massima giurisprudenziale sembrerebbe convalidare entrambe queste direttive interpretative.

Da un lato, Cass. civ. n. 20260/2006 ha enunciato che «Il contraente, il cui consenso risulti viziato da dolo, può richiedere il risarcimento del danno conseguente all'illecito della

(4) La sentenza è quella già prima citata di Trib. Milano, 03/10/2009 n. 11786, nella controversia CIR/FININVEST.

(5) Per il vero, il rimedio sussisteva, ed era, in ogni caso, quello, da un lato, di agire ex art. 395 n. 6 c.p.c. per la revocazione della sentenza “inquinata” e, dall’altro, di impugnare la transazione ex art. 1972, comma 2. E se non è stato utilizzato è stato solo perché – con tutta evidenza – parte attrice intendeva non mettere in discussione la transazione che le aveva attribuito, fra l’altro, importantissime testate giornalistiche come “L’Espresso” e “La Repubblica” e si proponeva piuttosto di ottenere in via aquiliana soltanto (per così dire) un surplus sul datum/retentum convenuto. Ma proprio questa è una delle ragioni principali che, sul piano funzionale, fa dubitare del principio dottrinario di cui il Tribunale si è avvalso (v. infra nei parr.

successivi).

(6) Ma – a ben vedere, si avvale implicitamente anche del principio di compatibilità tra conservazione di un contratto invalido e azione di responsabilità a misura che non ritiene di soffermarsi sul carattere solo incidente, invece che determinante, del “vizio”, così, nella sostanza, dando per scontata una sorta di potere (della “vittima”) di libera

“conversione” del vizio incidente in vizio determinante (su cui v. infra nel par. 3 di questa sez.).

(4)

www.judicium.it

4

controparte, lesivo della libertà negoziale, sulla base della generalissima previsione in tema di responsabilità aquiliana, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., anche senza proporre contemporaneamente domanda di annullamento del contratto ai sensi dell'art. 1439 cod. civ.».

Dall’altro, Cass. civ. n. 19024/2005 ha affermato che «La responsabilità per violazione del dovere di buona fede durante le trattative, o di più specifici obblighi precontrattuali (ad esempio informativi) riconducibili a quel dovere, non è limitata ai casi in cui alla trattativa non segua la conclusione del contratto o segua la conclusione di un contratto invalido o inefficace; bensì si estende ai casi in cui la trattativa abbia per esito la conclusione di un contratto valido ed efficace, ma pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto».

In realtà, contro le apparenze, entrambe queste “massime” della Corte di legittimità non sono, alla fine, molto significative.

Per un verso, infatti, i casi, che in base a queste declamazioni vengono affrontati, avrebbero potuto, e dovuto, essere risolti dalla Corte nel medesimo senso sulla base di diversi e sperimentati dispositivi normativi (7).

E per un altro verso, la stessa Corte, nel medesimo torno di tempo, ha ribadito il proprio insegnamento tradizionale, escludendo che il comportamento contrario a buona fede praticato da un contraente nella fase precontattuale possa dare accesso, una volta concluso il contratto, ad una responsabilità extracontrattuale.

Ed infatti, decidendo un caso molto complesso (nel quale la controparte del contraente incapace di un contratto preliminare ne chiedeva la condanna in via extracontrattuale al risarcimento del danno per il comportamento contrario a buona fede da questo tenuto nella fase precontrattuale), Cass. civ. n. 16937/2006 ha concluso che «stipulato un contratto preliminare … con un soggetto incapace…, l’unica azione a disposizione della [contro]parte … si individua in quella contrattuale prevista dall’art. 1443, senza che possa farsi luogo, in via cumulativa, all’esperimento di altra azione, di tipo extracontrattuale, riconducibile alla supposta malafede del predetto soggetto [incapace] durante le trattative, … [giacché] la stipula del preliminare … comporta… la perdita di ogni autonomia e di ogni giuridica rilevanza di dette trattative, convergendo, sotto il profilo risarcitorio, nella nuova struttura contrattuale che, pertanto, viene a costituire la sola fonte di responsabilità, per l’appunto, risarcitoria».

E’ alle enunciazioni dottrinarie che occorre, dunque, rivolgere l’attenzione.

2.- (segue) rimedio risarcitorio e contratto invalido: sulla pretesa generale esperibilità dell’azione aquiliana in luogo delle possibili azioni demolitorie.

(7) Ad es., Cass. civ. n. 19024/2005 concerne un caso di violazione degli obblighi informativi previsti in materia di negoziazione di strumenti finanziari che la stessa Corte nella medesima decisione ammette indiscutibilmente riducibile ad un’ipotesi di ordinario dolo incidente. Ed è del tutto evidente che la parte della motivazione, da cui sono tratti i passaggi massimati, è solo funzionale alla critica di quella giurisprudenza di merito che insisteva nell’idea che la violazione di tali obblighi legali configurasse una nullità per violazione di norme imperative. Ma in proposito si v. le precisazioni della successiva Cass. civ. n. 26724/2007, su cui v. M. Barcellona, Mercato mobiliare e tutela del risparmio, cit., 44 ss.

(5)

www.judicium.it

5

La prima, e più attrezzata, enunciazione dottrinaria della superiore duplice indicazione interpretativa (8) muove dalla tesi che sia nella insindacabile disponibilità del contraente la cui volontà sia “viziata” (in conseguenza di una scorrettezza dell’altro) tanto il rimedio del risarcimento che quello dell’invalidazione del contratto, quest’ultimo, a sua volta, compreso come una sorta di “risarcimento in forma specifica”.

L’argomentazione è essenziale e si risolve nei seguenti passaggi:

- la “regola d’insieme” che spiega e fonda la repressione dei comportamenti di una parte turbativi della volontà dell’altra è costituita dal dovere di buona fede dell’art. 1337 (9);

- per questa via “la struttura del vizio del volere … si apparenta ad un fatto illecito in senso specifico … [donde si dà una] consustanzialità del vizio del volere … con un fatto colorato di antigiuridicità” (10);

- si dovrebbe ritenere, perciò, che in generale, e cioè anche al di fuori dei tipici vizi invalidanti, “la vittima [della scorrettezza della controparte] può certamente invocare l’art. 1337 per giustificare il diritto di risarcimento del danno … [e] può altresì invocare l’art. 2058 affinché il risarcimento venga prestato in forma specifica, ossia mediante la rimozione del contratto” (11);

- mentre anche, in presenza di un vizio invalidante tipico, lo stesso art. 1338 non solo abilita “all’eliminazione … del danno cagionato dalla rimozione del contratto, [ma] in virtù dell’art. 2058 questa eliminazione, ove … [la vittima] lo chieda, deve avvenire in natura, cioè tenendo in piedi le obbligazioni contrattuali purgate dalle condizioni inique”

(12).

- con l’esito finale e generale che “il vizio del consenso è dunque, di norma, idoneo … a scatenare la distruzione di tutto il contratto … o, alternativamente, la riduzione a giustizia del rapporto contrattuale mediante decurtazione della prestazione del contraente vittima o imposizione di una prestazione supplementare alla controparte”

(13).

(8) E’ quella di R. Sacco in R. Sacco – G. De Nova, Il contratto, I, cit.,617 ss. Di recente questa tesi è stata riproposta come communis opinio da G. Afferni, Il quantum del danno nella responsabilità precontrattuale, Torino, 2008, 187 ss.

(9) R. Sacco in R Sacco – G. De Nova, op. cit., 620.

(10) R. Sacco in R Sacco – G. De Nova, op. cit., 623.

(11) R. Sacco in R Sacco – G. De Nova, op. cit., 621, i quali così affossano la tipicità dei vizi del consenso e ne riducono la previsione normativa a manifestazione rapsodica di un principio la cui applicazione non abbisogna neanche della mediazione del procedimento analogico.

(12) R. Sacco in R Sacco – G. De Nova, op. cit., 621.

(13) R. Sacco in R Sacco – G. De Nova, op. cit., 621.

(6)

www.judicium.it

6

Ma poiché è evidente che la mediazione dell’art. 2058 non è nient’altro che un espediente del tutto improprio ed assolutamente improponibile (14), la sostanza di questo ragionamento si risolve, allora, in questo: che il turbare colposamente o dolosamente la determinazione negoziale della propria controparte integra comunque un illecito, che tale illecito trova tutela specifica nelle invalidità del contratto, che tale illecito, però, reclama tutela anche quando non si diano gli estremi dei tipici vizi della volontà nominati dal codice, che, in ogni caso (e cioè tanto in presenza delle condizioni di invalidità che in loro assenza), tale illecito “reclama le ben note conseguenze descritte dall’art. 2043” (15) e che, perciò, “annullamento e risarcimento operano alternativamente o cumulativamente a favore dello stesso soggetto per raggiungere un solo risultato: cancellare un’ingiustizia” (16).

L’obbiettivo cui mira questo corto-circuito di illiceità e invalidità è, dunque, duplice: da un lato, il sostanziale superamento del principio di tassatività delle ipotesi di annullamento (17);

dall’altro, la piena fungibilità, a discrezione della “vittima”, dell’azione di annullamento con un’azione aquiliana rivolta a conseguire il risarcimento del danno corrispondente all’interesse che questa aveva affidato al contratto concluso e che il vizio che lo affligge ha lasciato deluso, e per questa via (risarcitoria) giungere, alla fine e nella sostanza, ad una correzione del contratto invalido (ma così mantenuto in vita).

La prospettiva nella quale queste questioni vengono qui in considerazione induce ad esaminare, di seguito, solo il secondo di questi due obbiettivi: la generale sostituibilità del rimedio demolitorio (= annullamento e rescissione) con un’azione aquilana intesa a correggere un equilibrio contrattuale malato.

(14) L’esito, discutibile, di questa impostazione è che le fattispecie dei vizi della volontà si riducono al dovere generale di buona fede, e quindi appaiono - al limite - superflue, e che l’apparato dei rimedi si riduce al risarcimento del danno somministrabile per equivalente o in forma specifica, e quindi le stesse discipline delle invalidità appaiono – al limite – anch’esse superflue; sicché tutta questa parte della disciplina generale del contratto potrebbe essere interamente assorbita dall’art. 2043. Il che, se si ricorda che anche lo stesso contratto, nel diritto romano arcaico, era dedotto dall’illecito, potrebbe far pensare che oltre duemila anni di razionalizzazioni giuridiche, tutto sommato, avrebbero potuto essere evitate.

Comunque, a proposito della distinzione tra rimedi reintegrativi del diritto e risarcimento in forma specifica v. R.

Scognamiglio, Il risarcimento del danno in forma specifico, in Riv. tri. Dir. e proc. civ., 1957, 201 ss.; M. Barcellona, Sul risarcimento del danno in forma specifica (ovvero sui limiti della c.d. interpretazione evolutiva), in Rass. dir. civ., 1989, 505 ss. e ora S. Mazzamuto, La responsabilità contrattuale in senso debole, in corso di pubbl. su Eur. e dir. priv.

(15) R. Sacco in R Sacco – G. De Nova, op. cit., 625.

(16) R. Sacco in R Sacco – G. De Nova, op. cit., 622.

Anche C.M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, 173 ss., ravvisa nella colposa induzione in errore, nel dolo e nella violenza altrettante lesioni della libertà contrattuale dell’errante, del deceptus e del minacciato. Ma non si avvale di ciò per sostenere che quando ricorra una causa di invalidità sia possibile in generale esercitare in suo luogo l’azione aquiliana.

(17) V. per tutti E. Del Prato, Le annullabilità, in Trattato del contratto diretto da V. Roppo, IV, I rimedi-1, Milano, 2006, 182 ss.

(7)

www.judicium.it

7

Orbene, quest’idea, che i vizi della volontà possano aprire la via, indifferentemente, alle tutele tanto dell’annullamento/rescissione che del risarcimento, e che, perciò, chi sia caduto in errore (per la negligenza o il dolo dell’altro), chi sia stato vittima di una minaccia, ecc. possa, a suo piacimento, agire per l’annullamento/rescissione del contratto oppure tener fermo il contratto e agire in responsabilità (onde – nella sostanza – modificarne le condizioni) (18), non sembrerebbe, a prima vista, compatibile con l’assetto che l’ordinamento positivo ha conferito al principio di autonomia privata (19). E ciò per molteplici ragioni.

La prima ragione è che la tutela demolitoria, a differenza di quella risarcitoria, sembra essere la sola pienamente compatibile con il principio di autodeterminazione, su cui – piaccia o no – continua ad essere fondato il sistema del contratto (20). Per un verso, infatti, essa consente di continuare a riferire la vincolatività del contratto alla volontà di entrambi i contraenti, a misura che legittima quello di essi la cui volontà sia viziata a far cadere l’accordo ed esonera la sua controparte dal dover subire un contratto che per essere stato corretto non è stato da essa voluto (21). Per un altro verso, essa implementa il principio che al giudice non compete di fare il contratto al posto delle parti, mentre un risarcimento del danno concesso in permanenza del contratto viziato (22) finirebbe necessariamente per acquisire, in un’economia dove tutto è traducibile in denaro, una portata puramente e semplicemente modificativa delle ragioni di scambio che non può sfuggire a nessuno (23).

La seconda ragione è che una tutela risarcitoria che si desse contemporaneamente alla permanenza in vita del contratto si risolverebbe in una sorta di “convalida onerosa” (per l’altro contraente). In proposito si consideri quanto segue.

(18) Di “diritto di scelta” parla adesso G. Afferni, op. loc. citt.

(19) Già così sotto il Cod. civ. del 1865 si v. N. Coviello, Della cosiddetta culpa in contahendo, in Filangieri, 1900, 724.

Rispetto al Codice del 1942 questa incompatibilità è ribadita, tra gli altri, da G. Stolfi, Colpa «in contrahendo» e prescrizione (nota a Cass., 12 gennaio 1954), in Foro it., !954, I, 432 ss.; G. Visintini, La reticenza nella formazione dei contratti, Milano, 1972, 175; e A.

Cecchini, Rapporti non vincolanti e regole di correttezza, Milano, 1977, 304 ss.

(20) Essendo ovvio che tra il principio di autodeterminazione (e cioè il principio dell’autonomia privata) e le tradizionali dottrine volontaristiche del contratto non c’è coincidenza, sicché sarebbe solo ingenuo scambiare la crisi di queste dottrine con la crisi del principio di autodeterminazione, e di ciò che ad esso sta dietro: ossia niente di meno che la stessa economia di mercato (cfr. in proposito L. Mosco, «Culpa in contraendo» e determinazione del danno risarcibile (nota a Cass. 23 aprile 1947), in Giur. compl. Cass. civ., 1947, III, 434; ma v. infra nel testo).

(21) Cfr. in proposito M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006, 270 ss.

(22) Almeno per come viene concepito e determinato da questa dottrina.

(23) E d’altronde, questo, per l’appunto, è l’obbiettivo dichiarato di quest’operazione interpretativa: cfr. R. Sacco in R. Sacco – G. De Nova, op. cit., 622 e passim.

(8)

www.judicium.it

8

Chi, deducendo un fatto che integra una causa di invalidità, si limitasse a denunciare l’illiceità della condotta che vi ha dato luogo ed a richiedere il risarcimento del danno subito non potrebbe, poi, agire per l’invalidazione del contratto. Diversamente infatti, se una volta ottenuto – come si dovrebbe ritenere scontato (24) - il risarcimento del pieno interesse positivo (soggettivamente perseguito), l’errante o la vittima della violenza, del dolo o dell’altrui approfittamento del proprio stato di necessità o di bisogno potessero, successivamente, chiedere anche l’invalidazione del contratto, si farebbe luogo ad una inammissibile duplicazione della tutela: l’interesse leso dal vizio che affligge il contratto verrebbe tutelato due volte, per equivalente attraverso l’azione di responsabilità e (usando l’impropria terminologia di questa dottrina) in forma specifica attraverso il successivo esperimento dell’azione di invalidità. Dallo scontato effetto preclusivo che l’esperimento dell’azione di responsabilità eserciterebbe sull’azione di invalidazione, discende, quindi, che la domanda di risarcimento implicherebbe necessariamente la convalida “tacita” (25) del contratto viziato.

Ciò impone di riformulare i termini nei quali questa dottrina va considerata. Il problema dell’esperibilità alternativa dell’azione di danni in presenza di un contratto invalido sta, a questo punto, nella compatibilità tra convalida e risarcimento e si riassume, perciò, nella questione: se chi ha convalidato un contratto possa tuttavia agire per il risarcimento del danno che la sua conclusione gli avrebbe tuttavia procurato.

Ora una tale convalida, che aggiunge all’utilità del contratto con essa confermato il ristoro delle disutilità che la sua conclusione aveva in un primo momento fatto registrare, dà vita ad una (sorta di) convalida onerosa, che fuoriesce dalla giustificazione sistematica propria di quest’istituto. La convalida, infatti, trova la sua ratio nella doppia valutazione che chi se ne avvale (26) alla fine giudica conveniente il contratto nonostante inizialmente lo abbia concluso per errore, sotto l’impulso di una minaccia, ecc. (27) e che chi la subisce non ha di che lamentarsi

(24) Ed infatti, dal fatto che il fondamento del rimedio risarcitorio sia indicato nell’art. 2043, segue che il danno dovrà commisurarsi alla lesione della libertà contrattuale che ne determina l’«ingiustizia» e, per tal via, all’interesse (positivo) che il contraente, esercitando tale liberta, aveva affidato al contratto “viziato” e che proprio a causa della violazione di tale libertà rimane deluso. Un tal risarcimento, dunque, non guarda all’interesse oggettivamente programmato nel contratto bensì al

“diverso” interesse soggettivamente perseguito dal contraente vittima della scorrettezza dell’altro (v. infra nel testo). Per questo la prospettiva di chi intende questo risarcimento come una semplice “correzione” del contratto invalido è sbagliata ed è indebitamente tratta dal paradigma dell’art. 1440 che ha, invece, tutt’altro senso e tutt’altra funzione (v. infra, par. succ.).

(25) In questo senso anche G. Patti – S. Patti, La responsabilità precontrattuale, cit., 223.

In generale sulla “convalida tacita” v. R. Tommasini – E. La Rosa, Dell’azione di annullamento - Artt. 1441-1446, in Il Codice civile commentato diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2009, 182 ss.

(26) In quanto “miglior giudice dei propri interessi”.

(27) Non sembra condivisibile al riguardo la considerazione di G. D’Amico, La responsabilità precontrattuale, in Trattato del contratto diretto da V. Roppo, V, I rimedi – 2, Milano, 2006, 1033, nt. 72, secondo cui «E’ ben vero che la convalida è di regola sintomo che il contraente valuta il contratto come per lui non pregiudizievole. Ma ciò può affermarsi solo come presunzione di fatto (corrispondente all’id quod plerumque accidit), non potendosi escludere in assoluto che la scelta di mantenere

(9)

www.judicium.it

9

proprio perché non patisce altro effetto che quello di rimanere vincolato allo scambio che aveva accettato (28).

Dunque, il porre nella disponibilità del contraente la cui volontà sia “viziata” l’alternativa tra l’esperimento dell’azione di invalidità del contratto (accompagnata – se del caso – dal risarcimento del c.d. interesse negativo ex art. 1338) e la promozione di un’azione aquiliana (accompagnata necessariamente dall’implicita convalida del contratto invalidabile) sembra contraddire un assetto dei rapporti generali tra rimedi demolitori e rimedio risarcitorio (= quello che dà l’alternativa tra invalidare il contratto o tenerlo fermo senza ulteriori pretese) che corrisponde ai principi dell’autonomia privata e, segnatamente, alla logica profonda secondo la quale per mezzo di essa è organizzata la circolazione della ricchezza.

Quest’ordine di riserve non può essere seriamente prevenuto ascrivendole a “condizionamenti culturali che possono legare il giurista a sistemazioni non più fruibili” o a un “dogmatismo [che]

vest(e) i panni della giurisprudenza degli interessi” (29).

A ciò ostano diverse buone ragioni, tanto di c.d. metodo che di merito.

Preliminari, ovviamente, sono le ragioni che attengono a quel che un tempo si definiva (un po’

impropriamente) il piano del metodo. Anche perché quest’azzeramento dei confini tra campo delle invalidità e campo della responsabilità muove proprio da una generale concezione del diritto che si propone di smobilitare l’architettura codicistica in pro di un controllo giudiziale diffuso volto a proteggere ogni contraente, che sia rimasto “vittima” della scorrettezza o della mala fede dell’altro, nel modo che più si conforma alle sue aspirazioni.

Ebbene, deve ritenersi del tutto scontato che il diritto è un sistema assolutamente artificiale deputato a selezionare i problemi del suo ambiente nel modo che di volta in volta gli appare più opportuno e ad apprestare loro le soluzioni che gli appaiono di volta in volta più congrue (30). E

in vita il contratto (convalidandolo) sia motivata da altre ragioni, e prescinda quindi dal danno economico subito, del quale non si vede perché dovrebbe essere precluso al contraente chiedere il risarcimento».

In realtà, la convalida non si fonda affatto su di una mera “presunzione” bensì sulla volontà, espressa o implicita, del contraente legittimato all’azione di annullamento, la quale integra niente di più e niente di meno che quel “libero e consapevole” consenso al contratto (o a quel “diverso” contratto che gli si manifesta in seguito alla scoperta dell’errore in cui era incappato o del dolo che aveva subito) che prima mancava. E’, allora, questo nuovo consenso al contratto (cfr. A.

Gentili, Le invalidità, in Trattato dei contratti diretto da P. Rescigno, I contratti in generale, II, cit., 1402), e non ad una mera

“presunzione di fatto”, che necessariamente incorpora un giudizio di convenienza (che ben può essere non soltanto economica come non soltanto economiche possono ben essere le ragioni che inducono alla conclusione di un negozio) rispetto al quale la pretesa di assumere tale contratto a ragione di responsabilità si dà come un venire contra factum proprium.

(28) Mentre così non sarebbe se lo scambio gli venisse modificato attraverso il risarcimento.

(29) Così R. Sacco in R. Sacco – G. De Nova, op. cit., 622.

(30) In proposito si rinvia alle analisi di N. Luhmann in Sociologia del diritto, Bari, 1977; Sistema giuridico e dogmatica giuridica, Bologna, 1978; La differenziazione del diritto, Bologna, 1990; e – sia consentito – a M. Barcellona, Diritto, sistema e senso.

Lineamenti di una teoria, Torino, 1996, 101 ss.

(10)

www.judicium.it

10

deve, perciò, ritenersi scontato che per l’ordinamento non si dava, e non si dà, alcuna necessità (ontologica o logica) che la circolazione della ricchezza sia fondata sulla volontà individuale e che tutti i problemi ai quali tale circolazione può dar luogo vengano risolti in forza di deduzioni operate a partire da un’idea di tale volontà come “esercizio del potere sovrano del contraente sulla sua sfera giuridica” e da una concezione sostantiva ed essenzialistica dei suoi vizi.

Ma deve ritenersi altrettanto scontato che decidendo di fondare la circolazione della ricchezza sulla volontà individuale, e cioè sull’accordo e sul libero scambio, il sistema giuridico ha scelto di ordinare le relazioni sociali secondo una razionalità essenzialmente procedurale (31): quella per cui la razionalità del comando normativo non sta nel suo contenuto bensì nella forma (consensuale) che esso impone alle relazioni individuali, sicché è razionale, e quindi “giusto”, tutto ciò e solo ciò che sia stato liberamente voluto, che sia rivestito della forma del reciproco consenso (32). Questa decisione, dunque, incorpora una logica funzionale, quella dell’economia di mercato che assume a proprio agente il libero scambio, la quale, però, si dà in una logica simbolica, quella del solus consensus obbligat (33). Questa positiva incorporazione della funzione (=

subordinazione della circolazione della ricchezza al libero scambio e al mercato) nel simbolo (=

l’autodeterminazione individuale come condizione necessaria di qualsiasi trasferimento di ricchezza con efficacia incrementativa della sfera dell’altro) implementa una logica che, in linea di massima, assegna al diritto soltanto controlli procedurali sulla formazione della volontà individuale e dell’accordo con l’altro, che tali controlli subordina all’iniziativa (e dunque alla volontà) della parte la cui volontà possa temersi “viziata” e che in esito a tali controlli fa cadere quel trasferimento di ricchezza che a sua giustificazione non possa addurre un consenso di entrambe le parti reso in conformità al procedimento che lo regola (34).

La logica funzionale dell’economia di mercato e la logica simbolica del principio di autodeterminazione individuale si dispongono così in un rapporto di coalescenza e di implicazione reciproca, che, però, non esclude affatto tensioni e turbolenze: non c’è mercato senza signoria della volontà ma non ogni corollario della signoria della volontà è sempre e necessariamente coerente con i corollari dell’economia di mercato. E poiché non vuole, né può, giungere a impiccare il mercato all’albero della volontà individuale, di fronte a queste tensioni ed a queste turbolenze l’ordinamento procede attraverso “compromessi” (tra volontà e dichiarazione / apparenza / affidamento, ecc.). Ma questi “compromessi” – ed è questo il punto – non azzerano affatto la logica simbolica dell’autodeterminazione individuale e le sue implicazioni normative ma si limitano, ordinariamente, a correggerle per quel tanto (poco o

(31) Basta rileggere le splendide pagine di M. Weber, Sociologia del diritto, in Economia e società, II, Milano, 1961.

(32) In proposito v. M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, cit., 278 e più diffusamente in Diritto, sistema e senso, cit., 79 ss.. e Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006, 122 ss.

(33) E’ d’obbligo rinviare in proposito a G. Gorla, Il potere della volontà nella promessa come negozio giuridico, in Riv. dir. comm., I, 1956, 24 ss.

(34) Si rinvia a M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, cit., 276 ss.

(11)

www.judicium.it

11

molto che sia) che è necessario a fluidificare il suo imprescindibile rapporto con l’economia degli scambi (35). A questi “compromessi” presiede, dunque, un criterio utilitaristico (= retto dalla ragione strumentale) che privilegia le ragioni economiche della circolazione giuridica della ricchezza e che, però, può anche implementare soluzioni che, al tempo stesso, soddisfano esigenze di giustizia materiale avanzate dall’errante, dall’ingannato, dal minacciato o dall’approfittato. Ma, proprio per la loro ratio innanzitutto strumentale, questi “compromessi”

non consentono affatto di mettere questa giustizia materiale al posto di quella giustizia procedurale che costituisce il codice simbolico della Modernità (36). L’interpretazione delle norme che attuano questi “compromessi” soggiace, dunque, ad un canone, ad un vincolo sistemico che le impedisce di spingersi oltre la ragione strumentale che vi presiede e di far luogo ad una loro dilatazione che giunga a risolverli in una generale manipolabilità dei rapporti contrattuali secondo una misura “etica” svincolata da qualsiasi razionalità precostituita ed intesa come questione singolare e individuale (37).

Ora, non solo la disciplina delle invalidità e l’alternativa tra l’avvalersene ed il convalidare il contratto senza ulteriori pretese si conformano – come prima si è visto – al paradigma moderno di circolazione della ricchezza e al relativo modello macroeconomico che in linea di principio rifiutano di convalidare qualsiasi trasferimento di risorse che non trovi giustificazione in un libero scambio e nel consenso di entrambe le parti (38). Ma, soprattutto, non sembra si diano ragioni reali o esigenze che non appaiano apertamente disattese dall’ordinamento le quali permettano di deviare da tale paradigma e dalla sua ratio sistemica.

In realtà, questa tesi, che sembra equiordinare in generale tutela demolitoria e tutela aquiliana e che, altrettanto in generale, sembra rimetterne la scelta alla discrezione della “vittima”, costituisce

(35) Il che nel lessico comune si designa come quella “sicurezza dei rapporti e dei traffici giuridici” di cui con qualche scetticismo parla R. Sacco in R. Sacco – G. De Nova, op. cit., 622.

(36) K. Polany, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, 1974; L. Dumont, Homo Aequalis, Genesi e trionfo dell’ideologia economica, Milano, 1984, passim; P. Barcellona, L’individualismo proprietario, Torino, 1987.

(37) Ovviamente, questo vincolo si dà finché l’interprete condivida con H.G. Gadamer (Verità e metodo, Milano, 1983, 385)

“il fatto che il senso che si dà a comprendere si concreta e si compie solo nell’interpretazione, ma che d’altra parte questa operazione interpretativa si mantiene sempre legata al senso del testo”.

Niente, di certo, impedisce che l’interprete cessi di comprendersi come interprete e decida di rompere il “senso del testo”, di sovvertirlo e di introdurre un senso generale che contraddice il “senso del testo”. Ma sarebbe auspicabile che faccia questo sapendo quel che fa, essendosi prefigurato tutto ciò che implica quel che ha deciso di fare, dichiarando apertamente quel che in realtà sta facendo e, soprattutto, chiarendosi e chiarendo l’orizzonte di senso verso il quale così si muove: ma su questo si rinvia a M. Barcellona, Diritto, sistema e senso, cit., 202 ss. e Critica del nichilismo giuridico, cit., 218 ss. ed alla bibliografia ivi citata.

(38) Ed invero l’alternativa tra avvalersi dell’invalidità e convalidare il contratto senza ulteriori pretese ha a che vedere anche con il principio di tipicità delle fonti delle obbligazioni e con il principio dell’ingiustificato arricchimento, che tale paradigma e tale modello contribuiscono (anche) a sancire.

(12)

www.judicium.it

12

la teorizzazione esorbitante di un trattamento equitativo che riferito alle fattispecie minori per le quale evidentemente è pensato (= i c.d. “vizi incidenti” sui cui v. infra) propone un tipo di problema in buona parte diverso e ben più circoscritto (= v. infra) e che, invece, quando sia riferito alle ipotesi canoniche e nominate dei vizi della volontà contrattuale (= i c.d. “vizi invalidanti”) si mostra teoricamente inappropriato ed anche equitativamente ingiustificato.

Ed invero, la ratio sistemica, la quale fa dire che la tutela dei vizi della volontà si esaurisce nell’alternativa secca tra l’avvalersi del rimedio demolitorio (39) ed il convalidare il contratto senza ulteriori pretese, corrisponde ad un trattamento delle parti coinvolte nel contratto viziato che tiene conto delle loro posizioni reciproche anche sul piano – per così dire – microeconomico degli “interessi in gioco”.

A ben vedere, infatti, le ragioni della “vittima”, che dovrebbero indurre a riconoscere che

“annullamento e risarcimento operano alternativamente o cumulativamente a favore dello stesso soggetto per … cancellare un’ingiustizia”, appaiono bilanciate, dal lato della controparte, dal principio che l’invalidabilità di un contratto non può legittimare comportamenti opportunistici del contraente a protezione del quale è disposta, ossia non può costituire il pretesto per lucrare un surplus nel nome di una iniziale disutilità (del contratto) che si è successivamente riconosciuta insussistente, né tanto meno per imporre all’altro contraente un doppio scambio, quello “non voluto” che (non facendone valere l’invalidità) si convalida e quello “creduto” che si pretende di veder compensato per equivalente.

La considerazione delle ipotesi di errore essenziale previste dall’art. 1429 si mostra in proposito illuminante.

Si consideri, innanzitutto, il caso di errore “sull’identità o sulla qualità dell’altro contraente”

previsto dal n. 3. La disutilità che legittima chi fosse caduto in un tale errore per la negligenza della controparte o a causa del suo inganno a richiedere l’annullamento del contratto sta nel fatto che se l’errante avesse saputo a chi stava realmente affidando la realizzazione dei suoi programmi non avrebbe concluso l’accordo. Ma è evidente che siffatta disutilità si mostra interamente riassorbita dalla sua convalida a misura che questa inconfutabilmente sancisce che, se anche inizialmente la loro conoscenza sarebbe stata ostativa della conclusione del contratto, tuttavia la reale identità o l’effettiva qualità dell’altro contraente risultano, seppur ex post, irrilevanti rispetto al soddisfacimento dell’interesse che muoveva alla conclusione del contratto.

Rispetto ad un tal tipo di errore, allora, la possibilità di esperire un’azione di risarcimento ex art.

2043, nonostante la conferma del contratto, trasforma tale vizio in un mero pretesto per lucrare opportunisticamente un surplus che economicamente si mostra del tutto ingiustificato (40).

Ma ad analoghe conclusioni si giunge anche considerando i casi di errore “sull’oggetto del contratto” o “sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità [essenziale]

(39) Con l’aggiunta del risarcimento – ove ne ricorrano le condizioni - del c.d. interesse negativo ex art. 1338.

(40) Non vale in contrario rilevare che in tal caso l’azione di risarcimento sarebbe rigettata per l’assenza del pregiudizio.

L’esempio, infatti, serve a mostrare le ragioni per quali è sensato che l’ordinamento, già in radice, abbia escluso il cumulo di convalida e risarcimento.

(13)

www.judicium.it

13

dello stesso” previsti, rispettivamente dai n. 1 e 2. La disutilità che legittima ad esperire l’azione di annullamento qui consiste nel fatto che l’errante (sempre per la negligenza della controparte o a causa del suo inganno) ha preso fiches per fichi, trovandosi così ad aver acquistato una partita di gettoni invece che una partita di frutta secca, o un festone per una grande festa, scoprendo poi di aver così prenotato una ghirlanda invece che la partecipazione al cenone di capodanno, o bergamotti per agrumi come gli altri commestibili, accorgendosi poi che si possono utilizzare solo per trarne un’essenza. Questi esempi mostrano, allora, che se si desse la possibilità di pretendere ex art. 2043 il risarcimento del c.d. interesse positivo perseguito attraverso il negozio che si era creduto di concludere e, al tempo stesso, di tener fermo il programma negoziale erroneamente convenuto, si darebbe all’errante di veder compensato per equivalente l’interesse contrattuale originariamente perseguito (attraverso il risarcimento delle aspettative deluse dalla violazione della sua libertà contrattuale) e di operare opportunisticamente per conseguire (attraverso la convalida implicita del contratto viziato) un sopravvenuto interesse ulteriore quale quello di trattenere la partita di fisches, ad es., per rivenderla ad un prezzo superiore o di pretendere la consegna della ghirlanda perché, ad es., avendo preferito organizzare il cenone a casa propria, gli viene buona per addobbarla o di confermare l’ordine dello stock di bergamotti perché, ad es., ha trovato conveniente estendere le sue attività alla produzione di essenze. Segnatamente, quel che questi esempi (magari di per loro un po’

improbabili) mostrano è che quest’altro tipo di errori implica necessariamente una divergenza tra l’interesse soggettivamente perseguito (dall’errante) (o “interesse reale”) e l’interesse oggettivamente programmato (nel contratto) (o “interesse regolato”) (41), la quale fa sì che il cumulo del rimedio risarcitorio ex art. 2043 e della conferma del negozio viziato, altrettanto necessariamente, si risolva nel paradosso di una ragione di invalidità che partorisce una doppia efficacia negoziale: quella che si esprime nella tutela per equivalente dell’interesse soggettivamente perseguito (= l’id quod interest corrispondente a quel che l’errante avrebbe voluto e che l’errore gli ha fatto mancare) e quella che si compie nella conferma dell’interesse oggettivamente programmato (= quel che il contratto convalidato gli dà sebbene inizialmente non lo avesse voluto). E dimostrano, inoltre, che l’esclusione di un tal cumulo ha il senso precipuo di impedire il comportamento opportunistico dell’errante (42) che, invece di esperire l’azione di annullamento ed accontentarsi del risarcimento del c.d. interesse negativo ex art. 1338 (che lo ristora integralmente di ogni pregiudizio conseguente al fallimento del contratto), incassa ex art. 2043 il pieno ristoro risarcitorio dell’interesse che l’errore ha lasciato deluso e lucra in più, del tutto

(41) V. in proposito P. Barcellona, Errore (dir. priv.), in Enc. del dir., Milano, 1966, 253 ss.

Ma ciò emerge chiaramente anche da R. Sacco in R: Sacco – G. De nova, op. cit., 573, ove si legge che iIl dolo è determinante quando induce la vittima a procurarsi un bene o un servizio di cui non ha bisogno (o a privarsi di un bene che gli è necessario)”.

(42) Del quale si è costretti a prendere atto quando si avverte che la scelta tra annullamento e responsabilità incontra il “limite per cui la vittima non può adoperare il contratto annullabile tenendolo in vita apposta per fabbricarsi in tal modo perdite che altrimenti non esisterebbero” (così R. Sacco in R. Sacco – G. De Nova, op. cit., 573).

(14)

www.judicium.it

14

ingiustificatamente, la soddisfazione di quel diverso interesse che può essere legato ad un altro oggetto del contratto (= un oggetto di altra identità), ad un’altra prestazione (= una prestazione il cui oggetto abbia una diversa identità) o ad un bene o servizio qualitativamente diversi (= quel bene o servizio che è identificato dalla qualità essenziale che lo connota e che è diversa da quella che identificava il bene o servizio per il quale l’errante aveva manifestato il proprio consenso).

Ma a conclusioni simili si giunge anche considerando le ipotesi di violenza.

Le possibili ragioni di chi assume di aver concluso un contratto solo a cagione delle minacce della controparte o di un terzo appaiono interamente coperte dall’annullamento del contratto e dal risarcimento del c.d. interesse negativo (ossia dei costi affrontati per il trasferimento del bene, dei frutti non percepiti fino alla sua restituzione e delle eventuali occasioni di guadagno che la sua indisponibilità gli avesse impedito di cogliere). In queste condizioni la decisione di tenere, invece, fermo il contratto non potrebbe avere altra spiegazione che la convenienza in ultima istanza dell’operazione subita, la quale, però, fa escludere qualsiasi pregiudizio residuo (43). Sicché un’azione aquiliana che, mantenendo fermo il contratto, deducesse la violazione della libertà negoziale di chi è stato minacciato non varrebbe a recuperare una sua ricchezza perduta o comunque irrecuperabile e si presterebbe, invece, solo a strategie opportunistiche.

Dunque, nel caso dell’errore (di cui l’errante non sia stato negligentemente avvertito), del dolo e della violenza l’alternativa secca tra l’annullamento del contratto accompagnato dal risarcimento del c.d. interesse negativo ex art. 1338 e la sua convalida senza ulteriori pretese si spiega, anche a livello microeconomico, con la considerazione che la conferma del contratto “viziato” e la possibilità, al contempo, di agire ex art. 2043 per conseguire per equivalente il ristoro dell’interesse deluso si presterebbero, inevitabilmente, a strategie opportunistiche atte ad operare ingiustificati trasferimenti di ricchezza (44).

D’altronde, una conferma testuale di questa direttiva dell’ordinamento si ricava anche dalla disciplina del c.d. quarto vizio della volontà (= le ipotesi di rescissione).

L’art. 1447, evidentemente, assume come casus legis quello che le obbligazioni assunte da chi versa in stato di pericolo si prospettino come corrispettivo di un fare della controparte inteso a scongiurarlo. Rientra, altresì, nella fattispecie presa in considerazione da tale norma la circostanza che questa prestazione di soccorso della controparte sia stata già eseguita. Il dispositivo della rescissione del contratto (1° comma) e dell’equo compenso (2° comma) si risolve, allora, in una semplice correzione dello scambio tra prestazione di soccorso e corrispettivo per essa convenuto, la quale rinviene la sua spiegazione nella considerazione che la prestazione è già stata effettuata e che, perciò, l’ordinario rimedio della caducazione del

(43) Salvo che chi abbia subito la minaccia deduca non che non avrebbe concluso il contratto bensì che non lo avrebbe concluso al corrispettivo che ha dovuto subire: qui, però, si verserebbe nel diverso caso della c.d. violenza incidentale su cui v. infra nel par. successivo.

(44) Non solo – come è evidente – dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista di quella stessa “giustizia contrattuale” nel nome della quale questa possibilità è invocata: un’ingiustizia non si “cancella” autorizzando un’ingiustizia di ritorno, e cioè autorizzando la vittima a locupletare sul torto subito.

(15)

www.judicium.it

15

contratto si mostrerebbe impraticabile e del tutto insensato. Ma si ritiene per lo più che il rimedio dell’art. 1447 possa riferirsi anche al caso diverso che il contratto che si sia accettato

“per la necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”

consista, invece, nella promessa di un bene contro un corrispettivo assolutamente diverso dall’opera svolta (ad es., ti salvo “gratuitamente” ma a condizione che tu mi venda magari al

“giusto prezzo” il De Chirico che possiedi e che non mi hai mai voluto vendere) (45). Il trattamento giuridico che dovrebbe seguire all’applicazione del dispositivo dell’art. 1447 a questa diversa ipotesi consisterebbe, allora, in ciò: che l’unico rimedio esperibile sia quello della caducazione del contratto concluso sull’impellenza della situazione di pericolo e che, tuttavia, alla controparte, che eventualmente si sia adoperata per scongiurarla, spetti comunque un

“equo compenso”, anche quando maliziosamente si sia approfittata di tale situazione per far proprio un accordo che diversamente non sarebbe riuscita a concludere. Ora, un tal trattamento di questa diversa ipotesi non sembra possa essere accantonato in pro di una correzione dello scambio ottenuta per la via indiretta di un’azione di risarcimento E perché questa ipotesi è assolutamente irriducibile a quella del casus legis ed alle ragioni (= l’essere la sperequazione interna al rapporto tra corrispettivo e prestazione di soccorso e, soprattutto, la già avvenuta effettuazione di tale prestazione) che in essa suffragano il rimedio correttivo. E perché, al contrario, non si rinviene in capo alla “vittima” alcun interesse (non opportunistico) alla conservazione di un contratto che le è stato estorto e rispetto al quale (la rescindibilità per) lo stato di pericolo si presenterebbe solo come un’occasione per un affare che diversamente non si sarebbe mai concluso: la protezione di un tale interesse, perciò, rischierebbe solo di assecondare una strategia opportunistica della “vittima” (che, scongiurato il pericolo, decide di approfittare, a sua volta, dell’affare correggendone il corrispettivo).

Ed ancor più esplicito è, al riguardo, il combinato disposto degli artt. 1451 e 1450, che, rispettivamente, escludono la convalidabilità del contratto concluso in stato di bisogno e rimettono esclusivamente all’approfittatore di evitare la rescissione offrendo di ricondurre lo scambio ad equità. Queste disposizioni espressamente impongono a chi abbia concluso un contratto in siffatta situazione di avvalersi esclusivamente del rimedio meramente demolitorio della rescissione. Espressamente gli precludono, infatti, il risultato (che, tutt’al contrario, riservano a chi di tale situazione si sia approfittato) di tener fermo il contratto (con la convalida

(45) A questo proposito v. per tutti B. Carpino, La rescissione del contratto. Art. 1447-1452, in Il Codice civile. Commentario diretto da P. Schlesinger, Milano, 2000, 25 ss., in critica all’opinione di G. Mirabelli, La rescissione del contratto, Napoli, 1952, 262, che limitava l’ambito di applicazione della norma alle ipotesi di “contratto di salvataggio”, ossia ai casi in cui la prestazione consistesse nel fare necessario a togliere dalla stato di pericolo.

E d’altronde, sembrerebbe difficile negare che abbia accesso in qualche modo al rimedio dell’art. 1447 un contratto che sia stato estorto in forza dello stato di pericolo in cui versava un contraente anche quando lo scambio con esso convenuto non concernesse la prestazione di fare che da tale pericolo lo ha salvato bensì (anche) un bene o un servizio diversi (ad es., ti darò il salvagente che ti salverà dall’annegamento se mi venderai la barca che è affondata). E ciò sebbene il requisito delle

“condizioni inique” appaia in un caso siffatto non proprio giustificato.

(16)

www.judicium.it

16

o lasciando inutilmente decorrere il termine per impugnarlo) conseguendo, al tempo stesso, il riequilibrio dello scambio (per via risarcitoria). Un’azione del contraente in stato di necessità o di bisogno, che, invece della caducazione del contratto o dopo la prescrizione dell’azione di rescissione, deducesse l’approfittamento del proprio stato di bisogno e la conseguente violazione della propria libertà contrattuale per esser risarcito ex art. 2043 del danno consistente nella differenza tra corrispettivo convenuto e prezzo di mercato del bene ceduto, troverebbe, perciò, nel dispositivo apprestato da queste disposizioni un ostacolo certamente insormontabile. Un ostacolo che, ancora una volta, non ha altra ragione che il proposito di impedire che lo stato di bisogno possa essere opportunisticamente trasformato in uno strumento di

“assistenza coattiva” (46) ancorché a carico di chi maliziosamente abbia provato ad approfittarne.

Dunque, la repressione della negligenza sull’ ”errore essenziale” della controparte e dello stesso inganno che la abbia indotta in un errore siffatto non tollera che il rimedio demolitorio possa essere surrogato, a discrezione della “vittima”, da un’azione aquiliana che, tenendo fermo il negozio “viziato”, miri al contemporaneo ristoro del “diverso” interesse in origine soggettivamente perseguito che il “vizio” ha lasciato deluso. Così come la repressione della minaccia e dell’approfittamento dell’altrui stato di pericolo o di bisogno non tollera che questi comportamenti negoziali scorretti possano trasformarsi per la loro “vittima” in pretesti per incassare i benefici di un contratto che le è stato estorto e provare, al tempo stesso, a perseguire per via aquiliana un surplus, un beneficio ulteriore a carico della controparte scorretta che apparirebbe ingiustificato (o in ragione dell’acquiescenza prestata al contratto o in ragione della funzione assistenziale cui la sua correzione giudiziale lo piegherebbe).

(46) La correzione del contratto (anche per via risarcitoria) equivale, infatti, ad imporre alla controparte l’acquisto di un bene, la vendita del quale risolve i problemi di chi versa in stato di bisogno: il che non si limita a privare l’approfittatore del maltolto ma si spinge fino a trasformarlo coattivamente in benefattore della vittima.

D’altronde, non si deve dimenticare che il Progetto ministeriale conteneva un’altra disposizione, l’art. 210, comma 6, la quale conferiva al giudice la facoltà di disporre un’equa modificazione delle condizioni del contratto, la quale fu soppressa dalla Commissione delle Assemblee Legislative proprio perché giudicata “inopportuna”.

In realtà, la correzione del contratto verrebbe incontro ad un apprezzabile interesse dell’approfittato quando il suo stato di bisogno non abbia carattere temporaneo: non si dimentichi, infatti, che la rescissione comporta la restituzione del corrispettivo ricevuto cui l’approfittato potrebbe non essere ancora in grado di provvedere. Sarebbe ingenuo, però, pensare che questo sia sfuggito al Legislatore, il quale, al contrario, escludendo un tale rimedio ha inteso piuttosto evitare che per questa via si formasse un circuito contrattuale retto coercitivamente da una logica assistenziale: tra il “bisognoso” e l’“approfittatore” si conclude una vendita solo perché il prezzo è “stracciato” e poi il “bisognoso” recupera l’intero valore vincolando l’“approfittatore” ad uno scambio che questi probabilmente non avrebbe concluso, e così obbligandolo ad un

“acquisto di soccorso” cui non era certo intenzionato.

Certo, dell’opportunità di questa scelta del Legislatore si può anche discutere, ma non si può negare che essa risponda ad una qualche razionalità.

(17)

www.judicium.it

17

In tutti questi casi l’annullamento o la rescissione del contratto ed il risarcimento del c.d.

interesse negativo ex art. 1338 offrono alla “vittima” una copertura assolutamente integrale, sicché la possibilità di rinunciarvi e di optare per una “convalida onerosa”, che al mantenimento del contratto accompagni l’esperibilità di un’azione aquiliana, non varrebbe ad integrare un deficit sistematico di tutela e si presterebbe, invece, a strategie opportunistiche (47).

Ma – come dovrebbe essere chiaro – le strategie opportunistiche che per lo più animerebbero l’opzione aquiliana della vittima (oltre che privare di non poche ragioni una soluzione – per così dire - iperpunitiva del contraente scorretto) attivano un principio generale del sistema giuridico che dà conto della esclusività del rimedio demolitorio coadiuvato dal risarcimento del c.d.

interesse negativo: Thus the fundamental function of contract law (and recognized as such at last since Hobbes’s day) is to deter people from behaving opportunistically toward their contracting parties (48).

E le strategie opportunistiche sono sistematicamente contrastate dall’ordinamento proprio per impedire fenomeni – che nell’analisi economica del diritto si dicono - di hold-up, ossia per impedire che un contraente si appropri di benefici che non gli spettano in pregiudizio della controparte (49).

(47) Di questo rischio si avvedono i sostenitori del “diritto di scelta” tra invalidità e responsabilità e, perciò, si affrettano a precisare (R. Sacco in R. Sacco – G. De Nova, op. cit., 573) che “chiunque sia vittima di un raggiro può chiedere il risarcimento del danno in aggiunta o in sostituzione dell’annullamento, con il solo limite per cui la vittima non può adoperare il contratto annullabile tenendolo in vita apposta per fabbricarsi in tal modo perdite che altrimenti non esisterebbero”.

Ovviamente, non si può escludere che si diano casi (v. infra nel testo) nei quali una simile opzione della “vittima” possa non corrispondere necessariamente ad una strategia opportunistica. Ma la funzione del sistema giuridico è proprio quella di risolvere i problemi del suo ambiente attraverso semplificazioni (= la struttura generale ed astratta dei suoi precetti) ed ogni semplificazione ha necessariamente un costo che consiste nel trattamento indifferenziato dei casi marginali che, a rigore, potrebbero non rientrare pienamente nella ragione che la sorregge. Rispetto alla questione qui considerata, peraltro, questo costo appare bassissimo perché la caducazione del contratto ed il risarcimento ex art. 1338 offrono alla “vittima” – come si è detto – una copertura pressoché integrale. Sicché un tal costo non sembra possa giustificare l’abbandono di questa semplificazione normativa (= l’alternativa secca tra invalidazione e convalida) in favore di una soluzione, quella che in via generale dà l’opzione tra invalidità e responsabilità, la quale affiderebbe il campo economicamente sensibile dei rimedi contro i “vizi” della volontà ad una sorta di giustizia del Cadì.

(48) Così R. Posner, Economic analysis of law, New York, 1998, 103 ss.

(49) O.E. Williamson, Le istituzioni economiche del capitalismo, Milano, 1987, 129 ss., spiega che “per opportunismo intendo il perseguire con astuzia finalità egoistiche” e, dopo aver precisato che “l’opportunismo non si limita alle sue forme più appariscenti quali mentire, rubare e imbrogliare”, conclude che “ l’insegnamento più importante per i fini dello studio dell’organizzazione economica è questo: se si possono escogitare adeguate salvaguardie ex ante, le transazioni, che sono esposte all’opportunismo, ex post ne beneficeranno”. Il principio dell’alternativa tra invalidazione e convalida si inscrive, per l’appunto, in queste “salvaguardie ex ante”.

Ma sulle ragioni specifiche della repressione delle condotte opportunistiche rispetto al rischio di ingiustitificati trasferimenti di ricchezza da una parte all’altra v., specificamente, B. Klein, Hold-Up problem, in P. Newman, Palgrave Dictionary of Economics and the Law, II, London, 241 ss.

Riferimenti

Documenti correlati

[r]

Questa distinzione tra violenza fisica (che esclude del tutto la volontà del soggetto e rende il contratto nullo) e violenza morale (che, invece, altera la volontà

Si narra che Muzio Scevola, mentre Roma era assediata da Porsenna, si infiltrò nel campo nemico e per sbaglio, invece di uccidere il re, tolse la vita al suo segretario..

questo, quando non lo si contrabbanda teorizzandolo come l'estrema liberazione dell'istinto e invocando in malo modo Freud, nonché come l'ultimo traguardo della conoscenza nella

heideggeriana della volontà di potenza per metterne in luce la coerente appartenenza dell’ultimo pensiero di Nietzsche al discorso ontologico; il secondo passaggio

Il concorso di responsabilità a fronte della distinzione tra regime contrattuale e..

The following data were collected from clinical records: (1) Socio-demographic char- acteristics (age, sex), vascular risk factors, and history of previous stroke; (2) length of

Per Gentile il divenire può essere spiegato solo se la dialettica prende le mosse da un essere che non è indeterminato, ma soggetto pensante, perché soltanto il pensiero