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1.1. Conservazione materiali lapidei 1. Introduzione

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1.

Introduzione

1.1. Conservazione materiali lapidei

Il deterioramento dei materiali lapidei è un fenomeno familiare a chiunque abbia mai osservato da vicino un edificio storico o un monumento. La maggior parte del patrimonio culturale mondiale è infatti costituita da strutture architettoniche in pietra soggette ad un lento ed inarrestabile deterioramento. È per questo necessario prevenire o quantomeno ridurre tale perdita prima che sia troppo tardi. Anche se alcuni litotipi sembrano non essere stati intaccati da secoli di esposizione agli agenti atmosferici molti altri mostrano minore resistenza ai processi degradativi che si sono gravemente accentuati per effetto dell’inquinamento atmosferico nell’ultimo secolo.

Per sviluppare metodi per la conservazione delle opere monumentali in materiale lapideo e gettare le basi di un approccio conservativo è necessario individuare e comprendere i meccanismi di deterioramento. È inoltre necessario sottolineare come questa indagine debba tener conto dell’ampia varietà di pietre e delle loro differenti caratteristiche chimico-fisiche e mineralogiche che determinano la loro risposta alle diverse condizioni macro- e micro-climatiche.

La degradazione dei materiali lapidei può assumere diverse forme: la pietra può essere lentamente erosa da agenti atmosferici, possono staccarsi scaglie di diverse dimensioni, la superficie può gonfiarsi e successivamente cedere mentre il più delle volte la pietra si sgretola. Ad occhio nudo può sembrare che a livello superficiale il materiale non sia deteriorato mentre in profondità si sono formate crepe e fratture che portano ad una perdita di coesione ed adesione. Negli anni sono stati studiati materiali, metodi e sistemi diversi per la conservazione di materiali lapidei: sono nati nuovi progetti di ricerca e lo scambio di informazioni è stato facilitato dalle numerose pubblicazioni sull’argomento [1]. Ad oggi l’approccio scientifico ha avuto una ricaduta pratica incoraggiante con la disponibilità di nuovi prodotti e metodologie di trattamento disponibili a livello commerciale che hanno portato a numerosi progressi nel campo della conservazione, anche se rimangono ancora molte lacune da colmare [2, 3].

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Nel passato restaurare un manufatto in pietra, che fosse una statua o un edificio, ha significato intervenire direttamente sulla pietra, applicando malte, sostituendo le parti danneggiate, applicando rivestimenti protettivi spesso poco efficaci quando non addirittura dannosi. Oggi la conservazione delle pietre è una sfida multidisciplinare che coinvolge soprattutto la scienza dei materiali e la chimica, non ultima quella macromolecolare.

In generale un buon progetto di restauro, oltre a garantire la conservazione delle caratteristiche originali del manufatto, specialmente nella forma e nell’aspetto, comprende diversi passaggi, anche se non tutti sempre necessari [2]:

 Anamnesi. Identificazione e localizzazione del manufatto, valutazione delle condizioni ambientali.

 Diagnosi. Studio approfondito dell’opera: caratteristiche, storia degli interventi precedenti, materiali costituenti, stato di degradazione, tipi di processi di alterazione e degradazione, valutazione del danno, urgenza delle misure di conservazione.

 Pre-consolidamento. Questo tipo di intervento serve ad aumentare la resistenza del manufatto e ad impedirne un ulteriore cedimento durante le fasi successive dell’intervento conservativo. Necessario soltanto nel caso in cui l’opera versi in condizioni critiche.

 Pulitura. Rimozione degli strati e dei prodotti di alterazione presenti sull’opera con metodi chimici, fisici e meccanici.

 Consolidamento. Trattamento consistente nell’applicazione di uno o più prodotti chimici specifici di natura organica, o inorganica. Questo, penetrando in profondità fino a raggiungere la parte non deteriorata del materiale, migliora le proprietà fisiche-meccaniche, soprattutto di adesione e coesione, della parte deteriorata o semplicemente alterata.

 Protezione superficiale. Una delle operazioni finali, solitamente effettuata applicando un prodotto idrofobo, che limita l’azione erosiva dell’acqua, degli agenti atmosferici ed inquinanti. Tale operazione così come il consolidamento possono essere effettuate in modo combinato o esclusivo; in particolare, un trattamento protettivo può essere applicato anche in assenza di un trattamento consolidante qualora l’opera sia ben conservata.

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 Manutenzione. Revisione periodica dello stato di conservazione per monitorare l’efficacia dei rivestimenti protettivi ed intervenire nel caso di ulteriori fonti di alterazione o deterioramento, o quando l’efficacia del trattamento precedente dovesse venir meno.

 Ricostruzione Necessaria soltanto nel particolare caso in cui l’opera manifesti evidenti cedimenti strutturali.

L’approccio chimico è spesso preminente nelle fasi di pulitura, di consolidamento e di protezione superficiale [2].

1.1.1. Sistemi consolidanti e protettivi

Consolidanti

Quando lo strato superficiale della pietra perde coesione, o adesione alla sottostante pietra inalterata, questo deve essere consolidato, non soltanto per ragioni estetiche ma anche per garantire la conservazione dell’intera struttura. Il consolidamento è un tipo di trattamento che ristabilisce la coesione internamente allo strato di pietra deteriorata e l’adesione di questo allo strato inalterato. La morfologia ed il grado di deterioramento di un manufatto in pietra variano al variare della profondità, dagli strati più profondi pressoché intatti alla superficie più o meno gravemente degradata che avrà subito alterazione chimica, perdita di materiale, incremento della porosità e della rugosità [4]. Per consolidante si intende un materiale in grado sia di penetrare per capillarità all’interno della struttura porosa della pietra danneggiata che di rafforzarne le caratteristiche fisiche ricostituendo una parte dei legami originali e recuperando, almeno parzialmente, le proprietà meccaniche perdute.

Il consolidamento è uno dei tipi di intervento più rischioso che vengono effettuati sui materiali lapidei, in quanto intrinsecamente invasivo e difficilmente ritrattabile. L’invasività è dovuta all’irreversibilità delle modifiche chimiche, fisiche e meccaniche apportate dal trattamento al substrato lapideo [5]. Le tecnologie di consolidamento attuali variano in base al tipo di danno subito dalla pietra ed al tipo di pietra considerata; ciò implica che vi sia un’ampia gamma di prodotti e metodi diversi. Non esistono prodotti commerciali universalmente adatti ad ogni situazione, la scelta andrebbe quindi fatta caso per caso, dipendentemente dal

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tipo di pietra, dal danno subito e dalle condizioni climatiche al contorno. I prodotti utilizzati per il consolidamento possono essere di natura organica o inorganica. Data la loro scarsa capacità penetrativa e la modesta capacità consolidante i prodotti inorganici come idrossido di calcio, idrossido di bario ed ossalato d’ammonio, vengono utilizzati soltanto nel consolidamento degli strati più superficiali del substrato [6, 7]. I consolidanti inorganici precipitando all’interno delle porosità della pietra vanno a ricostituire parte della struttura cristallina riducendo la porosità generata dalla corrosione ed abbattendo il contenuto dei sali solubili, in particolare solfato. Il risultato sarà un materiale più stabile e durevole con caratteristiche simili a quelle originarie della pietra, che rimarrà però fragile ed esposta all’azione erosiva dell’acqua. Questo molto spesso richiede un successivo stadio di protezione della superficie. A causa della limitata penetrazione i composti inorganici tendono però a formare delle croste dure e rigide soggette a distacco ed a favorire la comparsa di efflorescenze saline sulla superficie del materiale lapideo.

I composti organici, invece, hanno tempi di vita inferiori ed invecchiando le loro proprietà peggiorano gradualmente. Grazie alle loro ottime proprietà adesive ed all’elevata capacità penetrativa sono però degli ottimi consolidanti, in grado di aumentare la resistenza meccanica della pietra riducendone la fragilità. Si tratta principalmente di resine epossidiche e acriliche, applicabili sia come monomeri che come pre-polimeri [8], in grado di consolidare ed al contempo proteggere la superficie dell’opera impermeabilizzandola. Oltre alla scarsa resistenza alla degradazione ossidativa hanno anche altri difetti: irreversibilità del trattamento, variazioni del colore originale (ingiallimento), viscosità intrinseca elevata nel caso di polimeri preformati.

A queste due categorie si aggiungono i composti organici del silicio, alcuni con caratteristiche chimiche simili ai materiali organici (alchilalcossisilani) ed altri invece a quelli inorganici (alchilsilicati). Questa categoria di consolidanti è stata utilizzata nell’ultimo decennio sia su pietre di natura silicea che su materiali prevalentemente o esclusivamente calcarei [3]. Hanno delle proprietà che appartengono ad entrambe le due precedenti famiglie, essendo in grado di formare strutture macromolecolari all’interno delle porosità della pietra [9, 10].

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Tabella 1 Prodotti di consolidamento disponibili sul mercato [3].

Prodotti consolidanti Tipologia materiale lapideo Etilsilicati Arenaria, laterizio

Alchilalcossisilani Arenaria, laterizio

Miscele

etilisilicati/alchilalcossisilani Arenaria, marmo, calcare Alchilalcossisilani

polimerizzati (parzialmente o totalmente)

Arenaria, marmo, calcare non poroso

Resine acriliche o epossidiche (applicate come

monomeri o polimeri)

Marmo, calcare non poroso

Miscele resine

acriliche/siliconiche Arenaria, marmo, calcare Ca(OH)2 e Ba(OH)2

Calcare (solo se le crepe sono di dimensioni micrometriche)

L’effetto consolidante è dovuto alla formazione di silice amorfa ed idrata (gel di silice), eventualmente parzialmente alchilata, prodotto finale di una polimerizzazione che prevede delle reazioni di idrolisi e di condensazione. Queste reazioni avvengono all’interno dei pori della pietra una volta che il composto è stato assorbito [11]. Sistemi basati su alcossisilani ed alchilalcossisilani sono tra i più utilizzati nel consolidamento di opere esposte all’esterno [10].

L’efficacia del consolidamento dipende dalla scelta del prodotto consolidante e da come viene applicato. Un buon sistema consolidante per essere considerato tale deve soddisfare alcuni requisiti [12]:

 Buona adesione al substrato lapideo

 Mantenimento delle originali proprietà ottiche del substrato lapideo (colore, lucidezza e lucentezza)

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 Assenza e mancata produzione di sottoprodotti potenzialmente nocivi (VOC, sali, composti organici, ecc.)

 Accessibilità dei costi

Protettivi

L’applicazione di trattamenti in grado di rendere le superfici idrofobe è essenziale per proteggerle dall’azione erosiva e corrosiva dell’acqua derivante da precipitazioni metereologiche, condensazione capillare o assorbimento dal suolo. I sistemi protettivi possono essere divisi in totalmente impermeabili ed in idrorepellenti. Quest’ultimi, impermeabili soltanto all’acqua nella sua forma liquida e non al vapore acqueo, sono i prodotti di interesse per la protezione di materiali lapidei di interesse culturale [13]. Nel corso degli ultimi decenni sono stati utilizzati diversi composti organici come protettivi: cere sintetiche e naturali, resine acriliche ed a base di silossani, perfluoropolieteri, poliolefine fluorurate e fluoroelastomeri [14]. Un protettivo per la superficie di opere in materiale lapideo deve possedere le seguenti caratteristiche [15]:

 Alterazione di colore trascurabile

 Mantenimento della naturale lucentezza e lucidezza del substrato lapideo  Applicabilità tramite mezzo acquoso

 Idrorepellenza

 Mantenimento della permeabilità al vapore acqueo da parte del substrato lapideo

 Stabilità in diverse condizioni ambientali: cicli di temperatura, inquinanti, ossigeno ed esposizione a radiazione UV

 Assenza e mancata produzione di sottoprodotti potenzialmente nocivi (VOC, sali, composti organici, ecc.)

 Reversibilità (buona solubilità in solventi organici dopo invecchiamento che permetta una semplice rimozione durante le fasi di manutenzione) e ritrattabilità (possibilità di applicazioni successive).

 Sostenibilità economica

Si presuppone inoltre che un buon trattamento protettivo sia in grado di formare un film continuo dello spessore dell’ordine del micrometro o di pochi micrometri e che sia in grado di penetrare per alcuni millimetri nel substrato.

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Tabella 2 Principali classi di trattamenti protettivi disponibili sul mercato [3].

Prodotti protettivi Tipologia materiale lapideo Resine acriliche Marmo ed altri materiali non

porosi

Composti organici del silicio Tutti i materiali

Miscele di polimeri acrilici e siliconi

Tutti i materiali

Polimeri fluorurati Tutti i materiali

La distribuzione del prodotto idrofobico influisce sulle prestazioni finali del trattamento protettivo. In generale, si ritiene che maggiore è la quantità di prodotto protettivo assorbita, maggiori saranno l'efficacia e la durata del trattamento. Tuttavia le pietre con un alto grado di porosità (calcareniti, arenarie, ecc.) presentano criticità legate al possibile accumulo di polimero all’interno dei pori degli strati superficiali, che può determinare un significativo calo della permeabilità al vapore acqueo e una disomogeneità delle proprietà meccaniche, potenziali causi di ulteriore deterioramento per effetto di stress ambientali. Diversi problemi sorgono nell’applicazione di trattamenti protettivi su pietre. Uno di questi è la durata: tutti i materiali idrofobici subiscono ossidazione se esposti all'ossigeno ed alla luce, perdendo così il carattere idrofobico in un periodo troppo breve per consentire una efficace programmazione della manutenzione ordinaria [2].

È inoltre essenziale prendere in considerazione la reversibilità del trattamento. Questi rivestimenti superficiali devono infatti poter essere rinnovati a intervalli regolari. In questo caso la ricerca di nuovi materiali, con un tempo di vita maggiore è di fondamentale importanza in quanto tutti i materiali utilizzati fino ad ora hanno mostrato dei limiti.

L’efficacia di un trattamento protettivo viene valutata tramite una misura dell’idrorepellenza, effettuata tramite misure di angolo di contatto ed in base a misure di assorbimento capillare di acqua [16] che tuttavia non forniscono informazioni accurate sul grado di penetrazione del trattamento all’interno della pietra (che può essere valutato, seppure in maniera invasiva, tramite microscopia su sezioni sottili prelevate a diversa profondità [17]), fondamentale invece per

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valutarne la resistenza all’ossidazione e l’efficacia. Vengono inoltre effettuate analisi colorimetriche per valutare la variazione di indice cromatico e lucidezza [18].

1.1.2. Polimeri e nanocompositi

Negli ultimi decenni sono stati utilizzati, come rivestimenti protettivi per materiali da costruzione, molti composti organici di natura polimerica. Tra i più diffusi, soprattutto nel campo della protezione superficiale, e più in generale della conservazione dei materiali lapidei, vi sono sicuramente le resine acriliche, costituite da omo- e copolimeri di acrilati e metacrilati. Le loro proprietà dipendono da molti fattori: il tipo di monomeri e la composizione (se si tratta di copolimeri), la dimensione (peso molecolare) e la forma (lineare, ramificata) della catena macromolecolare, la formulazione (in soluzione di solvente organico o in dispersione acquosa). I polimeri acrilici sono tipicamente resine termoplastiche solubili in idrocarburi alogenati ed aromatici, acetone e metietilchetone; sono inoltre per lo più trasparenti ed incolori, con un indice di rifrazione minore di 1.49. Se di composizione opportuna hanno buone proprietà adesive e coesive, moderata idrorepellenza e possono mantenere una sufficiente solubilità anche dopo invecchiamento, consentendo quindi ripetute applicazioni (ritrattabilità del manufatto). Tutte queste proprietà ne fanno degli ottimi candidati per la conservazione di manufatti storico-artistici. La loro principale lacuna per quest’ultima applicazione è la stabilità foto-ossidativa inferiore a quella dei ben più resistenti polimeri siliconici o perfluorati, che porta a fenomeni di ingiallimento, infragilimento e perdita dell’idrorepellenza.

Le resine acriliche più utilizzate nel settore dei beni culturali sono una serie di omo- e copolimeri sviluppati dalla Röhm & Haas (ora una divisione di Dow Chemical Company), noti con il nome commerciale di Paraloid (Tabella 3), selezionati tra quelli sviluppati per un impiego commerciale non dedicato. Hanno tutti una temperatura di transizione vetrosa non molto superiore alla temperatura ambiente, per bilanciare le caratteristiche di filmogenicità con quelle di durezza superficiale (rivestimenti troppo soffici tendono infatti ad essere appiccicosi e quindi a favorire il deposito di particolato).

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Tabella 3 Composizione (mol %) delle principali resine Paraloid [18].

Metil acrilato (MA) Etil acrilato (EA) Metil metacrilato (MMA) Etil metacrilato (EMA) Butil metacrilato (BMA) B44 - ~28 70.3 - ~1 B48N - - 74.5 - 25.5 B66 - - 47.6 - 52.4 B72 32.0 - - 65.8 2.2 B82 - ~43 56.1 - ~1

In generale vengono applicati per spruzzatura di soluzioni diluite in solvente organico (spesso alcolico) e possono funzionare sia da protettivo che da consolidante. Uno dei primi esempi di trattamento estensivo effettuato con il Paraloid B72 è il restauro dell’architrave del Duomo di Siena nei primi anni ’60 (Figura 1) [19].

Figura 1 Architrave con Storie della Madonna collocato sopra il portale centrale della Cattedrale metropolitana di Santa Maria Assunta (Duomo di Siena) su cui è stato effettuato uno dei primi trattamenti protettivi con resine Paraloid.

Come si è detto, questi prodotti, pur essendo particolarmente efficaci e durevoli rispetto ad altri polimeri acrilici, sono comunque soggetti, per effetto dei processi radicalici indotti dall’invecchiamento fotoossidativo, a reazioni di scissione di catena e/o di reticolazione che limitano la reversibilità del trattamento. In secondo luogo la viscosità delle loro soluzioni ne può ridurre fortemente la capacità di

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penetrazione nelle porosità della pietra. Per ovviare a questo sono state proposte soluzioni alternative basate sull’impiego di miscele con polisilossani o su processi di polimerizzazione in situ [19, 20], che tuttavia non sono particolarmente adatti al trattamento di grandi superfici in quanto richiedono in genere l’attivazione tramite radiazioni ad alta energia. . L’efficienza protettiva tende inoltre a diminuire nel tempo in quanto gli stessi processi fotoossidativi, ancor più se in combinazione con avverse condizioni ambientali (sbalzi termici, umidità, presenza di inquinanti, ecc.), determinano la generazione di gruppi funzionali ossidati polari che rendono il rivestimento polimerico idrofilo e contribuiscono al suo infragilimento ed alla conseguente fratturazione, con perdita sostanziale dell’efficacia protettiva [21].

Oltre alle resine acriliche hanno trovato molto spazio come protettivi per beni culturali anche le resine polisilossaniche, a partire dal più comune polidimetilsilossano (PDMS, commercializzato dalla Rhodia come soluzione di etanolo col nome di Rhodorsil™ 224). Altri prodotti impiegati comunemente come consolidanti sono i derivati silanici, primi tra tutti il tetraetossisilano (TEOS) ed alchilalcossisilani quali ad esempio il metil-trimetossisilano (MTMOS); questi vengono applicati come monomeri che polimerizzano in situ, in seguito al cosiddetto processo sol-gel, generando una silice idrata (ed alchilata se si impiegano alchilalcossisilani). Grazie alla bassa viscosità i monomeri silanici sono in grado di penetrare in profondità prima di formare le strutture reticolate a base di legami Si-O-Si e mostrano un’elevata affinità con le pietre. Tuttavia il processo sol-gel porta ad una progressiva contrazione di volume di questi reticoli (sineresi), causata dalla perdita di massa durante le fasi di idrolisi (eliminazione di alcoli) e condensazione (eliminazione di acqua). Ciò rende da un lato il reticolo polimerico estremamente fragile, dall’altro può causare un danno diretto al materiale lapideo se l’effetto combinato della contrazione di volume e della forza adesiva della silice idrata è tale da indurre la frattura del substrato. Per far fronte a questi problemi spesso si usano delle miscele PDMS-alcossisilani [22, 23]. Un’altra importante classe di composti polimerici commerciali utilizzati nell’ambito della conservazione di materiali lapidei è costituita dai polimeri fluorurati. Sul territorio nazionale diversi prodotti di Solvay Solexis (ex Ausimont), per lo più copolimeri difluoroetilene/esafluoropropene in soluzione acetone/butil acetato, sono commercializzati da Syremont. Tutti i copolimeri fluorurati hanno un

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carattere altamente idrofobo, ma presentano in genere scarse proprietà adesive e, soprattutto, hanno costi estremamente elevati [2, 3].

Negli ultimi due decenni diversi gruppi di ricerca hanno cercato di combinare tra loro le migliori proprietà delle resine acriliche e dei composti fluorurati, ad esempio: per incrementare l’idrofobicità e la resistenza alle radiazioni UV sono state inserite delle unità perfluorurate in catena laterale di polimeri acrilici tramite copolimerizzazione di acrilati semifluorurati con comonomeri presenti nei copolimeri già utilizzati nel campo della protezione dei materiali lapidei [24, 25]. Tutti questi trattamenti sono stati impiegati negli anni come rivestimenti per materiali lapidei, senza però un'adeguata conoscenza delle proprietà del sistema pietra/polimero e senza una soddisfacente ottimizzazione delle strutture molecolari a scopo di protezione. Di conseguenza il risultato è stato spesso deludente, sia per insufficiente efficacia protettiva che per la limitata resistenza all’invecchiamento [2, 3]. Anche in questo caso, come per i consolidanti, non esiste un trattamento universale da poter applicare a tutti i litotipi: le caratteristiche petrofisiche e petrochimiche sono molto diverse da pietra a pietra, anche fra pietre dello stesso tipo ma di origine diversa.

Quasi tutti questi sistemi sono commercializzati in soluzione o dispersione in solventi organici, la cui tossicità e aggressività mal si concilia con l’impiego in ambienti poco controllabili (cantieri di restauro) e su grandi superfici. Si impone quindi lo sviluppo di sistemi polimerici dispersi in mezzo acquoso, già presenti in commercio ma ancor più lacunosi dal punto di vista prestazionale rispetto ai prodotti a solvente.

Nanocompositi

Per incrementare l’efficacia dei rivestimenti protettivi sono state proposte diverse soluzioni. Un interessante approccio al problema è l’implementazione di nanocompositi, ossia di rivestimenti ibridi costituiti genericamente da una matrice polimerica in cui siano disperse nanoparticelle di natura inorganica, in grado di modificare le proprietà chimico-fisiche del film polimerico stesso. Ad esempio utilizzando nanoparticelle di silice si possono ottenere dei film polimerici super-idrofobi [26], al contrario ricorrendo a nanoparticelle di biossido di titanio si ottengono rivestimenti super-idrofili ed autopulenti [27, 28]. Il biossido di titanio, specialmente nella sua forma cristallina di anatasio, permette inoltre di ottenere

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dei rivestimenti fotocatalitici in grado di degradare gli agenti inquinanti presenti nell’atmosfera che si depositano sullo strato protettivo. Sistemi nanoparticellari sono stati impiegati nel consolidamento di strati pittorici e di pietre calcaree da Baglioni e coll. che hanno ottenuto notevoli risultati utilizzando dispersioni colloidali di idrossidi metallici (in special modo idrossido di calcio) [29-32].

1.2. Sintesi di nanoparticelle polimeriche in emulsione

acquosa tramite processi di polimerizzazione radicalica

controllata

Dispersioni polimeriche in mezzo acquoso possono essere ottenute per nanodispersione di polimeri preformati (è il caso di resine epossidiche, poliestere, polisilossaniche) o tramite sintesi in fase eterogenea basata per lo più su processi di polimerizzazione radicalica in emulsione. Quest’ultima tecnica, tipicamente impiegata per la sintesi di dispersioni acquose colloidali (o lattici) di polimeri vinilici, è assai versatile in quanto consente non solo la sintesi di un’ampia gamma di strutture macromolecolari con un buon controllo sul peso molecolare, ma anche la preparazione di particelle polimeriche internamente nanostrutturate e di sistemi ibridi costituiti da particelle intrinsecamente nanocomposite.

Le ultime tecniche di polimerizzazione radicalica controllata/vivente (controlled/living radical polymerization, CRP) permettono di progettare un’ampia varietà di strutture macromolecolari prima inaccessibili con i convenzionali processi di polimerizzazione in emulsione. Le CRP si differenziano dai processi convenzionali poiché sono assenti o meglio fortemente ridotte le reazioni di terminazione e di trasferimento di catena (da qui l’aggettivo vivente), ciò consente un elevato controllo del peso molecolare e della struttura delle macromolecole. Le principali tecniche di CRP disponibili sono: polimerizzazione mediata da nitrossidi (Nitroxyde Mediated Polymerization, NMP), polimerizzazione radicalica per trasferimento atomico (Atom Transfer Radical Polymerization, ATRP) e polimerizzazione radicalica per trasferimento di catena reversibile di addizione-frammentazione (Reversible Addition-Fragmentation chain Transfer, RAFT). Tutte consentono di ottenere una vasta gamma di architetture macromolecolari (a blocchi, a stella, a pettine, innestati su superfici solide, ecc.) con pesi molecolari controllati ed indici di polidispersità molto bassi [33-36]. Più

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recentemente le CRP in dispersione acquosa hanno attirato molto interesse grazie ai numerosi vantaggi di processo, tra cui, ad esempio, la bassa viscosità del mezzo di reazione, la conversione elevata ed il risparmio energetico [37, 38].

1.2.1. Polimerizzazione controllata in emulsione

La polimerizzazione in emulsione è una polimerizzazione radicalica in fase eterogenea, in cui il monomero, o una miscela di monomeri, viene polimerizzato in soluzione acquosa in presenza di un tensioattivo a formare un prodotto con le caratteristiche di un lattice, cioè una dispersione acquosa colloidale di particelle polimeriche. Il lattice ottenuto ha un’alta concentrazione di particelle (N, dell'ordine 1017 - 1018 dm-3) con un diametro sub-micrometrico, dell'ordine generalmente di 100-1000 nm [39]. In condizioni opportune, i processi di polimerizzazione in emulsione consentono di preparare particelle polimeriche di dimensioni e composizione controllata, anche di tipo nanostrutturato (ad esempio particelle core-shell, con un guscio esterno di composizione chimica diversa da quella del nucleo) e con caratteristiche filmogene, ossia che consentono la formazione di film continui ed omogenei per semplice deposizione su un substrato ed evaporazione del veicolo acquoso a temperatura ambiente.

Secondo diverse teorie [40-45], di cui quella di Harkin [40] è la più semplificata, la polimerizzazione in emulsione avviene con un meccanismo schematizzabile in tre stadi:

Stadio 1) Il monomero in emulsione acquosa si trova prevalentemente

all’interno di microgocce e di micelle formate dal tensioattivo. La polimerizzazione ha inizio per reazione dei radicali, formati dall’iniziatore idrosolubile, con la piccola quantità di monomero (tipicamente idrofobo) solubilizzato in fase acquosa. I primi oligomeri si segregano dalla soluzione stabilizzati dal tensioattivo, oppure vengo catturati dalle micelle, dando luogo alla nucleazione di particelle polimeriche il cui numero e dimensione aumentano col procedere della polimerizzazione.

Stadio 2) Il numero delle particelle rimane costante mentre aumentano di

volume per assorbimento ed incorporazione del monomero nelle catene polimeriche crescenti.

Stadio 3) All’aumentare della conversione le gocce di monomero vengono

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polimeriche o sciolto in acqua. La polimerizzazione continua fino a conversione pressoché totale.

Il risultato è un lattice, di cui la successiva trasformazione, dopo la stesura, a film continuo avviene attraverso una serie di passaggi che coinvolgono l’evaporazione dell’acqua e l’impaccamento delle particelle polimeriche che si deformano e coalescono. Si ha infine la formazione di uno strato coerente e coeso di polimero per diffusione delle macromolecole tra particelle vicine (Figura 2) [46-48].

Figura 2 Rappresentazione del processo di formazione del film a partire da una dispersione acquosa di particelle polimeriche, con un contenuto in solidi tipicamente compreso tra il 20 ed il 50%. Il processo avviene in tre stadi: si ha l’evaporazione dell’acqua ed il conseguente avvicinamento delle particelle (Stadio 1) che si deformano ed incominciano a coalescere (Stadio 2) fino ad arrivare alla formazione di un film coerente e coeso (Stadio 3).

Diversi parametri possono influire sulle proprietà finali del film polimerico, sia in senso positivo che negativo. Il tensioattivo, composto anfifilico a basso peso molecolare, segregandosi dal polimero può rimanere disperso nel bulk, influendo negativamente sulla formazione del film, o migrare sulla superficie, alterandone significativamente le proprietà interfacciali quali bagnabilità e adesione. In particolare con l’avanzare dell’invecchiamento il tensioattivo migrato in superficie renderà il film opaco e appiccicoso, lasciando cavità e rugosità superficiali in seguito a dilavamento [49].

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Polimerizzazione controllata in emulsione

In una polimerizzazione in emulsione i radicali rimangono per lo più segregati nei nanocompartimenti costituiti dalle singole particelle in accrescimento, rendendo infrequente la terminazione irreversibile per reazione bimolecolare e portando così alla formazione di polimeri con pesi molecolari elevati in tempi di polimerizzazione brevi. Questo effetto è una premessa di per sé vantaggiosa per una CRP, che in effetti è stata implementata con successo per i processi in emulsione, in particolare sfruttando la tecnica RAFT [50]. La possibilità di sintetizzare copolimeri anfifilici con precise architetture e funzionalità appropriate, quali ad esempio copolimeri a blocchi anfifilici, è stata sfruttata anche per sostituire i tensioattivi a basso peso molecolare, la cui presenza è in genere pregiudizievole per le prestazioni del rivestimento polimerico.

Figura 3 Meccanismo polimerizzazione RAFT [51].

La tecnica RAFT permette di utilizzare la quasi totalità dei monomeri polimerizzabili per via radicalica, inclusi monomeri (e solventi) con funzionalità reattive non protette (gruppi idrossilici e carbossilici, solfonici, amminici, ammidici, ecc.) in diverse condizioni di reazione (bulk, soluzione acquosa o

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organica, emulsione, miniemulsione, sospensione). Rizzardo e coll. ne hanno proposto il meccanismo riportato in Figura 3 [51-53].

Il processo RAFT ha avvio in modo convenzionale, ossia dalla decomposizione di un iniziatore radicalico che andrà ad attivare una molecola di monomero, generando prima un radicale iniziatore di catena e poi, in seguito a successivi eventi di propagazione, un macroradicale Pn•.

Il macroradicale formatosi si addiziona (1) al trasferitore di catena (Chain Transfer Agent, CTA), un derivato tiocarbonilico che solitamente è un ditiocarbonato [53] o un tritiocarbonato [54] formando una catena polimerica dormiente (2), a volte indicata come addotto RAFT radicale [55, 56]. Alternativamente il CTA può essere costituito da un ditiocarbammato [57, 58], uno xantato [59], un fosforilditioformiato o un tiofosforilditioformiato [60].

L’addotto può frammentarsi in due modi, tornando alle specie di partenza (1) oppure generando, per scissione omolitica del legame carbonio-zolfo, un radicale primario R• ed un agente macro-RAFT polimerico (3). Quest’ultimo è un passaggio reversibile nel quale l’intermedio può perdere il gruppo R o il radicale polimerico Pn•. Se R• è un buon gruppo uscente questo potrà attaccare un monomero dando inizio ad una nuova catena polimerica attiva crescente (propagante) che dopo pochi eventi di propagazione agirà a sua volta come il radicale primario R• attaccando il tiocarbonile RAFT-attivo e rigenerando un macroradicale “dormiente” (4). La parte più importante in una polimerizzazione RAFT è l’equilibrio (d): da un processo di interscambio rapido, i macro-radicali presenti (e quindi le opportunità di crescita della catena polimerica) sono condivisi tra tutte le specie che non hanno ancora subito terminazione. La sequenza di addizione e frammentazione, entrambe reversibili, in cui il gruppo ditioestere è il trasferitore tra le catene dormienti ed attive, mantiene vivente il carattere della polimerizzazione. Idealmente in un processo RAFT i macro-radicali sono condivisi equamente e le fasi di pre-equilibrio (b) e di re-inizio (c) si completano durante i primi secondi della reazione di polimerizzazione; in questo modo le catene iniziano in modo quasi simultaneo e si accrescono alla stessa velocità, si riescono ad ottenere indici di polidispersità molto bassi ed un buon controllo del peso molecolare. Si ritiene che la soppressione delle reazioni di terminazione bi-radicalica siano dovute all’ingombro sterico dell'addotto RAFT radicale (il dibattito sull’effettiva natura vivente della RAFT è ancora oggetto di studio e discussione).

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17

La tecnica risulta particolarmente efficace se i componenti del sistema (monomero, tipo di agente RAFT, iniziatore radicalico e relativi rapporti di concentrazione) sono scelti in modo tale da mantenere bassa la concentrazione istantanea di radicali rispetto quella dell’agente RAFT; in tal modo la maggior parte delle catene viventi presenti nel sistema deriveranno dalla frammentazione nella fase di re-inizio dell’addotto RAFT.

Figura 4 Meccanismo del trasferimento di catena per addizione/frammentazione reversibile.

La concentrazione delle varie specie coinvolte nella reazione influenza la velocità di reazione, il peso molecolare del prodotto e la polidispersità. Una maggiore concentrazione di trasferitore di catena diminuisce la velocità di reazione, origina un prodotto di minor peso molecolare ma diminuisce la polidispersità. Aumentando invece la concentrazione dell'iniziatore si ha una significativa perdita del controllo della reazione, con aumento di peso molecolare medio e polidispersità [56, 61].

La scelta di un opportuno agente RAFT può essere determinante per un buon controllo del processo [62, 63]. In particolare i sostituenti Z e R (Figura 4) vengono scelti in base alle caratteristiche dei monomeri ed alle condizioni di reazione, soprattutto la scelta di R è molto importante, deve infatti re-iniziare in maniera efficace la polimerizzazione ed essere anche un buon gruppo uscente.

1.2.2. Polimerizzazione in emulsione RAFT ab initio

I primi esperimenti riguardanti la polimerizzazione RAFT in emulsione in sistemi ab initio, ossia in cui lo stesso mediatore RAFT svolgesse la funzione di tensioattivo, agente trasferitore e precursore della catena polimerica, hanno evidenziato problemi di scarsa stabilità colloidale e scarso controllo del peso

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molecolare, probabilmente legati alla complessità di un processo nel quale sono coinvolti numerosi equilibri sia di reazione che di trasferimento di fase [64]. I primi risultati positivi, riportati da Hawkett e coll. [65-67], si basavano sull’utilizzo di CTA costituiti da copolimeri anfifilici diblocco a basso peso molecolare, in grado di auto-assemblarsi in strutture micellari. Più recentemente è stato dimostrato che, per garantire una adeguata stabilità colloidale, questi copolimeri anfifilici devono avere un blocco oligomerico idrofilo piuttosto corto (grado di polimerizzazione DPn < 500) [68], un adeguato bilancio idrofilo-lipofilo (Hydrophilic-Lipophilic Balance, HLB) ed una concentrazione critica di micellizzazione (Critical Micelle Concentration, CMC) sufficientemente bassa [69]. Rieger e coll. hanno identificato nei derivati del tritriocarbonato i trasferitori di catena più adeguati per la polimerizzazione ab initio dei monomeri più comuni (stirene, acrilati ed acrilammidi) grazie anche alla loro maggior resistenza all’idrolisi rispetto ai ditioesteri [55, 61]. In particolare sono stati studiati CTA in cui il gruppo R è costituito da un oligomero idrofilo dell’acido acrilico (PAA) [68] o da una catena polietossilata (PEO) [70, 71].

1.3. Stabilizzanti anitossidanti

Uno dei principali problemi riscontrati dall’utilizzo di agenti protettivi di natura polimerica è la degradazione fotoossidativa. L’ossidazione di un polimero ha inizio con la formazione di specie radicaliche e procede tramite la formazione di specie perossidiche. Il meccanismo generale, come schematizzato in Figura 5, prevede un inizio con la rottura omolitica di un legame polimerico tramite una reazione Norrish di Tipo I o per estrazione di un atomo di idrogeno da parte di un radicale esterno (X•), in entrambi i casi si formerà un macroradicale (R•). Quest’ultimo reagendo con l’ossigeno atmosferico forma radicali perossidici (ROO•) che possono attaccare di nuovo la catena polimerica generando nuovi radicali [72].

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Inoltre l’idroperossido risultante può subire decomposizione omolitica con la generazione di due specie radicaliche (un macroradicale ossido, RO•, ed un radicale idrossido, HO•, entrambi sono precursori di ulteriori specie variamente ossidate e partecipano a reazioni di scissione di catena e/o reticolazione) che determinano l’amplificazione a cascata della concentrazione di radicali.

Per inibire o rallentare la degradazione si utilizzano additivi antiossidanti, i quali possono essere suddivisi in due principali categorie:

1) Antiossidanti primari - Interferiscono con la propagazione e quindi la formazione di altre specie radicaliche e idroperossidiche. Possono donare atomi di idrogeno, generando radicali molto più stabili incapaci di propagare (fenoli ingombrati e ammine aromatiche secondarie), oppure possono catturare i radicali terminandone la propagazione (scavenger);

Figura 6 Meccanismo generale di azione di antiossidanti primari e secondari.

2) Antiossidanti secondari - Decompongono i gruppi idroperossido prevenendo l’amplificazione a cascata del numero di radicali (composti organofosforici e derivati sulfurei).

Solitamente per rivestimenti polimerici da esterno viene utilizzata una combinazione di additivi composta da assorbitori di radiazione UV (UV Absorber, UVA) e da scavenger di radicali, quali le ammine ingombrate note come HALS (Hindered Amine Light Stabilizers). Il meccanismo d’azione delle HALS è descritto dal ciclo di Denisov (Figura 7): in condizioni fotoossidative si ha l’iniziale conversione dell’ammina nella forma radicalica (N-O•) che, attaccando i radicali

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alchilici, genera un nitrossile (N-O-R), in grado a sua volta di reagire molto velocemente con i radicali perossidici presenti. In tal modo si rigenera il radicale nitrossido e si formano composti inerti (per lo più alcoli ed aldeidi) [72].

Figura 7 Meccanismo semplificato del ciclo di Denisov, dove viene mostrata l’azione stabilizzante di una HALS piperidinica (dove X è tipicamente H o una catena alchilica) [72].

Il principale difetto di questi additivi, dovuto al loro basso peso molecolare, è la tendenza a migrare lentamente sulla superficie del film polimerico, con conseguente riduzione dell’efficacia fotostabilizzante. Per inibirne la migrazione sono stati sviluppati derivati HALS a più alto peso molecolare. Una via alternativa può essere l’incorporazione di gruppi tipo HALS all’interno della stessa struttura macromolecolare, come dimostrato da studi che ne hanno dimostrato la superiorità in efficienza rispetto ai comuni additivi a basso peso molecolare [73-75]. Le HALS reattive più utilizzate sono monomeri acrilici e metacrilici, derivati del piperidinolo [76], che portano alla formazione di copolimeri con gruppi HALS in catena laterale.

1.4.

La misura del potenziale ζ nella caratterizzazione delle

superfici [77]

Tipicamente la caratterizzazione dell’efficacia di nuovi protettivi in fase di sviluppo destinati al settore dei beni culturali comprende misure di idrorepellenza (angolo di contatto statico), di assorbimento capillare, di permeabilità al vapor d’acqua e test colorimetrici. I test vengono effettuati prima e dopo l’applicazione su pietra del trattamento ed a volte anche a seguito di processi di invecchiamento accelerato, in accordo con le norme UNI derivanti dalle precedenti raccomandazioni NorMaL [14, 24, 78, 79]. Informazioni più dettagliate sulla natura chimica (e loro modifica) e sui gruppi funzionali superficiali o sulla

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morfologia delle superfici delle pietre e dei film si ottengono tipicamente da misure dell’angolo di contatto dinamico, spettroscopia infrarossa in riflettanza (Attenuated Total Reflectance, ATR) e microscopia (SEM, TEM, AFM, ecc.). Queste caratterizzazioni tuttavia forniscono solo indicazioni indirette sull’entità e sulla natura delle interazioni solido-liquido che sono alla base dei processi di assorbimento capillare ed in generale di interazione dell’acqua e delle sue soluzioni con substrati solidi compatti o porosi.

Una tecnica meno diffusa ma di notevole interesse, in grado di fornire informazioni complementari a quelle già citate, si basa sulla misura del potenziale zeta (ζ) di superfici solide sfruttando i fenomeni elettrocinetici (potenziale e corrente di flusso) che si possono generare quando una superficie solida è posta a contatto con una soluzione salina [80, 81].

La misura del potenziale zeta è per lo più associata allo studio di dispersioni colloidali (tipicamente stabilizzate per repulsione elettrostatica) [82, 83], per il quale sono disponibili più tecniche di misura basate su diversi fenomeni elettrocinetici; la misura del potenziale zeta di superfici solide è invece assai più complessa, sia dal punto di vista teorico che per la limitatezza delle tecniche strumentali, e la relativa letteratura scientifica è a tutt’oggi piuttosto esigua. Questo è sorprendente, data l’arcaicità dei primi studi riguardanti il potenziale zeta (H. v. Helmholtz getta le basi della teoria del doppio strato elettronico già nel 1879). Solo negli ultimi due decenni sono stati posti in commercio strumenti dedicati per la misura del potenziale zeta di superfici solide macroscopiche.

Figura 8 Modello di Stern del doppio strato elettrico diffuso all'interfaccia solido-liquido (ψs = potenziale di superficie, ζ = potenziale zeta).

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22

Il potenziale zeta descrive il comportamento delle cariche all’interfaccia solido-liquido, schematizzabile in base al modello del doppio strato elettrico diffuso (Electric Double-Layer, EDL), mostrato in Figura 8.

A contatto con una soluzione acquosa una superficie solida assume una carica superficiale, generando una distribuzione di carica all’interfaccia diversa da quella nel liquido. La carica superficiale dà luogo ad un potenziale superficiale, che decade con l'aumentare della distanza dal solido. Nel modello EDL di Stern la distribuzione di carica è divisa in due strati separati da un piano di taglio: uno strato è stazionario ed uno mobile, formato dai controioni che compensano la carica superficiale. Il potenziale zeta è definito come la caduta di potenziale in corrispondenza del piano di taglio, cioè il potenziale subito al di fuori dello strato stazionario. Questa zona è sperimentalmente accessibile tramite misure di un effetto elettrocinetico. I fenomeni elettrocinetici sono il risultato dell’accoppiamento di una forza elettrica con una meccanica e si verificano all’interfaccia tra due fasi diverse (gas-liquido, liquido-liquido, liquido-solido) le quali devono necessariamente muoversi l’una rispetto l’altra. Dipendono dalla dimensione e dal tipo di materiale e sono: elettrosmosi, elettroforesi, corrente e potenziale di flusso, potenziale di sedimentazione, diffusioforesi, corrente di vibrazione colloidale ed ampiezza sonica elettrica [84, 85].

In particolare i fenomeni di corrente e potenziale di flusso (o streaming) permettono lo studio del potenziale zeta di superfici solide macroscopiche. Il flusso tangenziale di una soluzione acquosa su una superficie solida genera una risposta elettrica che, dipendentemente dal circuito di misura, può essere rilevata come corrente (corrente di flusso) se il circuito è a bassa impedenza o come potenziale (potenziale di flusso) utilizzando invece una resistenza interna più alta. Quando una soluzione acquosa viene fatta scorrere all’interno di un canale di dimensioni capillari situato tra due superfici solide, le forze di taglio spingono i controioni dello strato diffuso adiacente alla superficie carica (Figura 9a) nella direzione di flusso (Figura 9b) creando una separazione di carica tra l’ingresso e l’uscita del canale. Si genera così una forza elettrica che, agendo in senso opposto all’effetto indotto dal passaggio del liquido, genera una corrente di carica inversa (back-current) che compensa parzialmente la corrente ionica nella direzione di flusso (Figura 9c). La separazione di carica netta determina una differenza di potenziale tra gli elettrodi posti ai due estremi del canale di flusso,

(23)

23

corrispondente al potenziale di flusso (Ustr). Usando un circuito di misura con una resistenza interna più bassa si misura invece la corrente di flusso (Istr), generata dal movimento dei controioni in direzione del flusso (Figura 9d). Entrambi i fenomeni sono strettamente dipendenti dalla portata del flusso, dalla forza ionica e dalle dimensioni e geometria del canale di flusso.

Figura 9 Rappresentazione schematica della generazione della corrente e del potenziale di flusso. (a) equilibrio di carica all’interfaccia solido-liquido. (b) Il flusso di soluzione provoca il movimento di controioni. (c) Potenziale di flusso misurato all’equilibrio tra corrente di flusso e back-current. (d) Corrente di flusso misurata con un circuito a bassa impedenza.

L’approccio di misura più appropriato associa al potenziale zeta valori di potenziale e corrente di streaming misurati al variare della portata e quindi della differenza di pressione tra ingresso ed uscita del canale di flusso (Δp). La relazione tra potenziale zeta e la corrente di flusso è stata per la prima volta descritta da Helmholtz e Smoluchowski [86]:

ζ =dIstr dΔp⋅ η ε ⋅ ε0 ⋅L A Equazione (1)

dove L ed A sono rispettivamente la lunghezza e la superficie (A = W · H) del canale di flusso; η la viscosità, ε e ε0 la costante dielettrica nel mezzo e nel vuoto rispettivamente. Dalla prima legge di Ohm l’equazione (1) può essere riscritta per il potenziale di flusso:

(24)

24 ζ =dUstr dΔp ⋅ η ε ⋅ ε0 ⋅ L A⋅ 1 R Equazione (2)

L’applicazione dell’equazione di Helmholtz-Smoluchowski richiede che la geometria della cella sia nota, quindi che si conosca la costante di cella L/A. La lunghezza L e la larghezza W della cella sono determinate dalle dimensioni del provino (superficie solida da analizzare) mentre l’altezza del canale di flusso si calcola conoscendo la portata e la variazione di pressione associata. Utilizzando la definizione di conducibilità elettrica per cui:

κ = L A⋅ 1 R Equazione (3) Si otterrà la semplificazione: ζ =dUstr dΔp ⋅ η ε ⋅ ε0⋅ 𝜅 Equazione (4) ζ =dIstr dΔp⋅ η ε ⋅ ε0 ⋅ κ ⋅ R Equazione (5)

In questo modo è possibile ottenere il valore di potenziale zeta anche per campioni con geometria irregolare (campioni porosi, fibrosi, granulari, etc.). Dato che la conducibilità all’interno del canale non è misurabile direttamente viene misurata la conducibilità della soluzione, contenente un elettrolita. Se però il solido contribuisce alla conducibilità all’interno del canale di misura, cioè se si tratta di un campione conduttivo, si ha un valore di potenziale zeta apparente più basso. Questo è dovuto al fatto che anche se la conducibilità all’interno del canale aumenta (si sommano il contributo del campione e dell’elettrolita) questo aumento viene correlato al solo contributo dell’elettrolita. È stata allora proposta una correzione che determina la costante di cella L/A tramite misure della conducibilità dell’elettrolita 𝜅ℎ𝑖𝑔ℎ e di resistenza all’interno del canale di streaming 𝑅ℎ𝑖𝑔ℎ utilizzando una soluzione con un’elevata forza ionica [87].

ζ =dUstr dΔp ⋅

η ε ⋅ ε0

1

R⋅ κhigh⋅ Rhigh Equazione (6) Questo approccio permette di trascurare la conducibilità intrinseca del campione se la conducibilità della soluzione è molto alta.

Nel campo dei beni culturali, studi sul potenziale zeta basati su questi sistemi di misura possono dare informazioni riguardo al grado di porosità dei materiali lapidei e dunque sul deterioramento subito dalle pietre, confrontando i risultati con i test effettuati su materiali provenienti da cava. Le analisi di potenziale zeta

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25

possono essere utilizzate anche per determinare come si modifica la superficie dopo l’applicazione di prodotti consolidanti o protettivi. In particolare sarà utile conoscere la natura dei gruppi superficiali esposti dalle pietre e dai film polimerici per poter comprendere la natura delle interazioni tra i due materiali e come questa può variare nel tempo. Questo tipo di informazioni può inoltre essere di ausilio nella messa a punto di prodotti colloidali le cui particelle siano in grado di penetrare in profondità nel reticolo poroso del substrato lapideo, senza dar luogo a fenomeni precoci di aggregazione e precipitazione indotti dalle interazioni elettrostatiche con le superfici dei pori stessi.

1.5. Scopo della tesi

Questo lavoro di tesi si inserisce nell’ambito del progetto europeo Nanocathedral del programma Horizon 2020. Obiettivo del progetto è lo sviluppo e la valutazione dell’efficacia di nuovi materiali nanostrutturati per applicazioni come consolidanti e/o protettivi di materiali lapidei di diversa natura, presenti in edifici architettonici localizzati in zone d’Europa caratterizzate da diverse condizioni macroclimatiche. I materiali lapidei subiscono processi di invecchiamento molto diversi fra loro, in base alle diverse caratteristiche chimiche, fisiche e meccaniche delle pietre ma anche alle condizioni climatiche del contorno. Non va trascurato l’impatto che hanno il contesto urbano e le attività antropiche sull’opera, parametri variabili a seconda dello sviluppo storico, come ad esempio l’industrializzazione e la successiva de-industrializzazione dei centri urbani. Per rappresentare diversi contesti ambientali e diversi tipi di pietra sono state selezionate, all’interno di questo progetto, cinque diverse cattedrali medievali: la cattedrale di S. Maria di Vitoria-Gasteiz (Spagna), il duomo di S. Maria Assunta di Pisa (Italia), la cattedrale di S. Bavone di Gent (Belgio), la cattedrale di S. Pietro a Colonia (Germania), la cattedrale di S. Stefano a Vienna (Austria) e l’Opera House di Oslo (Norvegia), l’unico edificio contemporaneo (Figura 10).

Questo lavoro di tesi si inserisce in quella parte del progetto volta allo sviluppo di protettivi organici per i materiali lapidei; tra questi ultimi sono stati selezionati quelli provenienti dal duomo di Pisa (marmo) e dalla cattedrale di Vienna (arenaria). I nuovi protettivi progettati in questo lavoro sono dispersioni acquose di polimeri (met)acrilici caratterizzati da ridotta dimensione particellare, buona stabilità colloidale anche in assenza di tensioattivi a basso peso molecolare, e

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26

stabilizzate alla degradazione fotoossidativa. Una tecnica vantaggiosa per la preparazione di questi prodotti è stata individuata nella polimerizzazione in emulsione di tipo RAFT ab initio. Questa tecnica, come descritto in precedenza, prevede l’utilizzo di agenti di trasferimento macromolecolari anfifilici (macro-RAFT). Il risultato di questa tecnica di polimerizzazione è una dispersione colloidalmente stabile di particelle costituite sostanzialmente da copolimeri a blocchi aggregati a formare strutture tipo core-shell, con Il nucleo (core) costituito dal blocco lipofilo.

Figura 10 La diversa posizione geografica dei siti garantisce un'ampia eterogeneità delle condizioni climatiche.

L’innovatività dell’approccio, basato su una tecnica di per sé assai recente, consiste nella progettazione e sintesi di strutture polimeriche autostabilizzate non solo dal punto di vista colloidale ma anche riguardo alla degradazione fotoossidativa grazie all’impiego di comonomeri metacrilici con funzionalità HALS. Ulteriori possibilità riguardano l’introduzione di comonomeri fluorurati, potenzialmente in grado di aumentare l’idrorepellenza dei rivestimenti polimerici. Infine si si è previsto di prendere in considerazione strutture anfifiliche caratterizzate da blocchi idrofili di diversa natura, ed in particolare da poli(acido acrilico) (PAA) o da poli(etilenglicole) (PEG). Questi, andando a costituire il guscio idrofilo delle particelle polimeriche, possono infatti influire sulla capacità di

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27

penetrazione nel reticolo poroso della pietra (la cui salinità potrebbe essere causa di instabilità colloidale per colloidi stabilizzati da PAA), oltre a determinare il tipo ed entità di interazione con essa una volta formato il film di rivestimento. Si è ritenuto inoltre opportuno avere a disposizione diversi sistemi da studiare successivamente come componenti di co-dispersioni colloidali ibride con le nanoparticelle inorganiche che verranno prodotte da altri partner industriali sempre nell’ambito del progetto Nanocathedral. I lattici ottenuti dovranno essere studiati come materiali filmogeni sia in quanto tali che per applicazione sulle pietre. Seguiranno diversi tipi di caratterizzazione che comprenderanno soprattutto: misure di potenziale zeta ed angolo di contatto statico e dinamico in grado di fornire informazioni sulla porosità, sulla natura dei gruppi superficiali, sulle modifiche subite dalla superficie dei materiali. La collaborazione con altri gruppi di ricerca nell’ambito del progetto Nanocathedral potrà consentire inoltre uno studio più approfondito relativo sia al comportamento fotoossidativo dei film polimerici (Università di Torino) sia la messa a punto di metodologie appropriate di applicazione su diversi substrati lapidei e la valutazione delle caratteristiche prestazionali del protettivo (Politecnico di Milano).

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2.

Risultati e discussione

2.1. Trasferitori di catena macro-RAFT anfifilici

Nella prima parte di questo lavoro di tesi sono stati sintetizzati i macro-RAFT da utilizzare nella preparazione delle dispersioni polimeriche. Come già discusso nella parte introduttiva questi agenti di trasferimento devono essere in grado di auto-assemblarsi in acqua formando aggregati micellari, di controllare l’inserzione delle unità monomeriche durante la reazione di polimerizzazione e di garantire la stabilità colloidale del lattice finale.

L’acido 2-(((dodeciltio)carbonotioil)tio)-2-metilpropionico (TTCA) è un agente RAFT noto per l’elevato controllo mostrato su una vastità di monomeri vinilici in polimerizzazioni omogenee [87]. Grazie alle sue proprietà anfifiliche in ambiente basico è stato utilizzato anche come tensioattivo reattivo nella copolimerizzazione in emulsione del n-butil metacrilato con stirene o n-butil acrilato, fornendo polimeri con indici di polidispersità relativamente contenuti (1.4-2.0) e lattici stabili costituiti da particelle di diametro compreso tra 50 e 150 nm [88].

Per ampliare l’intervallo di pH in cui poter condurre la polimerizzazione ed aumentare l’efficacia stabilizzante verso le dispersioni finali il TTCA è stato modificato estendendo la parte idrofila per polimerizzazione di acido acrilico (PAA-TTCA, Figura 19) o tramite esterificazione del terminale carbossilico con metossi-poli(etilenglicole) (MPEG-TTCA, Figura 13 e Figura 14).

Un’ulteriore modifica delle caratteristiche autoassemblanti di MPEG-TTCA è stata condotta inserendo un corto segmento lipofilo tramite polimerizzazione di butil acrilato (BA) a fornire il macro-RAFT MPEG-BA-TTCA (Figura 17).

2.1.1. Sintesi e caratterizzazione agenti macro-RAFT

La sintesi del TTCA, riportata nella parte sperimentale, è stata eseguita come descritto in letteratura [88]. Il gruppo Z dell’agente RAFT, consistente in un gruppo dodecantiolico, costituisce la parte lipofila di questo tensioattivo reattivo, mentre il gruppo R consiste in un residuo dell’acido 2-metilpropanoico.

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Figura 11 Struttura dell’acido 2-(((dodeciltio)carbonotioil)tio)-2-metilpropionico, o S-1-Dodecil-S-(α, α’-dimetil-α’’-acido acetico)-tritiocarbonato) (indicato con la sigla TTCA). Il gruppo Z (blu) è il residuo dodecantiolico; il gruppo R (verde) ha una terminazione carbossilica reattiva.

Figura 12 Spettro 1H NMR del TTCA in CDCl 3.

La struttura del prodotto sintetizzato è confermata dallo spettro 1H NMR (Figura 12); si osserva un tripletto a 3.31 ppm attribuibile agli idrogeni metilenici (d), un singoletto a 1.75 ppm dovuto agli idrogeni metilici in posizione beta rispetto al carbossile (e), un tripletto a 1.70 ppm dovuto agli idrogeni del metilene (c), il multipletto da 1.50 a 1.25 ppm dovuto agli idrogeni dei 9 metileni della catena C12 (b), infine il tripletto a 0.90 ppm del metile terminale n-alifatico (a).

La sintesi dell’MPEG-TTCA è stata condotta per esterificazione del terminale carbossilico con un α-metossi poli(etilenglicole) (MPEG) a basso peso molecolare (~2000 g mol-1, circa 45 unità ossietileniche).

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Figura 13 Estensione del blocco idrofilo del TTCA tramite esterificazione del cloruro con MPEG.

L’esterificazione è stata eseguita seguendo due diverse procedure. La prima prevede l’attivazione della terminazione acida del TTCA per clorurazione con cloruro di tionile in toluene, seguita da esterificazione del cloruro del tritiocarbonato con MPEG nello stesso solvente a dare MPEG-TTCA (Figura 13).

Figura 14 Estensione del blocco idrofilo del TTCA tramite esterificazione di Steglich con MPEG.

La seconda è l’esterificazione di Steglich (vedi appendice), in cui l’acido viene posto a reagire direttamente col polietere in presenza di dicloesilcarbodiimmide (DCC) e dimetilamminopiridina (DMAP) in THF (Figura 14) [70].

La resa di reazione è stata calcolata dagli spettri 1H NMR (rispettivamente Figura 15 e Figura 16) in base al rapporto tra gli integrali del segnale a 0.8 ppm relativo agli idrogeni del metile terminale (a) e quello a 4.2 ppm degli idrogeni metilenici (f). In entrambi i casi la resa è risultata inferiore al 50 % in moli. Ne risulta che la metà delle moli di MPEG è presente nel prodotto grezzo di reazione come MPEG non reagito; purtroppo quest’ultimo è risultato difficilmente separabile dal prodotto MPEG-TTCA.

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Figura 15 Spettro 1H NMR del MPEG-TTCA ottenuto da esterificazione del cloruro dell’acido in CDCl 3.

Figura 16 Spettro 1H NMR del MPEG-TTCA ottenuto da esterificazione di Steglich in CDCl3.

Per la preparazione di MPEG-BA-TTCA è stata eseguita una polimerizzazione RAFT di butil acrilato (BA) in 1,4-diossano, utilizzando acido cianovalerico (ACVA) come iniziatore radicalico. Le condizioni di reazione (rapporto MPEG-TTCA/BA e conversione finale del monomero) sono state predeterminate per

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l’inserzione di un blocco lipofilo di circa 10 unità di BA (Figura 17). In questo modo il tensioattivo reattivo risultante presenta un valore HLB inferiore, atto a promuovere il processo di autoassemblaggio micellare che sarebbe risultato sfavorito dal carattere spiccatamente idrofilo del precursore MPEG-TTCA. Questa differenza di struttura del macro-RAFT è quindi potenzialmente in grado di influire sul successivo processo di polimerizzazione ab initio e quindi su parametri quali la dimensione e la struttura interna delle particelle di polimero, oltre che sulla stabilità delle dispersioni finali, ed in ultima analisi sulle caratteristiche prestazionali del protettivo.

D’altra parte uno degli scopi di questo lavoro di tesi era appunto quello di mettere a punto procedure sintetiche e preparare diversi tipi di lattici per testarne l’efficacia su diversi substrati e la compatibilità con dispersioni di nanoparticelle inorganiche di diversa natura; risultava perciò opportuno avere a disposizione una gamma di precursori RAFT anfifilici che presentassero caratteristiche strutturali diversificate.

Figura 17 Estensione del blocco lipofilo del MPEG-TTCA tramite polimerizzazione RAFT di BA.

Come si è detto, per l’inserzione di circa 10 unità di BA ci si è basati sul rapporto monomero/RAFT e sulla conversione. Tuttavia, non avendo a disposizione dati cinetici, per la scelta delle condizioni di reazione (tempo e temperatura di reazione) si è fatto riferimento a esperienze precedenti nelle quali la conversione del BA veniva mantenuta attorno al 50 %. Inoltre si è tenuto conto del fatto che, in entrambi i casi, il macro-RAFT era in realtà costituito da una miscela al 50 % circa con MPEG non reagito. L’analisi 1H NMR del MPEG-BA-TTCA, il cui spettro è riportato in Figura 18, ha confermato la bontà di tali assunzioni. Per il confronto

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dello spettro del prodotto con quello del macro-RAFT precursore (in questo caso il MPEG-TTCA ottenuto per esterificazione di Steglich) è stato preso in considerazione l’integrale del multipletto a 3.4-3.7 ppm relativo agli idrogeni metilenici del blocco di poli(etilenglicole) (g).

Figura 18 Spettro 1H NMR del MPEG-BA-TTCA in CDCl3.

Ammettendo che il blocco polietereo sia rimasto inalterato durante l’estensione e successiva purificazione del prodotto, il relativo segnale potrà essere utilizzato come riferimento per calcolare un fattore di normalizzazione 𝑓 che permetterà di calcolare l’effettiva conversione di polimerizzazione (Equazione 7). Nello spettro in Figura 18 il segnale a 4.2 ppm risulta dalla somma dei contributi degli idrogeni del metilene in alfa al carbonile in catena principale (f) e degli idrogeni del metilene in alfa al carbonile in catena laterale (j).

𝑓 =449.33

503.07= 0.893 Equazione (7)

Normalizzando il valore del precedente integrale (Equazione 8) e sottraendo il valore dell’integrale dello stesso segnale dello spettro in Figura 16, relativo al solo contributo degli idrogeni del metilene in alfa al carbonile in catena principale (f), si può calcolare il numero delle unità ripetitive di BA (Equazione 5) e dunque la conversione, pari al 50%, come verificatosi nei precedenti studi.

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𝑓 ∗ 25.17 = 22.48 Equazione (8)

22.48 − 2

2 = 10.24 Unità Ripetitive di BA Equazione (9) Un terzo tipo di trasferitore di catena, PAA-TTCA, è stato ottenuto per estendensione del blocco idrofilo con circa 30 unità di acido acrilico (AA). La polimerizzazione RAFT è stata eseguita in diossano, utilizzando sempre ACVA come iniziatore (Figura 19). Il prodotto e la sua caratterizzazione sono tratti da un precedente lavoro di tesi [89].

Figura 19 Estensione del blocco idrofilo del TTCA tramite polimerizzazione RAFT di AA.

2.1.2. Misure termogravimetriche

I diversi agenti di trasferimento di catena sono stati caratterizzati anche per mezzo di analisi termogravimetrica (TGA), eseguita in aria. In Figura 20 è riportato il termogramma relativo al reagente polietereo di partenza, dal quale non si evidenzia la presenza di impurità; l’MPEG presenta una degradazione completa in singolo stadio con onset a 377 °C e massima velocità a 400 °C. Prima dell’analisi il prodotto, assai idrofilo, è stato purificato tramite distillazione dell’azeotropo acqua/toluene per eliminare tracce di acqua residua.

Il termogramma del derivato MPEG-TTCA ottenuto per esterificazione di Steglich presenta due stadi degradativi, a indiretta conferma dell’effettiva funzionalizzazione del polietere. La prima perdita di peso, centrata attorno a 230 °C, è infatti attribuibile al residuo alchil-tritiocarbonato: il valore pari all’8,6 % relativo a questa perdita (Figura 21) è inferiore al valore teorico del 15-16% che corrisponderebbe al rapporto tra il peso del TTCA rispetto al MPEG-TTCA. Bisogna infatti considerare che il prodotto di esterificazione, ottenuto con una conversione di poco inferiore al 50 % in base all’analisi 1H NMR, non è stato purificato e quindi circa la metà delle moli del campione analizzato è costituita dal polietere non reagito. La perdita di peso è risultata in buon accordo con la frazione in peso di TTCA nella miscela MPEG/MPEG-TTCA analizzata.

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Figura 20 Analisi TGA del MPEG dove sono riportate la variazione di peso al variare della temperatura (nero) e la derivata prima rispetto al tempo della variazione di peso (rosso); velocità di scansione 10 °C/min in flusso di azoto.

Figura 21 Analisi TGA del MPEG-TTCA dove sono riportate la variazione di peso al variare della temperatura (nero) e la derivata prima rispetto al tempo della variazione di peso (rosso); velocità di scansione 10 °C/min in flusso di azoto.

Nel termogramma del MPEG-BA-TTCA in Figura 22 le variazioni di peso centrate a 170 e 252 °C possono essere considerate dovute al processo degradativo dei

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legami esterei, siano quello di connessione tra MPEG e TTCA sia quelli del frammento di oligo-BA. In ogni caso tutti i macro-RAFT sintetizzati, impiegati nella sintesi di quello che sarà un protettivo esposto alle condizioni climatiche ambientali, presentano una buona stabilità termica fino a 170 °C, mentre la catena polieterea risulta stabile fino a 400 °C.

Figura 22 Analisi TGA del MPEG-BA-TTCA dove sono riportate la variazione di peso al variare della temperatura (nero) e la derivata prima rispetto al tempo della variazione di peso (rosso); velocità di scansione 10 °C/min in flusso di azoto.

2.1.3. Determinazione pesi molecolari

I macro-RAFT sono stati caratterizzati anche tramite cromatografia a permeazione di gel (Gel Permeation Chromatography, GPC). Le analisi, i cui risultati sono riportati in Tabella 4, hanno confermato un effettivo aumento del peso molecolare sia dopo l’esterificazione che dopo la successiva estensione del blocco lipofilo di oligo-BA. Anche dopo la polimerizzazione del monomero acrilico l’indice di polidispersità (PolyDispersity Index, PDI) è rimasto molto basso, come ci si attendeva da un processo RAFT.

Riferimenti

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