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Capitolo 1 LEGGERE NON SOLO LIBRI

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Capitolo 1

LEGGERE NON SOLO LIBRI

1.1 Breve storia delle biblioteche e della lettura in Italia

Inizieremo questo nostro lavoro dall’analisi della realtà bibliotecaria italiana nella seconda metà dell’Ottocento. È in quell’epoca che nascono e si sviluppano i profondi divari e le forti disuguaglianze che ancor oggi emergono affrontando il tema della lettura e della “pubblica lettura” in Italia. Senza delineare un percorso di analisi, sia pure sommario, che unisca una riflessione storica a uno sguardo proiettato nel futuro, non è facile comprendere le differenze che ancora oggi, dopo oltre 150 anni, continuano a caratterizzare il bacino dei lettori italiani1. Facciamo nostra la convinzione di Giovanni Solimine per cui:

la ristrettezza di questo bacino e i suoi squilibri interni siano storicamente legati al livello di istruzione, che, se volgiamo lo sguardo all’indietro fino al momento dell’Unità, significa parlare della enorme massa di analfabeti presenti nella popolazione del neonato Regno d’Italia2.

Una frase che Pasquale Villari scrisse nel 1866 può soccorrerci nella comprensione del nostro passato – ma anche, purtroppo, del nostro presente – di cattivi lettori: «Bisogna che l’Italia cominci col persuadersi che v’è nel seno della Nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza»3, alla quale si

1 Qui faremo riferimento a dati e considerazioni presenti in alcuni volumi che hanno affrontato

la questione partendo da varie angolazioni, iniziando da: G. Barone e A. Petrucci, Primo: non

leggere. Biblioteche e pubblica lettura in Italia dal 1861 ai nostri giorni , Milano, Mazzotta,

1976. Fondamentali anche due volumi di T. De Mauro: Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 2008 e La cultura degli italiani, Roma-Roma-Bari, Laterza, 2010. Infine, per un recente contributo sul tema: G. Solimine, “Lettura e biblioteche nella storia dell’Ital ia unita”, Libri e

riviste d’Italia, n. 1-2 (2011), p. 15-24. Gli altri dati citati nel testo sono ricavati, salvo diversa

indicazione, dagli Annuari dell’Istat. 2 Cfr. Solimine, op. cit., p. 15.

3 Pasquale Villari poneva sullo stesso piano 17 milioni di analfabeti (3/4 della popolazione) e 3

milioni di “arcadi”, in cui includeva «burocrati macchine, professori ignoranti, politici bambini, diplomatici impassibili, generali incapaci […] e la retorica che ci rode le ossa» (cfr. P. Villari, Di

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8 accompagnava il danno derivante da una concezione elitaria della cultura che, per certi versi, ancora oggi sopravvive. Molto lenta è stata l’alfabetizzazione degli italiani4. Nel 1861 il primo censimento della popolazione quantificò come analfabeti il 74% degli italiani: questo dato medio nasceva da realtà molto diversificate, che oscillavano dalle punte massime di Sardegna (89,7%) e Sicilia (88,6%) a quella minima della Lombardia (53,7%)5. Forti erano anche le differenze di genere e inoltre potevano considerarsi effettivamente alfabetizzati solo quelli che avevano raggiunto un livello di istruzione tale da permettere loro non solo di decodificare il segno scritto ma anche di accedere a un testo ricavandone un senso compiuto. Infine, se gli alfabetizzati costituivano appena 1/4 della popolazione, gli italofoni rappresentavano solo l’1%: molti si limitavano, nel migliore dei casi, a leggere e scrivere una lingua che non parlavano abitualmente.

Assai diversificata era anche la diffusione della scuola: nel 1871 il Piemonte contava 6763 scuole, la Lombardia 6263, la Sardegna 678 e la Calabria 940. Malgrado la legge Casati avesse imposto l’istruzione obbligatoria gratuita per il primo biennio elementare, circa il 62% della popolazione in età scolare evadeva l’obbligo6 e solo in età giolittiana la percentuale scenderà al 25%. Infine, solo lo 0,8% dei ragazzi di età compresa tra gli 11 e i 18 anni frequentava le scuole medie.

La sola istruzione elementare stentava a sottrarre gli allievi all’analfabetismo e comunque non riusciva a garantire un contatto sufficientemente duraturo con la lingua nazionale. Negli anni immediatamente successivi all’Unità un reale contatto con la lingua comune e la sua effettiva e definitiva acquisizione erano riservati soltanto a quei pochissimi privilegiati che continuavano gli studi anche dopo il ciclo elementare7.

Nel 1871 gli analfabeti, seppur diminuiti di numero, costituivano ancora il 75,7% della popolazione femminile e il 61,9% di quella maschile. Negli anni successivi il

4 Sub voce “Analfabetismo”, in: Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, Istituto della

Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, 1929, vol. III, p. 79-85; Barone e Petrucci, op.

cit., p. 10-23.

5 Barone e Petrucci, op. cit., p. 11.

6 Ibidem. È noto come legge Casati, dal nome del ministro della Pubblica istruzione Gabrio Casati, il

Regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna, entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso, con l'unificazione, a tutta l'Italia. Il decreto fece seguito alle leggi Bon Compagni del 1848 e Lanza del 1857 e riformando in modo organico l'intero ordinamento scolastico, dall'amministrazione all'articolazione per ordini e gradi e alle materie di insegnamento.

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9 tasso di analfabetismo diminuirà ulteriormente, ma solo nel 1901 gli italiani compiranno il giro di boa, attestando la percentuale degli analfabeti al 48,5%. Il dato complessivo scenderà ulteriormente nei decenni successivi, collocandosi nel 1921 su medie generali pari al 31%.

Anche la dislocazione delle biblioteche differiva per aree geografiche: un Nord ricco di biblioteche, alcune delle quali anche ben organizzate, si affiancava un Centro con una situazione grave (fatta esclusione per Roma e la Toscana), per passare alla totale assenza nel Sud, supportato solo da Napoli e Palermo. I caratteri originali delle nostre biblioteche emergono già da una statistica del 1863: frammentarietà; collezioni inadeguate e invecchiate8 che non ne incentivavano la frequentazione e le richieste di prestito; finanziamenti scarsi. I bibliotecari e le biblioteche degli anni successivi all’unificazione, non erano oggettivamente in grado di promuovere iniziative efficaci per risollevare la situazione culturale nazionale. La biblioteca stessa, concepita più come museo che come strumento di elaborazione culturale, frenava la diffusione della lettura tra gli alfabetizzati.

Dall’Unità a oggi il ruolo delle biblioteche è stato trattato in maniera piuttosto marginale, lo Stato non ha prodotto un’incisiva politica bibliotecaria nazionale condannando così il mondo bibliotecario a una condizione di perenne arretratezza e incapacità innovativa. Fin da subito nel dibattito parlamentare post-unitario emersero chiaramente temi e problemi ancor oggi di vivo interesse: alto numero di biblioteche statali, presenza di due biblioteche nazionali “centrali”, insufficienza delle coperture finanziarie, confronto con le politiche degli altri stati europei. Sempre nell’ambito del discorso politico-amministrativo dell’Italia liberale fa la sua apparizione anche l’equivoco concetto di “biblioteca nazionale”9.

I numeri fin qui registrati ci forniscono la misura del macigno che ha frenato la crescita

8 Lo Stato incamera una moltitudine di beni ecclesiastici negli istituti governativi, ma non riesce a

perseguire politiche di sviluppo territoriale. «Le biblioteche ricevute in eredità dallo stato italiano sono restate più o meno nella situazione in cui erano al momento dell’Unità, gli stanziamenti in bilancio sono rimasti per lo più invariati […] le raccolte di origine ecclesiastiche sono state immesse nelle biblioteche pubbliche senza alcun progetto di utilizzazione e di tutela» (cfr. P. Traniello, Storia delle biblioteche in Italia. Dall’Unità a oggi, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 63). 9 Tale concetto è il retaggio di due distinte tradizioni: quella mutuata dall’esperienza giacobina della

Rivoluzione francese, che designa l’appartenenza alla nazione di beni ottenuti per esproprio o per successione politica (dai regni preunitari al nuovo Stato nazionale), e l’altra, con accezione più tecnica, che identifica come “nazionale” la biblioteca all’interno di uno stato cui affluiscono per deposito legale le pubblicazioni edite nel Paese. In Italia in questa fase iniziale i termini “biblioteca nazionale” “biblioteca statale” sostanzialmente si equivalgono.

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10 del nostro Paese e di quanto sia stata dura la battaglia ingaggiata dagli insegnanti (meglio dire le insegnanti), e in parte minore dai bibliotecari, per alfabetizzare gli italiani. Oggi, sia pure in un contesto e in condizioni profondamente mutate, si continua a combattere quella battaglia, le difficoltà non si sono del tutto riassorbite e quel nemico non può dirsi ancora del tutto sconfitto. La scarsa e diseguale diffusione della lettura tra gli italiani ha ripercussioni negative sullo sviluppo e sulla modernizzazione del Paese; la debolezza delle infrastrutture bibliotecarie, un sistema di documentazione scientifica non in linea con un paese avanzato e, infine, l’handicap derivante dalla scarsa consuetudine allo studio e alla formazione continua dei suoi professionisti e dirigenti fanno il resto.

Quello odierno è un analfabetismo di ritorno o funzionale, dovuto a una scarsa consuetudine con la parola scritta e che si manifesta nell’incapacità per il 70% degli italiani di orientarsi agevolmente nelle diverse situazioni della vita quotidiana, a causa di una scarsa capacità nell’uso delle abilità di lettura, scrittura e calcolo. Tra i nostri giovani adulti, malgrado il conseguimento di un titolo di studio, esiste ancora un serio problema di “competenze alfabetiche funzionali”, con gravi conseguenze in relazione alla loro occupabilità e inclusione sociale10.

Ma veniamo specificamente al tema della lettura dei libri. Non siamo in possesso di serie storiche complete e omogenee che coprano l’arco temporale che ci separa dalle dure parole di Villari, ma vari dati e alcune riflessioni proposte dagli studiosi che si sono occupati di lettura, possono aiutarci a descriverne il quadro di riferimento. La prima indagine Istat sulla lettura risale al 1957, ma solo dal 1965 disponiamo di rilevazioni sistematiche e comparabili, che ci permettono di ricostruire con precisione la diffusione della lettura nell’ultimo mezzo secolo11. Se nel 1965 soltanto il 16% degli italiani leggeva almeno un libro all’anno, alla fine degli anni ottanta, dopo l’ondata della scolarizzazione di massa, la percentuale era più che raddoppiata. Una crescita di tale portata non si è più vista nei decenni successivi. L’incremento avvenuto in quel quarto di secolo è stato seguito da una quindicina d’anni di sostanziale stagnazione con valori intorno al 40%. Dal 2001 al 2012 si è assistito a

10 Cfr. Letteratismo e abilità per la vita. Indagine nazionale sulla popolazione italiana 16-65 anni, a

cura di V. Gallina, Roma, Armando, 2006.

11 Cfr. in particolare le analisi proposte in: A. Morrone e M. Savioli, La lettura in Italia, Milano,

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11 un trend uniformemente orientato verso l’alto, anche se caratterizzato da un ritmo di crescita non impetuoso, ma anche questo andamento si è interrotto negli ultimi tre anni, in maniera particolarmente grave nel 2013.

Colpisce il fatto che l’aumento della percentuale di lettori, che ha sempre avuto una forte correlazione con l’incremento della scolarità, stia, dopo un periodo di rallentamento, addirittura calando, infatti nei primi anni di questo nuovo secolo il numero di laureati è cresciuto del 36 e quello dei lettori solo del 9%.

Fra le varie considerazioni avanzate sul complesso fenomeno della lettura in Italia12, abbiamo scelto di limitare l’analisi ai dati del 2013, provando a leggere “dentro le statistiche”, per verificare quanto le disuguaglianze regionali siano acute, per luogo di residenza, genere, età e condizione socio-economica13. Nel Nord legge poco più della metà della popolazione di 6 anni e più (50,6%), mentre nel Sud e nelle Isole la quota di lettori è rispettivamente pari al 30 e al 32%. Al Centro la quota si attesta sul 46,8%. Leggendo queste percentuali che dividono il Sud dal Nord viene quasi da pensare che non si stia parlando di due aree della stessa nazione, bensì di due mondi diversi14. Gli estremi si registrano nelle regioni Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia (56,4%) e in Sicilia (27,6%), con un distacco che sfiora i trenta punti. Afferma Solimine:

evidentemente un secolo e mezzo fa non abbiamo unificato il Paese, ma solo creato le condizioni per poterlo fare, peraltro senza riuscirci. Ritengo che questo insuccesso […] sia dovuto alla gracilità e alla disomogeneità delle infrastrutture su cui si fondano le pratiche della lettura15.

Le caratteristiche e le dimensioni del luogo di residenza possono avvantaggiare o meno: rispetto alla media, nelle grandi città e nelle aree fortemente urbanizzate è più elevata la quota dei lettori e, fra questi, dei “lettori forti” (nei comuni centro dell’area metropolitana la quota dei lettori è pari al 51,6%). Viceversa, nei comuni di

12 La questione è stata ampiamente discussa da Giovanni Solimine nel suo già citato L’Italia che

legge, al quale si rinvia per tutto quanto viene affrontato solo di sfuggita in questa sede.

13 I dati statistici che seguono sono stati desunti da: Istat, La produzione e la lettura di libri in Italia.

Anni 2012 e 2013, report del 30 dicembre, 2013, consultabile da: <http://www.istat.it/it/archivio/108662>.

14 Per fare un esempio, il dato delle regioni settentrionali è simile a quello di Germania, Regno Unito o

Francia, mentre la percentuale del Sud è all’incirca la stessa di Portogallo, Malta e Bulgaria. 15 Cfr. Solimine, “Lettura e biblioteche nella storia dell’Italia unita” cit., p. 18.

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12 dimensioni minori il rapporto con il libro è più rarefatto e l’intensità di lettura si riduce (nei comuni con meno di 2000 abitanti scende al 36%). A determinare questi dati contribuiscono significativamente le caratteristiche della rete commerciale e dei servizi bibliotecari: sono molti, specialmente nel Mezzogiorno, i comuni piccoli, o medi, privi di biblioteche e librerie e quindi senza alcuna offerta bibliografica.

Il dato medio nazionale del 43% di italiani che nel 2013 hanno letto almeno un libro (tre punti percentuali in meno rispetto al 2012) vede una netta differenza di genere a favore del sesso femminile. Fino al 1973 gli uomini leggevano più delle donne, ma da quel momento in poi, per effetto della maggiore scolarizzazione, la lettura è diventata un’attività prevalentemente femminile, in tutte le fasce d’età. La disparità maggiore si registra tra i 15 e i 17 anni, quando la percentuale di lettrici è pari al 63,3% mentre quella dei lettori si attesta al 39,4%. Per i maschi la percentuale scende sotto il 50% già dai 15 anni di età, mentre per le femmine solo dopo i 60 anni. Le differenze di genere, pur rimanendo a favore delle donne, diventano poco significative solo nella fascia di età 6-10 anni e dopo i 65 anni.

Contrariamente alla lettura dei libri, quella dei giornali è un’attività praticata maggiormente dai maschi. Sulla percentuale complessiva di italiani di 6 anni e più che ha dichiarato di aver letto nel 2013 quotidiani (inclusi quelli sportivi) almeno una volta alla settimana (49,4%), il 55,2% è costituito da maschi. Il quotidiano, assieme alla televisione e alla radio, rappresenta lo strumento tradizionale attraverso cui informarsi, per questo sarà importante verificare se si va modificando, e in che modo, la propensione delle persone a informarsi attraverso di esso. Tale forma di accesso all’informazione non è però quella prediletta dalla popolazione: gli italiani che nel 2013 hanno letto quotidianamente un giornale almeno 5 giorni su 7 sono stati il 36,2% del totale dei fruitori di questo media.

Oggi la stampa d’informazione è forse il settore editoriale che soffre maggiormente la concorrenza delle tecnologie e dei nuovi linguaggi di comunicazione.

La lettura è un comportamento fortemente condizionato dal contesto di appartenenza e la presenza in famiglia di genitori che leggono libri è il primo fondamentale fattore che favorisce la propensione alla lettura dei bambini e dei giovani. Tra i ragazzi di 6-14 anni legge il 75% di chi ha genitori lettori e solo il 35,4% di coloro che hanno entrambi i genitori non lettori. Nel 2013 addirittura il 10,3% delle famiglie italiane ha

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13 dichiarato di non possedere nemmeno un libro in casa. La disponibilità di una biblioteca domestica rappresenta un’opportunità che può incoraggiare e favorire il rapporto con i libri ma, da sola, non costituisce una condizione sufficiente a garantire la lettura.

Pure le condizioni sociali incidono molto. Il lettore, infatti, che è essenzialmente anche un acquirente di libri, è solitamente una persona con disponibilità economiche e culturali piuttosto ampie. Se analizzassimo i dati sulla lettura all’interno dei vari ceti sociali, avremmo anche alcune spiacevoli sorprese. I professionisti, i dirigenti, gli imprenditori – cioè i principali esponenti della classe dirigente del Paese – leggono più della media, e quindi più dei propri dipendenti, per quanto riguarda le letture strettamente professionali, ma meno di loro se consideriamo tutti i generi di lettura, compresa la lettura per svago. Questa discrasia potrebbe essere attribuita solo a una loro scarsa disponibilità di tempo, ma forse si può anche ipotizzare che i consumi culturali di chi ha in mano le sorti dell’economia e della vita socio-politica italiana siano a un livello piuttosto “basico” visto che tra i loro omologhi tedeschi e francesi il numero dei lettori è grosso modo il doppio16.

Un’ultima distinzione da fare riguarda l’intensità di lettura, cioè la differenziazione fra “lettori forti” (che hanno letto almeno 12 libri in un anno) e “lettori deboli” (che ne hanno letti meno di 3), rispettivamente il 13,9% e il 46,6% dei lettori. Quest’ultima consistente percentuale include persone che oscillano da uno a tre libri anche grazie al richiamo dei superbestseller del momento, ma non sempre si tratta delle stesse persone, in quanto comprende tanti “lettori intermittenti”, che anno per anno entrano o escono dal bacino dei lettori. Possiamo pertanto affermare che quasi la metà dei lettori, che a loro volta sono meno della metà degli italiani, ha un rapporto non consolidato con le pratiche della lettura.

Dal 1995 al 2013 i “lettori forti” sono passati dall’11,3 al 13,9% del totale dei lettori italiani e i “lettori deboli” sono calati dal 49,5 al 46,6%. Se in questo periodo il numero complessivo dei lettori fosse cresciuto di molto, questa articolazione interna dell’intensità di lettura potrebbe essere interpretata positivamente, perché testimonierebbe un graduale spostamento dei lettori verso il profilo del “lettore

16 Giovanni Solimine ha sviluppato qualche riflessione in proposito in L’Italia che legge cit., p. 30.

Proprio in conseguenza di quanto da lui scritto, alcuni lettori hanno lanciato l’iniziativa “Regala un libro alla tua classe dirigente” creando il blog a: <http://latuaclassedirigente.wordpress.com/>.

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14 forte” all’interno di un aumento generalizzato e quindi sarebbe il segnale di un consolidamento delle abitudini di lettura in Italia, ma probabilmente così non è, perché durante questi anni la percentuale di lettori sulla popolazione è cresciuta di poco.

Cresce la lettura nei segmenti più forti e cala in quelli che già erano più deboli: sembra che si stia assistendo a una radicalizzazione degli estremi. Una preoccupazione ulteriore è aggiunta dalla attuale situazione di crisi economica. Nelle difficoltà, infatti, i primi ad abbandonare la lettura sono proprio le persone meno motivate e quelle che con il libro hanno solo un rapporto occasionale.

Sulla diseguale diffusione della lettura nel nostro territorio nazionale pesa una altrettanto diseguale articolazione delle infrastrutture culturali; non è un caso se nelle zone in cui le librerie e le biblioteche sono maggiormente presenti si legga di più. L’anomalia italiana nel settore della lettura ci offre l’immagine di un Paese non allineato al resto d’Europa e spesso più arretrato, in questo campo, rispetto a nazioni più povere o meno avanzate della nostra. La percentuale degli italiani che leggono, come quella di coloro che partecipano ad altre attività culturali, è tra le più basse d’Europa. Ai primi posti, con percentuali superiori al 70%, troviamo i paesi dell’Europa settentrionale e centrale, come Estonia, Svezia, Repubblica Ceca, Finlandia; il Regno Unito ci stacca di 22 punti percentuali, la Germania di 19 e la Francia di 9 punti; perfino la Spagna, che partiva da indici di lettura, ma anche di alfabetizzazione, molto più bassi del nostro, in pochi anni ha fatto progressi enormi fino a raggiungerci e in alcuni casi a superarci.

Il gap è verosimilmente spiegabile in gran parte col fatto che in Italia solo il 56% (dato relativo al 2011) delle persone di 25-64 anni possiede almeno un diploma di scuola secondaria superiore, rispetto a una media UE27 del 73,4%. È stato stimato che se la quota degli italiani con almeno il diploma fosse in linea con la media europea, la percentuale di lettori tra le persone di 25-64 anni sarebbe pari al 58,2%, quasi dodici punti in più rispetto ai dati attuali17.

Su questi dati, almeno per quanto riguarda il confronto con le popolazioni dell’Europa centro-settentrionale, incidono anche altri fattori di ordine storico-culturale di più lontana origine, come la consuetudine con la lettura della Bibbia tra i

17 A. Morrone, “I lettori di libri in Italia. Domande frequenti e le risposte della statistica ufficiale”,

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15 protestanti (Paesi scandinavi, Germania e Inghilterra hanno sconfitto prestissimo l’analfabetismo).

Non è questa la sede per ricordare quanto Riforma e Controriforma abbiano inciso sui destini della cultura europea, ma dobbiamo dire che in Italia non si è fatto granché per modificare lo stato delle cose.

Perfino l’abitudine a frequentare le biblioteche è assai diversa nel resto d’Europa e forse per gli stessi motivi. L’eredità pre-unitaria era costituita, prima della breccia di Porta Pia, da 210 biblioteche (oltre la metà piccole e piccolissime) di cui solo 164 aperte al pubblico, distribuite in 45 città (senza considerare Roma)18. Da lì prese le mosse l’edificazione del sistema bibliotecario del nuovo Regno. Alla base delle nostre biblioteche pubbliche c’è un grossolano equivoco. Le biblioteche civiche territoriali, che avrebbero dovuto essere biblioteche destinate all’intera comunità locale, in molti casi nascono per effetto della confisca dei beni ecclesiastici dopo l’unificazione. Nel momento in cui queste collezioni vengono acquisite dallo Stato prevale una concezione “patrimonialista” e la decisione di affidare questi “beni nazionali” ai Comuni serve più a custodirli che a realizzare servizi pubblici per i cittadini. Sono, infatti, collezioni nate per altri scopi e rivolte ad altri destinatari, per cui la loro utilizzabilità in funzione della promozione della lettura è stata pressoché nulla.

Totalmente diversa è l’origine della public library anglosassone19, istituto dell’autonomia locale, fondato sul sistema del self-government britannico e concepito per il proletariato urbano nato dalla rivoluzione industriale. Su questi istituti, fortemente impegnati nel campo dell’educazione permanente, la comunità locale esercitò un forte controllo sociale, spingendoli anche a una gestione efficiente, che poneva al primo posto la cultura del servizio.

In Italia a questo obiettivo puntò invece il volontaristico movimento delle “biblioteche popolari”, che cominciarono anch’esse a diffondersi nella seconda metà dell’Ottocento20, prefiggendosi compiti di informazione generale. Senza entrare nel merito della storia di questo movimento, per la quale si rinvia alla nutrita letteratura

18 Cfr. Statistica del Regno d’Italia. Biblioteche. Anno 1863, Firenze, Le Monnier, 1865.

19 Le profonde differenze tra la fisionomia della biblioteca pubblica in Italia e in Gran Bretagna sono

ben illustrate da P. Traniello, La biblioteca pubblica. Storia di un istituto nell’Europa contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1997.

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16 esistente21, possiamo prendere atto dell’assoluta marginalità delle biblioteche, di tutte le tipologie di biblioteche, rispetto alla vita degli italiani, non solo ieri visto che ancora è assai basso il numero dei cittadini che le frequenta22.

Ora come allora, un compito fondamentale di promozione culturale spetta alle biblioteche pubbliche. Bisogna ricordare che le biblioteche pubbliche in Italia – successivamente agli equivoci post-risorgimentali e ai fallimenti del dopoguerra – sono praticamente nate dopo il 1970 con il trasferimento delle competenze dallo Stato alle Regioni23. Secondo un’indagine dell’Associazione italiana biblioteche (Aib) condotta nel 2002, delle circa 15.000 biblioteche italiane allora censite la metà era gestita da un ente locale e la maggioranza di esse risultavano essere nate dopo il 197224. Il vento nuovo delle autonomie fa breccia maggiormente nel Centro-Nord che nel Sud e riesce a far definitivamente affermare il concetto di biblioteca pubblica come istituto dell’autonomia locale, mentre le biblioteche governative continuano a lavorare nell’ambio della nozione di bene culturale, ancora più assoluta e totalizzante dopo la creazione nel 1975 del ministero avente lo stesso titolo. Sarà la Lombardia, nel 1973, la prima Regione a legiferare in tema di biblioteche25. Sembrava aprirsi una stagione foriera di cambiamenti per il destino delle “biblioteche di ente locale” ma che invece si

21 Su questo movimento e, più in generale, sulla fase precedente al decentramento regionale della

“pubblica lettura” in Italia oltre al già citato volume di Giulia Barone e Armando Petrucci, sono da menzionare almeno questi volumi: Il diritto di leggere. Il Comune di Milano e la pubblica lettura dal 1861

a oggi, a cura di A. Martinucci, Milano, Mazzotta, 1981; G. Lazzari, Libri e popolo. Politica della biblioteca pubblica in Italia dal 1861 ad oggi, Napoli, Liguori, 1985; M. G. Tavoni, Libri e lettura da un secolo all’altro, Modena, Mucchi, 1987; M. L. Betri, Leggere obbedire combattere. Le biblioteche popolari durante il fascismo, Milano, F. Angeli, 1991; Ettore Fabietti e le biblioteche popolari. Atti del Convegno di studi. Milano, lunedì 30 maggio 1994, a cura di P. Galimberti e W. Manfredini, Milano,

Società Umanitaria, 1994; A. Scotto Di Luzio, L’appropriazione imperfetta. Editori, biblioteche e libri per

ragazzi durante il fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996; P. Traniello, La biblioteca pubblica cit., p. 102-133; Virginia Carini Dainotti e la politica bibliotecaria del secondo dopoguerra. Atti del Convegno. Udine, 8-9 novembre 1999, a cura di A. Nuovo, Roma, AIB, 2002.

22 L’Istat ha stimato (dati 2006) che solo l’11,7% degli italiani di 11 anni e più le frequenta

abitualmente, ma anche questo dato medio nasce da situazioni molto variegate, come il 16,1% del regioni nord-orientali e il 7,7% di quelle meridionali. In Letteratismo e abilità per la vita cit, p. 235, si legge che il 65,8% degli italiani non va mai in biblioteca e che il 28,2% ci va una o due volte all’anno. 23 Lo Stato, infatti, delegò a queste ultime la gestione normativa, di programmazione e coordinamento in

alcuni settori già indicati dall’art. 117 della Costituzione del 1948. In proposito, particolarmente rilevante è il D.P.R. n. 3/1972 in materia di “Trasferimento alle regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di assistenza scolastica e di musei e di biblioteche di enti locali e dei relativi personali e uffici”. Il trasferimento delle competenze sarà, per la verità, portato a termine solo con la legge n. 382/1975 e relativo decreto di attuazione n. 616/1977.

24 Cfr. E. Boretti, “Indagine Aib-Istat sulle biblioteche pubbliche”, in: Rapporto sulle biblioteche

italiane 2002, a cura di V. Ponzani, Roma, Aib, 2003, p. 28-30.

25 Lo farà con la L.R. 4 settembre 1973, n. 41 recante “Norme in materia di biblioteche di enti locali

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17 rivelò complessivamente deludente: le biblioteche crescono numericamente ma rimangono sottodimensionate, con scarso organico e dotate di raccolte poco consistenti. I motivi furono vari. In molti casi le Regioni non stanziarono finanziamenti sufficienti e, più in generale, il legislatore si dimostrò più interessato ad affrontare i problemi legati ai beni storico-artistici.

Dobbiamo inoltre registrare che in questo arco di tempo il divario fra le diverse aree del Paese si è acuito piuttosto che ridursi. Abbiamo già visto quanto sia disomogenea la distribuzione delle biblioteche sul territorio nazionale e da un’analisi più approfondita – qualora volessimo tener conto della consistenza delle raccolte, dell’incremento annuo della dotazione libraria, dei servizi offerti, del loro utilizzo da parte dei cittadini, del numero di utenti effettivi – emergerebbe un divario ancora maggiore. Si può realisticamente affermare che esiste una “questione meridionale” delle biblioteche e della lettura, ma anche una questione meridionale dell’editoria26. Per chi vive al Sud le probabilità di diventare lettore, e più in generale di accostarsi al libro come strumento di studio e/o di svago, sono assai inferiori rispetto a quelle di chi vive al centro o al nord del Paese. Sono difficoltà che purtroppo si perpetuano anche rispetto alle più moderne infrastrutture di rete: oggi chi vive “alla periferia dell’Italia” incontra grossi ostacoli a connettersi alla rete Internet a una velocità decente o a scaricare un file un po’ più pesante della media.

La lettura è un fattore di sviluppo economico. Le regioni italiane con più alti tassi di lettura sono cresciute di più negli ultimi quarant’anni a parità di altre condizioni di partenza. Un’indagine dell’Associazione italiana editori che ha esaminato la crescita delle regioni italiane nel periodo 1980-2003 ha mostrato che la lettura di libri è stata uno dei fattori che spiega meglio di altri i differenziali di crescita economica.

Se il tasso di lettura ad inizio periodo [1980] delle regioni meridionali fosse stato pari a quello medio italiano, alla fine del periodo che abbiamo considerato [2003] la loro crescita della produttività sarebbe stata da 20 a 30 punti percentuali più alta. […]

26 Giuseppe Galasso recensì il più volte citato volumetto di Giovanni Solimine L’Italia che legge

con un articolo intitolato “La questione meridionale dei libri e della lettura” (cfr. Corriere della sera, dorso Napoli, 24 ottobre 2010).

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18 incrementi significativi dei tassi di lettura sembrano associarsi a modifiche di assoluto rilievo nei tassi di crescita della produttività, modifiche in grado di cambiare le capacità competitive delle regioni in cui si sviluppano27.

Alle debolezze delle biblioteche di base si affianca quella degli istituti che si rivolgono al più selezionato pubblico degli studiosi e dei ricercatori. Le biblioteche statali versano oggi in una crisi pesantissima. Nell’ultimo secolo il numero di coloro che le frequentano è cresciuto molto meno di quanto era lecito attendersi, malgrado il numero delle strutture sia aumentato. Tutti i loro indicatori sono in caduta libera: dal 2007 al 2012, per esempio, i lettori sono passati da 1.608.565 a 1.494.803, le persone iscritte al prestito da 271.533 a 93.444, i prestiti a privati da 275.551 a 196.613 e, infine, il personale dipendente da 2462 a 1933 unità. A ciò non è estranea l’emorragia di risorse che stanno subendo: le spese di gestione sono passate dai complessivi euro 32.350.800 del 2007 ai 23.445.950 del 2012. Nel 2012 le spese di gestione della Biblioteca nazionale centrale di Roma sono state di poco superiori ai 2,5 milioni di euro e quelle della Nazionale di Firenze, il maggiore istituto bibliotecario del Paese, di 2,9 milioni. Nel 2009, anno per il quale disponiamo di dati certi, i bilanci delle consorelle europee erano di tutt’altro ordine di grandezza: Parigi 254 milioni, Londra 160 milioni, Madrid 52 milioni. Per non parlare del numero di unità di personale: 187 persone a Firenze e 221 a Roma28, a fronte delle 2.600 della Bibliothèque Nationale parigina (quello di tutte le 46 biblioteche pubbliche statali italiane sommate fa 1933 unità), delle 2000 della British Library londinese e degli oltre 1000 dipendenti della Biblioteca Nacional madrilena29. Pur ammettendo che la crisi economica possa aver avuto ripercussioni negative sui bilanci delle biblioteche menzionate, la differenza con la realtà italiana rimane semplicemente imbarazzante. Considerazioni analoghe,

27 Cfr. A. E. Scorcu e E. Gaffeo, “Il ritorno economico della lettura. Rapporto di ricerca”, in:

Investire per crescere. Materiali per una discussione, a cura di G. Peresson, Milano 2006, p. 15.

28 I dati sulle Biblioteche statali italiane sono quelli pubblicati sul sito Internet dell’Ufficio statistica

del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo:

<http://www.statistica.beniculturali.it/Index.htm>.

29 Cfr. Relazione finale della “Commissione per le valutazioni, anche in termini di analisi comparativa a

livello internazionale, delle questioni attinenti alle Biblioteche pubbliche statali con particolare riferimento alle Biblioteche nazionali centrali di Roma e di Firenze”, istituita nel 2009 dalla Direzione generale per le biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore, citata in F. Venturini, “Uno sguardo sulla realtà delle biblioteche pubbliche statali: la relazione della Commissione istituita dal MiBAC nel luglio 2009”, in

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19 quanto a ritardi e debolezze, potrebbero essere fatte per le biblioteche scolastiche o le universitarie. Anche queste strutture non devono rappresentare, verosimilmente, una presenza incisiva nella vita delle scuole e degli atenei italiani se, come dimostrano i dati Istat, scarso è il numero di italiani che leggono per motivi professionali e di studio. Le biblioteche italiane, tuttavia, hanno avuto, e hanno tuttora, un ruolo importante nella diffusione della lettura e nonostante la loro modesta rilevanza in termini quantitativi, in molti casi costituiscono l’unico presidio culturale presente sul territorio. Inoltre le biblioteche assicurano una varietà nell’offerta maggiore di quanto non riescano a fare le librerie, spesso appiattite sulle ultime novità e sui best sellers, che a volte coprono una quota pari all’8-10% delle vendite, ma che raramente superano il 2% dei prestiti bibliotecari. Discrepanze simili si notano anche per quanto riguarda la maggiore presenza di titoli di piccoli editori e altri indicatori che ci inducono a sostenere che le biblioteche garantiscano la “bibliodiversità”.

Sarebbe opportuno prendere atto della gravità di queste differenze a livello interno e internazionale e, per poter guardare con fiducia al futuro, assumersi responsabilmente l’impegno a cambiare passo e scelte politiche. Il nostro Paese rischia di rimanere ai margini dei processi di crescita economica, sociale e civile, relegandosi, in ogni sua componente, in un sud sempre più alla periferia del mondo.

La questione va ben oltre i confini della lettura e delle biblioteche, perché si sta parlando, più ampiamente, di una funzione formativa essenziale nella contemporanea società della conoscenza, con importanti ricadute sulle potenzialità di crescita economica e sulla vita sociale della nostra comunità nazionale.

Da tempo il tema della information literacy30 si è imposto all’attenzione degli educatori e dei bibliotecari di tutto il mondo, che stanno reinterpretando in questo modo la funzione di servizio e di promozione culturale esercitata dalle biblioteche, volta alla crescita individuale e collettiva delle persone, garantendone i diritti di cittadinanza in una società realmente “inclusiva”.

Le biblioteche possono svolgere una funzione di riequilibrio in una società in cui non tutti godono di pari opportunità nell’accesso al bene comune della conoscenza31 e, in

30 I lifelong learning e l’educazione degli adulti in Italia e in Europa. Dati, confronti e proposte,

Genova, Associazione TreeLLLe, 2010, p. 189-194.

31 Si veda in proposito: La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, a cura di C.

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20 particolare, possono costituire un punto di riferimento importante per chi è uscito dai tradizionali circuiti formativi: in biblioteca si impara e si impara a imparare, ma non si viene giudicati per ciò che si è appreso. In questa nuova frontiera dell’alfabetizzazione possiamo individuare forse lo “specifico bibliotecario” nella società dell’informazione.

1.2 Profilo del lettore

La figura del lettore abituale risente ancora oggi di luoghi comuni che ne propongono una visione caricaturale secondo logori stereotipi duri a perire. Il fatto che questa visione grottesca persista e venga frequentemente riproposta deve indurci a delle riflessioni: un’immagine così distorta non è forse dovuta al fatto che il ‘lettore’ – o almeno il ‘lettore forte’ – è una persona fuori dagli schemi comuni nei quali si riconosce la maggioranza degli italiani?

Ma chi è il lettore? Come è cambiato in questi anni di grandi e rapide trasformazioni socio-culturali? Quale rapporto conserva e cosa chiede alla lettura? Quali sono i suoi gusti e criteri di scelta? Quali strumenti e supporti preferisce: la lettura cartacea o quella digitale?

L’Italia e l’Istituto nazionale di statistica (Istat) hanno favorito negli anni scorsi lo svolgersi di importanti riflessioni sulla misurazione del fenomeno della lettura. Per l’Istat colui che ha letto almeno un libro nel corso dell’anno di rilevazione, appartiene di diritto alla categoria dei lettori e pertanto contribuisce a far lievitare di un minimo la percentuale dell’Italia che legge. Gli italiani che hanno dichiarato di aver letto almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali, quelli che l’Istat definisce “lettori deboli”, nel 2013 sono stati oltre 22,4 milioni: il 43% della popolazione totale, con una perdita di ben tre punti percentuali rispetto all’anno precedente. Un calo significativo si è registrato anche tra coloro che hanno acquistato almeno un libro, scesi dal 44 al 37% (19,5 milioni di persone) per un totale di 112 milioni di copie vendute. Una nota positiva arriva invece dalla vendita degli e-book, verso i quali cresce l’interesse sia degli acquirenti (+14%) che dei lettori (+17%). Mentre cala la quantità dei libri acquistati, aumenta quella dei

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21 volumi presi in prestito32. Il calo dei lettori riguarda tutte le fasce di età, con particolare rilevanza – e quindi il dato appare ancora più grave – in quelle più giovani: dal 70 al 60% nella fascia 14-19 anni, dal 52 al 40% in quella 20-24. Aumentano, invece, i lettori ultrasessantenni: dal 33% nel 2011 al 39% nel 2013.

Se per l’Istat è sufficiente aver letto un libro all’anno per essere qualificati lettori ˗ sia pure “deboli” ˗ a noi sembra che ciò non sia sufficiente per affermare che una persona intrattenga con il libro un rapporto stabile e consolidato.

Sul versante opposto si assesta la minoranza dei “lettori forti”, quelli che, sempre secondo l’Istat, consumano almeno un libro al mese33. Costituiscono il 13,9% dei lettori complessivi e da soli assorbono la metà del mercato editoriale italiano, di un settore industriale, cioè, che fattura 3 miliardi e mezzo l’anno e che per livelli di produttività colloca il nostro Paese al quarto posto in Europa e al settimo a livello mondiale34.

Il nostro Paese non è affatto monolitico e questo ce lo ricordano anche i dati sulla lettura: gli italiani leggono in modo diverso a seconda delle aree geografiche. Se al Nord il dato medio dei lettori abituali è di poco inferiore al 51%, con punte del 56,4% in Trentino Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, nell’Italia centrale non si riesce a superare nemmeno la metà (solo l’Emilia Romagna vi si avvicina con il 49,5%), per scendere addirittura sotto la soglia del 40% al Sud, con vistosa eccezione della Sardegna (45,3%).

Coloro che hanno letto da 1 a 3 libri all’anno, quelli che Giovanni Solimine preferisce definire lettori borderline, sono soggetti da monitorare attentamente

32 Un quadro aggiornato dei dati qui e di seguito elencati ci è dato dal rapporto Istat, L’Italia dei

libri 2011-2013, rilevazioni statistiche che il Centro per il libro e la lettura (Cepell) ha commissionato

alla Nielsen Company sull’acquisto e la lettura dei libri, reperibile a partire da:

<http://www.cepell.it/articolo.xhtm>. Per i dati statistici si veda anche: Istat, Noi Italia 2014. 100

statistiche per capire il Paese in cui viviamo, all’Url: <http://noi-italia2014.istat.it/>.

33 Se in Italia per essere considerati lettori robusti il numero minimo di libri letti in un anno è pari a

12, in Francia, ad esempio, per guadagnarsi questo titolo bisogna averne letti almeno 20. Nell’ambito di una più generale assenza di criteri di rilevazione comuni per descrivere i consumi culturali nei Paesi europei, mancano soprattutto una definizione di cosa si deve intendere per lettura di libri e un’individuazione di parametri precisi e univoci quali le fasce di età entro cui il fenomeno va preso in considerazione, un’omogenea classificazione dei generi, la quantificazione della lettura come ‘numero di libri letti nell’unità di tempo’(generalmente l’anno), o come ‘frequenza’ con cui si legge nel giorno o nella settimana media.

34 Questi dati dovrebbero indurre a una revisione delle politiche di promozione della lettura. Se da

una parte è logico che le case editrici puntino alla sensibilizzazione del “lettore forte”, perché è più facile e dà risultati immediati, dall’altra è necessario che la platea dei lettori sia ampliata attraverso iniziative pubbliche.

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22 perché con i propri gusti contribuiscono a creare annualmente piccoli spostamenti di percentuale. Sono “lettori intermittenti”, che possono persino decidere di anno in anno se leggere o no, attratti magari dal best seller di turno, specie se promosso da certi salotti televisivi, o dall’effetto di traino esercitato dalla sua trasposizione cinematografica. I lettori di Gomorra oppure de La solitudine dei numeri primi, solo per citare, a titolo di esempio, alcuni dei più noti best sellers italiani degli ultimi anni, in teoria potrebbero aver deciso di passare la mano e saltare un anno. Nel frattempo il loro posto potrebbe essere preso da chi ha scoperto Camilla Läckberg, solo per indicare uno tra gli autori recentemente più letti.

Poi ci sono i “non lettori”, cioè circa 30 milioni di italiani che non hanno avuto nel 2013 alcun rapporto con i libri e poco più di 11 milioni che non praticano affatto la lettura, neppure un giornale o una rivista, neppure quelle di gossip. Si tratta per lo più uomini adulti che sembrerebbero collocarsi soprattutto nelle regioni meridionali, con punte allarmanti in Sicilia, dove solo il 27,6% dei residenti di 6 anni e più ha dichiarato di aver letto almeno un libro nell’anno.

L’Istat ha infine coniato una terza categoria, definita, con una formula assai bizzarra, dei “lettori morbidi” o “inconsapevoli”35. Sono coloro che non si percepiscono come lettori e che, quando vengono interpellati affermano di non aver letto alcun libro nei dodici mesi precedenti l’intervista, ma, nel proseguo del questionario, dalle risposte fornite a domande più specifiche si scopre che sono utilizzatori (consultatori) di guide turistiche, libri di cucina, bricolage e hobbystica e ancora, introducendo una discriminante ambigua e inaccettabile, che sono lettori di romanzi rosa, gialli, fantascientifici o fantasy acquistati in edicola o ricevuti in omaggio con quotidiani o periodici. È impossibile sostenere che chi legge un giallo Mondadori super economico non sia un lettore e chi legge invece il giallo Sellerio sia un lettore, magari “forte”, visti i ritmi delle uscite della collana che raccoglie autori come Camilleri e Carofiglio. Questa classe, francamente ambigua, raggruppa circa 7 milioni di persone (10% degli italiani) e probabilmente la cifra è sottostimata. In

35 L’Italia e l’Istat hanno favorito negli anni scorsi lo svolgersi di riflessioni importanti sulla

misurazione del fenomeno lettura. Esempio classico di quanto esso sia sfuggente è stata l’individuazione, a partire dal 1995, di quello l’Istat indicò come “lettore morbido” (cfr. I lettori di

libri in Italia Comportamenti e atteggiamenti degli italiani nei confronti della lettura, a cura di S.

Gazzelloni, Roma, Istat, 1998), più correttamente definibile come “lettore inconsapevole” (cfr. A. Morrone e M. Savioli, La lettura in Italia: comportamenti e tendenze. Un’analisi di dati ISTAT 2006, Milano, Bibliografica, 2008).

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23 definitiva, nell’accezione più ampia del concetto di lettore, comprendente chi legge nel tempo libero, per motivi professionali o scolastici, i “lettori inconsapevoli”, e persino i “lettori allargati”, coloro cioè che leggono almeno quotidiani e riviste, si arriva a circa l’80% degli italiani.

I numeri e le percentuali ci indicano che una parte importante della popolazione non identifica come tale la lettura delle pagine di certi generi editoriali, come anche quella dei file PDF che vengono scaricati dalla rete. Questo diffuso comportamento mostra un cambiamento da parte dell’individuo, del suo modo di percepire la lettura e di rappresentarsi come lettore, con implicazioni per gli istituti chiamati a monitorare questo tipo di processi (case editrici e soggetti istituzionali preposti a favorire i processi di socializzazione della lettura). D’altra parte, altre indagini – svolte soprattutto in ambiti lavorativi, ma anche scolastici e universitari – evidenziano come la condivisione di materiali scaricati dalla rete abbia dimensioni ben più significative rispetto a quelle evidenziate dall’Istat36. Solo in Italia, che certamente non è all’avanguardia nell’uso di tecnologie legate al web, circa 4 milioni di persone affermano di ricercare e scaricare dal posto di lavoro materiali online come libri, capitoli di libri, articoli, documenti e report di ricerca per motivi di lavoro, e di metterli poi in condivisione con i colleghi.

Già nel 2005 il 45% degli utilizzatori di Internet affermava di archiviare sul proprio personal computer (oppure su CD-Rom) materiali editoriali (capitoli di libri, articoli di riviste, working papers, letteratura grigia) venendo così a creare vere e proprie biblioteche digitali e un’analoga percentuale di giovani effettuava archiviazioni essenzialmente per motivi di studio.

La comprensione del fenomeno ‘lettura’, la definizione delle sue dimensioni assolute e del suo andamento nel tempo, in base alle variabili sociodemografiche della popolazione o legate agli stili di vita, è già oggi sempre più proiettata e inserita all’interno delle altre dimensioni del consumo culturale e del tempo libero con effetti più rilevanti sugli aspetti economici e occupazionali della società.

La lettura di un libro o di una rivista (e prima ancora il loro acquisto o la loro acquisizione in una biblioteca) rappresenta un’alternativa che l’individuo si riserva tra diversi modi di occupare il proprio tempo libero, di informarsi, studiare,

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24 aggiornarsi, quindi come una possibile scelta tra prodotti/servizi diversi.

Assistiamo a cospicui movimenti tra queste diverse forme di accesso e integrazione tra contenuti editoriali e culturali: sappiamo che già oggi il 19% di chi sceglie di vedere un film in sala lo fa perché ha letto il libro da cui la versione cinematografica è tratta. Ma sappiamo anche come il 14% di chi compra un libro lo fa dopo aver visto il film di cui il testo letterario costituisce il primo anello della catena di valore37. Tali processi si ripercuotono sui modi e sui tempi del leggere: si pensi solo all’allungamento del ciclo di vita di un libro nel momento in cui se ne trae un film o una versione televisiva. La lettura della pagina scritta (sia quella di un libro o di un quotidiano), fin dallo sviluppo del suo stesso contenuto, si trova oggi già inserita e posta in relazione con le altre piattaforme tecnologiche attraverso cui vengono veicolati i contenuti: Internet, il web 2.0, la telefonia cellulare, le televisioni satellitari e così via.

Altro fenomeno già evidente oggi, ma destinato a crescere nei prossimi anni, è quello dell’acquisto libri tramite canali di vendita diversi: dalla libreria a conduzione familiare al multistore, alla libreria online, all’edicola, alla fiera del libro. Questa tipologia di lettore affianca l’uso di una ‘tecnologia’ consolidata come quella del libro ad altre piattaforme tecnologiche; lo stesso singolo lettore pretende di scegliere da quale format tecnologico accedere a un contenuto tendenzialmente simile: il libro stampato in offset, rilegato in brossura e con la copertina curata, oppure il file PDF acquistato e scaricato in rete e stampato attraverso i sistemi di print-on-demand. Tutto ciò crea modi diversi di essere ‘lettore’ e pertanto assisteremo a cambiamenti nei paradigmi più tradizionali relativamente a tutto ciò che si deve intendere con ‘lettura’, e degli aspetti che assieme a essa devono venir misurati. Gli elementi del triangolo che delineano le relazioni tra autore-testo, editor-libro e lettore-lettura sono iniziati a cambiare nella loro reciproca dimensione relazionale.

Le competenze alfabetiche e di comprensione dei testi restano centrali. Tuttavia diventano significativi per il modo stesso di leggere anche i crescenti processi di mobilità urbana e il fatto che l’attività della lettura sia effettuata in misura crescente durante gli spostamenti. A processi di lettura verticale (quella mattutina del quotidiano, o serale del romanzo) si stanno sostituendo letture fatte in momenti e occasioni sempre più parcellizzate all’interno dei processi di mobilità: breaking news

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25 mattutine, free press sul mezzo pubblico, notizie dagli schermi al plasma delle fermate o sui mezzi pubblici, siti Internet dei quotidiani sul posto di lavoro o all’università, notizie lette sul cellulare, free press serale al rientro ecc.

Rapide accelerazioni sono innanzi tutto dovute alla crescita economica e del Pil: in Italia fino al 1973 la quota maschile dei lettori di libri era superiore a quella femminile; è dagli anni ottanta che si è verificato il sorpasso delle donne, come effetto delle trasformazioni socio-culturali del Paese. Un cambiamento imputabile all’annullamento avvenuto negli ultimi quarant’anni delle differenze di genere nei livelli di istruzione della popolazione e di inserimento di quella femminile nei processi lavorativi.

I grandi processi di crescita della lettura sono quindi frutto di cambiamenti sociali ed economici: dell’aumento del Pil, della scolarizzazione e della sua qualità, del reddito familiare, della disponibilità delle famiglie a investire in istruzione e cultura sul futuro dei loro figli. Come è avvenuto in Italia tra gli anni sessanta e settanta, periodo durante il quale i lettori di almeno un libro in un anno (popolazione di più di 6 anni) sono passati dal 32,3% del 1965 (14,8 milioni di persone) al 44% di oggi (24,7 milioni di persone).

Fra i giovani di età compresa tra gli 11 e i 14 anni, quella in cui si legge di più, c’è un 57,2% di lettori, mentre legge poco più del 22% di chi ha superato i 75 anni. Fra gli anziani, però, è in crescita il numero dei “lettori forti”. Il problema sta nel fatto che molti giovani smettono di leggere al termine del loro impegno scolastico.

Fra i ragazzi già a 15 anni i non lettori superano i lettori. I dati recentemente diffusi dall’Istat ci informano che nel 2013 la diminuzione dei lettori ha interessato soprattutto i maschi tra i 15 e i 17 anni (dal 48,9% del 2012 al 39,4% del 2013) e le femmine tra i 45 e i 54 anni (dal 58,1% al 53,7%), ma, nel complesso, le differenze di genere nei livelli di lettura permangono invariate: in media legge il 49,3% delle donne e il 36,4% degli uomini. L’uomo che entra nel mondo del lavoro riduce drasticamente la propensione alla lettura, anche se possiede un titolo di studio elevato e buoni incarichi. Tanto più che, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi, le attività di aggiornamento professionale sono così scarse che dirigenti e professionisti leggono meno dei loro subalterni.

Evidentemente sono sbagliate le politiche di promozione nelle scuole, altrimenti non si capisce un così forte calo di lettori a fine ciclo. I giovani dovrebbero essere avvicinati

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26 in maniera più stimolante ai libri. Bisognerebbe cercare di allargare la base dei lettori in età lavorativa ma qui servono iniziative pubbliche. Ci si dovrebbe poi concentrare sulla prima infanzia. Il maggior numero di nuovi “lettori forti” è tra chi è stato avvicinato alla lettura fin da piccolo, in ambienti familiari e scolastici dove era forte la presenza di libri. In questo senso si sta muovendo l’iniziativa Nati per leggere.

Indagando all’interno delle diverse categorie di lettori possiamo notare come esse tendano a diversificarsi. Il “lettore forte” è una tipologia che si condensa soprattutto nel Nord e nei grandi centri urbani, con una differenza di genere che pone la componente femminile sopra la media; sono distribuiti su diverse fasce di età ma si concentrano in particolare fra i 55 e i 74 anni. Con i passaggi generazionali la propensione alla lettura e l’intensità di lettura diventano inversamente proporzionali: nei giovani troviamo più alta l’attitudine alla lettura ma anche tanti “lettori deboli”, mentre tra gli adulti diminuisce la propensione alla lettura e aumenta il numero di libri letti da chi si dichiara lettore. Infatti, i “lettori deboli” sono presenti in maggioranza tra i giovani fino a 24 anni, i “lettori medi” fra chi ha un’età compresa fra i 18 e i 54 anni, mentre i “lettori forti” si concentrano particolarmente tra gli ultracinquantacinquenni. I “lettori forti” vantano elevati reddito e status sociale, risultano più introversi e meno attratti dal rischio e dalla novità e sono molto soddisfatti della propria vita in svariati ambiti (istruzione, sfera professionale e relazionale). Relativamente ai loro comportamenti di acquisto e di lettura, possiamo affermare che i “lettori forti”:

 acquistano il doppio di libri rispetto al totale dei lettori, di tutti i generi e attraverso tutti i canali (anche i libri letti sono più del doppio rispetto al totale)

 dedicano poca attenzione ai quotidiani sportivi, mentre per i quotidiani d’informazione, finanziari e gratuiti mostrano un interesse in linea o leggermente al di sopra della media

 ascoltano radio e tv secondo percentuali in linea con il totale dei lettori

 frequentano il cinema più assiduamente rispetto alla media

 usano il personal computer in maniera più accentuata, così come maggiore è il tempo medio di connessione a Internet; il possesso e l’uso delle altre tecnologie è simile a quello dei lettori in generale.

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27 È interessante accennare a una ricerca sulla vita delle collaboratrici domestiche che lavorano nelle case italiane, ideata e curata da Vinicio Ongini e organizzata dalla Provincia di Roma all’interno del progetto Biblioteche del mondo. L’indagine è stata condotta su 100 donne provenienti da 27 Paesi diversi e si è appuntata sui loro bisogni e costumi culturali38. Ne è emerso che a leggere abitualmente sono il 76,5% delle intervistate, molte delle quali sono lettrici forti: il 15,3% legge addirittura più di 20 libri all’anno, il 16 ne legge tra i 10 e i 20. Il 58,8% del campione intervistato ha addirittura dichiarato che in patria leggeva anche di più. Il 68% di esse acquista i libri che legge, il 15% li prende in prestito in biblioteca e un residuo 8% li ottiene direttamente dai propri datori di lavoro. Leggono prevalentemente in italiano e tra i loro autori preferiti spiccano Calvino, Eco, Rodari e Baricco. La lettura per il 19,7% di loro è considerata uno dei modi preferiti di passare il tempo libero e alcune dichiarano di intenderla anche come una spinta alla riflessione e alla crescita personale.

I “lettori medi”, che nei periodi di difficoltà e di crisi sono quelli che a volte tengono maggiormente, presentano un profilo sostanzialmente in linea con quello di coloro che hanno letto almeno un libro nell’ultimo anno. Sono maggiormente persone adulte. Godono di reddito e status elevati; nutrono interessi e stili di vita ancora più innovativi dei “lettori forti”, sono attratti dal rischio e hanno una propensione per il successo e la leadership.

I “lettori deboli” – il cui rapporto con il libro e la lettura non è sufficientemente consolidato e che a volte sono i primi ad abbandonare la lettura nei periodi di recessione o in assenza di forti stimoli, sono in gran parte giovani e giovanissimi, hanno un bagaglio di risorse medio/medio-alto, leggermente più contenuto rispetto al totale dei lettori. Il loro profilo e i loro consumi culturali dipendono in larga misura dalla fascia di età di appartenenza:

 sono più propensi a divertirsi

 mostrano meno interesse per la partecipazione politica ma tendenzialmente sentono la preoccupazione per la lotta al crimine

 acquistano circa 2 libri all’anno e ne leggono mediamente 1,5

38 Cfr. “Chi sono i lettori forti in Italia? Colf e badanti straniere”, Libreriamo. La piazza digitale per

chi ama i libri e la cultura, 29 gennaio 2014,

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 hanno interessi meno pronunciati per un genere letterario specifico

 leggono molto di più i quotidiani sportivi e in modo più contenuto quelli di informazione e finanziari

 ascoltano molto la televisione, tenendosi in linea con la media nazionale, mentre frequentano con minore intensità le sale cinematografiche

 partecipano ai diversi eventi culturali secondo percentuali superiori alla media

 usano il computer e hanno un possesso delle nuove tecnologie, secondo percentuali allineate al totale dei lettori, mentre l’uso di Internet e la frequenza di collegamento sono sopra la media.

Un’analisi dei lettori secondo la loro condizione lavorativa ci dice che le percentuali di chi ha letto nel corso dell’anno almeno un libro non scolastico nel tempo libero sono quasi identiche tra studenti e tra quadri e impiegati: stupisce che gli studenti leggano meno degli impiegati (65,2% contro 68,1%); un’altra sorpresa viene dal fatto che la percentuale è del 62,7% tra dirigenti, imprenditori e professionisti, quindi inferiore a quella dei quadri e degli impiegati, che verosimilmente sono meno colti; molto più basso il dato fatto registrare da casalinghe (35%), pensionati (33,2%), operai e apprendisti (30,6%), lavoratori autonomi (36,9%).

La lettura, sia essa di libri, quotidiani o periodici, oggi è diventata solo una delle possibili opportunità che l’individuo (lettore e consumatore) si riserva di praticare, rispetto ai diversi modi di occupare il proprio tempo libero, raccogliere informazioni, aggiornarsi professionalmente, studiare ecc. Essa si colloca – almeno nei mercati editoriali occidentali avanzati – sempre più all’interno di altre pratiche e attività del consumo: in primo luogo quelle riguardanti il proprio tempo libero (guide per il turismo), le mode e gli hobby (manuali) e così via.

Non si spiega altrimenti il fatto che la lettura stia perdendo in molti paesi le caratteristiche di un processo lineare (più o meno veloce e continuo) di crescita (tipologia che aveva contraddistinto le dinamiche dei secoli XIX e XX) tra processi di alfabetizzazione ed estensione dell’obbligo scolastico, biblioteche circolanti e sviluppo di moderni sistemi di public library. La convinzione che chi diventa ‘per la prima volta nella sua vita’ lettore di un libro sia comunque un lettore acquisito

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29 per sempre perde di valore in favore di un’immagine di lettore che deve ogni volta essere ri-conquistato: con nuovi sistemi di prodotti/autori, mode e tendenze culturali e letterarie, meccanismi di fidelizzazione, distribuzione del libro nel maggior numero possibile di luoghi che il potenziale lettore si trova a frequentare nel proprio quotidiano.

In questa logica diventano centrali, accanto alle politiche tradizionali di promozione della lettura (quelle rivolte all’allargamento del mercato come, per esempio, i Presìdi del libro e il Centro per il libro e la lettura), quelle destinate alla ‘manutenzione’ del lettore e alla sua fidelizzazione (festival letterari). Così come diventerà centrale la necessità di costruire e disporre di sistemi statistici capaci di descrivere adeguatamente i fenomeni della lettura e di quelli culturali più in generale (cinema di sala e registrato, musica e teatro, frequentazione di mostre e musei ecc.) che non trovano oggi, all’interno del generale processo di costituzione di un nuovo spazio culturale europeo, statistiche in grado di definire in modo omogeneo l’insieme e le interrelazioni tra questi fenomeni.

Nelle rilevazioni statistiche manca soprattutto la riflessione sulla capacità da parte dell’intervistato di percepire come lettura alcune particolari, ma ormai consolidate, modalità di esplicare questa attività: per esempio lo spostamento parziale di esse dalla carta allo schermo dei supporti elettronici; oppure di recepire come tale la lettura di documenti editoriali (articoli di riviste, capitoli di libri) stampati su carta mediante modalità di home publishing (da PDF sulla stampante di casa o d’ufficio); o ancora di prodotti editoriali quali manuali, guide di viaggio e simili che presuppongono un accesso mirato alla pagina, o di libri acquistati assieme a quotidiani e periodici, di libri di graphic novel e di graphic journalism e altro.

1.3 Dalla carta allo schermo

I libri tradizionali siamo abituati a vederli, toccarli, annotarli, in qualche caso a

personalizzarli con un ex libris. Per molte persone la passione per la lettura è fortemente mediata dall’amore per il libro, per la sua fisicità, per la sua struttura cartacea. Per costoro lettura e libro di carta rappresentano ancora un binomio

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30 inscindibile. La stessa cosa può essere affermata per i nostri giovani, inevitabilmente nativi digitali39? Quanto lo scorrere delle pagine stampate tra le mani conta ancora per la qualità della lettura praticata dai giovani? Sono interrogativi importanti nella nostra società della conoscenza, in un momento storico in cui l’atto tecnologico della lettura (e quindi della trasmissione dei saperi) sta profondamente cambiando. Oggi il libro tradizionale è sempre meno al centro dello scambio culturale, anzi, la sua persistenza è addirittura posta in discussione, soprattutto a causa della diffusione di nuove tecnologie che permettono di leggere in modo diverso e con dinamiche prima impensabili. Il testo elettronico, già da tempo imprescindibile nella fase della scrittura, sta acquisendo spazi sempre più ampi anche nella fase della lettura, cioè del consumo del testo. C’è chi afferma che modificherà definitivamente il nostro status di lettori, non solo per i testi prodotti in origine elettronicamente, ma anche per i libri antichi (sia manoscritti che a stampa), destinati a uscire virtualmente dalle biblioteche storiche, per essere consegnati a una nuova vita digitale, permettendo allo studioso di disporne in ogni momento grazie allo schermo di un pc o di un’e-reader. Si tratta di considerazioni che hanno innescato discussioni e polemiche tra i fautori delle nuove tecnologie e coloro che pensano al rischio che i valori e i saperi da sempre trasmessi attraverso la stampa possano perdersi o depauperarsi se affidati alla impalpabilità dei byte. Questa non è una novità; ogni progresso culturale è stato sempre accompagnato da innovazioni tecnologiche, dalla comparsa di nuovi media per la trasmissione del sapere, e ogni volta che ciò è accaduto ci sono state resistenze e aperture.

Già nell’antichità classica si assiste al contrasto tra la trasmissione orale del pensiero e il sempre più importante apporto della scrittura come atto ‘intellettuale’40. Potremmo poi ricordare l’uso della tavoletta cerata (funzionalmente simile al touchscreen del tablet) in opposizione all’uso dell’inchiostro sul papiro, continuare

39 L’espressione nativo digitale (dall’inglese digital native) viene applicata a una persona che è cresciuta

con le tecnologie digitali. Fu Marc Prensky a coniare l’espressione nel suo articolo Digital Natives, Digital

Immigrants pubblicato su “On the Horizon” nel 2001. Con questa definizione egli indicava un nuovo

gruppo di studenti che stava accedendo al sistema dell’educazione, nati parallelamente alla diffusione di massa dei PC a interfaccia grafica nel 1985 e dei sistemi operativi a finestre nel 1996. Il nativo digitale cresce in una società multi schermo, e considera le tecnologie come un elemento naturale non provando alcun disagio nel manipolarle e interagirvi. Per contro l’espressione immigrato digitale (digital immigrant) si applica a una persona che è cresciuta prima dell’avvento delle tecnologie digitali e che con queste ha dovuto interagire in un secondo tempo.

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31 con la fabbricazione e la diffusione commerciale del libro in forma di volumen, passare attraverso la fondamentale rivoluzione della transizione dal libro/rotolo al libro/codice, fino ad arrivare, dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili, a quella che Gino Roncaglia chiama la “quarta rivoluzione”: il passaggio al testo elettronico41. Insomma, una lunga storia contrassegnata da innovazioni e resistenze da cui, però, sono sempre scaturite importanti occasioni di progresso civile e culturale; una storia che può insegnarci qualche cosa anche oggi che ci siamo incamminati su una strada che sembra condurre inevitabilmente all’editoria digitale e a un conseguentemente diverso habitus di lettori. Riflettiamo soltanto sul modo rivoluzionario con cui il dispositivo elettronico (device) riposiziona la dialettica fra libro e testo. Fino a qualche anno fa ogni singolo libro è stato un supporto che poteva contenere solo e soltanto il testo che il lavoro editoriale gli aveva abbinato, per cui se avessimo voluto leggere qualcosa di diverso, avremmo dovuto procurarci un altro libro, un altro supporto fisico, magari di diverse dimensioni, con legatura e carta diverse, con caratteri a stampa differenti. Questa considerazione è lapalissiana per noi ma non lo è altrettanto per i nativi digitali. La lettura digitale ha così cambiato la prospettiva del rapporto ‘fisico’ tra lettore e strumento di lettura, con caratteristiche tecniche, aspetto ed estetica ben definiti (tablet, desktop, laptop, smartphone, e-reader), che ci consente di leggere più libri di diversi editori, con differenti caratteristiche redazionali, in diverse lingue, mentre il nostro rapporto fisico con lo strumento di lettura rimane identico e dipende dalla marca, dalla tecnologia, dal software, dalla luminosità dello schermo di cui si dispone. Il tradizionale rapporto libro-testo ne esce completamente sconvolto: con i nuovi dispositivi elettronici possiamo decidere con quali caratteri e di quale grandezza leggere un testo; possiamo scegliere su quale tipo di sfondo leggerlo (bianco, avorio o addirittura nero con caratteri chiari); possiamo stabilire se visualizzarlo su una pagina alla volta oppure con doppia pagina, come nei libri cartacei. Ciò significa che il libro può essere prodotto, diffuso e letto prescindendo dalla sua consistenza materiale e che la comodità della lettura dipende non tanto dalle scelte dell’editore (tipo di carta, inchiostro e caratteri di stampa) bensì dalle nostre scelte personali. È per questo che si lamenta il pericolo della scomparsa del libro cartaceo, assieme a quella di

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