C
APITOLO QUINTO«A God within»: identità del luogo e dimensione del sé in A House Unlocked di
Penelope Lively
Sans cesse les deux espaces, l’espace intime et l’espace extérieur viennent […] s’encourager dans leur croissance.
G.BACHELARD, La poétique de l’espace, 1957 This is the story of a house. It has been lived in by many people. Our grandmother, Baba, made this house a living space. […] She was certain that we were shaped by space. […] Her house is a place where I am learning to look at things,
where I am learning how to belong in space. In rooms full of objects, crowded with things, I am learning to recognize myself.
B. HOOKS, «An Aesthetic of Blackness», 1990
Tra le voci femminili più prolifiche e acclamate nel panorama della letteratura
britannica contemporanea, Penelope Lively (1933- ) ha al proprio attivo un nutrito e
alquanto eteroclito corpus di opere tra libri per l’infanzia, romanzi e saggi
1.
Fatta eccezione per le recensioni e le interviste improntate in modo puntuale al commento
dei successi letterari dell’autrice, sono tuttavia assai pochi i contributi che propongono un
sondaggio accurato e trasversale del suo macrotesto.
La maggior parte di essi (tesi, articoli, recensioni, voci enciclopediche), va peraltro
aggiunto, piuttosto che affacciare letture capaci di gettar luce su aspetti ancora
misconosciuti di tale macrotesto, preferisce in larga misura ripiegare e assestarsi su
orientamenti piuttosto datati, ai quali fanno primariamente capo gli spunti esegetici
proposti da circa due decenni a questa parte nella monografia – a quanto ci risulta, l’unica
1
La produzione letteraria e saggistica di Lively è stata oggetto di studio soprattutto a partire dal 1987, quando il conferimento del prestigioso Booker Prize per il romanzo Moon Tiger (1987) ha contribuito a estenderne la fama, fino ad allora circoscritta all’Europa, anche sull’altra sponda dell’Atlantico.
esistente fino a tempi recenti – in cui Mary Moran ha fornito per la prima volta una
valutazione approfondita delle inflessioni tematiche e semantiche della narrativa di Lively.
Nel suddetto saggio Moran avanza per l’esattezza l’ipotesi che, pur nella loro diversità,
i romanzi dell’autrice siano collegabili tra loro in virtù di elementi tali da suffragare una
notevole similarità di intenti e di interessi peculiari
2.
Il rapporto complesso e dinamico tra passato e presente, scrive Moran, è innanzitutto il
primo grande unicum nella narrativa di Lively, che alla sua formazione storiografica (nel
1954 la scrittrice consegue infatti una laurea in storia presso l’università di Oxford) deve
l’interesse per i nessi temporali implicati nella prospettiva con cui l’individuo si confronta
con il mondo circostante
3.
Per Lively la Storia si palesa in sostanza come un insieme di ricordi che devono essere
ricostruiti e riordinati per poter carpire, almeno parzialmente, l’evolversi di fatti ed eventi
la cui piena comprensione e recuperabilità è insidiata dallo scorrere ineluttabile del tempo:
aperta alla rievocazione incessante del passato e – secondo una linea di pensiero che rivela
ampie consonanze con la poetica postmoderna – sottilmente indagatrice dei codici
semiotici ai quali ci appelliamo per esprimere comportamenti, valori e discorsi, l’opera di
Lively esplora domini tematici che, nel marcare le deficienze di ogni prospettiva
totalizzante e assolutizzante (dal punto di vista sia ontologico che epistemologico),
condizionano in modo inevitabile anche la visione della Storia, mostrandone la vera
essenza di costrutto che non lascia adito a interpretazioni definitive
4.
L’interesse istoriosofico della scrittrice si esplicita così nell’elaborazione e
nell’organizzazione di campi semantici dominati dalla dimensione temporale, dove chiara
2
Le opere prese in considerazione da Moran sono più esattamente le seguenti: The Road to
Lichfield (1977), Treasures of Time (1979), Judgment Day (1980), Next to Nature, Art (1982), Perfect Happiness (1983), According to Mark (1984), Moon Tiger (1987), Passing On (1989), City of the Mind (1993). Il saggio abbonda inoltre di un cospicuo numero di riferimenti alla
narrativa per l’infanzia, che, pur se caratterizzata dall’impiego di un diverso apparato linguistico e formale, tende a uniformarsi con i testi romanzeschi sul piano tematico. Su quest’ultimo punto, cfr. in particolare B.HEARNE, «Across the Ages. Penelope Lively’s Fiction for Children and Adults»,
The Horn Book Magazine, 75(2), 1999, pp. 164-75.
3
Cfr. M. H. MORAN, Penelope Lively, Twayne, New York 1993, p. 2.
4
Che la visione della Storia trasmessaci da Lively ricalchi alcuni degli assunti fondanti della poetica postmoderna traspare ad esempio da numerosi passi del celebre romanzo Moon Tiger, della cui protagonista Claudia – anche lei una storiografa come Lively – ci viene detto: «Claudia’s […] ideas about history writing grow out of postmodernist theory concerning the relationship between verbal constructs and reality: specifically the theory that our experience of reality is mediated and shaped by language and that reality is thus in a sense a text, or fiction» (M. H. MORAN, «The Novels of Penelope Lively. A Case for the Continuity of the Experimental Impulse in Postwar British Fiction», South Atlantic Review, 62(1), 1997, pp. 101-20, qui p. 110).
appare «la resa del senso di perdita del contesto della Storia» in qualità di «supporto
esterno»
5:
Lively’s interest in the interactive relationship between past and present necessarily includes a concern with the complexity of time. Lively is fascinated by the paradoxical nature of this
dimension: although we subscribe to the notion that time is objective and chronological, we often intuit it to be subjective and synchronous. She continually urges this point in her
fiction. For example, by means of characters’ insights and experiences, she suggests that history exists only insofar as there is someone contemplating it; that clock time is merely a human construct, not an absolute property of reality; that people can experience epiphanic moments in which they suddenly […] apprehend the coexistence of all time; and that human consciousness is a fluid amalgam of memory and awareness of events occurring in the present – the condition identified by philosopher Henri Bergson as durational time6
.
Nella sua fiction Lively cerca dunque di far trasparire in filigrana la nozione che il
passato non è un monolito incorruttibile (o altrimenti «un’episteme obsoleta», per usare
un’espressione cara a Linda Hutcheon)
7, ma qualcosa di estremamente fluido, che nella sua
malleabilità – caratteristica, questa, retta dall’assunto che la Storia venga fruita dai posteri
soltanto in forma testuale, sottoponendosi di conseguenza alle manipolazioni cui ogni
narrazione per sua natura risulta esposta
8– va incontro a rimodellamenti nei quali giocano
un ruolo di primo piano la prospettiva, la cultura e l’epoca di appartenenza di chi se ne fa
interprete: «The trouble with the past», fa dire la scrittrice a uno dei suoi personaggi in The
Road to Lichfield,
is that it is also time transformed. There are days, in which we move around, but in them are we also moved, and moved sometimes so far from our established selves that there is no going back. The days are gone, but are never to be emptied. […] There is no going back […]. This is the process called experience, by which it is made certain that we have about as much stability
5
D. CORONA, «Al di qua del paradiso: memoria spaziale e confini del rifugio in Little Eden.
A Child at War di Eva Figes», in M. Bottalico – M.T. Chialant, op. cit., pp. 45-61, qui p. 47.
6
M. H. MORAN, Penelope Lively, cit., p. 4.
7
Come specifica ulteriormente Hutcheon: «What postmodernism does, as its very name suggests, is confront and contest any modernist discarding or recuperating of the past in the name of the future. It suggests no search for transcendent timeless meaning, but rather a re-evaluation of and a dialogue with the past in the light of the present. We could call this, once again, ‹the presence of the past› or perhaps its ‹present-ification›. It does not deny the existence of the past; it does
question whether we can ever know that past other than through its textualized remains» (L. HUTCHEON, op. cit., pp. 19-20. Corsivi nel testo).
8
Anche questo è un tratto dell’opera di Lively che rivela patentemente la propria pertinenza con le teorie di molti pensatori postmoderni intorno alla Storia e alla sua intrinseca natura testuale. Come già rilevato da Moran in «The Novels of Penelope Lively», cit., pp. 109-10, sono per esempio notevoli le assonanze tra le idee sulla Storia che filtrano dalle parole dei personaggi e quelle discusse dallo storiografo Hayden White in Metahistory. The Historical Imagination in
as an amoeba. We complete, we think, an opinion, an attitude, a response – only to find it blown apart by the casual and random activities of time9.
Il grado di interessamento nei confronti del tempo coinvolge inoltre la dimensione
privata della vita umana, nell’ambito della quale spetta più propriamente alla memoria,
ossia al luogo di stratificazione di eventi e ricordi importanti ai fini dell’evoluzione della
personalità individuale, preservare le tracce di fasi anteriori della vita, ricalcando in parvo
la funzione assolta nella sfera pubblica e collettiva da tutti quei resti, concreti e materiali
(edifici, toponimi, linguaggi), in cui si sedimentano le reminiscenze di ere storiche
altrimenti irrecuperabili: «This interest in the subjective nature of time», commenta ancora
Moran,
is part of Lively’s larger interest in the subjective nature of reality in general. Just as all her books are concerned in some way with the connection between past and present, so do all of them assert to one degree or another her belief that we always interpret reality in a partial way, according to the particular cargo of associations, knowledge, and emotional needs we possess; we never – at least after early childhood – receive reality unfiltered10.
Accanto al passato collettivo e personale, è infine la soggettività l’altra fondamentale
costante dell’opus romanzesco di Lively, che a essa dà risalto attraverso la costante
focalizzazione sul legame dialettico tra processi mentali e percezione. In questo specifico
frangente, secondo Moran, il favore accordato alle idiosincrasie soggettive è resa decisiva
dagli indizi speculativi celati nelle maglie del testo o dalle riflessioni dei singoli
personaggi, i quali lasciano spesso intendere manifestamente come il mondo non possa
prendere forma se non in stretta dipendenza dai filtri (emotivi, psicologici, culturali e
percettivi) con cui il soggetto lo esperisce
11.
Ne consegue che anche la Storia, nonostante l’organica crisi del senso unico e assoluto
che interviene a vanificare il tentativo di una sua ricostruzione oggettiva, appare vincolata
9
P.LIVELY,The Road to Lichfield, cit. inA. Lottini, Lively Landscapes of Literature, tesi di laurea, Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Università di Pisa, Pisa 2006, p. 81.
10
M. H. MORAN, Penelope Lively, cit., p. 4.
11
L’enfasi sul relativismo epistemologico che tanta parte riveste nei romanzi di Lively permette in tal caso di riscontrare sostanziali affinità con la poetica modernista. Come suggerisce Moran: «another way Lively reveals her affinity with modernism is in her emphasis on psychological time. […] The modernist novel is […] characterized by a fracturing of time, a re-placement of chronological plot with innovative narrative techniques, such as stream-of-consciousness, intended to mirror the way the human mind actually experiences reality. […] With Lively the influence can be seen in her portrayal of the potency of memory and the way one’s memories impinge upon and are seamlessly interwoven with one’s perceptions. Although […] most of her novels do contain plots, the linearity of the outer narrative is frequently overshadowed by the circularity and recursiveness of characters’ mental experiences with time» (M. H. MORAN, «The Novels of Penelope Lively», cit., p. 107).
in modo palese alla mente e al sensorio umano, senza i quali non potrebbe esistere:
«how perception and imagination are linked […] is an ongoing concern in [Lively’s]
fiction, often taking the form of an exploration of how cultural assumptions and images
inform our view of history and the past. As a postromantic, postmodernist thinker, she
believes that people […] do not perceive the world passively but rather create meaning for
it via their imaginations»
12.
Il valore altamente funzionale e strutturante di tutti questi elementi – il tempo, la
memoria, la soggettività – permette a Moran di riscontrarne l’incidenza anche a livello
formale. Il materiale narrativo di Lively, infatti, avvalora la tesi del carattere arbitrario e
labile della memoria e della Storia – sia individuale che collettiva – tramite il ricorso ad
abili stratagemmi discorsivi e strutturali.
Tra questi, è possibile annoverare i frequenti e repentini cambi all’interno del frame
narrativo («[Lively] typically uses a third-person narrative frame for her story, but
interrupts this frequently with intimate first person forays into the main characters’
consciousness»), l’introduzione di accadimenti esterni che proiettano la memoria dei
personaggi in un passato ormai remoto («[t]hese exposures reveal the extent to which
people live in their memories»)
13, o ancora – e questo a ribadire un’implicita aderenza al
relativismo epistemologico del Modernismo
14– l’assunzione di una prospettiva multipla da
parte della voce narrativa, cui viene delegato il compito di mostrare la natura soggettiva
della referenza e le possibili distorsioni della percezione individuale («[e]mploying a
shifting (among the main characters) third-person limited point o view throughout the
novel, [Lively] occasionally presents the same episode two or more times, each time from
a vantage point of a different participant»)
15.
Gli studi posteriori alla pubblicazione di Moran hanno confermato la piena attendibilità
euristica ed ermeneutica di quanto da lei riscontrato sul piano dei contenuti e della tecnica
dispiegati nel corpus di Lively, motivo per cui alla studiosa possiamo a ben vedere
ascrivere il merito di aver saputo rintracciare nei primi romanzi della scrittrice i germi di
tematiche e modalità espressive che altri, dopo di lei, indicheranno in toto come costanti
centrali della sua varia produzione.
12
M. H. MORAN, Penelope Lively, cit., p. 105.
13
Ivi, p. 3.
14
Per una più attenta disamina sulle modalità attraverso le quali, specialmente in alcuni dei suoi romanzi più sperimentali, Lively realizza una paradigmatica combinazione di tratti afferenti rispettivamente alla poetica del Modernismo e del Postmodernismo, cfr. in particolare M. H. MORAN, «The Novels of Penelope Lively», cit., passim e K. EBEL, «…Something that People
Can’t Do without». The Concepts of Memory and the Past in the Work of Penelope Lively and Other Contemporary British Writers, Winter Universitätsverlag, Heidelberg 2004, pp. 1-92.
15
In una serie di recenti e aggiornati articoli è stato appunto ribadito come tra le
componenti contenutistiche che sostanziano l’interpretazione dei testi di Lively spetti al
tempo la qualifica di elemento maggiormente pertinentizzato, in quanto è in relazione a
esso che l’esperienza di ogni individuo si definisce e acquista significato, a dimostrazione
del suo impossibile dissociarsi dal movimento della Storia
16.
Nel valutare il debito del macrotesto della scrittrice verso alcune delle più invocate
proposizioni sui caratteri del Postmodernismo letterario – prima tra tutte quella
concernente la confutazione della pretesa scientista di guardare alla Storia con un
atteggiamento obiettivante – Eileen Williams-Wanquet riscontra per esempio che:
Les romans de Lively s’inscrivent dans le contexte [de la] fascination de la littérature pour l’histoire. Les questions suivantes reviennent de manière répétitive, voire obsessionnelle dans tous les romans: Quelle est la nature du réel et comment y avons-nous accès? Comment fonctionne la mémoire? Comment pouvons-nous connaître notre propre passé et celui des autres? Comment et à partir de quoi écrit-on l’histoire? Y a-t-il une histoire ou des histoires? Quel est le sens de l’histoire? Quel est le lien entre histoire publique et histoire privée? […] ce qui intéresse Lively c’est la philosophie de l’histoire. Elle met en intrigue non pas des faits historiques, mais des idées théoriques, offrant une réflexion sur la possibilité et la manière d’écrire l’histoire. Ses textes, ancrés dans la géographie et l’histoire régionale, nationale et internationale ne reprennent pas ces histoires, mais examinent la manière dont elles sont enregistrées pour la postérité, en mettant en scène des personnages qui sont eux-mêmes historiens ou biographes. Les romans de Lively sont ancrés non pas dans des faits historiques, mais dans l’histoire d’une philosophie critique de l’histoire qui questionne l’objectivité historique et qui se demande à quel point l’histoire peut être considérée comme une fiction. Partant d’une réflexion sur la mémoire et sur la manière que nous avons d’appréhender le réel, Lively examine les concepts de loi, de cause et d’explication en histoire, montrant comment l’objectivité est soumise à l’intentionnalité des acteurs et des écrivains de l’histoire, évaluant la part du hasard, du déterminisme et du libre arbitre dans la vie des hommes, explorant les relations dialogiques entre passé et présent, pour essayer de déterminer quelles sont les limites de la connaissance historique17.
Vale tuttavia la pena ricordare che, anche nel pervasivo manifestarsi di un forte senso
della temporalità, le immagini del passato e della memoria distillate dalle opere di Lively
16
Ad avvalorare la lettura di Moran sono intervenuti diversi autori, i quali hanno variamente commentato e in qualche caso approfondito le considerazioni della studiosa, adattandole poi all’analisi di porzioni più ristrette del corpus di Lively. Oltre al già menzionato studio di Hearne, si vedano ad esempio: D.RASCHKE, «Penelope Lively’s Moon Tiger. Re-envisioning a History of the World», Ariel, 26(4), 1995, pp. 115-32, T. COSSLETT, «“History from Below”. Time-Slip
Narratives and National Identity», The Lion and the Unicorn, 26, 2002, pp. 243-53 e infine D.POSTLETHWAITE, «Looking for Kath», The Women’s Review of Books, 20(10-11), 2003, pp.
27-28.
17
E. WILLIAMS-WANQUET, «Les romans de Penelope Lively: histoires d’épistémologie», Alizés, 20, 2001, pp. 163-90, qui pp. 173-74.
non si presentano mai perfettamente indipendenti dal corrispettivo primario nel quale è
compresa l’importanza dello spazio.
In effetti, alla stessa Moran non sfugge del tutto la perspicua rilevanza della dimensione
spaziale all’interno dei romanzi dell’autrice, nei quali, argomenta la studiosa, sono proprio
le topografie della Storia a essere preposte al recupero del ricordo in virtù della loro natura
palinsestica
18. Né tantomeno l’incidenza dello spazio manca di manifestarsi a livello
strutturale: oltre a disporsi nelle pieghe della Storia e a percorrere l’ossatura profonda dei
romanzi di Lively, la coordinata spaziale è ipso facto ciò su cui sembra primariamente
modellarsi l’impalcatura diegetica di alcuni tra i suoi romanzi più sperimentali (e.g. Moon
Tiger, City of the Mind e Cleopatra’s Sister), dove lo scardinamento della linearità
cronologica, insieme alla già accennata giustapposizione dei punti di vista, inducono il
testo ad adattarsi alla misura dello spazio più che del tempo, o meglio ancora a modellarsi
su una struttura spazializzata, che si contraddistingue per l’andamento spesso discontinuo
della narrazione
19.
Sennonché per Moran, così pure come per la critica più aggiornata, l’adesione al ruolo
ancillare dello spazio rispetto al tempo sembra essere talmente profonda da impedire di
riconoscerne appieno l’impatto sulla mitopoiesi autoriale. Il fatto che tale aspetto non abbia
ancora trovato opportuno approfondimento, se non in maniera incidentale e asistematica, è
un dato tanto più sorprendente alla luce del costante moltiplicarsi degli studi che, a un
livello più marcatamente generale, hanno avviato accurate disamine intorno ai luoghi e agli
spazi in letteratura.
Ma è soprattutto sul piano inerente alle opere dell’autrice che tale lacuna critica non
manca di sorprendere: salvo alcune sporadiche annotazioni in merito al rilevamento nei
romanzi di Lively di una non meglio definita “evidenza spaziale”
20, gli unici studi che si
18
Cfr. P.LIVELY, «Bones in the Sand» (1981), cit. in M. H. Moran, Penelope Lively, cit., p. 6. Nel saggio dal titolo The Presence of the Past. An Introduction to Landscape History (1976),
emerge ad esempio come le vestigia del passato siano preservate nel paesaggio, che in qualità di palinsesto esprime per Lively l’importanza «of training one’s eye and one’s imagination to detect these layers of the past lying just below the surface of the present» (ivi, p. 2).
19
Per approfondimenti in merito, cfr. M.H.MORAN, «The Novels of Penelope Lively», cit., pp. 107-109.
20
Evidenza di cui ci offre un fugace riscontro già la stessa Moran, che a sostegno della tesi concernente il costante ancoraggio dei personaggi livelyani alla realtà fisica, evidenzia: «Lively’s characters often reflect on the role physical objects and places play in maintaining their sanity and sense of structure […]. [They] indulge frequently in the pathetic fallacy. […] in their memories they often project the emotions they experienced during a particular episode onto the setting of that episode, and hence a tree, a bowl of flowers, or a sun-dappled lawn seems in recollection to shimmer with significance» (M. H. MORAN, Penelope Lively, cit., pp. 89-90). Approfondimenti ulteriori sulla questione sono inoltre reperibili in E. WILLIAMS-WANQUET, «The Geography of Memory in the Novels of Penelope Lively», Études britanniques contemporaines, 29, 2005, pp. 97-110.
propongono quale effettivo e dichiarato obiettivo l’esame dei luoghi da lei ritratti sono in
prevalenza singoli interventi in margine all’indagine di Moran, della quale vengono in
larga misura corroborate le valutazioni
21.
La pagine che seguono cercheranno di colmare le lacune appena riscontrate almeno sul
versante delle opere più apertamente autobiografiche di Lively
22, con un’analisi volta a
evidenziare come il dato topologico, in quanto aspetto connotante dei meccanismi che
inducono all’esplicitazione di ricordi e immagini sottratte al passato, intervenga nel
plasmare la matrice scritturale della storia raccontataci, caricandosi così di una forte
valenza ermeneutica, più che di una mera praticità descrittiva.
La disamina del livello di pertinentizzazione dei dati relativi allo spazio, specie nella
più recente A House Unlocked (2001), avvalorerà la tesi che i luoghi dell’autobiografia
svolgono la funzione di arbitri incontrastati di valore, ai quali Lively guarda non già nella
loro “carica informativa”, ossia come a una summa di tratti significanti atti a sostanziare la
descrizione, ma riconoscendone al contrario la qualità di spazi interiorizzati perché
profondamente «vissut[i], al punto tale da determinare una grandissima personalizzazione
delle percezioni […], con nette delimitazioni, con confini senza equivoci»
23.
Figlia di genitori inglesi, Penelope Lively ha dovuto attendere anni prima di imparare a
conoscere nel profondo le terre e i paesaggi che in seguito si sarebbero convertiti in motivi
unici e inconfondibili per la resa delle modulazioni dei suoi spazi interiori.
Fino alle soglie dell’adolescenza la scrittrice vive infatti in Egitto, dove il padre, che vi
si è da tempo recato in cerca di migliori opportunità lavorative, decide di trasferirsi
definitivamente dopo aver ottenuto un importante incarico presso la Banca Nazionale del
21
In questa direzione si indirizzano, ad esempio, le letture di Ebel, op. cit. e Steve Hardy in «Place and Identity in Contemporary British Fiction», Brno Studies in English, 22, 1996, pp. 107-26.
22
Qui e nel successivo capitolo la parola «autobiografia» verrà impiegata, in alternativa a «memoir», non soltanto come semplice variante lessicale, ma per far riferimento alla storia di una vita (o di una parte di essa, come nel caso di A House Unlocked) contraddistinta, oltre che dalla coincidenza tra autore, narratore e protagonista, dall’inglobamento di alcuni tratti notoriamente ascritti al genere memorialistico (la focalizzazione sulle vite altrui piuttosto che su quella del protagonista/narratore, il ritratto di un segmento circoscritto di vita). Come d’altronde si può evincere dalla discussione già avviata nei precedenti capitoli, non si dovrebbe negare al memoir la possibilità di essere chiamato «autobiografia», perché molte sono le vie attualmente percorse in questo genere letterario, e la maggior parte di esse prevede un abbattimento dei confini tra generi di così stretta consanguineità, tanto che le stesse Smith e Watson non esitano ad affermare che «in
contemporary parlance autobiography and memoir are used interchangeably» (S. SMITH –
J.WATSON, Reading Autobiography, cit., p. 274). Per ulteriori precisazioni di carattere semantico e lessicale sull’uso dei due termini, si veda quanto riportato nel glossario in appendice, alla voce
memoir.
23
Paese: in questa prima fase della sua esistenza, tutto ciò che Lively ricorda dell’Inghilterra
si condensa negli anni compresi tra il 1933 – anno della sua nascita – e il 1945, periodo
durante il quale ha modo di “assaporare” fugacemente gli scenari della madrepatria nel
corso di alcune rarefatte e brevi visite ai parenti.
Scevra dei significati che si è soliti attribuire ai luoghi vicini alle origini della vita
individuale
24, la Gran Bretagna di cui questi viaggi consentono una prima
materializzazione all’interno della sfera percettiva ed emozionale di Lively non assume
inizialmente le sembianze di uno spazio reale, ma conserva piuttosto quelle di uno spazio
provvisto di un’identità e una riconoscibilità astratte. Spiega Lively:
We were English. I was English – that much I knew, deep in my being. It was of central importance […] but what it meant I could not possibly have said. I had been to England briefly for summer visits, before the outbreak of war made this impossible. I remembered little of it, except a windy Cornish beach and my grandmother’s flower-filled garden. […] So far as I was concerned England was a place long away which was nothing much to do with me, except that in some mysterious and solemn way it was, and don’t you forget it25
.
Al contrario l’Egitto, con i suoi paesaggi affollati di animali e persone, le sue strade
26,
la casa e il fiorente giardino del tempo trascorso a Bulaq Dakhrur
27, costituisce ciò che più
di ogni altra cosa si collega al vissuto individuale, assegnando a esso un rassicurante senso
24
Francesco Orlando si riferisce perifrasticamente all’infanzia come all’«inizi[o] della vita dell’individuo» (F. ORLANDO, Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai Romantici, Liviana, Padova 1966, p. 3).
25
P.LIVELY, Oleander, Jacaranda. A Childhood Perceived, Viking, London 1994, p. 17. Tutte le citazioni provengono dalla suddetta edizione, da qui in poi abbreviata in OJ.
26
«[Rural Egypt] was the world. How could it be otherwise? It was a landscape that was bright green and grey-green and tawny. […] It was also a landscape of perpetual motion – the waving palms and the rippling crops and the endless pilgrimages of animals and of people. It teemed with life – the processions of donkeys so laden with berseem [pianta di trifolgio egiziano, n.d.a.] or cane that they were simply four titupping legs topped by a green mound, the long columns of camels, the flocks of goats» (OJ, p. 11).
27
Dopo anni di assenza dall’Egitto, Lively commenta il ritorno a Bulaq Dakhrur con parole che segnalano come il sentimento di commossa nostalgia da lei provato nei confronti della casa in cui ha vissuto da bambina sia una diretta filiazione del senso di appartenenza ai luoghi dell’infanzia: «There it was. Bulaq Dakhrur. Standing there battered but alive, the old shutters still on most of the windows, the big veranda at the back, the front porch, the whole infinitely familiar outline that has featured in my dreams for forty years. I said, ‹This is it›» (OJ, p. 6). L’autrice nota poi, nelle pagine successive: «Of the surroundings, everything had gone. […] Nothing left but the house, stolidly clinging on. Somehow, this was not sad but curiously exhilarating. I had not expected to be there at all. And now the building seemed in some odd way to have the dignity of the Sphinx […]. Bulaq Dakhrur did not seem aloof – quite comfortable indeed, rather like a person who has settled to changed circumstances but does not abandon identity. And to be the only person to have known it both then and now gave me a strange sensation of complicity with a physical object – as though it had the intimacy of life» (ivi, pp. 7-8).
di continuità. A questo porta conferma la stessa Lively quando, nel riflettere sul rapporto
intimo e complice con la casa dell’infanzia, sottolinea:
I felt as though a piece of myself were there, and that I had come back to fetch it. A wave of happiness; a sense of completion. And there was also the powerful feeling that on some other plane of existence the Ur-house was still there also, with the eucalyptus avenue and the lawns and the flower beds, and I with it […]. (OJ, p. 8)
E poco oltre aggiunge:
I was an only child, and as I grew Lucy [la governante di Lively, n.d.a.] was the centre of my existence, my surrogate mother. My parents were peripheral figures of whom I did not see a great deal, for whom I felt an interested regard but no intense commitment. The continuous points of reference through all these glimmering fragments of that time are a person and a place – Lucy’s firm presence, and the equally indestructible backcloth – the sharp precision of the house and the garden […]. I had known nowhere else […]. (ivi, p. 9)
Quella egiziana rappresenta dunque la terra relativamente alla quale Lively solleva in
primis la questione dell’identità, mostrando nei propri scritti autobiografici come
l’universo percettivo dell’individuo, in particolar modo nell’età infantile, sia spesso
suggestionato dal potere di evocazione sensoria che in molti hanno riconosciuto ai
luoghi
28.
La qualità germinativa della dimensione spaziale trova una prima chiara legittimazione
in Oleander, Jacaranda (1993), opera da cui non a caso sono state tratte le precedenti
citazioni: nella suddetta autobiografia, che Lively dedica per intero alla rievocazione del
periodo trascorso in Egitto, i luoghi non si prefigurano mai de facto come esito di una
scelta accessoria o diretta alla semplice stilizzazione narrativa, bensì come vettori
semantici e percettivi – visual/smell/soundscapes che divengono punti di riferimento
personali, «[Lively’s] private map[s] of the place» (OJ, p. 72) – cui l’io autobiografico
ricorre per mediare il proprio sguardo sulla realtà presente e passata.
Decisivo al riguardo è innanzitutto il titolo del libro, con il quale l’autrice sembra
indurre il lettore, seppur in via surrettizia, a cogliere nel legame esistenziale intercorrente
con lo spazio del suo vissuto una delle chiavi esegetiche della narrazione.
Ratificano il conferimento alla componente topologica di una complessa e articolata
sovrastruttura di significati le parole della prefazione, le quali servono fin da subito da spie
loquaci agli intenti rappresentativi e alle linee tematiche che più incideranno sulla
narrazione:
28
Tale argomento è stato diffusamente trattato nei capp. 3 e 4 della presente dissertazione, cui perciò rinviamo per eventuali delucidazioni in materia.
This is a book about childhood. It is also a discussion of the nature of childhood perception and a view of Egypt in the 1930s and 1940s. […] I was the product of one society but was learning how to perceive the world in the ambience of a quite different culture. I grew up English, in Egypt. […] I have tried to recover something of the anarchic vision of childhood – in so far as any of us can do such a thing – and use this as the vehicle for a reflection on the way in which
children perceive. I believe that the experience of childhood is irretrievable. All that remains, for any of us, is a headful of brilliant frozen moments, already dangerously distorted by the wisdoms of maturity. But it has seemed to me that it might be possible to take these pictures in the mind – those moments of seeing – and, by turning them into language, to try both to look at the way in which a child sees and how this matches up with what it was that was seen. And
since what was being seen requires explanation and discussion also, I have written of Egypt,
and of Palestine and the Sudan – of the reality as well as of my childcentred perception. (OJ, pp. vii-viii. Corsivi miei)
Spostandoci poi dal versante paratestuale a quello eminentemente testuale, è possibile
notare come, nei capitoli seguenti, Lively adempia al proposito di recuperare e convertire
in parola le percezioni della sua passata infanzia elaborando il materiale mnestico in stretto
rapporto con i dati relativi agli spazi, reali e concreti – il Cairo, Alessandria, Beit
al-Kritilya – che più di altri hanno avuto la capacità di svolgere un’azione maieutica sul
ricordo.
Essenziali alla comprensione dei luoghi quali canali privilegiati per il riconoscimento
dei percorsi attraverso i quali si è formato il sé individuale sono soprattutto i passi in cui la
scrittrice narra l’abbandono del proprio paese natale in seguito alla separazione dei genitori
e il conseguente arrivo nella brumosa e fredda Inghilterra.
Come in ogni autobiografia coinvolta nella problematica della dislocazione tra territori
spesso tra loro lontani, il distacco dall’universo nel quale fino alle soglie dell’adolescenza
Lively ha consolidato il proprio senso identitario sortisce un effetto di sostanziale
straniamento, che si ripercuote – lo abbiamo visto anche in Hoffmann
29– sulla visione dei
luoghi destinati ad accoglierla.
La persuasione che il suo sia un viaggio verso un mondo altro, mostruoso nella propria
diversità
30, viene limpidamente espressa con l’equiparazione tra il ritorno in madrepatria e
un esilio vissuto nella consapevolezza dell’inizio di una nuova fase della vita:
Lucy and I left for England in a troopship. It was early spring – 1945. The troopship – the
Ranchi – was en route from the far East and India with a cargo of the armed forces bound for
home and demobilization. […] On the Ranchi everyone was elated – the invisible troops, the
29
Si veda in proposito quanto riportato nel cap. 4, § 1. In A House Unlocked, l’autobiografia verso la quale si indirizzerà l’analisi qui condotta, è non a caso a Hoffmann che Lively dedica una breve ma sentita riflessione sull’assenza di radici e sullo scardinamento esistenziale che configurano la condizione tipica dell’emigrato.
30
Così infatti la scrittrice descrive l’approdo della nave sulla quale è imbarcata al porto di Glasgow: «I woke in an unnatural stillness, and monstrosity. […] It was pouring with rain, and bitterly cold. I knew I had arrived in another world» (OJ, p. 164).
other expatriate women. Lucy was exuberant. Everyone was heading home, except for me, who was going into exile. I was twelve, poised for adolescence, though a lot more child-like probably than an adolescent of today. I had little idea what lay ahead, but I knew that
something had come to an end. I remember a feeling of sobriety, rather than of grief. I remember gazing theatrically at the spit of land at the mouth of the canal, as the ship headed
for the open sea, and thinking that I was seeing the last of Egypt. (OJ, pp. 162-63)
Ricorrendo alla geografia umanistica di Relph per sintetizzare efficacemente i termini
del rapporto che l’autrice instaura con l’ancora sconosciuta Inghilterra, potremmo
identificare nella sua reazione un evidente sentimento di existential insideness, che, è
opportuno ricordare, riguarda il senso di essere senza casa e radici in un ambiente con cui
il nuovo venuto non riesce a stabilire un legame di appartenenza: all’arrivo neanche il
suono della lingua che la Lively ha da sempre parlato sembra infatti risvegliare in lei una
sensazione di familiarità con le sue vere origini (Lucy è la sola che «revel[s] in the
camaraderie of her own language, her own country», OJ, pp. 162-63), e tutto, a partire dal
paesaggio, appare come irreale
31in quanto privo di quei tratti significativi che consentono
l’individuazione e la differenziazione del proprio sé («[f]or the moment, I had to come to
terms with this stupefying environment: the inconceivable cold, the perpetually leaking
sky, that grass», ivi, p. 165).
Le considerazioni avanzate da Lively nelle pagine conclusive di OJ indicano tuttavia
che l’emigrante, nel suo desiderio di diventare un insider, può comunque assimilare, e
infine accettare, gli spazi prima percepiti come estranei. Nell’autobiografia questo avviene
nel momento in cui Lively riesce a «ridurre l’isolamento dal luogo», e a sviluppare
«un’intera costellazione di legami dipendenti dall’esperienza», il che prevede, secondo
quanto illustrato da Lando, la conquista della capacità di «orientarsi, provare un sentimento
per le “dimensioni nascoste” di certi luoghi, capire persone, eventi e situazioni, provare un
senso della storia personale ed interpersonale in relazione al luogo in cui si vive»
32.
Tale agnizione si verifica – sempre attenendoci alle valutazioni di Lando – tramite la
conoscenza di un insider esistenziale
33, che nel nostro caso è identificabile con la figura
della nonna materna di Lively, nella cui residenza a Golsoncott (Somerset) la scrittrice si
31
A confermarlo è lo stesso Relph, secondo il quale è il senso di irrealtà («a selfconscious [sic] and reflective uninvolvement, an alienation from people and places, homelessness») a contraddistinguere l’estraneo esistenziale (E.RELPH, op. cit., p. 51).
32
F.LANDO, op. cit., p. 229.
33
Puntualizza Lando: «L’elemento catalizzatore principale di questo processo [la trasformazione da
outsider in insider] è la conoscenza di una persona che si senta già a casa nel luogo […].
L’interiorità esistenziale rappresenta l’esperienza più intima del luogo, è la ragione per la quale quel luogo può diventare una dimensione essenziale, perfino inevitabile, della vita e dell’esperienza umana. L’interiorità esistenziale è un’immersione totale, non autocosciente, nel luogo: persona ed ambiente sono uniti intimamente da legami di familiarità, di attaccamento e dal sentimento del “sentirsi a casa”» (ibidem).
trasferisce a poca distanza dall’arrivo in Inghilterra
34. Grazie a lei, Lively si muove verso
quel grado di intimità necessario a cogliere le vibrazioni e le sfumature del luogo, cosicché
anche le nuove topografie con cui entra in contatto, e della cui storia la nonna è la più
fedele depositaria, divengono gradualmente punti di convergenza di attribuzioni euforiche.
La disillusione, il disorientamento e lo sconforto connotano emozionalmente i primi
tempi di permanenza in Gran Bretagna:
In the fullness of time, Golsoncott became the approximation of a home, and my grandmother and aunt central to my life. But in those early months and years of exile I was still an alien, walking that landscape always with a faint sense of incredulity. Sooner or later, surely, I would wake up and find myself at Bulaq Dakhrur. […] Sometimes I felt as though I were in suspension, dumped here in this alien other world while somewhere else real life was still going on […]. (OJ, pp. 170-71)
The events and the impressions of those early months and early years in what was allegedly my own country are compressed now into a medley of sensation, much of it physical. […] This was England, then. But it bore no resemblance whatsoever to that hazy, glowing nirvana conjured up in the nostalgic chatter to which I had listened back in Egypt. Back in the real world. Nobody had mentioned the cold. Or the rain. Or the London dirt which was not the aromatic organic dirt of Egypt but a sullen pervasive grime which left your hands forever grey and every surface smeared with soot. (ivi, p. 173)
[…] everyone else knew their way around. They had the maps and the passwords. They did not so much exude happiness or laughter as an implacable confidence. This was their place. They had wrapped it round them and pulled up the drawbridge. I believe I have some idea of how the refugee feels, or the immigrant. Once, I was thus, or nearly so. I had concerned relatives, of course, and I spoke the language but I know what it is like to be on the outside, to be the one who cannot interpret what is going on […]. And all the while I carried around inside me an elsewhere, a place of which I could not speak because no one would know what I was talking about. I was a displaced person […]. And displaced persons are displaced not just in space but in time; they have been cut off from their own pasts. (ivi, pp. 174-75)
A queste sensazioni subentrerà però un atteggiamento di maggiore ricettività, che
risponde al desiderio di accogliere nel proprio universo interiore i luoghi con le
caratteristiche loro peculiari, per ancorarvi la propria esistenza e poter finalmente disporre
di un quadro interpretativo attraverso il quale collegare «le esperienze passate, presenti e
future nell’unità di una biografia»
35:
I tried to hitch myself to this place in the most basic way. I tried to find my way around it. In Somerset I pottered in the lanes and fields, contentedly enough. In London I roamed about,
34
Il 1945 segna la data in cui l’allora dodicenne Lively abbandona per sempre l’Egitto per stabilirsi definitivamente in Inghilterra. La residenza di Golsoncott è il luogo dove la scrittrice trascorre pressoché tutta la sua adolescenza, per allontanarsene soltanto nel momento in cui inizia a frequentare il collegio nel Sussex al quale è stata destinata dal padre.
35
alone for the most part. Sometimes my grandmother took me on excursions, and succeeded in transmitting to me something of her own partisan enthusiasm for the city she had lived in all her life. (OJ, p. 176)
Se dunque l’Egitto viene identificato con l’età dorata dell’infanzia, l’Inghilterra segna il
significativo passaggio alla vita adulta, verso la quale Lively si protende accompagnata
dalla rivelazione, di portata epifanica, che ogni minima tessera del paesaggio –
quand’anche si tratti di uno scenario trasfigurato e lacerato dalla guerra appena conclusasi
– conserva in sé i segni della Storia e delle persone che lo hanno attraversato, vi hanno da
sempre vissuto, o ancora che, come lei, hanno saputo affondarvi le proprie radici.
Ed è esattamente nella matura consapevolezza della continuità tra le macerie del
presente e un remoto passato, o meglio tra i luoghi fisici e gli eventi di cui questi ultimi
recano inscritta la memoria, che si conclude OJ:
Here, [my friend] said with triumph, here is a Roman bastion. […] This was one of the corners of the oldest wall of all, the original Roman wall. Roman? Roman, had he said? how then could there be Romans right up here, in England? […] Perhaps I asked my companion to explain matters. If so, I don’t remember. What I do remember, with a clarity that is still exhilarating, is the sudden sense of relevances and connections which were mysterious, intriguing and could perhaps be exposed. […] Romans were to do with me because I had heard of them, but they were also to do with the significant and hitherto impenetrable mystique of grown-up preoccupations. It was as though the exposure of that chunk of wall had also shown up concealed possibilities. I sniffed the liberations of maturity, and grew up a little more, there amid the wreckage of London and the seething spires of willowherb. (OJ, pp. 179-80. Corsivi nel testo)
Pure nella ricchezza di temi e immagini, la più immediata costante tematica che OJ
tramanda alla successiva autobiografia sembra quindi essere rappresentata da tutti quegli
spazi che, specchio di significati sensibili ed emotivi, si impongono all’attenzione per le
loro molteplici stratificazioni semantiche
36.
Al pari di OJ, i luoghi di A House Unlocked
37divengono a tal punto spazi di
identificazione culturale e di radicamento della memoria autobiografica, da acquisire
valore allorché vengono relazionati alle dinamiche esistenziali del soggetto che li
esperisce
38.
36
A quanto appena specificato ben si attagliano le considerazioni di Relph, il quale nota: «Both remembered and currently significant places are essentially concentrations of meaning and intentions within the broader structure of perceptual space. They are fundamental elements of the lived-geography of the world. Dardel […] writes ‹For man geographical reality is first of all the place he is in, the places of his childhood, the environment which summons him to its presence›» (E.RELPH, op. cit., p. 11).
37
Da ora in poi HU.
38
Sul rapporto tra inflessioni memoriali e contesto, si veda quanto spiegato da Smith e Watson in
Accomunata al memoir sull’infanzia egiziana dalla scelta di non trattare i luoghi come
sole entità sceniche, HU se ne distingue tuttavia per il grado di incidenza narrativa
conferito allo spazio domestico e agli oggetti
39, che qui si convertono in veri e propri fili
conduttori della retrospezione – ogni capitolo, come vedremo, individua negli oggetti che
popolano la casa di Golsoncott dei catalizzatori di memoria, dalla cui visione si dipanano
storie ed eventi di un tempo lontano –, nonché in strumenti attraverso cui viene
contestualizzato il presente della scrittura (la casa serve da appiglio memoriale per la
rielaborazione del passato).
A questo proposito vale la pena riportare per intero, data la sua pertinenza con quanto
appena rilevato, il passo in cui Wanquet spiega i presupposti della poetica del ricordo di
Lively rintracciandone le radici nella tradizione filosofica dell’empirismo, che come ben
sappiamo ha ricondotto la conoscenza umana all’esperienza dei sensi:
Le présent contient donc le passé vécu en filigrane, mais pour le retrouver il faut le support d’un quelque chose de perçu et senti. Lively semble offrir […] une réflexion sur la possibilité de recapturer le temps qui n’est pas sans rappeler la conscience intime du temps telle que Husserl la décrit […] et qui consiste à faire paraître le temps lui-même […] par le phénomène de «rétention». […] [la chose perçue est] premièrement […] le support objectif d’un
tempo-objet perçu de manière subjective; deuxièmement, [elle] est à la fois même et autre, puisque
inscrit dans des contextes spatio-temporels différents; troisièmement, [elle] relie passé et présent d’une manière qui n’est pas simple succession, mais persistance […]. Lively semble insister sur la solidarité entre le présent vivant et la «rétention» au sens husserlien: la chose
perçue devient métaphorique, quelque chose persiste en changeant et «les instants devenus autres sont inclus de manière unique dans l’épaisseur de l’instant présent», qui devient une «continuité de passés», ou un «présent élargi». Pour Ricœur il s’agit là d’un «souvenir
primaire» […]. Ce «souvenir primaire» semble fonctionner comme la «mémoire involontaire»: la matière produit une sensation, qui déclenche à la fois un trajet métonymique horizontal recoupé par une liaison métaphorique verticale […]. Seule la mémoire affective, elle-même déclenchée par la matière, peut figer momentanément le temps, le souvenir devenant plus réel que l’expérience elle-même […]. Même si Lively semble au bord d’une conception moderne et
transcendantale de l’esprit comme activité constitutive, elle ne quitte pas l’univers de l’empirisme. Sa théorie concernant le rôle de la mémoire dans le processus historique semble
en faire l’héritière de l’empirisme des philosophes anglais des XVIe et XVIIe siècles, dont le précurseur est sûrement Thomas Hobbes […]. […] pour Lively, le passé contenu dans les choses est toujours remémoré par une sensation déclenchée par ces choses40.
39
Non è questa la sede adatta per istituire un confronto tra le posizioni oggi disponibili relative al recente interesse che la critica ha manifestato nei confronti della valenza antropologica attribuibile agli oggetti e alla cultura materiale in senso lato. Ci limitiamo pertanto a citare un breve ma interessante contributo sull’argomento, che a partire dalle teorie di De Certeau e Bourdieu illustra il modo in cui «the spatialised landscape of everyday objects plays a central role in organizing the textuality of memory from which autobiographical narratives are constructed». Il testo in questione è il seguente: L.DYSON, «Collecting Practices and Autobiography. The Role of Objects in the
Mnemonic Landscape of Nation», in J. Campbell – J. Harbord (eds.), Temporalities.
Autobiography and Everyday Life, Manchester UP, Manchester 2002, pp. 128-39.
40
E.WILLIAMS-WANQUET, «Les romans de Penelope Lively: histoires d’épistémologie», cit., pp. 170-71. Corsivi miei.
Nella seconda delle autobiografie redatte da Lively le notazioni spaziali non si limitano
a integrare e supportare, come in OJ, i ricordi su cui poi si innesta il racconto, ma
assolvono la funzione di introdurre le vicende narrate e le loro premesse, in modo da
favorire l’articolazione di una panoramica che dagli spazi di memorie più private e
recondite – un processo questo al quale, per la sua stessa natura, l’autobiografia di rado si
sottrae – finisce per addentrarsi nelle topografie di un passato collettivo
41.
Piuttosto che concentrarsi sui cambiamenti che si affacciano sulla coscienza individuale
nell’età dell’infanzia, commenta Fabiola Popa, HU
is a line of thought transposed into a palpable, visible form and it underlines one of Lively’s major concerns: the way in which private and collective history intertwine and contribute to the formation of the self. […] Rather than dealing with the changes in the life or consciousness of one particular individual, [it] turns out to be a social history guide to what’s changed in England and what hasn’t, clearly defining its culture and society. [This] book puts forth the idea of the self being hugely influenced by the historical circumstances one lives in, an idea underlying Lively’s Moon Tiger as well; here, Claudia states her intention to write a history of the world and of her own, «the whole triumphant murderous unstoppable chute-from the mud to the stars, universal and particular, your story and mine». The book ends in the same tone: «Unless I am a part of everything, I am nothing»42.
Come già in OJ, l’apparato paratestuale svolge nel testo in esame una funzione di
primaria importanza, con il titolo
43e gli intertitoli che lavorano sinergicamente allo scopo
di far presagire al lettore l’organizzazione e il significato dell’opera. Lo attesta in special
modo il contenuto della prefazione, nella quale Lively si dichiara interessata a
incrementare – manipolandolo per mezzo della narrazione – lo spessore di esperienze
41
Sull’intersezione tra spazi abitativi, cultura e memoria, cfr. J. SMYTH – J.KROFT (eds.), Our
House. The Representation of Domestic Space in Modern Culture, Rodopi, Amsterdam-New York
2006. Sul legame che più in generale intercorre tra luogo e memoria, cfr. invece E.S. CASEY,
Remembering. A Phenomenological Study, Indiana UP, Bloomington 20002, in particolare le pp. 181-215.
42
F.POPA, «‹The History of the World and… Mine›. Private and Collective History in Penelope
Lively’s Memoirs», University of Bucharest Review, 10(1), 2008, pp. 93-97, qui p. 96.
43
Il titolo, di tipo tematico, si apre a un’ulteriore possibilità di lettura metaforica in considerazione del genere di appartenenza dell’opera in esame: trattandosi di un’autobiografia, e dunque di una storia il cui naturale filo conduttore è rintracciabile nel recupero mnestico di ricordi e sensazioni appartenuti al soggetto scrivente, si potrebbe infatti cogliere in esso un riferimento implicito alla funzione attribuita dall’autobiografo alla propria memoria, che, simile a un edificio (nel nostro specifico caso, «a house»), schiude («unlock[s]») le proprie porte affinché gli spazi di cui si compone possano essere esplorati e raccontati. Tale interpretazione è resa plausibile dai contenuti della parte prefativa (cfr. infra), ai quali rinviamo per ulteriori approfondimenti in materia.
circoscritte e soggettive, così da far acquisire loro la stessa risonanza universale di cui nella
finzione letteraria vengono corredati i fatti immediati e particolari
44.
A marcare simbolicamente il passaggio verso una dimensione esperienziale di portata
collettiva, prosegue l’autrice, è lo spazio domestico della casa di Golsoncott, la cui
immagine si è mantenuta intatta nel ricordo perché considerata funzionale al recupero
mnestico degli snodi cruciali di un’epoca e delle storie di coloro che per anni vi si sono
insediati.
La «pregnanza mnemofila»
45della casa è enfatizzata nello specifico tramite il richiamo
all’opera The Art of Memory (1966) di Frances Yates, dove viene appunto descritto il
metodo secondo cui le sequenze di un’argomentazione oratoria possono imprimersi nella
mente per mezzo della creazione di un edificio immaginario, all’interno del quale gli
spostamenti da una stanza all’altra sono equiparabili ai passaggi tra le parti che
compongono il discorso, e gli oggetti ai suoi principali ragionamenti
46.
In consonanza con le teorie di Yates, Lively propugna pertanto una visione della
propria trascorsa esistenza che affiori dai ricordi prelevati nella casa in cui essi
propriamente alloggiano («[her] memory house», HU, p. x), e trovi i propri centri
propulsori negli spazi – in questo caso materiali – della casa di Golsoncott.
Sulla scorta di tali riflessioni, conclude la scrittrice,
[t]he house itself becomes a prompt – a system of reference, an assemblage of coded signs. Its contents conjure up a story; they are […] signifiers for the century. Golsoncott, an Edwardian country house in the corner of west Somerset that lies between the Brendon hills and Exmoor, was the family home of my grandmother, Beatrice Reckitt […], from 1923, when she and my grandfather bought it, until her death in 1975. Her daughter, the artist Rachel Reckitt, lived there until she died in 1995. I have known it all my life and spent most of my adolescence there. The family occupation of the house nearly covers the century – seventy years of social change. (HU, p. x)
44
Cfr. P. LIVELY, A House Unlocked, Penguin, London 2001, p. ix. A tale edizione si farà riferimento per tutte le citazioni dell’opera, delle quali si indicherà la pagina direttamente tra parentesi.
45
L’espressione è mutuata da A.ASSMANN, op. cit., p. 87.
46
Cfr. F. YATES, The Art of memory, Routledge, London-Henley 1966, pp. 3-4. Riallacciandosi implicitamente alle tematiche discusse da Yates e poi riproposte da Lively nella propria autobiografia, Assmann commenta così il legame che si istituisce tra spazio e memoria: «Tra spazio e memoria esiste un vincolo inscindibile sin dalla mnemotecnica antica, insegnamento che
accoppiava alla memoria naturale, notoriamente labile, una memoria artificiale più affidabile. Il nocciolo dell’ars memorativa sono le imagines, che codificano i dati mnestici in forma di
immagini significative, e i loci, che ordinano queste immagini all’interno di uno spazio strutturato in una posizione specifica. Tra la rappresentazione della memoria secondo questa qualità topografica e come complesso architettonico il passo è breve: è il passaggio dallo spazio come
mediatore della mnemotecnica all’edificio come simbolo della memoria» (A.ASSMANN, op. cit., p. 175. Corsivi nel testo).
L’elaborazione della storia che ci verrà raccontata, rispetto alla quale la residenza
inglese del Somerset si costituisce quale emblematica madeleine topografica, dimostra
quindi fin dalle prime pagine di assumere toni tutt’altro che solipsistici, nonostante il
soggetto detentore dei ricordi sia solo con se stesso: questo perché la memoria, che come
vuole Maurice Halbwachs è capace di abbracciare la storia di una cultura nel suo
complesso
47, riemerge a partire da un ambiente colmo sì di semi di interiorità, eppure
vissuto prevalentemente nella sua dimensione pubblica, in esplicita connessione con eventi
che per la loro rilevanza (la rivoluzione russa, l’Olocausto, il Blitz) richiedono di
uniformare le informazioni autobiografiche con l’informazione sociale e culturale
48.
Dinanzi infatti all’ineluttabilità dello «smembramento» e della «dispersione» seguìti
alla morte degli unici rimasti tra i tanti abitanti della casa, prosegue Lively, «the entire
place – its furnishings, its functions – seemed like a set of coded allusions to a complex
sequence of social change and historical clamour. Objects had proved more tenacious than
people […] but from each object there spun a shining thread of reference, if you knew how
to follow it. I thought that I would see if the private life of a house could be made to bear
witness to the public traumas of a century» (HU, p. xi).
Passando al capitolo iniziale dell’autobiografia, il primo dato da rimarcare è che esso si
configura come una diretta continuazione delle pagine con cui si chiude OJ: difatti vi
troviamo conferma di quanto la formazione di un significato affettivo nei confronti di ben
determinate topografie abbia consentito alla protagonista la “fuga” dalla posizione e
dall’atteggiamento mentale dell’outsider e l’incorporazione della sensibilità per il proprio
coinvolgimento nei luoghi che si sono sostituiti agli spazi dell’infanzia e della prima
adolescenza.
47
Nella valutazione che ne fornisce Paolo Jedlowski l’opera di Halbwachs si presta a esemplificare paragmaticamente la tesi che l’atto del ricordare, per l’individuo, «corrisponda a riattualizzare la memoria di un gruppo sociale cui egli appartiene o ha appartenuto in passato. In questo senso, la memoria di ciascuno, nelle società moderne, poiché ciascuno appartiene di seguito o contemporaneamente a una molteplicità di raggruppamenti sociali, è complessa. […] per Halbwachs la memoria collettiva è […] il quadro – logicamente antecedente, anche se si realizza attraverso memorie di singoli soggetti concreti – che consente il funzionamento stesso della memoria del singolo» (M.HALBWACHS, op. cit., pp. 20-21).
48
La questione relativa alle interazioni tra memoria privata e collettiva è stata variamente formulata e sostenuta dalla critica. In merito all’estrinsecarsi di tali interazioni nel dominio del life writing, Smith e Watson affermano ad esempio che «life narrators incorporate multiple modes and archives of remembering in their narratives. Some of these sources are personal (dreams, family albums, photos, objects, family stories, genealogy). Some are public (documents, historical events, collective rituals). […] Acts of remembering extend beyond the acknowledgment of collective sites of memory, historical documents, and oral traditions. They engage motives for remembering and question on whose behalf one remembers. Precisely because acts of remembering are relational, they are implicated in how people understand the past and make claims about their versions of the past. Thus memory is an escapably intersubjective act» (S. SMITH – J. WATSON, Reading
Con la mente proiettata verso il pensiero di quello che nella maturità avrebbero
rappresentato i paesaggi sostituitisi alle amate geografie africane, Lively afferma:
«I had grown up in Egypt. Abroad was the norm for me and I didn’t quite see what the fuss
was about, looking at England with the eyes of a newcomer and the appreciative vision of
youth. What I saw seemed both beautiful and interesting, as I moved through my
adolescence. There were rural landscapes and medieval churches here too – why were
those on the other side of the Channel so necessarily superior?» (HU, p. 17).
Quanto alla storia che segue, il suddetto capitolo assume i caratteri di una vera e
propria ouverture, giacché non soltanto vi vengono introdotti alcuni dei motivi che saranno
ripresi e sviluppati nel corso della narrazione, ma sul piano che pertiene più direttamente
l’organizzazione dei contenuti ci viene dato anche un primo esempio della struttura cui si
atterranno le sezioni successive, nelle quali gli spazi e gli oggetti della casa si rivelano
elementi preziosi per la demarcazione dei passaggi tra le sequenze narrative.
Spazi e luoghi informano di conseguenza l’autobiografia a più livelli, ponendosi
all’interno del testo come articolatori delle unità narrative, e al suo esterno, ossia sul piano
paratestuale, come indicatori utili all’individuazione dei possibili legami tra le stesse
49:
HU si divide di fatto in otto parti, ognuna delle quali contrassegnata da un dato spaziale
(e.g. «The Gong Stand, The Book of Common Prayer and the Potted-Meat Jars», «The
Sunset Painting and the Harness Room», «The Dressing-Room, the Nursery and the Grand
Piano») che viene assunto – si è detto – quale inconfondibile fonte del ricordo, a
sostanziare in tal modo la strutturazione del narrato secondo un procedimento
universalizzante.
All’uniformità che caratterizza il piano formale, e trova il proprio fondamento nella
dimensione dello spazio, fanno da corrispettivo le correlazioni individuabili sul piano
semantico, dove coerentemente con gli sviluppi ulteriori della narrazione sono tematizzati
in maniera dichiarata i luoghi del ricordo, i quali assumono da una parte i lineamenti di
49
Se ci atteniamo alla nozione di luoghi funzionali elaborata da Pierre Nora, è possibile individuare l’altra sostanziale chiave di lettura della storia in termini “spaziali” su un piano che, nel trascendere il contenuto del testo e la sua organizzazione strutturale, coinvolge il genere letterario cui essa propriamente afferisce: sottostando a quanto illustratoci da Nora, l’autobiografia stessa appare infatti quale spazio destinato alla problematizzazione del rapporto tra memoria e scrittura, o meglio
ancora all’assemblaggio dei ricordi e alla loro rielaborazione interpretativa (cfr. N. PETHES –
J.RÜCHATZ, Dizionario della memoria e del ricordo, tr. it. a cura di A. Borsari – A. Caridi –
R. Lazzari et al., Mondadori, Milano 2002 [2001], pp. 291-93). Sulla “sovrapponibilità” tra letteratura memoriale e luoghi di memoria si veda P. NORA, «Entre mémoire et histoire: la problématique des lieux», in Id. (éd.), Les Lieux de mémoire, Gallimard, Paris 1984, vol. 1, pp. xvii-xlii (in particolare le pp. xxxviii-xxxix).