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1. INTRODUZIONE 1.1.

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1. INTRODUZIONE 1.1. L’autore e l’opera

Chi è Nicolas Ancion?

Nicolas Ancion, classe 1971, è uno scrittore “belga di lingua francese” originario di Liegi, la città della Vallonia che fa da sfondo – o da protagonista – a uno dei suoi ultimi romanzi, L’homme qui valait 35 milliards. Apprezzato in Belgio – dove le sue opere hanno ottenuto diversi premi1 – e parzialmente conosciuto in Francia, è pressoché sconosciuto all’estero, complice la scarsità estrema di traduzioni dei suoi libri in lingue straniere2. Infatti, le sue opere, pubblicate quasi esclusivamente in Belgio (nonostante Ancion abbia vissuto all’estero, e viva ormai da anni in Francia), non sembrano godere di una grande risonanza al di fuori del paese di origine dell’autore. Eppure si tratta di uno scrittore molto prolifico e non meno eclettico: ben lungi dall’interessarsi unicamente al romanzo e alla novella, Nicolas Ancion si dedica ugualmente ai racconti per l’infanzia e l’adolescenza, alla poesia, al teatro e – ultimo ma non ultimo - alla critica dei fumetti, un genere “paraletterario” che in Belgio gode di un riconoscimento letterario eccezionale3. A questo proposito, ricordo che due dei fumetti tipicamente belgi – gli Schtroumpfs e il Journal de Spirou - sono più volte menzionati, in modo più o meno “naturale”, nella raccolta Nous sommes tous des playmobiles.4

Nicolas Ancion è poi uno scrittore “giovane”, abituato a sfruttare le risorse tecnologiche di cui un autore contemporaneo può disporre. Non sorprende allora constatare che Ancion ha un proprio sito internet, dove presenta al pubblico dei lettori e dei curiosi le sue ultime attività: così, basta qualche clic per leggere i brani delle sue ultime pubblicazioni e/o interviste, visitare i suoi blog letterari o (per i professori e i presidi) partecipare all’iniziativa “Auteur en classe”, che prevede l’intervento dello scrittore nelle scuole, per un progetto di sensibilizzazione degli studenti alla lett(erat)ura. Questo interesse per i lettori più giovani – che d’altronde sono il target delle sue numerose opere destinate all’infanzia e all’adolescenza – è l’indice dell’importanza che l’autore attribuisce in generale al suo pubblico, un pubblico

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Nello specifico, si tratta di: il “Prix Rossel des Jeunes” (2009) per il romanzo L’homme qui valait 35 milliards, il “Prix des Lycéens” (2001) per Quatrième étage, il “Prix Jeunes Talents de la Province de Liège” (1995) per Ciel bleu trop bleu e infine il “Prix Franz de Wever” (2008) per Nous sommes tous des playmobiles. Si tratta di premi di diversa portata e prestigio, sull’ultimo dei quali torneremo più avanti.

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Tra le poche traduzioni esistenti ci sono quelle del romanzo Quatrième étage, tradotto in ceco e in braille, e la traduzione olandese di Nous sommes tous des playmobiles.

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L’autore dirige la rubrica sui fumetti “Bain à bulles” per il quotidiano “BibliObs”.

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Il Journal de Spirou è una delle letture di Georges, in Georges et les dragons, mentre i Puffi sono utilizzati come elemento di una similitudine quanto meno sorprendente in Moi, je dis qu’il y a une justice.

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che gli ha dimostrato in varie occasioni il suo apprezzamento5. Questo autore “a tutto tondo”, che esplora una grande varietà di generi letterari e di pubblicazioni (cartacee, online, sui blog, etc.) è poi prima di tutto uno scrittore “di professione”, che ha lasciato il suo lavoro per vivere della scrittura. Come tale, è molto attento al funzionamento del mondo dell’editoria e sa conciliare i suoi interessi disinteressati di scrittore appassionato con quella che è la logica del mercato. E, da buon scrittore contemporaneo che vive della sua penna, è un autore che pubblica molto, e a brevi intervalli.

Nicolas Ancion, giovane, dinamico e riconosciuto dal pubblico dei suoi connazionali, è poi - non dimentichiamolo - un autore belga, portavoce in qualche sorta di un popolo che ha sempre avuto una forte consapevolezza della sua identità – o della sua non identità. Allora, tra i fattori della mancata notorietà di Nicolas Ancion al di fuori del Belgio (e, parzialmente, della Francia) va forse riconosciuta, accanto a una possibile tendenza alla chiusura da parte del mercato librario belga, la “mole” di cultura e civiltà belga che, ora come elemento di sfondo, ora come vero e proprio protagonista, caratterizza una buona parte della produzione di questo scrittore vallone. Il Belgio è spesso lo sfondo dei suoi romanzi e delle sue novelle, e non di rado anche il motore e l’oggetto di riflessioni talvolta indirette sulla lingua e l’identità (belghe), etc., tematiche che sfociano in quella che, sul modello della négritude di Senghor, è stata “battezzata” belgitude. Questo irrompere dell’identità culturale belga, sotto forma di luoghi, tradizioni e prodotti tipici –spesso sconosciuti a un pubblico straniero – può aiutare a spiegare perché i libri di Nicolas Ancion non riscuotono lo stesso successo internazionale di cui godono - o hanno goduto - altri autori meno “intrinsecamente” belgi, quali l’autrice di best-sellers Amélie Nothomb e il celebre giallista (e non solo) Georges Simenon, lo scrittore belga più letto e tradotto nel mondo6.

Diversamente da questi ultimi, Nicolas Ancion non fa mistero della sua belgitude, che si esprime prima di tutto nella scelta dei luoghi, dei temi e dei riferimenti storici, culturali e linguistici. Così, molti tra i suoi romanzi e racconti hanno un’ambientazione chiaramente belga (Bruxelles, Liegi, etc.) e sono disseminati di riferimenti a tradizioni, problematiche (questioni sociali, economiche, linguistiche, etc.) e prodotti (birra, negozi, cultura popolare, etc.) belgi.

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Faccio riferimento non solo ai vari blog letterari presenti su Internet, ma anche ai già menzionati Prix des lycéens (attribuito da una giuria di studenti liceali) e Prix Rossel des Jeunes (un altro premio attribuito da una giuria di lettori non “professionisti”), che Ancion ha ottenuto rispettivamente nel 2001 e nel 2009.

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Una curiosità per quanto riguarda Georges Simenon: alla Fiera del Libro di Bruxelles del 2010 Nicolas Ancion scrive un romanzo poliziesco in 24 ore (3-4 Marzo), un’impresa che ricorda quella in cui si sarebbe dovuto cimentare il grande giallista nel 1927. Anche se alla fine Simenon dovette rinunciare, ciò non toglie che nell’immaginario comune questa impresa viene associata a lui.

Un altro riferimento – questa volta diretto - all’opera di Simenon è rappresentato dal romanzo La cravate de Simenon, un libro destinato principalmente agli stranieri che imparano il francese, dove la cravatta del celebre autore è una specie di amuleto familiare che viene trasmesso di generazione in generazione e incoraggia il giovane protagonista a intraprendere la strada della scrittura.

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Accanto alla scelta delle tematiche e dei riferimenti, c’è poi un altro fattore – questa volta formale - che tende ad evidenziare l’influenza della cultura letteraria belga sull’opera di Ancion. Si tratta innanzitutto della forma della narrazione: infatti, accanto ai romanzi, la tipologia che ha più diffusione e successo nel mondo dell’editoria, Ancion pubblica due raccolte di novelle – Nous sommes tous des playmobiles e Les ours n’ont pas de problème de parking - più alcuni esemplari “sciolti” pubblicati online. In contrasto con le logiche del mondo dell’editoria, l’autore rivendica il successo del racconto breve, apprezzato dai suoi lettori, e confessa di padroneggiare meglio la novella – per la sua concentrazione e la rapidità della narrazione – rispetto al romanzo7.

Ebbene, questa propensione per la novella è un tratto che caratterizza in particolare, se non unicamente la letteratura belga, una parte specifica della letteratura francofona, ovvero quella del Québec e del Belgio. Infatti, in queste zone della “francofonia” la scrittura della novella è sempre stata coltivata e praticata, e gli scrittori che si “dividono” tra romanzi e novelle non mancano8. Così, dando vita a queste due raccolte di novelle, Nicolas Ancion riprende e rielabora la tradizione della novella belga, in bilico tra realismo della vita quotidiana, fantastico ed eredità del surrealismo.

Quali sono quindi i tratti tipici di questa novella? Senza altri preamboli, introduciamo la più amata e più premiata raccolta di novelle di Nicolas Ancion, pubblicata nel 2007 dalla giovane casa editrice belga “Le Grand Miroir”. In questa breve raccolta di novelle, a colpire istantaneamente l’occhio e la fantasia del lettore contribuiscono da una parte le copertine piene di pupazzi e colori sgargianti9, dall’altra il riassunto sui generis della quarta di copertina e un titolo tanto misterioso quanto inaspettato, Nous sommes tous des playmobiles. Un titolo sorprendente per la sua perentorietà, nonché per il grado di colloquialità con cui si rivolge al lettore. E un titolo non meno misterioso, perché in fondo questa rivelazione, espressa come se fosse un’evidenza o il risultato di una lunga riflessione, non ci dice quasi nulla. Come nel caso di Les ours n’ont pas de problème de parking, sembra infatti che il titolo sia scelto in funzione del suo potere evocativo, e non per la sua capacità di condensare la trama delle diverse

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Vedi per esempio http://marecages.be/2010/10/nicolas-ancion-linterview/.

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Ad esempio Jean Ray, Marcel Mariën, Jacques Sternberg e un contemporaneo di Nicolas Ancion, Thomas Gunzig. A proposito della novella in Belgio, vedi La nouvelle francophone en Belgique et en Suisse, Actes du Colloque International des 18 et 19 octobre 2001, C.E.D.I.C Centre Jean Prévost, volume 23.

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novelle. Tanto più che né l’immagine del playmobil(e)10 né il suo significato in relazione alla raccolta sono di per sé evidenti.

Il playmobile come elemento fisico non ha infatti alcun ruolo effettivo nelle novelle, eppure questo concetto – nell’accezione che Ancion sembra attribuirgli – rappresenta l’elemento chiave su cui si fonda l’interna raccolta e buona parte della produzione dell’autore: dire che “siamo tutti dei playmobiles” equivale a riconoscere che ogni azione umana ne innesca un’altra, senza che chi la compie sia necessariamente consapevole delle conseguenze del processo (e spesso non lo è affatto!). Per una traduzione “fisica” e visiva di questo concetto, basta consultare i video pubblicitari realizzati per i libri dell’autore: in uno di questi brevissimi filmati11, i protagonisti sono delle piccole statuine – i playmobiles, appunto – che, in una specie di effetto domino giocoso e delirante, rendono possibile il trasferimento del libro pubblicizzato da uno scaffale di partenza fino al punto vendita, la libreria. Questo effetto domino fisico si traduce nelle novelle in un susseguirsi e concatenarsi di eventi inaspettati, che devono la loro esistenza all’inconsapevolezza dell’agire umano. Ma, se le statuine della pubblicità sembrano tutto sommato aver calcolato il risultato delle loro azioni – e per questo applaudono una volta che la “spedizione” è compiuta - molti protagonisti dell’universo di Ancion si trovano invece a fare fronte ad un amplissimo margine di casualità, o fatalità che sia.

Se l’idea di rappresentare gli uomini come “giocattoli” (e non solo metaforicamente) può risultare a primo acchito bizzarra, lo è molto meno se si considera l’infanzia dell’autore, il quale in un’intervista pubblicata il 29 Luglio 2009 su La Meuse, dichiara: « J’ai grandi dans un théâtre de marionnettes ». E non c’è niente di metaforico in questa affermazione, visto che i genitori di Nicolas Ancion gestiscono il teatro di marionette “Al Botroûle” di Liegi.

Insieme alla sua infanzia tra le marionette, sono molti gli elementi autobiografici che compaiono qua e là nella produzione dell’autore, prima di tutto i luoghi: la città di Liegi, con i suoi problemi demografici e sociali12, e poi Bruxelles, dove Ancion ha studiato e vissuto per vari anni, che fa da sfondo – anzi, ben più che da sfondo – a Quatrième étage e Nous sommes tous des playmobiles. È infatti a Bruxelles, tra la “Petite ceinture”, la “Grand-Place”, il “Palais de Justice” e innumerevoli abitazioni private e luoghi pubblici più o meno localizzabili, che si

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Playmobil (la grafia adottata da Ancion non corrisponde a quella originale) è un marchio tedesco che produce giocattoli per bambini: nello specifico, si tratta di piccole figurine di plastica che rappresentano diversi personaggi e contesti della vita e della storia dell’uomo.

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Nel caso particolare, si tratta della pubblicità di L’homme qui valait 35 milliards.

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La crisi del settore siderurgico e la disoccupazione causata dalla chiusura degli altiforni rappresentano la base della trama di

L’homme qui valait 35 milliards, il romanzo che “mette in scena” il rapimento del magnate dell’acciaio nonché plurimiliardario

Lakshmi Mittal. Insieme alla crisi della siderurgia, il romanzo affronta altre problematiche che trovano spazio nelle narrazioni secondarie e sono connesse con la vita quotidiana nella « Cité ardente », quali la mancanza di prospettive lavorative e il tasso allarmante di eroinomani.

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sviluppano le storie di questi dieci racconti. In comune, oltre all’ambientazione cittadina, c’è la natura dei personaggi: pazzi, fanatici, perdenti o sconfitti, molti dei protagonisti sono quasi surreali nel loro essere “troppo” reali. Ogni fissazione umana, enfatizzata dalla penna ironica dello scrittore, diventa quasi una caricatura sotto l’effetto del gioco di sorprese e imprevisti che sconvolge la vita di questi playmobiles. Ma la caricatura non è mai fine a se stessa, perché in fondo i playmobiles siamo noi e la loro vita caotica e scombussolata è un po’ anche la nostra.

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1.2. I temi

Abbiamo già accennato all’ironia che fa da sfondo a questa raccolta, che non a caso è arrivata finalista al “Grand Prix de l’Humour noir” del 2008. Eppure, nonostante un’ironia spesso impietosa sia uno dei tratti dominanti della raccolta, certi racconti rivelano una delicatezza imprevista nel trattare le vicende dei loro personaggi. È il caso specialmente di storie come Châteaux en Espagne, Mon secret e Georges et les dragons, dove personaggi spesso soli e melanconici ci raccontano le loro vite, con tutto il carico di gioie e amarezze che queste comportano.

Si può trattare di una vicenda familiare, come la storia dell’infanzia e dell’adolescenza di Georges, rilette alla luce del mito di San Giorgio e il drago - una sorta di mito fondatore per la famiglia di Georges, una leggenda nella quale padre e figlio riconoscono le proprie radici familiari. La delusione dell’adolescente che si scontra con la “vera” storia di San Giorgio – dove al posto del drago ci sono un borioso imperatore e la prigione – non toglie nulla all’entusiasmo e alla magia del racconto mitico, che sopravvivrà anche alla morte prematura del padre del protagonista. Anche se la leggenda e i suoi simboli sono risultati vani di fronte alla cruda realtà storica, Georges continua a credere alla bellezza del mito, tanto che, dopo aver scoperto una “favola” che anni addietro suo padre aveva dedicato alle imprese di San Giorgio, dichiarerà al termine del suo racconto: “Se mio padre è lassù, in cielo, seduto tra san Giorgio e san Michele, deve sapere che questa storia non l’avrà scritta invano. Forse un giorno avrò dei figli a cui raccontarla”. Se così sarà, la magia del mito continuerà a vivere.

Insieme a Georges, tra i personaggi più commuoventi di questa raccolta ci sono due vecchi sognatori: il melanconico e “birichino” protagonista di Châteaux en Espagne, che mentre sogna un futuro con Maryse inganna il tempo facendosi beffe dei turisti che visitano la Grand-Place, e il misterioso personaggio di Mon secret, un vecchio disilluso e millantatore che dopo avere tenuto il lettore con il fiato sospeso per tutto il tempo con la promessa di una rivelazione, se ne esce con un segreto così ridicolo e anodino da lasciarci senza parole13. Forse un vero segreto non ce lo aveva, eppure la faccia tosta di questo vecchio misantropo non basta a discreditare il senso di solitudine e sofferenza che emerge in tutto il racconto, fino alle desolata affermazione finale14.

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«Ah, sì, il mio segreto, stavo per dimenticarmene! Beh, ecco, è proprio questo il mio segreto, che dormo tutto vestito con la finestra aperta».

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Queste tre storie dai toni riflessivi si alternano a una maggioranza di racconti in cui il ritmo narrativo è molto vivace e sono gli eventi stessi – più che i personaggi – a creare la storia.

I temi sono vari. Si può partire da un rapimento, e vedere come la vittima riesce – un po’ per sua volontà e un po’ per caso - a volgere la situazione a suo vantaggio, liberandosi dei suoi aguzzini e causando con la sua ribellione la morte dell’odiata ex moglie, anche lei sotto sequestro. Morale della storia, “Io dico che una giustizia c’è”.

Ed è solo un esempio, perché di azioni e personaggi al margine della legge questa raccolta è piena zeppa: c’è il protagonista maniacale di Bureau, fais ton office, un ex galeotto che si improvvisa critico letterario al momento sbagliato e attacca il suo datore di lavoro a colpi di pinzatrice; o il fuggitivo misterioso di L’échappée belle, che appena scappato di prigione trova l’amore dove aveva cercato solo un rifugio per la notte, ovvero nel capanno degli attrezzi del giardino borghese di un borghese insoddisfatto; o ancora l’Yvon di Haute pression, che ha investito un giovane ragazzo e potrebbe essere accusato di omissione di soccorso, o persino di omicidio colposo.

Un caso speciale è quello di J’apprends à bien tuer, la storia di un originale “imprenditore” che investe in un settore innovativo: la formazione criminale. Nonostante l’insuccesso complessivo dell’impresa, che si rivela “troppo in anticipo sul suo tempo”, questo assurdo ma lucido personaggio riesce a mettere a segno due obiettivi: la realizzazione di un omicidio perfetto, in cui la vittima è il suo unico e incapacissimo allievo, e il coronamento di una storia d’amore con la sua complice, nonché nipote della vittima. Sì, perché questo personaggio che fa del crimine “ben fatto” il suo lavoro e la sua passione, ha anche lui – oltre ad un senso della morale sindacabile, ma non così lontano dal nostro – un debole per le donne e la cavalleria. Infatti, “per le donne si può fare tutto”. Anche uccidere, ovviamente.

Insieme alle storie d’amore – nuove, felici, insoddisfatte o in fin di vita – un altro elemento ricorrente è il disagio dell’uomo contemporaneo di fronte ad un lavoro e/o una quotidianità che diventa ogni giorno più opprimente e uguale a se stessa – è questo il caso, per esempio, di Yvon in Haute pression e dei protagonisti di La tache de sauce e L’échappée belle15.

Tanto, io, nessuno sa chi sono. Valgo meno di un pesce in un acquario. E lo so.

Forse è questo il mio vero segreto».

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In Nous sommes tous des playmobiles, il disgusto nei confronti della routine lavorativa è rappresentato principalmente da tre uomini in carriera: Yvon lavora come pubblicitario in una ditta farmaceutica, mentre il protagonista di La tache de sauce è direttore commerciale per un’azienda tessile. Di un lavoro in un ufficio – o in una ditta – sembra trattarsi anche nel caso del personaggio maschile di L’échappée belle, che coniuga un mestiere stressante con una vita familiare sterile e monotona.

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Ma ecco l’imprevisto, l’evento drammatico che scuote queste esistenze paralizzate in un’immobilità deprimente e sconfortante: perché a rivoluzionare l’esistenza di un personaggio può bastare la scoperta di una persona sconosciuta – e attraente - nascosta nel proprio capanno degli attrezzi…

O qualcosa di più drammatico, come imbattersi in un gruppo di clandestini che lavorano come “schiavi” negli scantinati dell’azienda per cui uno lavora da anni, e l’amara sorpresa nel constatare che i lavoratori sfruttati e maltrattati non erano in Cina, ma lì, “proprio sotto il [tuo] naso. Proprio alle [tue] spalle”. Di fronte a questa scoperta il protagonista di La tache de sauce non ci penserà due volte a scatenare uno scandalo chiamando la polizia e la stampa. L’azienda sarà messa in liquidazione e lui perderà il lavoro, ma questo non è importante – così dice - , l’importante è che ha trovato “degli amici per la vita”, una sorta di nuova famiglia che viene a costituire un’ideale compensazione per i suoi due fallimenti familiari (il suo divorzio dalla ex moglie, nonché, alla radice, la separazione dei suoi genitori – due “tragedie” private che non avevano mai spesso di tormentarlo). In questo racconto, Ancion tratta un tema delicato e problematico come quello dello sfruttamento da un’ottica particolare: senza indulgere a un tono di denuncia, l’autore riesce, con una descrizione veloce e ritmata, a rappresentare visivamente le condizioni di vita di questa famiglia di clandestini. Non si concentra sull’”oppressore” – sappiamo solo che si tratta di un’azienda tessile, mentre il vero colpevole resta nell’ombra – bensì sull’”oppresso”. E proprio perché si focalizza sull’innocenza della vittima, e non sulla consapevolezza dell’aggressore, questa storia dai toni quasi favolistici può permettersi un lieto fine.

Mentre non c’è nessun lieto fine per Yvon, che ha appena investito un giovane dopo essersi messo alla guida un po’ “brillo”16. Una volta superato il primo shock e il desiderio vigliacco di sfuggire alle proprie responsabilità. Yvon, che si definisce come “un vecchio cinico”, riscopre che è ancora in grado di soffrire. Sì, perché il pensiero di aver (forse) causato la morte di un ragazzo che ha/aveva ancora tutta la vita davanti – un ragazzo come può essere uno dei suoi figli – e l’impossibilità di accertarlo non gli daranno tregua. Come capita spesso nei romanzi e nei racconti più lunghi di Ancion (in questo Bruxelles insurrection è quasi un’eccezione), alla narrazione principale si alternano altri filoni paralleli, che in uno o più

Se è vero che certi “umili” (per esempio il protagonista di Châteaux en Espagne - uno straniero quasi analfabeta in francese, che si è mantenuto facendo ricorso a lavori duri e talvolta degradanti) sembrano immuni da questo disagio esistenziale, un caso contrario è l’Octavio di L’homme qui valait 35 milliards, un lavoratore siderurgico disgustato dal proprio lavoro, che da anni sogna di avere il coraggio di licenziarsi. La differenza principale è che Octavio il suo lavoro finisce per perderlo veramente, e allora il sogno di riscatto si trasforma nell’incubo della disoccupazione.

16È quanto succede in Haute pression, che insieme a Bruxelles insurrection rappresenta il racconto più lungo e ricco di

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punti si incrociano con la storia principale contribuendo a sconvolgere – in bene o in male – la vita dei personaggi e a creare un effetto di sorpresa per il lettore. Nel caso di Haute pression, la storia parallela è quella di un manoscritto rifiutato da Les Editions de Minuit, che viaggia attraverso le mani di diversi personaggi per terminare la sua corsa nella macchina di Yvon, il quale si investirà anima e corpo nella promozione di questa opera che ritiene appartenere alla sua giovane vittima. Basta un equivoco iniziale perché il povero pubblicitario si trovi a improvvisarsi critico letterario e a fare da agente a un autore sconosciuto, che non ha nulla a che vedere con il giovane da lui investito. Il lettore, che si è reso conto da tempo dell’equivoco, assiste impotente al degenerare degli eventi, fino all’ironia della sorte finale: mentre Yvon si chiude sempre più in se stesso, privo di un qualsiasi scopo o certezza a cui aggrapparsi, il ragazzo “investito” – causa dei suoi sensi di colpa e del sorgere di una sensibilità sempre più maniacale – “era più in forma che mai, e stava pensando seriamente di comprarsi un cellulare i-mode”. Così si conclude la storia finale della raccolta, suggellando la totale e inutile “sconfitta” del personaggio.

Abbiamo visto che la “letteratura” (in senso lato) è un tema tutt’altro che assente in questi racconti: oltre ai casi già citati di Haute pression e Bureau, fais ton office, possiamo citare, sempre in Haute pression, il testo della canzone che Fabian – il giovane che di lì a poco sarà investito da Yvon – improvvisa in un momento di rabbia e delusione. Né per la canzone né per il romanzo manoscritto (che tra l’altro assomiglia più a una canzone che a un romanzo, per la mancanza di una struttura che coordini questo flusso continuo di parole) si può parlare di letteratura in senso tradizionale. Forse è un assaggio di quella letteratura libera dai dettami della tradizione che reclamano i giovani protagonisti di Bruxelles insurrection, aguzzini linguistici in lotta contro il potere uniformante della Francia e dell’Accademia.

E Bruxelles insurrection è forse il testo più significativo di questa raccolta, perché costituisce – per quanto in forma iperbolica e ironica – una sorta di dichiarazione di poetica. Se il rapimento dell’accademico francese è pura fantasia e divertimento17, non si può dire che non ci sia un fondo di serietà nelle parole dei rapitori. Tutt’altro. Sono molti i temi che vengono toccati – o semplicemente accennati – in queste pagine: i monti di libri che finiscono al macero senza che nessuno li abbia mai letti, il degrado che investe alcune zone della città, il passato colonialista, etc. Ma soprattutto si parla del destino della lingua, un soggetto abbastanza “caldo” nel caso del francese, che si sente minacciato tanto da un’innovazione

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E in un certo senso anche una sorta di performance artistica, come nell’ultimo rapimento ideato da Ancion, quello di Mittal Lakshmi in L’homme qui valait 35 milliards. Lì il magnate dell’industria indiano viene utilizzato come materiale artistico-ideologico per un rapimento d’avanguardia che dovrebbe aprire le porte dell’Académie Royale des Beaux Arts de Liège ad uno dei rapitori, artista dilettante in cerca di fama.

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fisiologica comune a tutti gli idiomi, quanto dall’”invasione” di altre lingue – prima di tutte l’inglese18.

A incarnare questa fobia degli anglicismi in Bruxelles insurrection è il vecchio accademico parigino in visita a Bruxelles per una conferenza, lui che, di fronte all’affermazione innocua del suo giovane interlocutore (“Nous allons rejoindre le parking”), rettifica irritato: l’aire de stationnement. E subito dopo, disturbato dalla presenza di annunci in fiammingo, ci regala una riflessione sullo stato delle lingue: « Le multilinguisme finira par venir à bout de l’Europe, il en est certain, il suffit d’attendre encore un peu. Babel construit sa tour. Les ouvriers finiront par s’arracher les outils ». Un lessico e delle idee datate che calzano perfettamente al suo ruolo di accademico decrepito.

“Popaul” – come lo chiameranno quei burloni dei suoi rapitori – non vuole solo un francese libero da influenze straniere, ma anche una lingua pura, non contaminata da tutti gli sbagli e le sgrammaticature che si vedono ogni giorno su internet. Insomma, un francese che non contempli l’uso di sa al posto di ça o di allé per aller, una lingua che rispetti l’uso dei modi verbali e condanni fermamente le espressioni troppo gergali. Come contrattacco, i rapitori lo assalgono a colpi di “Si on aurait su ça” e di parole volgari che per la gran parte non rientrano neanche nel vocabolario dell’accademico. Quello che rivendicano è una lingua libera, con la quale ciascuno possa esprimersi come meglio crede, senza dover rispettare le distinzioni tra forme legittime e forme scorrette. In questo mondo di libertà linguistica, nessuno dovrebbe battere più ciglio per un après seguito da congiuntivo, o un si più condizionale.

Se questo attacco verbale a colpi di errori grammaticali fa ridere il lettore – quanto meno per la situazione bizzarra in cui ha luogo – dietro il pretesto del rapimento c’è un tema serio: il diritto del singolo a esprimersi come meglio vuole – o può! - senza essere etichettato ipso facto come “ignorante”. In una lingua in cui le deviazioni dalla norma sono sempre più comuni, insieme alle innovazioni lessicali, pensare in termini di “linguaggio standard” vs “argot” sembra infatti un atto di arrogante ipocrisia. Così almeno sostiene uno dei rapitori, a cui piace chiamare le cose con il loro nome:

Faut croire que l’argot de la rue, il est trop sale pour être imprimé sur les belles pages de papier glacé [dei dizionari], sans doute! Comme si fécalome était plus propre, ou anus moins sale, que trou-du-cul!

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A proteggere la lingua dall’”invadenza” dell’inglese intervengono vari organismi, sia in Francia che in Québec – dove il tentativo di preservare il francese è per ovvi motivi ancora più attivo – come la “Défence de la langue française” (con sede a Parigi) e l’”Office québécois de la langue française”18. le cui équipe di terminologhi hanno introdotto per esempio il neologismo courriel in sostituzione a mail. Dal 20 Giugno 2003, la Délégation générale à la langue française et aux langues de France ha decretato che l’uso di courriel è obbligatorio in tutti i documenti ufficiali.

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Il suo primo “discepolo” è lo stesso Ancion, il quale, pur rispettando generalmente le norme della buona sintassi, non esita a impastare la lingua creando nuove espressioni, nonché a fare ricorso all’argot e a termini che il vecchio accademico non avrebbe assolutamente apprezzato – e forse neanche capito. Insomma, insieme all’impressione di divertimento fine a se stesso che scaturisce da una trama quanto mai delirante, c’è come sempre in Ancion un angolo di serietà, un fondo di “vita vera” che in questo caso ci parla non solo di noi, i playmobiles, ma anche di lui, l’autore.

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