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Capitolo secondo: Benjamin critico letterario 1. Il confronto con il pubblico

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Capitolo secondo: Benjamin critico letterario

1. Il confronto con il pubblico

La produzione filosofica di Benjamin, lo si è visto nel primo capitolo, rimase poco nota durante la vita dell’autore, sia a causa dell’esclusione dal mondo accademico, sia a causa della scarsa diffusione dei saggi di carattere prettamente filosofico e questo non solo per mancanza di editori disponibili: spesso era lo stesso Benjamin a preferire una circolazione dei propri scritti limitata a una ristretta cerchia d’amici – in questo senso si è distinta nel primo capitolo una produzione “esoterica” da una essoterica.

Come critico letterario Benjamin riscosse maggiore fortuna, collaborando costantemente con riviste quali Die Gesellschaft e Die literarische Welt, nonché con la Frankfurter Zeitung, su cui continuò a scrivere con pseudonimi anche dopo l’avvento del nazismo. È innegabile che l’attività di critico era dettata prima di tutto da esigenze economiche, così che spesso le recensioni riguardano tematiche distanti dagli interessi del filosofo. Inoltre non va trascurato il fatto che molti articoli di stampo spiccatamente politico – in particolare quelli commissionati dalla Zeitschrift für Sozialforschung – se da un lato rispondevano all’interessamento di Benjamin per il pensiero marxista,

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d’altro canto lo costringevano a modificazioni e cesure1, talvolta effettuate

direttamente in fase di redazione, all’oscuro dell’autore. Basti pensare che uno dei saggi più noti, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, venne pubblicato in forma mutilata e per decenni non vi fu la possibilità di effettuare un confronto con l’originale.

Bisogna anche tener conto del fatto che nelle recensioni Benjamin era costretto a confrontarsi direttamente con il pubblico e ad accantonare perciò lo stile ostico e spesso oscuro che poteva permettersi nei lavori destinati agli amici, così come doveva rinunciare a qualsiasi riferimento alla propria produzione “esoterica”, che sarebbe risultata incomprensibile a chiunque non fosse al corrente delle sue ricerche sul linguaggio. Negli ultimi anni, inoltre, ogni riferimento alla tradizione ebraica, costante punto di riferimento per Benjamin, deve essere censurato per evidenti ragioni di prudenza.

Nonostante le criticità elencate, è innegabile che alcune recensioni, o meglio alcuni grandi saggi di critica letteraria, offrono un’importante via di accesso al pensiero di Benjamin, soprattutto per quanto riguarda gli anni ’30, dopo il definitivo distacco dal mondo accademico.

Dall’analisi di questi scritti si può comprendere il rapporto del filosofo con importanti autori del suo tempo, il suo particolare interesse per l’antitesi

1

Era solitamente Adorno a consigliare all’amico le eventuali modifiche da apportare ai testi inviati all’Institut für Sozialforschung in modo da renderli maggiormente conformi alla linea tenuta dall’istituto, con cui Benjamin ebbe sempre un rapporto controverso, anche a causa degli attriti con Horkheimer, che avrebbe esercitato una certa influenza sulla decisione della commissione esaminatrice dell’Università di Francoforte di rifiutare la tesi di abilitazione di Benjamin.

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narrazione/scrittura – proseguo delle ricerche sul linguaggio – o la sua visione critica della modernità, che troverà il suo culmine nel progetto sui Passages. Un discorso a parte meritano le recensioni dedicate a Kafka, alla cui analisi sarà dedicato il capitolo successivo.

2. Il concetto di critica

Prima di addentrarci nell’analisi di alcuni scritti di critica letteraria, può essere utile soffermarsi brevemente sull’opera, questa volta dal taglio decisamente accademico, in cui avviene un primo confronto teorico tra Benjamin e gli ideatori del concetto moderno di critica: i primi Romantici. Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco2 fu redatto tra il 1918 e il 1919 come

tesi di dottorato presso la Facoltà di filosofia dell’Università di Berna, dove Benjamin si era rifugiato allo scoppio della guerra.

Il testo, ricco di citazioni, frutto di un accurato lavoro di ricerca sulle fonti, ha uno stile e un contenuto che lo distanziano notevolmente dai saggi sul linguaggio analizzati nel capitolo precedente, tuttavia rivela molti punti di contatto con Il compito del traduttore, di due anni successivo.

Nella sua tesi di dottorato, Benjamin prende in esame il concetto di critica per come è stato teorizzato nel primo Romanticismo da Schlegel e Novalis, che lo sviluppano partendo da un’analisi del concetto fichtiano di riflessione.

2

W. Benjamin, Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco, in Opere complete I, op. cit., pp.353-451.

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A differenza che in Fichte, manca qui il riferimento a un Io: il pensiero diventa fenomeno in se stesso e questo giustifica il fatto una definizione della critica quale processo di autocoscienza dell’opera. Venendo meno la distinzione tra Io e Non-io, la critica non potrà consistere in un giudizio soggettivo da parte del lettore; essa è piuttosto dispiegamento delle potenzialità insite nell’opera stessa, che attraverso la critica continua a vivere e a espandersi, tendendo verso la propria perfezione.

Questo concetto di vita e sopravvivenza delle opere è lo stesso che emerge ne Il compito del traduttore: le caratteristiche che nel saggio del 1921 verranno attribuite alla traduzione si ritrovano qui nel concetto di critica. Così come la traduzione non è rivolta al lettore e non ha come fine la comprensione, allo stesso modo la critica non serve per esprimere un giudizio, non deve produrre un parere sull’opera, ma scoprirne e esaltarne le potenzialità.

Allo stesso modo, se il fine della traduzione è di far trasparire dalle lingue umane i frammenti della lingua pura, così la critica eleva l’opera verso l’idea di assoluto propria di quella certa forma d’arte e, a livello superiore, dell’idea dell’arte in generale. Ma così come la lingua pura3, anche l’idea di arte in

generale è, secondo Benjamin, un assoluto che né si darà al compimento della storia né si può rinvenire in un passato mitico: è piuttosto uno stato cui tendere continuamente, elevando le opere che la tradizione ci consegna verso un livello di maggiore autocoscienza:

3

Questa concezione della lingua pura, così come il ruolo attribuito alla traduzione nella sopravivenza dell’opera, non sono esenti da influssi romantici, come abbiamo già avuto modo di segnalare nel primo capitolo.

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Scrive Giuliana Benvenuti:

La concezione benjaminiana della sopravvivenza dell’opera è strettamente congiunta a una idea della tradizione come qualcosa di essenzialmente incompiuto, non dato una volta per tutte. Non si tratta, pertanto, nel caso della traduzione, del commento o della critica, di rendere attuale un’opera del passato consegnataci nella sua compiutezza dalla trasmissione storica, quanto di portare a evidenza le possibilità linguistiche ed espressive latenti nell’opera.4

Ma per giungere a quell’idea dell’arte in generale la critica non può limitarsi a accrescere le potenzialità insite in ogni singola opera. Essa deve far emergere dall’opera l’ideale che è proprio di tutto un genere artistico e più in generale di tutta l’arte, in una tensione infinita:

Come riassume Cristina Guarnieri:

Benjamin comprende il nerbo portante della concezione schlegeliana della critica come trasformazione, amplificazione, procedimento progressivo in grado di sviluppare, nell’opera, il germe della sua infinità, del suo rapporto con l’idea, con l’assoluto.5

Un altro elemento comune a criticabilità e traducibilità, e che proprio nel testo sul Romanticismo trova la sua piena giustificazione, è l’annullamento della divisione tra oggetto e soggetto, tra l’opera criticata (o tradotta) e il critico (o traduttore). Difatti, è l’opera stessa a sottoporsi alla critica,

4

G. Benvenuti, La cenere lieve del vissuto. Il concetto di critica in Walter Benjamin, Bulzoni, Roma 1994, p. 37

5

C. Guarnieri, Il linguaggio allo specchio, op. cit., p. 77. Come vedremo tra poco, in un breve saggio successivo Benjamin estenderà questa ricerca dall’assoluto dell’arte a quello della filosofia, ponendo le basi per un teoria della critica compiuta.

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aprendosi a essa perché ne estragga quegli elementi rimasti sommersi. Da ciò deriva anche la non criticabilità del brutto e l’intraducibilità di ciò che è già stato tradotto: solo se l’opera contiene in sé delle possibilità di elevazione sopporterà su di sé l’intervento del critico o del traduttore:

Mentre, secondo le idee attuali, essa [la critica] consta della conoscenza oggettiva e della valutazione dell’opera, l’elemento distintivo del concetto romantico di critica sta nel non conoscere una speciale valutazione soggettiva dell’opera nel concetto di gusto. [..]Non è il critico che dà su questa un giudizio: è l’arte stessa nel momento in cui accetta in sé l’opera nel medium della critica, o la respinge e, proprio perciò, la valuta al di qua di ogni critica.6

Questa concezione di critica che, di fatto, supera sia la soggettività del critico che l’oggettività “inerte” dell’opera, rimanda sia al superamento proto-Romantico della distinzione fichtiana tra Io e Non io, sia a un preciso interesse giovanile di Benjamin, che nel saggio Sul programma della filosofia futura accenna a questa volontà di superare la coppia soggetto-oggetto all’interno di una nuova teoria della conoscenza.7

6

W. Benjamin, Il concetto di critica.., op. cit., p. 415.

7

W. Benjamin, Sul programma della filosofia futura, in Opere complete I, op. cit., pp. 329-341. Questo testo, per dirla con Scholem, rappresenta : “la più dettagliata presa di posizione sulla filosofia sistematica [,,] che possediamo di un periodo in cui Benjamin credeva ancora possibile un sistema di filosofia”. Questo saggio risulta molto interessante perché contiene l’abbozzo di un concetto di esperienza su cui Benjamin non tornerà più direttamente, ma le cui tracce sono presenti in molti lavori successivi, dalla tesi di dottorato alle composizioni in cui fa uso dei Denkbilder, dal breve scritto Esperienza e povertà al saggio Il narratore, che avremo modo di analizzare tra breve.

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Questi gli aspetti principali che permettono di tracciare un collegamento tra Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco e le ricerche sul linguaggio. L’analisi dei pensatori Romantici permette a Benjamin di mettere in luce anche alcuni aspetti della critica che riprenderà nei saggi di carattere letterario.

Tra questi, il carattere pieno e autonomo del saggio critico rispetto all’opera cui si riferisce: la critica oltre a ampliare e arricchire l’opera stessa – il vero lettore dev’essere l’autore ampliato, scrive Benjamin citando Novalis8 - si

costituisce essa stessa come testo letterario dotato di una validità a se stante, facendosi esso stesso opera d’arte. E se Schlegel arriva ad affermare che La poesia romantica vuole e deve mescolare genialità e critica9, intesa come suo

progressivo e autocosciente sviluppo, Benjamin commentando questo passo afferma:

Essa [la critica] è un prodotto che, nella sua origine, è sì occasionato dall’opera, ma, nel suo sussistere è, tuttavia, indipendente da essa.10

D’altra parte, è difficile intendere testi quali Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov11, come non dotati di un valore proprio che

8

W. Benjamin, Il concetto di critica.., op. cit., p. 404. La citazione è tratta da Novalis, Schriften, edizione critica a cura di E. Heilbron, Berlin, 1901, 2 voll., p. 34 (2° vol.)

9

Ivi, p. 439. La citazione è tratta dal frammento 116 contenuto in “Athenäum”, n. 427.

10

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prescinde dal riferimento all’opera dello scrittore russo. Anzi, la recensione a Leskov diventa un pretesto per esporre la propria posizione sul rapporto tra narrazione e romanzo, come Benjamin stesso confessa.

Il valore contenuto nei saggi critici di Benjamin, è dato dal costante intreccio tra critica intesa nel senso comune del termine e teoria della critica. Il filosofo non si limita a recensire un'opera, ma fornisce ogni volta categorie interpretative generali, valide per ogni opera d’arte. Anche questo aspetto della critica era già stato evidenziato da Schlegel, che nel numero 44 di Athenäum scrive:

Ogni recensione filosofica dovrebbe contemporaneamente essere filosofia delle recensioni.

Benjamin riporta questa frase nella sua tesi e in una nota commenta l’aggettivo “filosofica” che Schlegel ha usato per riferirsi alla critica. Dicendo che si tratta di:

Un aggettivo con il quale viene presumibilmente indicata la sua dignità, non il suo oggetto.12

Dunque, la critica è essa stessa filosofia. Questa estensione della critica dall’ideale dell’arte all’ideale della filosofia – o, meglio all’ideale del

11

W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di &icolaj Leskov, in Angelus novus, op. cit., pp. 247- 274. Recentemente è apparsa in Italia un’edizione indipendente del saggio, edita da Einaudi e con commento e critica di Alessandro Baricco. Cfr. W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov, note e commento di A. Baricco, Einaudi, Torino 2011

12

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problema – è teorizzata da Benjamin in un breve frammento dal titolo Teoria della critica.

In questo frammento, la filosofia viene definita un sistema in cui la risposta che questo sistema in quanto unità fornisce all’insieme delle domande che vengono continuamente poste dalla ricerca filosofica è di gran lunga superiore in potenza a tutte le possibili domande. Questo significa che la domanda che da sola può interrogare l’intero sistema filosofico resta solo virtuale, non formulabile: l’intero sistema filosofico si può esporre solo in una pluralità.

Per rendere meglio comprensibile questo “ideale del problema” (o problema ideale) Benjamin propone un paragone con l’opera d’arte. Come quello della filosofia, anche l’ideale dell’arte non si può cogliere se non in una pluralità che nell’antichità era simboleggiata dalle Muse e che in seguito è stata portata alla sua espressione teorica dalla critica, la quale, come già intuirono i Romantici, è in grado di rintracciare nella pluralità delle opere un principio di armonia, lasciando intravedere proprio quell’ideale di arte in generale che Schlegel andava cercando.

Come la filosofia, anche l’arte non è in grado di racchiudere in una sola opera l’ideale, ma grazie al suo lato materiale essa è in grado di rappresentare questo ideale in modo più diretto di quanto non possa fare la filosofia: in altre parole, se nessuna opera contiene il bello in sé, è anche vero che le opere d’arte sono in grado di offrirci una rappresentazione dell’idea del bello in modo più intuibile di quanto l’idea della verità possa trasparire da una

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questione filosofica, ciò significa che in ogni opera d’arte si può rintracciare una manifestazione dell’ideale del problema.

Attraverso la critica, l’opera d’arte è dunque in grado di elevarsi al di sopra del suo genere specifico per far apparire l’idea del bello, la quale a sua volta lascia trasparire quel contenuto di verità che emerge dalla pluralità della ricerca filosofica, dall’insieme delle domande cui essa cerca di dare un’unica ideale risposta.

Proprio per arrivare a questo ideale di verità la ricerca di Benjamin si sviluppa seguendo più percorsi, dalle ricerche sul linguaggio a quelle sul mito o sulla storia. E la critica letteraria, come questo saggio ci mostra, è proprio una delle vie privilegiate.

Come la filosofia, in concetti simbolici, include eticità e linguaggio nel teoretico, così il teoretico (logico), in eticità e linguaggio, può a sua volta essere incluso in concetti simbolici. Allora la nasce la critica etica e estetica.13

Attraverso le sue recensioni “etiche ed estetiche”, Benjamin affronta da un altro punto di vista il tema che resterà sempre al centro della sua ricerca filosofica, il linguaggio, analizzato principalmente nel saggio sul narratore attraverso il confronto tra racconto e romanzo, generi letterari che rimandano al rapporto tra oralità e scrittura. Il saggio su Karl Kraus permette invece di mettere in luce il rapporto intercorrente tra lingua e Giudizio, preludendo alle riflessioni tra ebraismo, lingua e tempo storico che sono al centro degli studi su Kafka.

13

(11)

3. La figura del narratore

Nel 1936 Benjamin pubblica sulla rivista svizzera Orient und Occident un articolo che, secondo le indicazioni della redazione, avrebbe dovuto riguardare la figura di Nicolaj Leskov14, a cui Benjamin si era interessato fin

dagli anni dell’università. La stesura del saggio divenne in realtà un pretesto per esporre un interessante confronto tra la figura del narratore e quella del romanziere15, confronto che parte dalla costatazione di una “crisi

dell’esperienza” per intersecarsi con il tema della perdita dell’aura, cui Benjamin si stava dedicando in quel periodo.16

14

Nicolaj Semenovič Leskov (1831-1895), scrittore e giornalista russo. Le sue opere si distinguono per l’attenzione al contesto rurale della Russia zarista, reso anche attraverso l’uso del linguaggio popolare, che rende le sue opere vicine alla tradizione orale contadina, sua costante fonte d’ispirazione.

15

Come Benjamin scrive in una lettera del 15 aprile 1936 a Kitty Marx-Steinschneider, Leskov mi fornirà il pretesto per tirar fuori dalla stalla un mio vecchio cavallo di battaglia: tenterò di piazzare le mie ripetute considerazioni sul contrasto tra romanziere e narratore e la mia antica predilezione per quest’ultimo. W. Benjamin, Lettere 1913-1940, Einuadi, Torino 1978, p. 317

16

In una lettera del 4 giugno 1936 Benjamin comunica ad Adorno: negli ultimi tempi ho scritto un lavoro su &icolaj Leskov che, senza aspirare minimamente alla portata di quello sulla teoria dell’arte [cfr. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicato anch’esso nel 1936], evidenzia alcuni paralleli con la “decadenza dell’aura”. W. Benjamin, Gesammelte Briefe, Bd. V, op. cit., p.307

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3.a Narrazione e romanzo a confronto

L’antitesi tra narrazione epica e produzione romanzesca era già stata presentata da Benjamin nella recensione a Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, dal significativo titolo Crisi del romanzo. Nell’apertura del saggio Benjamin contrappone alla dimensione corale e collettiva della narrazione la figura del romanziere solitario, che scrive per un lettore altrettanto solo: Nell’epos il popolo riposa dopo il lavoro quotidiano, ascolta sogna e raccoglie. Il romanziere si è distaccato dal popolo e da ciò che esso fa. La culla del romanzo è l’individuo nella sua solitudine, che non sa più pronunciarsi in forma esemplare sulle faccende più importanti, che non ha nessuno che lo consigli e non può dare consigli a nessuno.17

Ne Il narratore, riprendendo questo passo, aggiunge:

Scrivere un romanzo significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita umana. Pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente.18

A cosa è dovuta questa incapacità del romanziere di raccontare storie che sappiano narrare la vita umana, che siano in grado di fissarsi nella mente del lettore? Due sono le principali cause che Benjamin segnala nel suo saggio: una è l’invenzione della stampa, che permette il diffondersi della letteratura scritta, e l’altra è quell’incapacità di raccontare l’esperienza che, presente già

17

W. Benjamin, Crisi del romanzo. A proposito di Berlin Alexanderplatz di Döblin In Opere complete IV, op. cit., p. 159.

18

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nell’epoca moderna, si è acuita in seguito agli sconvolgimenti causati dalla prima guerra mondiale.19

L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i grandi narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi.20

Al contrario del romanzo – in cui la qualità del testo è garantita dalla fama dell’autore – l’autorità e il fascino della storia narrata è data dalla lontananza di ciò che viene narrato. Le due grandi categorie da cui proviene la figura del narratore sono quella del mercante viaggiatore, che racconta di terre lontane, e quella dell’agricoltore sedentario, che conosce le storie e le antiche tradizioni della sua terra. In entrambi i casi, la materia epica si rifà a una lontananza che si fa presente nell’attimo, unico e irripetibile, in cui il narratore racconta la storia agli ascoltatori: l’esperienza della narrazione, che attinge a un passato lontano, rivive nella lingua, nella parola del narratore. Come scrive Massimo Baldi si tratta di “Narrare l’assente”:

Il narratore attualizza qualcosa di costitutivamente remoto: non tanto la vicenda – che nella maggior parte dei casi non è reale –, quanto il fatto stesso di concepirla, di esperirla. La narrazione è in questo caso un risveglio dell’esperienza, un suo tornare a respirare e a vivere, nel respiro e nella vita della lingua. In altre parole il narratore

19

Queste considerazioni saranno riprese da Adorno in apertura del saggio La posizione del narratore nel romanzo contemporaneo Cfr. Th. Adorno, &ote per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, pp. 38-45.

20

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intende socializzare, rendere fruibile ad altri, l’azione stessa dell’esperienza, la presenza effettiva (e quindi non solo ricettiva) di una circostanza e di un contesto complesso. Questa azione non è narrabile mediante la lingua, ma solo nella lingua.21

Il rapporto vivo tra narratore e ascoltatori scompare completamente nel romanzo, che ha sempre bisogno del supporto materiale del libro per la sua realizzazione e diffusione. Il romanzo è infatti l’unica forma di letteratura in prosa che non trae origine dalla tradizione orale e non confluisce in essa; per questo il suo rapporto con il tempo è diverso: il romanzo può rievocare un passato o una lontananza, ma non instaura con il presente quel legame diretto che si crea tra chi narra una storia e chi l’ascolta. Il libro può essere letto e riletto più volte e il lettore potrà scorgervi sempre nuovi significati, ma non si raggiungerà mai quell’unicità che il racconto orale necessariamente porta con sé ogni volta che viene narrato. Come Benjamin rimarca nell’intero saggio, l’opera del narratore è affine a quella dell’artigiano, che crea prodotto unico, confezionato con cura e saggezza.

Facendo rivivere un avvenimento lontano ogni volta in modo unico, la narrazione attua quella apparizione unica di una lontananza22- l’aura – che è

propria dell’arte passata. Niente di più lontano dal libro che, in quanto prodotto riproducibile, paga la sua continua esposizione al pubblico con la

21

M. Baldi, &arrare l’assente. Esperienza, narrazione, romanzo. in Rivista on-line del seminario permanente di estetica, anno II, numero 2. www.aisthesisonline.it

22

W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, op. cit., p. 25

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perdita di un contatto diretto con il lettore, esattamente come il cinema ha perso quel rapporto vivo con il pubblico che rendeva ogni rappresentazione teatrale diversa da tutte le altre:

Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova.23

3.b Memoria e tradizione orale

Un altro elemento che fa del romanzo un prodotto dell’epoca tecnica è la sua incapacità di produrre memoria. Nella narrazione epica il ricordo riveste un ruolo fondamentale, sia per la sua trasmissione, sia nella composizione stessa del racconto che attinge a fatti visti o sentiti. La memoria [Gedächtnis] si fissa in modo spontaneo nel popolo che, la sera intorno al fuoco o di giorno nella ripetitività del lavoro, ascolta le storie narrate in uno stato di totale distensione.

Non così nella città moderna, dove mancando la possibilità di sperimentare realmente lo stato di distensione la percezione si fa “distratta”. Per farvi fronte il lettore di romanzi è costretto a una tensione che lo porta a divorare il libro leggendolo tutto d’un fiato per carpirne “il senso della vita”, unico

23

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elemento che resta disponibile per il ricordo interiore [Eingedenken], volontario e consapevole.24

Questo “senso della vita” è il centro intorno a cui ruota il romanzo, ciò verso cui esso tende con quella voracità che fa precipitare il lettore verso la conclusione, in cui si racchiude il significato dell’intera opera.

Con questa conoscenza il romanzo è giunto alla fine, che gli è propria nel senso più stretto che a qualunque altro racconto. Poiché non c’è racconto a cui non si possa porre la domanda della sua continuazione: mentre il romanzo non può sperare di procedere mai oltre quel limite dove, scrivendo un Finis sotto la pagina, invita il lettore a presentarsi intuitivamente il senso della vita.25

Si comprende ora perché quell’opera d’arte che è il romanzo abbia sempre bisogno di un intervento esterno per poter continuare a vivere e espandersi, per uscire dai confini del libro. Il riferimento è, chiaramente, al ruolo della traduzione e della critica, forme che Benjamin riferisce sempre alla letteratura scritta. Perché se è ovviamente possibile anche la traduzione o la critica di un racconto, è altrettanto vero che esse non sono così necessarie alla narrazione, materia viva e collettiva, che attraverso la memoria si conserva, si tramanda trasformandosi e intrecciandosi con altri racconti. Questa capacità della

24

La distinzione concettuale tra i diversi termini che definiscono memoria e ricordo trova il suo fondamento e la sua più ampia elaborazione nel saggio su Proust, pubblicato nella Literalische Welt nell’estate del 1929. Cfr. W. Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Opere complete III, op. cit., pp. 285-297. Per un approfondimento sul saggio si veda D. Finkelde, Benjamin liest Proust. Mimesislehre - Sprachtheorie - Poetologie, Fink Vg., München, 2003

25

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narrazione deriva proprio dalla sua natura aperta, che non soffoca la materia del racconto chiudendola in un “senso della vita”, ma lascia al lettore la libertà dell’interpretazione, facendo acquistare al narrato quell’ampiezza che manca al romanzo.

Come nota Eduado Fernandez Gijon:

L’oggettività nella narrazione consiste nel non imporre al lettore un’interpretazione psicologica degli avvenimenti, bensì lo invita ad ampliare le sue aspettative.[..] Per questo la narrazione è sempre ambigua e il suo significato rimane aperto, sollecitando il lettore o l’ascoltatore affinché siano essi stessi a completarlo.26

Questo elemento vitale della narrazione orale è ciò che Benjamin chiama la tradizione, nel senso che questo termine assume in certe correnti liberali della religione ebraica, maggiormente slegate dalla interpretazione rabbinica. Nel suo testo Concetti fondamentali dell’ebraismo, vera e propria guida introduttiva all’ebraismo e alla sua storia, Scholem definisce la tradizione come “interazione viva di chi dà con chi riceve” e ne mette in risalto “il momento creatore” e la “spontaneità”.27 A sostegno della sua tesi, cita le

parole dello studioso tedesco Franz Joseph Molitor, che ben mettono in luce la problematica intercorrente tra la trasmissione orale della tradizione e la sua codificazione scritta:

Tuttavia, seppure lo scritto merita la preferenza rispetto alla tradizione orale in ragione della sua fedeltà e maggior attendibilità rendendo ben più difficile il

26

E. Fernandez Gijon, Walter Benjamin. Iluminación mística e iluminación profana, Secretariado de Publicaciones, Universidad de Valladolid, 1990, p.144

27

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travisamento, d’altra parte, ogni versione scritta non è che l’immagine astratta e universale della realtà, completamente priva di tutte quelle determinazioni concrete e specificazioni individuali che la vita offre [..] Infatti, una volta che tutto ciò che si trasmette oralmente sia stato messo per iscritto, sicché alla vita non viene lasciato spazio alcuno, allora a perdersi definitivamente è la vera teoria insime ealla autentica pratica della vita.28

Si vede dunque chiaramente come anche tra gli studiosi ebraici più aperti, la trascrizione di ciò che era stato in precedenza patrimonio orale comporta una chiusura, la perdita di quel legame diretto con la vita che la narrazione, adattandosi ogni volta ai contesti e alle situazioni, ha sempre conservato. La dimensione fluida e vitale della tradizione orale si accentua ulteriormente nella corrente cabalistica, dove addirittura la Torah scritta viene ritenuta una fissazione interpretante della Torah orale, a sua volta proveniente dalla Torah originaria che solo in Dio è contemplabile.

I cabalisti, di cui Scholem rappresenta il massimo esponente nel Novecento, vedono nella trasmissione orale un processo che stimola “la produttività attiva nella ricezione”: ciò che viene narrato si fissa nella mente dell’ascoltatore, che dovrà poi essere in grado di produrre una elaborazione viva della rivelazione ricevuta.

Questo non può avvenire nel momento in cui ci si accosta a un testo scritto, quindi:

28

F. J. Molitor, Philosophie der Geschichte oder über die Tradition, I, 1857, p.4. Cit. in G. Scholem, Concetti fondamentali.., op. cit., p. 80

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Secondo il suo significato mistico questa tradizione non può essere altro che Torah orale; infatti, ogni sua fissazione in uno scritto potrebbe bloccare e distruggere ciò che in essa è infinitamente mosso, in continuo progresso e sviluppo, pietrificandolo. Che la dottrina orale sia stata trascritta e addirittura codificata per proteggerla dall’oblio, viene dunque a questo punto riguardata come un’azione che no fu soltanto salvifica, ma insieme, e in senso più profondo, nefasta.29

3.c Crisi del romanzo e crisi dell’esperienza

Il tramonto dell’epica orale e la sua conseguente fissazione nella scrittura – da cui secondo Benjamin avrebbe avuto origine il romanzo moderno e la sua inscindibilità dal libro30 - è ciò che ha distrutto la capacità della narrazione di

inserirsi nella vita quotidiana. Ma come già segnalato all’inizio di questo paragrafo, un altro elemento si è reso responsabile della crisi della narrazione che ha interessato il Novecento: si tratta dell’impoverimento dell’esperienza, o meglio dell’incapacità di tradurre il vissuto in una narrazione.

È come se ci fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di produrre esperienze. Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni dell’esperienza sono cadute.31 Questa svalutazione

29

Ivi, p. 95

30

Si noti come questo attaccamento al Libro sia proprio di quelle correnti dell’ebraismo più conservatrici che tendono a dare una totale predominanza alla Torah scritta, soffocando così la libertà interpretativa di cui la tradizione orale ha sempre goduto.

31

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dell’esperienza viene imputata principalmente allo choc provocato dagli orrori della Grande Guerra: riprendendo nel saggio su Leskov le considerazioni già sviluppate nel breve saggio del 1933 Esperienza e povertà, Benjamin nota come la gente tornava dal fronte ammutolita, povera di esperienza comunicabile. E ciò che alcuni anni più tardi venne messo per iscritto nei libri di guerra non era frutto di una narrazione, il risultato di esperienze passate di bocca in bocca: quello che rimane è un semplice resoconto, una descrizione incapace di trasmettere sensazioni e di fare presa nella memoria dell’ascoltatore.

Lo sconvolgimento sociale e tecnologico che la guerra ha portato con sé ha fatto perdere all’uomo ogni legame con il proprio vissuto precedente; persino il paesaggio era stato completamente sconvolto, lasciando il soldato disorientato, solo, fragile:

Una generazione che era andata a scuola ancora con il tram a cavalli, stava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui niente era rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro – in un campo di forza di esplosioni e di correnti distruttrici – il minuto e fragile corpo umano.32

Questo paesaggio disumano e ostile non offre all’uomo alcun elemento famigliare cui aggrapparsi per tentare di organizzare i ricordi in forma narrativa: chi non ha provato l’esperienza del fronte non è in grado di immedesimarsi nei racconti del reduce, perché niente di ciò che egli descrive è in grado di rievocare immagini nella memoria. Anche se l’epica ha sempre

32

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narrato di tempi passati o di luoghi lontani, essa non ha mai mancato di contenere elementi che risultassero famigliari, come i consigli di natura pratica che si ritrovano nei racconti di narratori moderni quali Gotthelf, Nodier, Hebel e, naturalmente, lo stesso Lesov, che Benjamin definisce “persona di consiglio”.

Che se oggi questa espressione ci sembra antiquata, ciò dipende dal fatto che diminuisce la comunicabilità dell’esperienza.33

Questa crisi dell’esperienza - come la Grande Guerra ha dimostrato in modo paradigmatico, - è dovuta a una progressiva snaturalizzazione dell’ambiente e delle condizioni di vita iniziata già nel secolo precedente, quando l’industrializzazione ha portato alla nascita di un lavoro ripetitivo e meccanizzato, in cui non resta più né lo spazio per fare esperienze, né la possibilità di ascoltare quelle altrui, come avveniva nelle campagne e nelle botteghe.

La città moderna, con la sua frenesia e il sovraccarico di sensazioni che offre finisce per impoverire l’uomo della capacità di ritenere nella memoria esperienze e racconti. Quello che rimane è solo la “esperienza vissuta” (Erlebnis) che può essere conservata solo grazie a uno sforzo volontario tale da non permettere al vissuto di stratificarsi nella parte più profonda della memoria, cui attinge la forza creativa della narrazione.

Questo legame tra crisi dell’esperienza e epoca moderna è messo in luce da Benjamin nel saggio Di alcuni motivi in Baudelaire34, che avrebbe dovuto

33

(22)

essere parte della grande opera sui Passages. Parlando dell’uomo che si aggira per la città, con i suoi pericoli e le sue meraviglie, Benjamin nota :

Quanto maggiore è la parte dello choc nelle singole impressioni; quanto più la coscienza deve essere continuamente all’erta nell’interesse della difesa degli stimoli; quanto maggiore è il successo con cui essa opera; e tanto meno esse penetrano nell’esperienza [Erfahrung]; tanto più corrispondono al concetto di “esperienza vissuta” [Erlebnis].35

Questo choc che impedisce la ritenzione dell’esperienza si ritrova nelle forme d’arte specifiche della modernità: la fotografia e il cinema. La dissoluzione dell’aura nella “esperienza” dello choc, scrive Benjamin nel finale del saggio su Baudelaire, è la sensazione della modernità, che annienta l’Erfahrung in favore dell’Erlebnis, dove il ricordo rimane nello stato di frammento, incapace di connettersi in quel tessuto esperienziale che alla base della narrazione.

Ma c’è un altro fenomeno, tutto moderno, in cui lo choc agisce in modo così eclatante da provocare una frammentazione dell’esperienza tale da far perdere non solo la capacità di narrare, ma persino la capacità di pensare criticamente: si tratta dell’informazione.

Se il romanzo minaccia la narrazione rivolgendosi al lettore solitario e alla sua memoria volontaria, l’informazione conserva il carattere collettivo che è proprio del racconto ma annientando allo stesso tempo ogni facoltà mnemonica con il suo flusso costante di notizie.

34

W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus &ovus, op. cit., pp. 89-130

35

(23)

Se l’arte di narrare si è fatta sempre più rara, la diffusione dell’informazione ha in ciò una parte decisiva. Ogni mattino ci informa delle novità di tutto il pianeta. E con ciò difettiamo di storie singolari e significative. Ciò accade perché non ci giunge più alcun evento che non sia già infarcito di spiegazioni. In altri termini: quasi più nulla di ciò che avviene torna a vantaggio della narrazione, quasi tutto a vantaggio dell’informazione. È, infatti, già metà dell’arte di narrare, lasciare libera una storia, nell’atto di produrla, da ogni sorta di spiegazioni.36

Alla critica dell’informazione e al declino del linguaggio come veicolo della narrazione è dedicato il saggio del 1929 su Karl Kraus, giornalista e scrittore satirico della Vienna di inizio Novecento.

36

(24)

4. Karl Kraus

L’interesse di Benjamin per Karl Kraus risale agli anni della Prima guerra mondiale, quando insieme a Scholem leggeva e commentava pressoché regolarmente Die Fackel, la rivista satirica fondata, diretta e, dal 1911, interamente scritta da Kraus stesso.

Ebreo convertito al cattolicesimo - da cui tuttavia si allontanò presto – Kraus mostra nei suoi articoli un’ossessione per la lingua che non mancò di attirare l’attenzione di Benjamin e di Scholem.

Al periodista viennese Benjamin dedicò alcuni brevi saggi tra il 1928 e il 193037, fino a redigere nel 1931 un lungo saggio intitolato semplicemente Karl

Kraus38, dove la riflessione sul ruolo del giornalismo – verso cui Kraus ha

spesso indirizzato taglienti critiche – si intreccia con considerazioni sulla lingua e la storia che per la loro ambiguità provocarono la reazione negativa che Scholem ebbe leggendo il saggio, giudicato incomprensibile dallo stesso Kraus.

4a. Giornalismo e informazione

Per quanto riguarda le riflessioni di Benjamin sull’attività giornalistica, esse preludono a quelle sul ruolo della letteratura che abbiamo analizzato poco

37

Cfr.: Karl Kraus legge Offenbach (1928), in Opere complete III, pp. 53-55; Wedekind e Kraus alla Volksbühne (1929), in Opere complete III, pp. 408-411

38

(25)

sopra: la stampa quotidiana perverte la facoltà narrativa che è insita nel linguaggio, annientando quella stratificazione dell’esperienza nel ricordo che è la materia prima di ogni racconto.

L’informazione vive nell’istante, cattura gli eventi nel momento stesso in cui avvengono per restituirceli sottoforma di notizia, cioè inquadrati in uno spazio/tempo ben definito - a differenza del racconto, che si riferisce genericamente a una lontananza – e già forniti di una spiegazione che non lascia spazio a elaborazioni da parte del lettore. Di fatto, l’informazione non vuole semplicemente confrontarsi con l’opinione pubblica, ma si pone l’obiettivo di formarla e dirigerla:

Il senso dell’opinione pubblica che è prodotta dalla stampa è appunto quella di rendere il pubblico incapace di giudicare, di suggerirgli un comportamento irresponsabile e disinformato.39

D’altra parte, al lettore non è lasciato nemmeno il tempo per sviluppare il proprio pensiero: le notizie si susseguono l’una all’altra in un flusso continuo ma disarticolato che non costituisce un’esperienza unitaria in grado di sedimentare nella mente del lettore.

I tempi dell’informazione non sono quelli dell’artigiano che confeziona con cura e pazienza il suo prodotto, ma piuttosto quelli dell’operaio in balia della macchina. Scrive Benjamin citando Kraus:

L’apparato giornalistico richiede mercati del lavoro e di smercio, come una fabbrica. In determinate ore del giorno (due o tre volte, per i grandi giornali) deve essere

39

(26)

procurata e preparata una determinata quantità di lavoro per la macchina. E non di materiale qualunque: tutto quello che è accaduto dovunque e in qualsiasi campo.. deve essere raggiunto e giornalisticamente preparato.40

E come il prodotto industriale non ha più quel marchio d’originalità tipico del lavoro manuale, così l’informazione si serve di un linguaggio impoverito, pieno di frasi fatte che servono a trasformare ogni accadimento in una notizia giornalistica che ha come solo obiettivo quello di creare uno choc nel lettore. La connessione tra impoverimento della letteratura e produzione industriale, che sarà al centro del saggio sull’opera d’arte, trova proprio in questo testo molti dei suoi primi abbozzi. Così ad esempio Kraus, parlando della degradazione della letteratura come opera d’arte a causa del giornalismo, paragona il gazzettiere a chi esercita l’arte industriale. Davanti a questa decadenza non resta che ingaggiare una lotta per la liberazione del linguaggio: la “dispersione comunicativa” che la stampa periodica ha prodotto è uno smarrimento della lingua paragonabile a quello che si è avuto dopo Babele e, come in quel caso, è necessario che l’uomo tenti una purificazione del linguaggio per far sì che esso torni ad essere realmente portatore di senso e non semplice mezzo per la riproduzione degli avvenimenti sotto forma di notizie.

Per questo è necessario innanzitutto separare nettamente opera d’arte e informazione riconoscendo anche quei casi in cui quest’ultima deve farsi da parte per lasciare posto al silenzio. Un silenzio che non è quello di chi non ha

40

(27)

niente da dire, ma di chi ha compreso troppo a fondo la forza del linguaggio per lasciare che esso possa svendersi alla stregua di una prostituta.41 Un

silenzio che sa colpire per la sua forza e per la sua capacità di intuire gli eventi.

A questa forma estrema Kraus ha fatto ricorso solo due volte nel corso della sua lunga carriera giornalistica: nel 1914, allo scoppio della Grande guerra e nel 1933, anno dell’ascesa politica di Hitler. In tutte le altre situazioni, l’arma di Kraus contro il pervertimento del linguaggio è la forza insita nel linguaggio stesso e in particolare in alcune sue forme retoriche: la rima e la citazione.

La rima rappresenta il punto in cui due frasi, due pensieri si incontrano abbandonansi al linguaggio e lasciandosi sopraffare dalla sua ambiguità, dai giochi di parole che liberano la parola dalla razionalità mostrandone il lato più puro, svincolato dalla necessità meramente comunicativa.

4b. Il “carattere distruttivo” della citazione

Se la rima rimanda al mondo infantile e a quel rapporto tra linguaggio e mimesi che è teorizzato nel saggio sulla Facoltà mimetica, la citazione mostra invece il lato sovrumano del linguaggio, che con la sua potenza distruttrice rende chi ne sa far uso un uomo universale, un demone, un inumano, un angelo. Questi gli appellativi con cui, in un crescendo che si snoda lungo

41

Il paragone tra il giornalista e la prostituta e più in generale quello tra il linguaggio e l’eros è una costante che attraversa tutto il saggio.

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l’intero saggio, Benjamin arriva a definire Kraus, che costella ogni uscita di Die Fackel di innumerevoli citazioni tanto da far dire Scholem:

Da tempo avevo riflettuto sul fatto che lo stile di Kraus derivasse dalla prosa e dalla poesia ebraiche medioevali, dalla lingua dei grandi halakisti e dallo “stile musivo”, dalla prosa ritmata, ove i frammenti linguistici dei testi sacri,fatti turbinare in senso caleidoscopico, vengono sottoposti a una profanazione pubblicistica, polemica, descrittiva e perfino erotica.42

Benjamin, che sognava di scrivere “un libro composto interamente di citazioni”, resta affascinato da questa considerazione di Scholem, tanto da pregarlo più volte di mettere per iscritto queste riflessioni – cosa che mai avvenne – soprattutto nel periodo in cui stava lavorando al saggio su Kraus. Questo notevole interesse rivela come per Benjamin la citazione fosse molto più di un semplice espediente retorico; essa è connessa direttamente con la sfera linguistica del nome ovvero quella che – come si ricorderà dal saggio Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo – è considerata la più pura, la più vicina alla essenza della lingua.

Nella citazione che salva e punisce la lingua si rivela come la madre della giustizia. La citazione chiama la parola per nome, la strappa dal contesto che distrugge, ma proprio per questo la richiama anche alla sua origine.43

42

G. Scholem, Storia di un’amicizia, op. cit., p. 166. Sull’impiego della citazione nella letteratura ebraica medievale si veda Halevi Jeudah, Liriche religiose e canti di Sion, a cura di L. Cattani, Città nuova, Roma 1987, cfr. in particolare pp. 17 e 25.

43

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L'accostamento tra origine, nome e salvezza permette di instaurare un paragone tra il procedimento della tradizione e quello della citazione che porta a collocare quest’ultima in una dimensione temporale ben precisa, se si tiene come riferimento ciò che è emerso dall'analisi de Il compito del traduttore. L'aspetto frammentario della verità, proprio della traduzione, trova nella forma della citazione la sua espressione più immediata. La citazione è una forma di riattualizzazione del passato che si concentra sull'attimo, sull'elemento atomico (il frammento) senza dare conto della sequenza logica e temporale in cui questo si collocava in precedenza.

Questo permette a Benjamin di mostrare come Kraus non creda in una storia teleologicamente orientata ma condivida piuttosto una visione simile alla sua, fatta di attimi carichi di significato durante i quali si manifesta la Giustizia, che con il suo giudizio permette di intravedere la Verità.

Come scrive Josef Fürnkäs nel suo saggio Zitat und Zerstörung:

Das Zitat lässt Wahrheit bruchstückhaft aufblitzen, verweisend auf den Endzustand einer erlösten Sprache.44

Questa giustizia non viene a risolvere un Processo che è in corso di svolgimento, né a ripristinare una purezza originaria: essa attua piuttosto una distruzione purificatrice che ha luogo nel linguaggio, nel frammento che, preso nella sua dimensione isolata, può essere finalmente giudicato in sé,

44

J. Fürnkäs, Zitat und Zerstörung, in J. Le Rider, G. Raulet (hrsg.), Verabschiedung der (Post)Moderne?: eine interdisziplinäre Debatte, Narr, Tübingen, 1987, pp. 209- 225. Si noti come le caratteristiche che Fürnkäs attribuisce alla citazione sono le stesse con cui Benjamin si riferisce alla traduzione ne Il compito del traduttore.

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purificato dal testo “originale” da cui proviene. Un’origine fissata una volta per tutte in un testo scritto: è da questa dimensione inautentica che la citazione strappa il frammento per portarlo davanti alla giustizia.

Solo il disperato [Kraus] scoprì nella citazione la forza, non di custodire, ma di purificare, di strappare dal contesto, di distruggere. [..] Nella citazione si rispecchia la lingua angelica in cui tutte le parole, snidate dal contesto idilliaco del senso, sono divenute motti nel libro della creazione.45

Come nella traduzione, anche la citazione distrugge il senso complessivo per far emergere la letteralità, avvicinando la lingua umana a quella fatta di soli nomi che nel saggio Sulla lingua veniva attribuita solo a Dio e che qui diventa appannaggio anche di quegli angeli che

secondo il Talmud, sono creati in ogni istante in schiere innumerevoli, levano davanti a Dio la loro voce per poi sparire nel nulla. Si lamentano, accusano o esultano? Comunque sia: l’effimera opera di Kraus imita questa voce che rapidamente si dilegua. Angelus – è il messaggero delle vecchie incisioni.46

Su questa figura dell’Angelus novus avremo modo di tornare nelle conclusioni. Quello su cui intanto si vuole riflettere è la connessione stretta tra lingua, storia e giustizia che emerge da questo saggio. D’altra parte, la citazione che chiama per nome è quella che invita a comparire davanti alla giustizia, come testimonia l’espressione vor Gericht zitieren (letteralmente “citare davanti al Tribunale”) che si ritrova nell’italiano “citare in giudizio”.

45

Ivi, pp. 354, 356

46

(31)

L’analisi dell’opera di Kafka, attraverso dell’interpretazione che Benjamin ne ha dato nei suoi saggi, ci permetterà di approfondire la relazione intercorrente tra la sfera della lingua e quella giustizia, messa immediatamente in evidenza dalla polisemanticità del termine “giudizio”. Per comprendere questa connessione è però necessario chiarire quale il significato che Benjamin attribuisce alla coppia diritto-giustizia, nonché il particolare rapporto che questi concetti intrattengono con la struttura del tempo storico. A questa “considerazione del diritto dal punto di vista della filosofia della storia” è dedicato il noto saggio Per la critica della violenza.47

5. Per la critica della violenza

Questo saggio è sicuramente il testo dal carattere più prettamente politico che Benjamin abbia mai pubblicato. Esso si inseriva in una riflessione più ampia sul tema della violenza che comprendeva un breve testo dal titolo Vita e violenza e un ampio saggio rimasto incompiuto. Entrambi questi lavori sono andati perduti, lasciando a Per la critica della violenza il compito di fornire una testimonianza sulle posizioni politiche tenute da Benjamin nel burrascoso biennio del ’20-21.

Come in quasi tutta l’opera di Benjamin, anche qui è evidente l’intreccio di temi derivanti dalla tradizione ebraica con posizioni di stampo materialista, in questo caso più anarchiche che marxiste, come il riferimento a Sorel rivela.

47

(32)

Prima di analizzare il testo, è necessario un chiarimento terminologico: la parola Gewalt, non significa solo “violenza” ma anche “autorità” e “potere”, come Solmi non manca di indicare in una nota all’edizione italiana. La stessa considerazione è ripresa da Derrida in A forza di legge48:

Gewalt in tedesco significa anche potere legittimo, autorità. Gesetzgedende Gewalt è il potere legislativo, geistliche Gewalt, il potere spirituale della Chiesa, Staatsgewalt, è l’autorità o il potere dello Stato. Gewalt è dunque, a seconda dei casi, la violenza e il potere legittimo, l’autorità giustificata.49

Proprio dalla constatazione dell’esistenza di una violenza giustificata e legalizzata scaturisce la domanda che impegna la prima parte del saggio, ovvero se sia possibile parlare di un uso legittimo della violenza come mezzo per il raggiungimento di un fine. La questione posta in questi termini si rivela irresolubile, dal momento che sia nel diritto naturale che in quello positivo si va incontro o a una giustificazione del mezzo in funzione del fine

48

J. Derrida, A forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, Bollati Borighieri, Torino, 2003. Il testo raccoglie due conferenze pronunciate da Derrida negli Stati Uniti tra il 1989 e il 1990. In particolare la seconda, Nome di Benjamin, è un’analisi del saggio sulla violenza condotta a partire da una provocazione che non ha mancato di sollevare numerose critiche, ovvero «Cosa avrebbe pensato Benjamin, o almeno quale pensiero di Benjamin è virtualmente formato o articolato in questo saggio (ed è anticipabile?) riguardo alla “soluzione finale”?» (p. 88). Benché l’analisi non si fermi a questa provocazione, restano nel saggio derridiano molti punti problematici, tra cui un’interpretazione della decadenza – anche in senso linguistico – troppo segnata dal riferimento alla teoria della caduta (Verfall) propria della filosofia heideggeriana e ripresa da Carl Schmitt, che Derrida vede come punto di riferimento – anziché come bersaglio critico – delle riflessioni benjaminiane.

49

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(giusnaturalismo) o a una garanzia della legittimità dei fini attraverso la legittimità dei mezzi utilizzati (diritto positivo), che entrambi i casi non porta a una critica della violenza in quanto tale.

Andando ad analizzare direttamente la funzione che la violenza ricopre nell’ambito del diritto europeo, si nota che in esso si distinguono due forme di violenza, una che si propone come fondatrice di diritto e una violenza che invece ha come fine quello della conservazione del diritto stesso – e non di una generica “convivenza civile”:

Bisognerà forse prendere in considerazione la sorprendente possibilità che l’interesse del diritto a monopolizzare la violenza rispetto alla persona singola non si spieghi con l’intenzione di salvaguardare i fini giuridici, ma piuttosto con quello di salvaguardare il diritto stesso. E che la violenza, quando non è in possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto.50

Questo spiega, ad esempio, il timore dell’autorità verso l’ammirazione popolare che riscuote il “grande delinquente”, che si pone completamente al di sopra del diritto, o la scarsa tolleranza dello Stato per lo sciopero generale, cioè quel tipo di sciopero generalizzato che non si pone semplicemente contro il datore di lavoro, ma che rivendica una modificazione del diritto. Analogamente, la guerra è temuta dallo Stato perché ha come suo obiettivo la fondazione di un nuovo diritto, sancito simbolicamente dal trattato di pace. Ma il trattato di pace, come il contratto di lavoro o qualsiasi

50

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regolamentazione fondatrice di diritto, si trasforma subito in violenza conservatrice, che a sua volta tenta di arginare ogni minaccia al nuovo diritto imposto, gettando i presupposti per un nuovo scoppio di violenza: Un regolamento di conflitti privo affatto di violenza non può mai sfociare in un contratto giuridico. Poiché questo, per quanto sia stato concluso pacificamente dai contraenti, conduce sempre, in ultima istanza, a una possibile violenza. Poiché esso conferisce a ogni parte il diritto di ricorrere, in qualche forma, alla violenza contro l’altra, nel caso che questa dovesse violare il contratto. E non solo: come il risultato, anche l’origine di ogni contratto rinvia alla violenza.51

Come uscire, dunque, da questa spirale di violenza? Nella seconda parte del saggio Benjamin delinea due possibili soluzioni, una che risiede nella lingua e una che si serve dell’accezione di “violenza pura”.

Se si guarda ai conflitti tra i singoli, si vede come spesso questi vengano risolti senza il ricorso alla violenza, nemmeno a quella legale: le premesse per questa possibilità sono da ricercarsi in quei sentimenti completamente alieni alla sfera politica, come “gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace, fiducia”. Quando questi sentimenti sono presenti, la conversazione si configura come la tecnica che permette un’intesa civile e non violenta poiché in essa l’accordo non violento non solo è possibile, ma l’esclusione di principio della violenza è espressamente attestata da una circostanza significativa: l’impunità della menzogna. Non c’è forse legislazione sulla terra che originariamente la punisca. Ciò

51

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significa che c’è una sfera a tal punto non violenta di intesa umana da essere affatto inaccessibile alla violenza; la vera e propria sfera dell’“intendersi”: la lingua.52

Dimostrazione della decadenza a cui la lingua è andata incontro è la punizione della menzogna da parte del diritto moderno, principalmente per paura della violenza che potrebbe generarsi in seguito all’inganno, considerato da Benjamin come un mezzo di per sé non violento.53

Se il ricorso al linguaggio come forma di mediazione non violenta dei conflitti è possibile solo tra i singoli, l’unico modo per uscire dalla violenza del diritto è attraverso la violenza stessa. Una violenza che, a differenza di quella della guerra o dello sciopero generale politico, non abbia come obiettivo la creazione di un nuovo diritto ma l’annientamento del diritto stesso: una violenza pura, che non si pone come mezzo in vista di un fine. Un esempio di questo tipo ci viene offerto da Sorel che nelle sue Considerazioni sulla violenza54 propone una distinzione tra sciopero generale

politico e sciopero generale proletario. Se il primo si pone come obiettivo un cambiamento nella gestione del potere statale, qualificandosi come violenza fondatrice, lo sciopero proletario ha come suo unico fine l’abbattimento di qualsiasi forma di Stato e pertanto non è una forma di violenza, ma una

52

Ivi, p. 18

53

Con questa considerazione si chiude la breve parte del saggio dedicata al rapporto tra lingua, violenza e diritto; eppure questo tema tornerà in modo più o meno esplicito in diversi saggi successivi, come abbiamo avuto modo di accennare a proposito del testo su Karl Kraus. Rimandiamo una trattazione esauriente di questo aspetto alle conclusioni.

54

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“pura e semplice rivolta” che spezza il circolo vizioso tra fondazione – violenta – e conservazione – altrettanto violenta – del diritto. Come nel saggio di Kraus, anche in questo caso Benjamin vede nella distruzione una forma di purificazione, l’unica possibile una volta riconosciuta l’inesistenza di una purezza originaria cui tornare – e il diritto, lo si è visto, si fonda sempre sulla violenza.

Intesa nella sua forma pura, la violenza non è un mezzo in vista di un fine, ma una manifestazione, come lo è il fenomeno della collera, che provoca scoppi di violenza non indirizzati verso uno scopo prestabilito. Ancora più di quella umana, la collera divina è un chiaro esempio di violenza come manifestazione di sé. Ma occorre distinguere tra la violenza mitica, propria degli dei, e la violenza di Dio, la sola che veramente attua un superamento del diritto attraverso la giustizia. Per mostrare questa differenza tra violenza mitica e violenza divina, Benjamin ricorre al paragone tra la leggenda di Niobe e il racconto biblico del giudizio di Dio sulla tribù di Korah.

Madre di sette figlie e sette figli, Niobe si vanta della sua discendenza scernendo la dea Latona, che ha avuto solo due gemelli: Apollo e Artemide. Questi vendicano la madre offesa sterminando tutti i figli di Niobe, lasciandola sola. Il fatto di lasciare in vita Niobe mostra come la violenza mitica si qualifichi non come pena ma come castigo, che come tale fissa un rapporto di potere, come commenta Massimo Baldi:

Il potere mitico non annienta l’avversario, ma gli fa violenza tracciando ironicamente il confine che nessuno dei due, né il vincitore né il vinto, possono oltrepassare. Il

(37)

diritto mira alla conservazione della colpa destinale, della condanna del colpevole non alla pena, ma alla colpa.55

Questa condanna, vissuta come ingiusta, chiama al riscatto da parte dell’eroe, che sfidando gli dei impone una nuova forma di diritto, reiterando la violenza e mostrando come la violenza mitica, pur essendo una manifestazione della collera priva di scopo, non può dirsi realmente pura. Diversa invece la manifestazione della collera di Dio che, davanti alla richiesta di Korah e della sua tribù di entrare nel santa sanctorum come Mosè e Aronne, annienta l’intera tribù facendola inghiottire dalla terra, che si apre improvvisamente per richiudersi altrettanto in fretta.

Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina purga e espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale e senza sangue.56

In questa violenza improvvisa e fulminea, che non lascia all’avversario la possibilità di vendetta, Benjamin vede un’istanza purificatrice che libera l’uomo dal diritto consegnandolo alla Giustizia. Questa, che è propria solamente di Dio, si qualifica come un’istanza che trascende non solo al

55

F. Desideri, M. Baldi, Benjamin, op. cit., p. 67

56

Per la critica della violenza, op. cit., p. 28. In questa contrapposizione Derrida vede riproposta la tensione benjaminiana tra religione e filosofia, tra mondo ebraico e mondo greco. Cfr. J. Derrida, A forza di legge, op. cit.

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diritto, ma lo stesso corso della storia e del mondo se è vero che, come Benjamin dichiara a Scholem “solo il mito è il mondo”.57

La Giustizia agisce nel mondo solo come istanza distruttrice, che cancella ogni traccia sia del colpevole che della punizione che si è abbattuta su di esso. In questo senso, la violenza divina non è riconoscibile, perché non lascia tracce di sé, si configura come istante di arresto temporale, agendo nel tempo ma senza modificarne il corso.

Questo legame tra critica della violenza e struttura del mondo storico è analizzato nella conclusione del saggio:

Ogni violenza conservatrice indebolisce, a lungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza creatrice che è rappresentata in essa. Ciò dura fino al momento in cui nuove forze, o quelle prima oppresse, prendono il sopravvento sulla violenza che finora aveva posto il diritto, e fondano così un nuovo diritto destinato a nuova decadenza. Sull’interruzione di questo ciclo che si svolge nell’ambito delle forme mitiche del diritto .. si basa una nuova epoca storica. Ma se alla violenza è assicurata realtà anche al di là del diritto, come violenza pura e immediata, risulta dimostrato che e come sia possibile anche la violenza rivoluzionaria, che è il nome da assegnare alla suprema manifestazione di pura violenza da parte dell’uomo. Ma non è altrettanto possibile, né altrettanto urgente per gli uomini, stabilire se e quando la pura violenza si sia realizzata in un determinato caso. Poiché solo la violenza mitica, e non quella divina, si lascia

57

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riconoscere con certezza come tale; salvo forse in effetti incomparabili, perché la forza purificante della violenza non è palese agli uomini.58

Le conclusioni cui Benjamin giunge ci mostrano l’impossibilità di far coincidere l’ordine del politico con quello del teologico, impossibilità che è alla base del complesso Frammento teologico politico, di cui si è già trattato brevemente nel capitolo precedente. Riprendiamo ora quel frammento per chiarirne alcuni aspetti, legati a quella Benjamin chiama la ricerca della felicità, “categoria del Profano” che “può favorire l’avvento del regno messianico”. Questo non nel senso di accelerarne temporalmente la venuta, ma di prefigurare un mondo liberato dalla colpevolezza del destino mitico, dal diritto che perpetua e favorisce la violenza. Come lo sciopero proletario cerca libertà non nel ma dal diritto, così la ricerca della felicità ci libera dall’ossessionante attesa della Giustizia – in realtà già in opera, seppur in modo imperscrutabile – proiettandoci in una dimensione compiuta, in cui prefigurare quell’unità pura che nel mondo attuale può darsi solo come compito.

Il legame tra questa dimensione personale e politica di liberazione dal diritto mitico ricorda da vicino quella del traduttore, che prefigura una liberazione della lingua dal mito di Babele. Questo punto è messo pienamente in luce nel seguente passo di Massimo Baldi:

Come il traduttore riflette l’unità tra le lingue nel processo-passaggio del loro differire, come il critico compie e dispiega la riflessione dell’opera nella dissoluzione

58

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delle sue proprie forme, così l’uomo prepara l’avvento del Messia solo in una mondana ricerca della felicità, della quale conosce tutta l’intima caducità fino al suo necessario fallire: non come un disperato epilogo, ma come chance per l’arresto “politico” del tempo profano della storia e l’annuncio di quello messianico della giustizia.59

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Riferimenti

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