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CONCLUSIONI Il rifiuto della mediazione

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Academic year: 2021

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CONCLUSIONI

Il rifiuto della mediazione

Alle soglie degli anni Settanta il dibattito sul tema dell’industria sembra essersi chiuso sulle ceneri di quello “sbaglio riuscito”1

che è stato “Il Menabò”, morto insieme al suo ideatore nel 1967. Anche il corpo maggiore della cosiddetta “letteratura industriale”, quello dei romanzi, va lentamente scemando: tra l’opera che ne è generalmente considerata l’aprifila, Tempi stretti di Ottieri del 1957, e quella che va a chiuderne la breve esperienza, Il padrone di Parise del 1965, si succedono Memoriale e

La macchina mondiale di Volponi (l’unico che continuerà la strada, in assolo e con una

certa profondità, fino a Le mosche del capitale del 1989), la netta cronaca di fabbrica di

Donnarumma all’assalto del solito Ottieri, la saga provinciale di Vigevano di

Mastronardi (anche se un po’ decentrata rispetto all’ambientazione industriale), i romanzi esclusivamente di fabbrica di Davì (Gimkana-cross e Il capolavoro), l’anarchia e la polemica ironica di Bianciardi (Il lavoro culturale,1957; L’integrazione, 1960; La

vita agra; 1962)2.

Asor Rosa distingue due diverse linee di rappresentazione del mondo operaio: da una parte quella anarchica e disgregata che il critico riconduce a Mastronardi, dall’altra quella dotata di una maggiore consapevolezza politico-ideologica e maggiormente incidente sul dibattito culturale, perseguita da Ottieri e Volponi. Ma, dato comune ad entrambe le tendenze, è soprattutto il carattere sfuggente e letterariamente non rappresentabile della classe operaia, che può essere sì “circondata di letteratura”, ma la cui vera essenza resta comunque imperscrutabile allo sguardo formale dello scrittore.3 L’ha forse capito Bianciardi ne La vita agra, romanzo sulla classe operaia senza classe operaia, nel quale gli iniziali progetti vendicativi di un intellettuale ai danni di una grande azienda vengono smorzati e infiacchiti dall’insanabile iato tra il protagonista e quegli operai milanesi scelti aprioristicamente come compagni di lotta.4 In questo clima

1

La definizione è di Franco Fortini nella lettera inviata a D. Fiaccarini Marchi e citata in LUTI-VERBARO, Dal

Neorealismo alla Neoavanguardia, p.32

2 Si tratta, ovviamente, di un catalogo solo parziale. Si ricordino anche Una nuvola d’ira di Arpino, alcune opere di

Testori, alcuni racconti di Calvino etc. etc.

3

Cfr ASOR ROSA, Letteratura e classe operaia, in Letteratura italiana -Il letterato e le istituzioni, volume I, pp.625-626

4 La vita agra racconta la storia di un intellettuale, alter ego dell’autore, che va a Milano per mettere una bomba sotto la

sede della Montecatini e vendicare così la morte dei minatori nella miniera di Ribolla. La missione dovrebbe avvalersi della collaborazione degli operai del luogo (con cui il protagonista, un intellettuale, non riesce ad entrare in contatto), ma la vita nella capitale del miracolo economico finisce per stritolare il personaggio nei suoi ingranaggi letali.

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di “assenza forzata” (assenza dell’operaio, appunto), non resta allo scrittore che un tono tra l’amaro e il grottesco per parlare di sé, e solo parlando di sé, letterato disperso e piegato dai meccanismi dell’industria culturale ed editoriale e non di una classe operaia che non conosce, egli può raggiungere quella “verità industriale” vagheggiata da Vittorini.

Più di una qualità artistica non memorabile (Ferretti parla di mancanza di unità stilistica e di tensione narrativa)5, il vero limite della letteratura industriale risiede essenzialmente nella mediazione e nel filtro intellettuali -anche se spesso dissimulati- tra oggetto e rappresentazione, che hanno la loro origine dalla profonda frattura tra i problemi del proletariato industriale e quelli del mondo culturale italiano. Ecco perché, in controtendenza nella società dei bestsellers e degli “Oscar Mondadori”, quando la letteratura tornerà, negli anni Settanta, a parlare d’industria, lo farà dalla prospettiva e per opera degli stessi subalterni, degli operai, ma anche di contadini, carcerati ed altri emarginati. È quella che, probabilmente in relazione al linguaggio politico-giornalistico-sindacale, è stata definita “letteratura selvaggia” 6

, nata dalla trasposizione della realtà di vita di alcuni strati sociali inascoltati, espressa attraverso una forma spesso priva di strutture compositive e risultato di una , mescolanza di linguaggi eterogenei ed extraletterari. Il termine “selvaggia” sottolinea soprattutto la diversità, l’essere “altro” rispetto ai moduli espressivi della cultura ufficiale, la ribalta di un protagonismo autodidatta, forse illetterato, sicuramente di relativa qualità, ma finalmente testimone reale e non mediato.

È su questo aspetto che vorrei, infine, riflettere: la non mediazione come risultato del fallimento della mediazione stessa. L’emergere, agli inizi degli Settanta, di una letteratura –come di un’arte7 - sui subalterni fatta da subalterni (selvaggia, ma anche femminista8), il rifiuto di un filtro edulcorante o comunque non pienamente

5

Cfr FERRETTI, Industria e letteratura, p. 931

6 Tra i protagonisti di questa stagione ricordiamo Tommaso Di Ciaula e Vincenzo Guerrazzi. Il romanzo del

neoavanguardista Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, può essere considerato un caso di anticipazione solamente tematica e non formale, in quanto l’autore compie l’operazione colta di un intellettuale che assume il punto di vista e il registro basso dell’operaio, rimanendo quindi nell’ambito di una scelta letteraria, di una finzione estetica. Cfr Tematiche e

strategie testuali della letteratura “selvaggia” in BARBERI SQUAROTTI – OSSOLA(a cura di), Letteratura e industria – Atti del XV Congresso A.I.S.L.L.I., pp.1009-1024

7 Un aspetto artistico di questa tendenza è rappresentato dall’Art brut, realizzata dagli “ospiti” degli ospedali

psichiatrici, da autodidatti e detenuti, al di fuori delle regole estetiche istituzionali. L’art brut è a sua volta parte di quella che è stata definita outsider art.

8 Esiste una pressoché sconosciuta narrativa femminista degli anni Settanta, che vede protagoniste Armanda Guiducci

(Due donne da buttare, La donna non è gente, 1977), Giuliana Ferri (Un quarto di donna, 1973), Carla Cerati (Un

matrimonio perfetto, 1975; La condizione sentimentale, 1977) e Dacia Maraini (Donne in guerra, 1975) e che va al di là

della lotta per i diritti civili e del mito del lavoro come occasione di liberazione, puntando piuttosto a modificare l’intero assetto politico ed economico della società contemporanea. Le scrittrici femministe rifiutano la prospettiva paritaria e

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rappresentativo perché ufficiale, la presa di protagonismo dal basso sono, a mio parere, una manifestazione –qualcuno direbbe “sovrastrutturale”- dei fenomeni sociali e politici in atto in Italia dalla fine degli anni Sessanta. Il ciclo di lotte studentesche e operaie del biennio 1968-69, ma anche le proteste femministe e ambientaliste, sanciscono la ribalta sulla scena politica delle categorie da sempre private di voce, che finalmente diventano le dirette garanti dei propri diritti calpestati. Da una parte il movimento studentesco, animato da un’utopia antisistemica egualitaria e antiautoritaria, si configura paradossalmente come politicizzazione di massa caratterizzata dal rifiuto della politica; dall’altra quello operaio, che attraverso un proselitismo diretto e anche itinerante9

, si esprime nelle forme della democrazia diretta e partecipata delle assemblee di fabbrica. Denominatore comune ad entrambi è il rifiuto della mediazione gerarchica del partito (e il distacco dal pensiero marxista nel senso di una separazione tra sfera politica e sfera economica10) o del sindacato (da molti ritenuto inutile e sostituito dalle avanguardie operaie e dai CUB, i comitati di base)11, tradizionalmente calate dall’alto verso il basso, anche -e soprattutto- nel caso di un Pci forte del suo ruolo pedagogico e dottrinario.12 Il luogo della politica non è più l’arena astratta del campo nazionale, con i suoi meccanismi di delega, di formalizzazione, di burocratizzazione, ma il posto di lavoro o di studio, lo spazio carico di vissuto dell’esperienza personale; l’impegno e la lotta sono ora ridotti alla portata diretta e immediata del soggetto, libero da filtri e da apparati gerarchici.

È così che il biennio caldo italiano, pur nelle sue luci e nelle sue ombre, nel suo soffio effimero e nel suo “quasi nulla” di fatto, sancisce- anche se per poco- il fallimento della mediazione, e, per contro, l’espropriazione proletaria di un protagonismo centellinato e sempre controllato da partiti e sindacati, con la conseguenza della ribalta dei subalterni sui palcoscenici preposti alla loro rappresentazione. Il politico in fabbrica diventa fuori luogo quanto lo scrittore in fabbrica, entrambe figure

propongono il totale annullamento dei ruoli, rifiutando per intero la società precostituita con i suoi valori, i suoi linguaggi, le sue gerarchie. Cfr GAZZOLA STACCHINI, Dopo il 1968: l’impegno femminista e la narrativa

proletaria, in La letteratura italiana. Storia e testi, L’età presente, pp.430-6

9

“Andavano a raccontare le loro lotte, a parlare delle loro rivendicazioni (“la seconda categoria per tutti”)

profondamente egualitarie, delle forme di democrazia diretta che nascevano dalle assemblee di fabbrica. Parlavano ad altri operai e agli studenti, a quei militanti sopravvissuti all’estinzione del ’68 studentesco. Poi ripartivano, lasciando alle loro spalle coaguli organizzativi. Lotta Continua nacque così e si organizzò così. A sinistra non si era mai visto niente di simile, un’organizzazione itinerante che somigliava più a un circo Barnum che a un partito operaio.” Cfr DE LUNA, Le ragioni di un decennio, pp. 119-120

10 Cfr LEPRE, Storia della prima Repubblica, pp. 222-245 11

Ivi, pp.235-236

12 Cfr DE LUNA, Le ragioni di un decennio, pp. 114-120 e AAVV, L’Italia repubblicana nella crisi degli anni

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privilegiate che per qualche ora s’infilano sopra l’abito con cravatta la tuta da operaio, per poi togliersela appena fuori dall’opificio. Figure che tentano di rappresentare, chi in letteratura, chi in Parlamento, classi subalterne a cui si sentono legati da principi marxisti e talora populisti, ma che per limiti intrinseci, o interessi di ogni genere, finiscono per fallire. Figure che, infine, forti del ruolo assegnato loro da una cultura che vede l’intellettuale investito di una missione sociale, o quello legittimamente avuto in sede elettorale, sono stati i fiduciari catalizzatori di un popolo diviso e straziato nel Dopoguerra, ma che adesso, nella civiltà degli anni Settanta, vengono gradualmente esautorate.

L’estremo tentativo di Vittorini di applicare uno schema d’impegno intellettuale al mondo industriale è, a mio avviso, retaggio di una forma mentis tipicamente postbellica, inapplicabile ad una civiltà che, contrariamente a quella che usciva dalla Resistenza, non ha più nulla da dirsi13. Alla sostanziale indifferenza del pubblico “americanizzato” si aggiunge poi l’incompatibilità di ruolo di uno scrittore di estrazione borghese, impiegato sì in fabbrica ma con mansioni di dirigente, che tenta con fare empatico e solidale di rappresentare un mondo a lui estraneo (e in un certo senso contrapposto). Forse per queste ragioni, unite ad una non convinzione politica e sociale di fondo da parte degli stessi autori, i versi pubblicati su “Il Menabò”, dimenticati e sparpagliati in raccolte successive, non riescono a costituire l’eccezione alla sostanziale inanità che informa la letteratura industriale in prosa.

Ciò che davvero resta di questa esperienza non sono, insomma, le poesie –tra loro scoordinate, incerte, aporetiche- di Sereni, Pignotti e Giudici, quanto il significativo lascito vittoriniano, l’epilogo di una vita vissuta fuori dalla torre d’avorio, l’ultima stazione di un percorso d’impegno che era partito circa trent’anni prima con il “Politecnico” in ben altro contesto. Ha ragione Fortini quando scrive che “Il Menabò è stata l’ultima rivista letteraria italiana, secondo una lezione di letteratura giustamente travolta dopo il ’67”14

, ma alla luce di questo lavoro aggiungerei che già da tempo quella lezione era logora, anacronistica, ignorata.

Il tentativo di Vittorini di riprodurre negli anni Sessanta il clima di simbiosi tra letteratura e società che aveva caratterizzato gli anni immediatamente successivi alla guerra si rivela, in ultima analisi, fallimentare. Le mutate condizioni storiche e soprattutto economiche, l’ebbrezza data dal benessere, l’oppressione esercitata da una politica censoria e repressiva rendono inapplicabile lo schema dell’impegno

13 Il riferimento è alla Prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino. 14 Cfr la lettera a D. FIACCARINI MARCHI in Introduzione a “Il Menabò”, p.60

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intellettuale. Se la letteratura industriale, con i suoi scrittori di professione, comporta un

deficit di verità e penetrazione, il suo epigono “selvaggio” acquista valore in mimetismo

e aderenza alla realtà di fabbrica, ma inevitabilmente ne perde in termini di qualità, riducendosi ad un assemblaggio di parole e di bulloni.

In conclusione, comunque lo si veda, il connubio tra letteratura ed industria, e tra letteratura e società in senso lato, risulta aver esaurito definitivamente le sue possibilità storiche, e il nostalgico, attardato quanto vano tentativo de “Il Menabò” ne dimostra in pieno l’inapplicabilità. Servirà simbolicamente la morte di Vittorini per chiudere questa stagione, e riaprirne un’altra, con ben altre funzioni15 per l’intellettuale e la sua cultura.

15 Si afferma da una parte l’era dell’intellettuale impiegato nell’industria, quindi emarginato nella sua funzione creativa,

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