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VIII INTRODUZIONE E RIASSUNTO DEL TRATTAMENTO BASATO SULLA MENTALIZZAZIONE

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VII L’obiettivo della nostra prima “guida pratica” al trattamento basato sulla mentalizzazione (Mentalization-Based Treatment – mbt) era quello di for- nire un resoconto comprensibile, accessibile ed esaustivo dell’applicazione dell’mbt nella pratica clinica quotidiana. Speriamo che il libro, unito a un piccolo training aggiuntivo, abbia fatto sentire ai clinici che ciò che a quel punto stavano mettendo in pratica era il modello mbt, o almeno un model- lo vicino all’mbt.

Nel corso degli anni, tuttavia, abbiamo compreso di non essere stati suf- ficientemente dettagliati nell’esposizione di alcune delle componenti princi- pali del modello, forse perché anche per noi alcuni degli aspetti, fondamen- tali e non, dell’mbt non erano del tutto chiari. Da ciò è maturato il bisogno di creare un libro completamente nuovo. In aggiunta, abbiamo ritenuto che dovessero essere chiariti gli assunti teorici dell’mbt, la struttura del tratta- mento e alcuni degli interventi consigliati per promuovere la mentalizzazio- ne. Speriamo che questa nuova guida pratica fornisca delle delucidazioni rispetto ad alcuni degli aspetti più confusivi dell’mbt.

Ancor più importante, il bisogno urgente di una nuova guida pratica era motivato dai cambiamenti avvenuti nell’mbt nel corso dell’ultima decade: il modello e la sua applicazione pratica hanno continuato a modificarsi sulla base delle nuove scoperte derivanti dalla ricerca. L’mbt infatti ha un aspet- to totalmente nuovo oggi, rispetto a una decade fa, e non abbiamo dubbi che tra dieci anni sarà ancora differente. Speriamo tuttavia che le compo- nenti essenziali qui descritte rimangano alla base degli sviluppi futuri. Nel nostro tentativo di riassumere il modello in maniera più accurata la lun- ghezza del libro è aumentata, ma speriamo che questo non faccia desistere i lettori interessati.

L’mbt ha avuto più successo di quanto potessimo prevedere, forse più di quanto meriti. È stata inizialmente sviluppata per il disturbo borderline di personalità ma viene attualmente utilizzata per trattare pazienti con diversi disturbi. Non tratteremo nel libro tutti gli adattamenti presenti, fatta ecce- zione per il disturbo antisociale di personalità. Questo libro contiene una vi- sione d’insieme del manuale attualmente utilizzato come base per un trial di ricerca sull’mbt per il disturbo antisociale di personalità. Altri adattamenti,

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quali per esempio l’mbt per pazienti con disturbi alimentari, disturbi corre- lati all’uso di sostanze, depressione, adolescenti con episodi autolesivi, sono stati descritti in una pubblicazione precedente (Bateman, Fonagy, 2012).

La popolarità dell’mbt richiede di essere spiegata. In primo luogo, i clinici comprendono le idee sottostanti il modello e riconoscono come già nella loro pratica clinica quotidiana essi promuovano la capacità di mentalizzare. Que- sto modello ha quindi fornito un framework più chiaro agli interventi clini- ci applicati. In secondo luogo, essa ha un’ampia applicazione, dal momen- to che le sue radici sono nella psicologia evolutiva e nella social cognition.

Di conseguenza, gli interventi mentalizzanti sono diventati parte di un’am- pia gamma di trattamenti nel corso della vita: dalla diade madre-bambino, all’adolescenza ed età adulta, fino alla vecchiaia. In terzo luogo, l’mbt è stata sviluppata quale trattamento psicologico applicabile da tutti i professioni- sti della salute mentale, facendo dunque sì che anche persone senza un trai- ning psicoterapeutico specifico alle spalle possano apprendere il modello in maniera abbastanza agevole. Quarto, l’mbt si sovrappone ampiamente con altre forme di trattamento per i disturbi di personalità, dai trattamenti più strettamente comportamentali a quelli psicoanalitici: tutti hanno accolto in misura maggiore o minore il modello. Infine, l’mbt è nata, e ha proseguito il suo percorso, come trattamento fermamente basato sulla ricerca empirica.

Ciò ha posto le basi per la necessaria verifica empirica della sua efficacia, ha incrementato l’interesse dei ricercatori, e ha permesso ai clinici interessati di discutere il suo utilizzo nei servizi costantemente sotto pressione.

INTRODUZIONE E RIASSUNTO DEL TRATTAMENTO BASATO SULLA MENTALIZZAZIONE

La seguente sezione della prefazione introduce il lettore all’mbt. Racco- mandiamo di leggere questa parte prima di iniziare lo studio dei capitoli successivi. L’obiettivo è quello di orientare complessivamente il lettore sul modello di trattamento e, speriamo, di permettere una lettura più critica delle informazioni fornite nei capitoli successivi.

L’mbt è un trattamento strutturato, che ha traiettorie gestite con cura in termini sia dei tempi del trattamento (12-18 mesi) sia delle singole sedute.

Il trattamento viene somministrato in setting di gruppo e individuali. L’o- biettivo del trattamento è quello di incrementare la resilienza delle capacità di mentalizzare negli individui.

Diverse tecniche possono portare a un miglioramento delle capacità di mentalizzare dei pazienti, e un’ampia gamma di processi psicoterapeutici promuovono la mentalizzazione. Di conseguenza, l’mbt si sovrappone a di- verse psicoterapie specifiche, che vanno dai trattamenti più esplicitamente cognitivi ai trattamenti manifestamente psicoanalitici. La differenza fon-

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IX damentale sta nella misura in cui l’enfasi sulla mentalizzazione è l’obiettivo esplicito del trattamento.

Al cuore dell’mbt vi è la volontà di ripristinare la mentalizzazione nel mo- mento in cui viene persa, di sostenerla quando è presente, e di incremen- tare la resilienza individuale nel mantenere tale capacità quando potrebbe altrimenti venire meno. Nel caso delle persone con disturbo borderline di personalità, l’area di vulnerabilità fondamentale per la perdita della men- talizzazione risiede nei rapporti interpersonali, e per questo la relazione terapeutica rappresenta un contesto molto importante per la verifica della mentalizzazione del paziente.

Brevemente, a volte il paziente sperimenta emozioni forti nel momen- to in cui si focalizza sui problemi identificati nelle sedute individuali o di gruppo e la sua capacità di mentalizzare sembra limitata o fallimentare, e/o la comprensione degli stati mentali legati al comportamento non è adegua- ta. Il clinico si rivolge a questo aspetto secondo un processo strutturato (la traiettoria delle sedute dell’intervento) di (a) empatia e validazione; (b) chia- rificazione, esplorazione e, quando necessario, sfida; e (c) seguendo un pro- cesso strutturato al fine di incrementare la mentalizzazione e incoraggiare il paziente a identificare gli stati mentali precedentemente al di fuori della consapevolezza. Il processo è principalmente strutturato nel qui e ora della seduta ma, man mano che la mentalizzazione del paziente migliora, arriva sempre più ad affrontare le relazioni di attaccamento principali, come es- se si attivano con il clinico e con le figure chiave nella vita del paziente e la loro influenza sulla mentalizzazione. Gradualmente i miglioramenti nella mentalizzazione permettono al paziente di lavorare sulle proprie rappre- sentazioni distorte delle relazioni interpersonali.

In primo luogo, l’mbt è collaborativa. Non può accadere nulla senza una discussione congiunta, che tiene in considerazione le esperienze mentali e le idee del paziente e del clinico. Il processo del mentalizzare richiede un desi- derio autentico di comprendere i processi mentali propri e altrui. Questo si applica a clinico e paziente. Il clinico mbt si focalizza sulla mente del pazien- te e tenta di comprendere la sua esperienza. In maniera simile, al paziente viene chiesto di fare la stessa cosa in rapporto al clinico: per esempio, “Per- ché il mio clinico vuole che mi focalizzi su questo aspetto in questo momen- to?” può essere associato a “Perché il mio paziente non vuole focalizzarsi su questo aspetto in questo momento?”. Il processo terapeutico deve diventare un’impresa condivisa. Gli obiettivi iniziali per il miglioramento della men- talizzazione sono sviluppati e focalizzati in maniera congiunta. Gli obiettivi non possono essere unicamente del paziente, sebbene i suoi obiettivi abbiano la priorità a meno che non siano antitetici rispetto al processo terapeutico.

Il processo di assessment e il percorso del trattamento preparano il pa- ziente al trattamento stesso. La valutazione comprende la definizione dei punti di debolezza della mentalizzazione del paziente e una formulazione

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condivisa, che include una valutazione dettagliata dei pattern di attaccamen- to e delle difficoltà nella disregolazione emotiva. Tutto ciò deve essere com- preso dal paziente ed è importante per il clinico e per il paziente. Non sa- rebbe positivo se tutto ciò fosse compreso solo dal clinico, il quale potrebbe avere una buona capacità di dare un senso ai problemi del paziente. Questo significherebbe che la mancanza di mentalizzazione del paziente viene sosti- tuita dal mentalizzare del clinico, e tutto ciò viola uno dei principi cardine dell’mbt. La non-mentalizzazione del paziente non può essere rimpiazzata dal mentalizzare del clinico: essa può essere recuperato solo “accendendo”

la mentalizzazione nel paziente stesso. La formulazione è un lavoro in conti- nuo divenire che può essere modificato in qualsiasi momento. Un gruppo di introduzione all’mbt di 10-12 sedute aiuta nello sviluppo della formulazione.

Nel gruppo vengono trattate tutte le aree della mentalizzazione, i processi di attaccamento, i disturbi di personalità, la gestione delle emozioni e il trat- tamento stesso. Questo lavoro preparatorio fa sì che il paziente sappia che cosa deve affrontare nel cercare di gestire i propri problemi ed è completa- mente consapevole del metodo e del focus del trattamento.

A seguito di tale lavoro preparatorio, al paziente viene offerto un percorso

mbt individuale e/o di gruppo. Inizialmente tutto ciò era pensato in termini di un programma di 18 mesi con gruppi settimanali e sedute individuali. Tutta- via, al momento non abbiamo prove che questa sia la modalità ottimale o ab- bia la lunghezza più adatta. Di conseguenza, l’mbt viene ora applicata anche in modalità a lunghezza ridotta, inoltre vi sono percorsi che prevedono uni- camente sedute individuali o terapia di gruppo. Queste rappresentano mo- difiche al modello di ricerca che dovrebbero essere considerate sperimentali.

All’inizio del trattamento vengono stabiliti degli obiettivi chiari insieme al paziente. L’obiettivo iniziale è l’ingaggio e la tenuta in trattamento, e tut- to ciò viene accompagnato da un accordo sul tentativo di ridurre le attività pericolose o i comportamenti autodistruttivi e di stabilizzare le circostanze sociali quando possibile. Il miglioramento delle relazioni personali e socia- li, sebbene costituisca un obiettivo a lungo termine, viene specificato nel dettaglio nella formulazione della diagnosi ed elaborato nel corso di tutto il trattamento. Al fine di terminare la formulazione, il clinico identifica le paure relazionali comuni, per esempio quella dell’abbandono, che stimo- lano il sistema di attaccamento del paziente e portano all’utilizzo di strate- gie di attaccamento disadattive nelle interazioni interpersonali. Nelle fasi iniziali del trattamento si procede all’identificazione e al riconoscimento di tali strategie e pattern, i quali diventano il focus relazionale nel trattamen- to quando ciò sia necessario. Paziente e clinico devono identificare i mo- menti in cui tali strategie di attaccamento si manifestano nel trattamento al fine di esaminarle attentamente. Il riconoscimento dei principali pattern relazionali consente di comprendere che tipo di relazione il paziente ten- derà a sviluppare con il clinico, relazione che a sua volta sarà utilizzata per

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XI favorire una differente comprensione dei rapporti interpersonali nella vi- ta quotidiana del paziente. Infine, è importante che il paziente e il clinico prendano in considerazione di stabilire insieme l’obiettivo di migliorare il funzionamento sociale, comprendente il lavoro, le attività sociali, il lavoro volontario, l’educazione e altre attività costruttive per la riaffermazione di sé. Tutto ciò dovrebbe essere pensato nelle fasi iniziali del trattamento, e non essere aggiunto nelle fasi successive.

I clinici seguono alcuni principi nel trattamento dei pazienti in mbt. In primo luogo, il clinico è attento ai fallimenti nella mentalizzaizone non solo nei termini delle differenti modalità con cui essi si presentano (equivalenza psichica, modalità del fare finta e modalità teleologica), ma anche nei termi- ni di eventuali sbilanciamenti verso un polo di una delle dimensioni del co- strutto (le dimensioni della mentalizzazione e le modalità non-mentalizzanti sono descritte nel Capitolo 1). In linea generale, la mentalizzazione è a un livello ottimale quando le dimensioni (per esempio, emozione e cognizione, o rappresentazione di sé e dell’altro) sono bilanciate e non vi sono modali- tà non-mentalizzanti attive. La chiave sta nel fatto che il clinico sia costan- temente consapevole dello sbilanciamento e della mancanza di flessibilità nelle dimensioni, e della possibilità che una qualsiasi di queste dimensioni stia operando in una modalità non-mentalizzante. La non-mentalizzazione in una dimensione o modalità è segnale di un momento in cui è necessario intervenire. In secondo luogo, il clinico controlla con attenzione i livelli di arousal, assicurando che l’ansia non sia troppo bassa o troppo alta, in quan- to in entrambi i casi si avrebbe un’influenza della stessa sulla mentalizzazio- ne. Terzo, il focus di una seduta è mantenuto dal clinico, il quale monitora attentamente i momenti di vulnerabilità della mentalizzazione, nel corso delle sedute o in relazione a eventi specifici della vita del paziente. Quar- to, il clinico si assicura che la sua mentalizzazione sia mantenuta nel corso della seduta poiché non è possibile applicare un trattamento adeguato se la mentalizzazione del clinico è compromessa. Il clinico mbt monitora co- stantemente la propria capacità di mentalizzare e, a volte, può anche arri- vare a dire che si sente confuso e che non riesce a pensare. Questo tipo di self-disclosure riguardante lo stato della mente del clinico non dovrebbe essere confuso con una rivelazione di informazioni personali. Condivide- re l’effetto che un’azione o uno stato della mente del paziente ha sul clini- co richiede al paziente di riflettere sulla mente dell’altro e sulla propria. In tutti i rapporti dobbiamo essere attenti agli stati della mente altrui e ai no- stri. Senza questa capacità non vi può essere un dialogo costruttivo, né una comprensione intima. Per questo è importante che il paziente abbia acces- so a informazioni circa l’effetto che egli ha sul clinico e di ciò che si trova nella mente del clinico. Infine, gli interventi sono messi in atto adattandoli alle capacità di mentalizzazione del paziente. Non serve a nulla fare inter- venti articolati che richiedono un pensiero e una valutazione complessi a

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una persona che si trova in una modalità di equivalenza psichica! Tutto ciò infatti ha il sopravvento sulla capacità dell’individuo di pensare, invece di facilitare tale abilità. Come riportato in precedenza, alla non-mentalizzazio- ne del paziente non può essere risposto con la mentalizzazione del clinico, ma solo riattivando la mentalizzazione del paziente. La mentalizzazione del paziente deve essere portata “on-line”. Ciò viene fatto in una serie di pas- saggi, che costituiscono la base della traiettoria di ogni seduta.

Il primo passo di una seduta consiste nell’ascoltare la narrazione del pa- ziente. A volte il clinico può avviare il dialogo qualora vi sia una motivazio- ne importante per cui farlo, per esempio nei casi in cui sia preoccupato per la tenuta del trattamento, o il paziente sia a rischio di attuare gesti impulsi- vi, o il clinico sperimenti un’emozione intollerabile, per esempio ha paura del paziente. Ascoltare la storia del paziente consente al clinico di iniziare a lavorare sulla validazione empatica. Essa richiede che il clinico trovi qual- cosa nella storia del paziente con cui potere empatizzare. Non si tratta di comportarsi in maniera comprensiva o di ripetere la storia del paziente. La validazione empatica ha l’obiettivo di generare nel paziente la sensazione che il clinico abbia compreso il suo stato interno, che il clinico compren- de realmente il paziente e il problema di cui sta parlando. Spesso, il clinico ricerca l’emozione di base del paziente, ed è questa esperienza che viene validata, e non le successive emozioni sociali o secondarie. La validazione è un intervento basato sull’affetto, la cui componente principale è la con- tingenza rispetto allo stato emotivo interno del paziente. Una risposta non contingente da parte del clinico in questa fase probabilmente porterebbe alla non-mentalizzazione, o genererebbe strategie di attaccamento evitanti nel paziente. Una volta che la risposta contingente ha incrementato la colla- borazione e ridotto l’arousal, mantenendo le emozioni a un livello gestibile, il clinico può prendere in considerazione risposte sensibili ma non contin- genti, nel tentativo di stimolare la mentalizzazione della “storia” che il pa- ziente porta. Ogni seduta ha un focus specifico. Le sedute non rappresen- tano un dialogo basato sulle libere associazioni che mira a svelare i processi inconsci. Ci si rivolge alla memoria di lavoro o all’esperienza preconscia.

Ci si aspetta di trattare l’argomento focus della seduta dopo 10-15 minuti dal suo inizio, a questo punto tale focus diventerà il punto cruciale attorno cui clinico e paziente si orientano, tornandovi ogniqualvolta la mancanza di mentalizzazione diventi predominante nell’interazione.

La “storia” che il paziente ha portato a questo punto viene chiarita. Non si tratta di una chiarificazione degli eventi, che tuttavia deve comunque av- venire. Ci si aspetta che il clinico chiarisca gli eventi e i fatti il più veloce- mente possibile. Per esempio, se il paziente parla di un atto autolesivo o di un tentativo di suicidio, una rissa in stato di ebbrezza o un’esplosione di rabbia, il clinico chiarisce rapidamente che cosa è successo, chi era presente, quali fossero le circostanze, e così via. Questo informerà sul livello di rischio

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XIII e fornirà ulteriori importanti informazioni. Oltre a ciò, tuttavia, il clinico

mbt tenta di introdurre la mentalizzazione negli eventi. La chiarificazione stabilisce le modalità con cui il paziente ha percepito gli eventi: qual era il suo stato della mente prima che ciò accadesse, quali speranze aveva, qual è il suo vissuto mentre aspetta che il fidanzato torni a casa, quali pensieri le sono venuti in mente, quali sentimenti, e inoltre può riflettere sulle cose in maniera differente ora? Questo processo di chiarificazione al servizio della mentalizzazione lega in maniera inestricabile l’identificazione degli affetti e la loro esplorazione.

Le emozioni e le relazioni interpersonali interagiscono reciprocamente e sono alla base dei problemi nella personalità che caratterizzano il disturbo borderline di personalità. Le emozioni ingestibili influenzano le relazioni, e le relazioni stimolano sentimenti potenti. I pazienti potrebbero non essere in grado di identificare accuratamente i propri sentimenti ma sperimentarli principalmente nella forma di incoerenti esperienze corporee. Lavorare con il paziente per identificare il range di emozioni è parte della componente di chiarificazione ed esplorazione in mbt. A volte le emozioni sperimentate in contesti specifici devono essere normalizzate. Troppo spesso, i pazienti vivono le proprie esperienze come “sbagliate”, invalidano le loro percezio- ni interne e sperimentano vergogna. È possibile che i loro sentimenti siano appropriati ma eccessivi, oppure alle volte inspiegabilmente assenti.

La chiarificazione degli affetti manifestati in seduta è il passo successivo se il clinico e il paziente ritengono che quest’ultimo sia in grado di mentalizzare sul tema. Intendiamo con questo più della semplice richiesta al paziente di spiegare come si senta al momento, sebbene questo possa essere l’inizio. Si tratta di identificare l’affetto attuale e legato alla seduta, non un affetto attuale legato al focus della stessa. Per esempio, una paziente potrebbe sentirsi triste in seduta poiché il fidanzato la sera prima si è mostrato meno impegnato nel loro rapporto e questo l’ha fatta arrabbiare. In questo caso si tratta dell’af- fetto legato al focus. Ma, allo stesso tempo, lei può avere la sensazione che stia accadendo qualcosa di imprevisto mentre ne parla in seduta, per esem- pio può essere preoccupata che il clinico la giudichi oppure la veda come la persona nel torto nell’interazione da lei descritta. Questa è l’identificazione degli affetti condivisi tra paziente e clinico nella seduta, ed è il focus affettivo della seduta. Esso rappresenta una componente interpersonale dell’affetto, frequentemente implicita. In mbt il clinico cerca di rendere esplicito il pro- cesso implicito, così da bilanciare la dimensione implicito-esplicito del men- talizzare. Troppo spesso le relazioni rimangono fissate sul polo implicito. Le persone giungono a un’impasse e non parlano di qualcosa sebbene questo influenzi le loro interazioni, al di sotto della superficie. Il clinico mbt deve portare in superficie le componenti importanti dell’interazione. Per esem- pio, un paziente potrebbe non voler parlare di un argomento particolare.

Nel momento in cui l’interazione prosegue, diventa però evidente al clinico

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che il paziente abbia bisogno di parlare di quel determinato argomento, ma quando prova a fare domande per far sì che il paziente elabori quel tema, egli si ritira. Si stabilisce velocemente un’interazione reciproca caratterizza- ta affettivamente da una piccola dose di frustrazione sia per il clinico sia per il paziente, ma le delicate esplorazioni del clinico e le ritirate sottili del pa- ziente mascherano questo processo. Esplicitare gli affetti di clinico e pazien- te in rapporto a questo processo interazionale è quanto noi chiamiamo fo- cus affettivo. Il clinico potrebbe dunque dire: “Penso che abbiamo stabilito un’interazione in cui io continuo a spingerla a parlare di più e lei continua a spingermi via dall’argomento o a scappare. Volendo azzardare un’ipotesi, mi domando se lei non sia un po’ frustrata dal fatto che io non la lasci in pace?

Da parte mia mi rendo conto di essere anch’io un po’ frustrato. Mi sembra che non siamo in accordo rispetto al considerare questo tema come qualco- sa di cui dovremmo parlare. Lei cosa ne pensa?”.

Il focus affettivo, ovvero l’identificazione dell’interazione interpersonale in seduta e dell’affetto associato, se accurato, rafforza il focus sull’interazio- ne clinico-paziente nel corso della seduta. Tutto ciò spesso inevitabilmente ci dice che le strategie di attaccamento e i pattern relazionali del paziente, e forse anche quelli del clinico, sono attivi, e permette di muoversi verso la mentalizzazione della relazione. Il lavoro preparatorio alla mentalizzazione della relazione viene fatto utilizzando i traccianti transferali nel corso del trattamento. I traccianti transferali sono dei collegamenti diretti tra i pat- tern relazionali manifestati nel corso del tempo, oppure affermazioni che creano collegamenti stabilendo somiglianze tra gli atteggiamenti e compor- tamenti messi in atto dal paziente nei confronti delle persone nel corso della vita e il modo in cui il paziente stesso si rapporta al clinico: “Comprendo che lei senta di non potersi fidare degli altri, e perché mai dovrebbe fidarsi di me? Sarebbe un po’ strano se lei lo facesse”. I traccianti transferali non sono necessariamente seguiti da un’esplorazione dettagliata, piuttosto rap- presentano indicatori conversazionali dei collegamenti. Il focus della sedu- ta non viene alterato dal loro utilizzo. Di contro, quando si mentalizza la relazione, il focus è sullo sviluppare una prospettiva alternativa rispetto a un elemento importante della relazione paziente-clinico. È emerso a causa della sensibilità del paziente rispetto a interazioni specifiche? Indica un’a- rea di vulnerabilità del paziente nella relazione che mina la sua autostima e la capacità di apprezzare le relazioni?

Mentalizzare la relazione in seduta è il terreno di prova per la gestione di sentimenti difficili nelle situazioni interpersonali che si presentano nella vita quotidiana mantenendo la mentalizzazione all’interno dell’interazione emotiva. Abbiamo individuato alcuni passaggi che il clinico deve tenere in considerazione. In primo luogo, il clinico deve validare empaticamen- te la percezione che il paziente ha di lui. Se il paziente dice che sperimen- ta il clinico in un modo particolare, allora il clinico deve trovare una par-

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XV te di quell’esperienza che egli è in grado di validare. Evita attivamente di invalidare l’esperienza del paziente. In secondo luogo, deve identificare il proprio contributo all’esperienza che il paziente ha fatto di lui. Tutto ciò viene fatto pensandoci esplicitamente ad alta voce e chiedendo al pazien- te di spiegare come è arrivato a tale conclusione. Questo interrogarsi deve essere autentico e genuinamente curioso, e non deve avvenire partendo da una prospettiva che implica che l’esperienza del paziente sia distorta o non accurata. Tale atteggiamento invalidante porterebbe a un disastro poiché l’invalidazione, una risposta non contingente, porta a un arousal eccessivo e alla conseguente diminuzione della mentalizzazione. Una buona menta- lizzazione della relazione ha senso solo nel contesto della mentalizzazione.

Una volta che il clinico ha accettato il suo ruolo nel processo relazionale, si può avere il passaggio successivo di una esplorazione più dettagliata. Qui l’obiettivo è quello di generare una comprensione più complessa della re- lazione, di vederla da una prospettiva differente, e di comprendere perché sia rilevante nella vita del paziente, non di generare un insight inteso come comprensione dell’influenza del passato sul presente.

Mentalizzare la contro-relazione, ovvero i sentimenti del clinico, è il controbilanciamento della mentalizzazione della relazione. I sentimenti e lo stato della mente del clinico hanno un peso importante in mbt, non perché essi rappresentino i sentimenti proiettati dal paziente, ma perché considerati aspetti significativi di una relazione interattiva, utilizzabili per comprendere come le menti si influenzino reciprocamente. Tale interazio- ne diventa l’oggetto dell’attenzione e dell’analisi. Per esempio, se il clini- co è spaventato da un paziente con disturbo antisociale di personalità tale sentimento non deve essere visto, dal punto di vista dell’intervento clinico, come proveniente dal paziente, ma piuttosto come un sentimento del clini- co che interferisce con il trattamento e che potrebbe essere importante per il modo in cui il paziente sviluppa le proprie relazioni. Il clinico trova un modo per esprimere la propria esperienza al paziente secondo una moda- lità che rende tutto ciò accettabile e riconoscibile come qualcosa degno di essere esplorato. Consigliamo di fare questo in una serie di passaggi succes- sivi. In primo luogo, il clinico cerca di comprendere quale sia il sentimento presente e in che modo esso interagisca con la relazione paziente-clinico.

In secondo luogo, egli valuta quale sia la risposta più probabile del pazien- te all’affermazione esplicita del suo stato attuale, e riporta questo prima di parlare dei propri sentimenti attuali. In terzo luogo egli identifica nel dia- logo l’esperienza come propria, la marca, e infine monitora la reazione del paziente alla sua affermazione.

È possibile che ciò che dirò la farà sentire come se la stessi rimproverando o le stessi facendo una critica ma le assicuro che non si tratta di questo [anti- cipazione della risposta del paziente].

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Il problema è che quando lei si siede in avanti in questo modo, e muo- ve il suo dito in aria e alza la voce, io inizio a sentirmi ansioso e minacciato [identificazione dell’evidenza comportamentale e focus sulla mentalizzazione esterna, presentazione del proprio affetto e dell’effetto che questo ha su di sé].

Comprendo che questo potrebbe essere legato a me [marcatura del sen- timento] ma mi rende difficile concentrami su ciò di cui mi sta parlando [ef- fetto aggiuntivo su di sé che interferisce con la relazione].

Da qui la reazione del paziente può essere presa in considerazione e la se- duta può continuare. Ma se l’atteggiamento minaccioso e rabbioso permea tutte le relazioni del paziente, allora è necessaria un’ulteriore esplorazione.

Con ciò chiudiamo il nostro breve riassunto degli aspetti essenziali del modello base di trattamento. L’aderenza al modello viene valutata con la scala di aderenza all’mbt (Karterud et al., 2013). Questa scala può essere utilizzata per una discussione focalizzata nella supervisione clinica.1

Ricordate che la chiave è nello sviluppare una narrativa focalizzata per- vasa di processo mentalizzante. Con processo ci riferiamo simultaneamen- te al processo interno nella mente del paziente, ai processi interpersonali tra le menti del paziente e del clinico, e al processo interno nella mente del clinico. Mentalizzare con gli altri è alla base delle relazioni sociali e perso- nali soddisfacenti, che devono sicuramente essere l’obiettivo di tutti noi.

Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza il lavoro di tante altre persone. Siamo grati a tutti i clinici e ricercatori nel mondo che si sono in- teressati all’mbt e che hanno aggiunto dati alla sua base empirica. Senza di loro, questo nuovo libro non avrebbe visto la luce e l’mbt non avrebbe fatto tutta questa strada. Ci sembra sempre odioso menzionare le singole perso- ne, e probabilmente ne offenderemo alcune dimenticandocele, per questo dobbiamo ringraziare tutti i gruppi che ci hanno fatto pensare di più, hanno arricchito il modello clinico, e hanno messo in discussione in maniera entu- siastica tutta l’impresa. I gruppi in Australia, Danimarca, Olanda, Norve- gia, Nuova Zelanda, Svezia, Stati Uniti e Regno Unito ci hanno influenzato molto. In particolare, vogliamo ringraziare Sigmund Karterud e l’équipe della clinica psichiatrica per il trattamento delle patologie di personalità a Oslo per la loro ricerca e lavoro sull’aderenza e la mentalizzazione nei grup- pi; Finn Skårderud, Bente Sommerfeldt e Paul Robinson per il loro lavo- ro sui disturbi alimentari; Dawn Bales e i suoi colleghi in Olanda per la lo- ro assidua aderenza al modello e la loro ricerca informativa e i programmi di training somministrati dal gruppo mbt Olanda; John Gunderson, Lois Choi-Kain e Brandon Unruh al McLean Hospital di Boston (Stati Uniti) per il loro approccio integrato all’mbt e per avere sviluppato una clinica mbt

1. Contestualmente alla pubblicazione di questa versione aggiornata del manuale è stata svi- luppata una nuova scala di aderenza al trattamento. La scala, che richiede un training per poter essere applicata in modo attendibile, può essere scaricata dal sito https://www.annafreud.org/

training/mentalization-based-treatment-training/mbt-adherence-scale/.

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XVII e un programma di training di successo; Robin Kissell e il suo gruppo per avere cercato di portare l’mbt sulla costa ovest degli Stati Uniti; Jon Allen, John Oldham, Efrain Bleiberg e Carla Sharp per avere ospitato l’mbt alla Menninger Clinic in Texas (Stati Uniti); Robert Green, Dave Carlyle e Ro- bin Farmar per la loro ricerca sull’mbt nei servizi della salute mentale e per l’entusiasmo nello sviluppo del modello in Nuova Zelanda; Linda Mayes, Arietta Slade, Norka Malberg e Nancy Suchman all’Università di Yale (Stati Uniti) per il loro lavoro sull’mbt e la genitorialità; Morten Kjølbye, Henning Jordet, Sebastien Simonsen e Erik Simonsen in Danimarca, per la loro ri- cerca e gli sviluppi clinici; e Michael Daubney, Lynn Priddis, Clara Book- less e Margie Stuchbery in Australia per gli adattamenti e la loro saggezza clinica. Ci sono tanti altri, troppi per elencarli tutti, ma grazie. Last but not least, vorremmo ringraziare i nostri colleghi a Londra, che hanno lavora- to con noi nel corso dell’ultima decade per sviluppare l’mbt nella teoria e nella pratica: Liz Allison, Eia Asen, Dickon Bevington, Martin Debbané, Pasco Fearon, Peter Fuggle, George Gergely, Alessandra Lemma, Patrick Luyten, Nick Midgley, Trudie Rossouw e Mary Target.

Infine, ogni volta in cui pensate che questo libro si “legga bene”, questo è il risultato del lavoro assiduo di Chloe Campbell e Clare Farrar: entrambe hanno speso un tempo considerevole cercando di dare senso al nostro lavo- ro, insistendo perché eliminassimo le discrepanze e gli errori, e chiarendo le nostre molteplici affermazioni confusive. Le parti che non si leggono bene sono quelle in cui noi siamo scivolati oltre loro. Ringraziamo la nostra casa editrice, che ha aspettato pazientemente il manoscritto finale.

Soprattutto, vorremmo ringraziare i pazienti e le loro famiglie, che ci hanno insegnato tutto ciò che sappiamo su queste condizioni crudeli.

Londra, Regno Unito Anthony Bateman

Dicembre 2015 Peter Fonagy

BIBLIOGRAFIA

bateman, a.W. fonagy, P. (a cura di) (2012), Handbook of Mentalizing in Mental Health Practice. American Psychiatric Publishing, Washington (dc).

Karterud, s., Pedersen, g., engen, m., Johansen, m.s., Johansson, P.n., schluter, c., bateman, a.W., etal. (2013), “The mbt Adherence and Competence Scale (mbt-acs):

Development, structure and reliability”. In Psychotherapy Research, 23, pp. 705-717.

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