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INDICE. Cap. 3 Gli elementi costitutivi dell impresa familiare. Sezione 1 La componente soggettiva e la rilevanza del fenomeno della famiglia di fatto

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INDICE

Cap. 1 La riforma del diritto di famiglia e la novità all’art. 230 bis c.c.: l’impresa familiare

1.1 Il nuovo istituto come prodotto della l. 151/75 ed elemento di rottura con il passato. I modelli di “impresa a spiccata

caratterizzazione familiare” precedenti la riforma e la comunione tacita familiare

1.2 Il travagliato iter di approvazione dell’art. 89 l. 151

1.3 Origine e ratio legis della norma

1.4 Le critiche e le incertezze interpretative: gli “standards familiari” e la norma determinativa

1.5 Il carattere residuale e imperativo. I problemi di coordinamento con gli istituti preesistenti

1.6 Un tentativo di studio comparatistico in Europa: l’esempio della Francia

Cap. 2 Natura giuridica e fondamento dell’istituto 2.1 L’art. 230 bis c.c. e il modello imprenditoriale

2.2 Il silenzio legislativo e la natura giuridica dell’impresa familiare: la tesi unipersonale, la tesi pluralista e l’interessante posizione del Prof.

A. Piras

2.3 L’oggetto della disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. e la rilevanza del rapporto di impresa familiare

2.4 Fondamento giuridico della fattispecie: ipotesi negoziale o fatto giuridico?

Cap. 3 Gli elementi costitutivi dell’impresa familiare Sezione 1 La componente soggettiva e la rilevanza del

fenomeno della famiglia di fatto

3.1.1 Le parti del rapporto: i “familiari”- collaboratori e la figura del familiare-imprenditore

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UNUN AAPPPPROROFFOONDNDIIMMEENNTOTO

La convivenza more uxorio: evoluzione della sua posizione nell’ordinamento, nella legislazione e nella giurisprudenza

Uno sguardo in Italia

I. Ε∋ possibile una definizione?

II. L’evoluzione terminologica ed ideologica III. La famiglia di fatto nella Costituzione IV. …nella legislazione ordinaria e speciale V. …nella giurisprudenza di legittimità e di merito VI. …e nella dottrina

Uno sguardo in Europa

I. La famiglia di fatto in Francia II. …nei Paesi di Common Law III. …in Germania

3.1.2 La questione dell’applicabilità dell’art. 230 bis c.c. alla famiglia di fatto

Sezione 2 L’elemento oggettivo: il lavoro familiare 3.2.1 La prestazione di lavoro nell’impresa familiare: caratteri

tipici

3.2.2 La collaborazione nell’impresa e nella famiglia

3.2.3 Natura della prestazione: in particolare, assonanze e dissonanze con la disciplina del rapporto di lavoro

subordinato

Cap. 4 La posizione partecipativa dei familiari collaboratori

4.1 La “Carta dei diritti del lavoratore nella famiglia o nell’impresa” e la sua ratio legis

4.2 I diritti patrimoniali a contenuto economico: 1) Il diritto al mantenimento

4.3 segue : 2) Il diritto di partecipazione in senso proprio 4.4 Il potere a contenuto amministrativo-decisorio e i suoi

limiti

4.5 Il diritto alla liquidazione della quota di partecipazione del singolo familiare

(3)

Cap. 5 Il diritto di prelazione ex art. 230 bis, comma 5 c.c.

5.1 I contenuti del diritto e la sua giustificazione

5.2 La questione del richiamo all’art. 732 c.c., in particolare il diritto di riscatto

Bibliografia

L’impresa familiare nella dottrina

… nella giurisprudenza e nelle fonti normative

NOTA REDAZIONALE

Questa tesi si compone di 185 pagine

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Capitolo 1 La riforma del diritto di famiglia e la novità all’art. 230 bis c.c.:

l’impresa familiare

Paragrafo 1 Il nuovo istituto come prodotto della legge 151/75 ed elemento di rottura col passato. I modelli di “impresa a spiccata caratterizzazione familiare”

precedenti la riforma e la comunione tacita familiare

Con la legge 19 maggio 1975, n. 151 il Parlamento Italiano ha approvato quella che a tutt’oggi rappresenta la legge di riforma del diritto di famiglia vigente nello Stato Italiano. Scopo precipuo della novella fu innovare i regimi patrimoniali della famiglia, rendendo legale, e quindi prioritario, salva la possibilità della “diversa convenzione”, il regime di comunione dei beni dei coniugi, rimettendo ad una scelta consapevole dell’autonomia privata il regolamento patrimoniale dei propri rapporti, secondo quella parità sostanziale garantita dagli artt. 2, 3 e 29 Cost.. Ma non solo. A riprova di questa esigenza così fortemente sentita dal legislatore, questi ha creato degli ulteriori meccanismi di regolazione dei rapporti economici (il fondo patrimoniale, costituito da terzi, e l’impresa familiare), facendo peraltro salve le consuetudini della comunione tacita familiare.

Questa legge, figlia dell’ideologia propria di una società che vede nella famiglia “un ente regolato per la vita e lo sviluppo dei suoi membri”1 si è però trovata ad operare in un’epoca, comunemente indicata come post-industriale, di profondi mutamenti nei rapporti sociali, in un’era di transizione, in attesa di un nuovo referente sociale dopo quello agricolo e quello industriale.

Mutando le fattispecie sociali e quindi anche i modelli e le tecniche di individuazione e di tutela, l’unitarietà delle categorie giuridiche tradizionali -proprietà, impresa, famiglia e responsabilità- si è inevitabilmente attenuata. La pluralizzazione dei genus ha così investito anche la famiglia, che non è più una, ma plurima, nel senso che ne esiste una pluralità di immagini e dimensioni: anche in questo settore il processo storico-sociale si è evoluto dunque dalla “famiglia” alle “famiglie”. Di conseguenza, quelle regole e categorie giuridiche cui si rinviava generalmente non rappresentano più un criterio diretto di valutazione della medesima realtà sociale, e la regola della libertà personale dei singoli membri, tutelata col potenziamento dell’autonomia privata, funge ora da elemento centrifugo nei confronti delle regole dell’unità e dell’uguaglianza, funzionali in passato alla stabilità della famiglia legittima.

La l. 151/75 appare, quindi, una presa d’atto dei vistosi mutamenti in itinere nella realtà sociale dei rapporti familiari ma, allo stesso modo, l’indicazione precisa del “dover essere”2 dei rapporti personali e patrimoniali, per un assetto ideale paritetico ed egualitario della famiglia moderna.

L’art. 230 bis, che con la novella è stato introdotto nel codice civile, non rappresenta che un aspetto di tale adeguamento del diritto alla mutata realtà, quello che riguarda le conseguenze di una prestazione di lavoro avvenuta fra appartenenti al medesimo nucleo, con una accentuazione contemporanea dei profili della solidarietà e dell’uguaglianza fra familiari.

1 A. TRABUCCHI, Natura, legge, famiglia, in Rivista di Diritto Civile, 1977, I , pag. 14.

2 M.C. ANDRINI, Azienda coniugale e impresa familiare, in Trattato di Diritto Commerciale e Pubblico dell’Economia, F. Galgano, XI, Cedam, 1989, pag. 53.

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Ripercorrendo brevemente lo schema evolutivo dell’istituto “famiglia” nel diritto italiano si osserva il passaggio della comunità familiare da luogo di esercizio della supremazia di un coniuge sull’altro, a luogo di ricerca del consenso e dell’accordo; da istituzione considerata di supremo interesse per lo Stato, a prima formazione sociale ove si svolge la personalità umana e si estrinseca la libertà dell’individuo; da luogo ove operano diritti e doveri sottratti alla disponibilità dei singoli, a luogo ove si va affermando il principio di disponibilità negoziale. Con due sole parole, si è parlato di

“privatizzazione della famiglia”3, quale prodotto, appunto, non solo della riforma o dei principi costituzionali, ma come fenomeno che trova le proprie radici nella mutata realtà fenomenica.

Questo nuovo modello di aggregato familiare disciplinato dalla legge ordinaria viene a corrispondere sempre più all’immagine costituzionale della famiglia (artt. 2, 3, 39 Cost.) e, ciò che in questa sede più interessa, viene a fondare un nuovo modello di impresa, quello di cui all’art. 89 l. 151/75, introduttivo dell’art. 230 bis c.c.. Curiosa è la previsione, nell’ambito dei modelli organizzativi imprenditoriali, dell’impresa familiare, prodotto nuovo che si presenta come archetipo che recupera, sotto il comune denominatore del lavoro, la famiglia patriarcale, sia pure organizzandola secondo i moderni parametri della “partecipazione” e della “concertazione”.

Al fine di reprimere gli abusi diffusi sino ad allora nell’ambito del lavoro familiare, la riforma ha finito col valorizzare le relazioni stesse e portare ad eque conseguenze il principio della mutua solidarietà nella famiglia, rendendo i familiari lavoratori partecipi dei profitti dell’impresa e della sua direzione. L’intento era di rafforzare, anziché svalutare, il vincolo familiare, di sviluppare l’idea della famiglia come comunità (in coerenza con l’instaurato regime legale di comunione dei beni fra i coniugi), pur facendo salva l’ipotesi di un “diverso rapporto” fra i familiari, ossia di lavoro o di società.

La disciplina introdotta dall’art. 230 bis c.c. ha quindi come oggetto specifico la prestazione di lavoro effettuata a favore di un imprenditore da parte di un familiare di quest’ultimo e contiene la prima regolamentazione positiva di un fenomeno estremamente diffuso, ma i cui confini erano stati sempre incerti: il lavoro familiare.

Ed è proprio questo il merito riconosciuto al riformatore.

Necessario ed interessante è quindi analizzare se e, in caso affermativo, di quale considerazione giuridica il lavoro familiare godesse prima dell’entrata in vigore della l.

151/75. Bisogna innanzitutto ricordare che il lavoro familiare, ovvero quello prestato dai familiari del datore (di lavoro), si trovava menzionato in una serie di norme che, disciplinando diversi aspetti, specie previdenziali, del rapporto di lavoro subordinato, escludevano dal loro ambito di applicazione determinati congiunti del datore stesso, purché conviventi e a suo carico (art. 1, l. 370/34 sul riposo domenicale e settimanale;

art. 2, lett. a) e b), d.P.R. 797/55 approvante il Testo Unico delle norme concernenti gli assegni familiari). Se ne deduce che anche prima del 1975 il lavoro dei familiari aveva una espressa disciplina legislativa, tuttavia frammentaria e occasionale, soprattutto negativa, che si limitava ad escluderlo dall’ambito di operatività di norme dettate per il lavoro subordinato in genere.

Considerando, invece, la disciplina positiva, l’orientamento assolutamente dominante nella giurisprudenza, che trovava concorde anche la dottrina, riguardava l’assoluta gratuità del lavoro familiare, nel senso che alla prestazione del lavoratore non

3 C. RIMINI, Seminari pavesi sul tema famiglia e diritto a vent’anni dalla riforma , in Famiglia e Diritto, 3, 1996.

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corrispondeva alcun corrispettivo del datore di lavoro. Interessante a questo proposito è la massima che L. Bonaretti4 ha estrapolato al termine di una rassegna su sentenze di merito e della Corte di Cassazione emanate fra il 1938 e il 1970 in tema di lavoro familiare gratuito: “Il lavoro prestato nell’abitazione o nell’azienda del capofamiglia fra persone legate da stretti rapporti di parentela o coniugio, conviventi, si presume normalmente gratuito; tale presunzione è iuris tantum e l’accertamento giudiziale del rapporto subordinato deve essere eseguito caso per caso e sorretto da adeguata e rigorosa dimostrazione”. Non sempre convergenti erano però le spiegazioni di questo trattamento sfavorevole riservato al lavoratore familiare, privo di ogni diritto alla retribuzione e alla tutela previdenziale: vi era chi5 -e ciò avveniva nella maggioranza dei casi, tanto da proporsi come ipotesi tipica- individuava una prestazione effettuata benevolentiae vel effectionis causa, chi6 si limitava a riferirsi ad un fondamento etico di solidarietà che escludeva quindi la possibilità di controversie o di un diritto al compenso; altri7, infine, faceva corrispondere la prestazione di lavoro da parte del familiare all’adempimento di uno specifico dovere correlato al diritto al mantenimento.

Per quanto riguarda i primi tentativi di spiegazione in senso positivo di questa generalizzata presa di posizione, i giudici e gli studiosi distinguevano il piano della subordinazione da quello dell’onerosità, nel senso dell’astratta configurabilità di una prestazione subordinata e nel contempo gratuita. Solo così acquisiva un significato la presunzione semplice di onerosità che la giurisprudenza ricollegava alla prova della subordinazione, salvo poche eccezioni, tra cui il lavoro familiare. Secondo una massima tralaticia, per quest’ultimo operava una presunzione di gratuità, e la sua causa era individuata, nonostante la prova della subordinazione, nell’affectio e nella benevolentia.

Questa presunzione era oltrettutto superabile solo attraverso una prova “precisa e rigorosa” ex art. 2697 c.c.: il familiare che assumeva di essere stato parte di un rapporto di lavoro subordinato e oneroso non poteva quindi giovarsi della praesumptio di cui sopra e limitarsi a provare la subordinazione, ma doveva provare anche l’onerosità1, ed in assenza della prima gli era preclusa anche la possibilità della prova “precisa e rigorosa” della seconda 2.

Questa situazione di sostanziale e grave ingiustizia si verificava non solo nel rapporto diretto datore di lavoro-lavoratore, ma soprattutto nel rapporto fra quest’ultimo e i suoi familiari che non prestavano la propria opera a favore dello stesso familiare, in occasione di un’eventuale divisione ereditaria.

Qualche passo in avanti è stato compiuto, a partire dagli anni Sessanta, quando echi nel mondo giuridico hanno indotto ad interventi correttivi nel senso di un diverso e migliore trattamento del familiare lavoratore, tramite la sua sottoposizione alla medesima disciplina del lavoro subordinato in generale (ad es. in materia di tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti).

Ma la tappa più importante verso il riconoscimento giuridico del lavoro familiare è stata l’ammissione della possibilità di un contratto di lavoro subordinato fra coniugi e soggetti legati da vincoli di parentela. A ciò hanno contribuito sia la magistratura sia il

4 L. BONARETTI, Il lavoro a titolo gratuito secondo la giurisprudenza , Mi, 1978, pag. 88ss.

5 A. MAZZOCCA, Prestazione di lavoro “affectionis vel benevolentiae causa” fra p ersone conviventi

“more uxorio”, in Giustizia Civile, 1977, I , pag. 1191ss.

6 A. LUCIANI, Il lavoro familiare, in Rivista di Diritto del Lavoro, 1962, I , pag. 109-118.

7 F. SANTORO-PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, 14° ed., Na, 1962, pag. 86.

1 F. MATTIUZZO, A. PELLARINI, G.G. PETTARIN, L’impresa familiare. Aspetti di diritto commerciale, finanziario e previdenziale, Giuffré, 1990, pag. 24.

2 V. nota precedente.

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legislatore che hanno espressamente ammesso in taluni casi questa possibilità, non quale intervento diretto nei rapporti, ma come qualificazione di una determinata fattispecie, per far godere al familiare lavoratore il beneficio delle assicurazioni sociali, garantendo effetti secondari solo nei confronti di un terzo e non fra le parti.

Si sono spinti oltre alcuni giudici i quali, anche se solo in via incidentale, hanno riscontrato a volte, nell’ambito di un’impresa, un rapporto di lavoro subordinato instaurato ex contractu fra il titolare ed un suo familiare3. Non sempre chiari ne appaiono i motivi, ma certamente ci si trova di fronte, in un certo senso, ad un precedente dell’articolo 230 bis c.c. e dei suoi limiti: si era infatti rilevata l’incompatibilità logica fra una prestazione gratuita di lavoro e l’attività d’impresa, che si assume esercitata per uno scopo di lucro.

Alla medesima esigenza di tutela del lavoro familiare è riconducibile, fra l’altro, l’estensione dell’istituto della comunione tacita familiare, prevista dall’art. 2140 c.c., dal settore agricolo a quello non agricolo4.

Questo è il quadro di riferimento nel quale si colloca l’intervento del riformatore del 1975, e il suo significato più profondo si coglie riconoscendo all’istituto dell’impresa familiare una natura residuale e suppletiva, in quanto diretta ad apprestare una tutela minima ed inderogabile a quei rapporti di lavoro che si svolgono nell’ambito degli aggregati familiari e non altrimenti qualificati5.

Ciò significa che, almeno nei limiti di operatività dell’art. 230 bis c.c., non vi è più spazio per il lavoro familiare “gratuito”6, avente cioè causa liberale, bensì per una disciplina inderogabile lato sensu onerosa, salva la ricorrenza di altri rapporti, anch’essi onerosi (societario o di lavoro subordinato).

Ma la nuova previsione non poteva comunque cancellare la peculiarità del lavoro familiare per assoggettarlo tout court alla disciplina del lavoro subordinato svolto fuori dalla famiglia: vi ostava l’origine storica della norma e un argomento logico. Al di fuori dell’articolo de quo, infatti, il lavoro familiare continua a non presumersi oneroso e le situazioni corrispondenti si presumono come gratuite. Ciò ha indotto alcuni autori7 ad interpretare estensivamente la nuova disposizione, ricomprendendovi anche il lavoro svolto esclusivamente fra le mura domestiche e non nell’impresa, allargando la categoria dei familiari legittimati alla partecipazione, riferendo i gradi di parentela e affinità a ciascun membro, e non facendo discendere l’estinzione del rapporto dal venir meno dello status familiare.

L’ammissibilità o meno di questo procedimento ermeneutico dipende, però, dalla qualificazione dello stesso art. 230 bis c.c. in termini di specialità o eccezionalità: alcuni

3 C. Cassazione, sez. penale, 5 aprile 1968, n. 628, in Rivista di Diritto del Lavoro, 1968, II , pag. 171 con nota di SIMONETTO. Così anche C. Cassazione, 17 marzo 1971, n. 751, in Massimario della

Giurisprudenza Italiana, 1971.

4 Pacificamente ammessa da una consolidata giurisprudenza. Da ultimo C. Cassazione, 30 novembre 1978, n. 5662, in Massimario della Giurisprudenza Italiana, 1978.

5 Da ultimo C. Cassazione, 26 giugno 1984, n. 3722, in Giustizia Civile, 1984, I ,2746 con nota di FINOCCHIARO. Così anche C. Cassazione, 8 aprile 1981, n. 2012, in Giurisprudenza Commerciale, 1982, II , pag. 127ss con nota di MISCIONE, confermata da C. Cassazione, 9 giugno 1983, n. 3948, in Giustizia Civile, 1983, 2625.

6 C. Cassazione, 10 marzo 1988, n. 2138, in Massimario Foro Italiano, 1988 secondo cui “al familiare che effettui prestazioni lavorative nell’impresa familiare viene riconosciuto il diritto di partecipazione agli utili e la liquidazione in denaro alla cessazione delle stesse, escludendosi una presunzione di gratuità delle dette prestazioni lavorative”.

7 C.M. BIANCA, Diritto Civile, II, 1981, pag. 316. Così anche A. BELLELLI, I soggetti dell’impresa familiare, in Nuovo Diritto Agrario, 1977, pag. 165ss.

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interpreti8 propendono per la prima soluzione, negando, quindi, l’applicazione analogica della disciplina ivi contenuta (“alcuna disposizione comporta l’inapplicabilità all’istituto de quo dei principi generali del nostro ordinamento: i concetti di titolarità, rappresentanza, amministrazione e gestione sono quelli propri del diritto commerciale e non trovano alcuna eccezione qui”). Di contrario avviso la Suprema Corte9 che vi riconosce natura eccezionale, in quanto la norma si porrebbe come eccezione, appunto, alle norme generali in tema di prestazione lavorative, e pertanto sarebbe insuscettibile di interpretazione analogica (in materia di convivenza more uxorio). In nota alla sentenza, Luigi Balestra10 ritiene che erroneamente i giudici abbiano proceduto a quell’interpretazione: la disciplina dell’impresa familiare, con esplicita enunciazione del suo carattere residuale, mirerebbe ad apprestare una tutela minima a tutta una serie di situazioni sfornite di protezione in passato, “sicché occorrerebbe parlare di norma a copertura generale”.

Il riformatore del ‘75, con la previsione di cui all’art. 230 bis c.c., non ha, però, inventato l’impresa familiare. Esso si è limitato a recepire e regolamentare un fenomeno ampiamente conosciuto nella pratica, quello della collaborazione familiare, soprattutto del coniuge e dei figli, nell’impresa: si tratta di un fenomeno che, in precedenza, la giurisprudenza tendeva a racchiudere, con non poche forzature, laddove non ravvisasse tutti gli elementi di un rapporto di lavoro subordinato, entro lo schema della società di fatto, valorizzandone i profili associativi.

Per cogliere il significato specifico della riforma in materia d’impresa, il Prof. A. Piras11 ha ripercorso l’evoluzione del diritto italiano in questo specifico settore, individuando, al riguardo, due fasi distinte: una prima, risalente all’originaria formulazione del codice del ‘42, nella quale non si fa riferimento diretto all’impresa familiare, e una seconda, successiva appunto al 1975, anno in cui questa nuova figura è stata tipizzata.

Nell’intervallo, però, non si può certo negare l’esistenza di forme di organizzazione d’impresa nelle quali sia implicato, in posizione di rilievo, il lavoro familiare, le quali, sebbene intese non nel senso proprio di “impresa familiare”, si connotano tuttavia come

“imprese a necessaria e spiccata caratterizzazione familiare”.

Nella fase precedente la grande innovazione rappresentata dalla riforma, l’attenzione e la disciplina legislativa erano rivolte esclusivamente ai rapporti delle realtà imprenditoriali con i terzi, ignorandone invece i rapporti di organizzazione interna, lasciati o al diritto comune o, addirittura, completamente ignorati dal punto di vista giuridico.

Di immediata percezione è il parallelismo operato dall’autore con la figura del piccolo imprenditore, dove il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia prevale rispetto agli altri fattori organizzativi, quali il lavoro altrui e il capitale: il legislatore si é preoccupato, infatti, di elaborare uno statuto in favore di questa ipotesi, garantendo l’immunità dal fallimento e da determinati obblighi. Ma si tratta di aspetti solo esterni.

Quanto alla connotazione interna della struttura, ne verbum quidem. Allora il pensiero deve rivolgersi all’art. 2086 c.c., quale modello di organizzazione interna dell’impresa in generale, a valenza anche familiare: qui l’imprenditore è il capo dell’impresa, dal

8 V. nota 5. Così anche M. DAVANZO, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia, Cedam, 1981.

9 C. Cassazione, 2 maggio 1994, n. 4204, in Giurisprudenza Italiana, 1995, I , 1, 845 con nota di BALESTRA.

10 L. BALESTRA, Sulla rilevanza della convivenza more uxorio nell’ambito dell’impresa familiare, v. nota precedente.

11 A. PIRAS, Riflessioni sull’impresa familiare e sull’azienda gestita da entrambi i coniugi, in Diritto e Giurisprudenza , 1980, pag. 40ss.

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quale dipendono gerarchicamente i collaboratori, ovvero i terzi legati da un rapporto di lavoro subordinato, ma anche gli stessi componenti della famiglia. Anche nei confronti di questi ultimi, quindi, si applica il principio di subordinazione all’imprenditore, senza garanzia alcuna e senza alcun titolo da far valere.

Ne deriva, quindi, che il modello di impresa a caratterizzazione familiare del codice civile del 1942 è un modello improntato a una concezione gerarchica, che estromette i familiari da qualunque potere decisionale e da qualunque garanzia patrimoniale.

Sono proprio questi i principi che nel 1975 si sono voluti capovolgere, dando avvio a quella seconda fase cui si è accennato prima, fase che privilegia soprattutto il momento interno dell’organizzazione d’impresa. La nuova figura dell’impresa familiare viene così ad inserirsi nella disciplina generale dell’impresa, condividendone principi, ma differenziandosene sotto altri aspetti, fondamentali, dovuti all’adeguamento del modello imprenditoriale ai criteri della “famiglia”, quale emersa nella nuova realtà sociale e nella riforma.

Si è perciò parlato di “familiarizzazione”12 dell’impresa, di attenuazione, se non sovvertimento, del principio gerarchico e introduzione di determinate garanzie sul terreno patrimoniale, secondo l’ottica egualitaria della pari dignità dei membri, prima negata.

Fra le ipotesi di prestazione di lavoro fornite da parte di familiari nell’ambito di una comune attività economica dedicata ai bisogni comuni si sono venuti diversificando distinti modelli di famiglia, che mutano in relazione alle finalità perseguite: fra queste, la famiglia artigiana, nella quale, ai fini del calcolo dei limiti dimensionali, possono essere “computati i familiari dell’imprenditore, ancorché partecipanti all’impresa familiare di cui all’art. 230 bis c.c.”, la famiglia del coltivatore diretto in cui emerge la figura del coadiuvante e il consortium ercto et non cito o comunione tacita familiare.

L’impresa familiare non detta un ulteriore modello di famiglia, ma si preoccupa solo di tutelare il familiare che vi presti il proprio lavoro, lasciando irrisolti problemi di coordinamento con le altre tre forme, salvo escludere, per l’ultima citata, la disciplina effettuale che contrasti con quella dettata dall’art. 230 bis c.c.. Proprio a quest’ultima, la comunione tacita familiare, va riconosciuto un ruolo fondamentale nella genesi del nuovo istituto, cosicché due orientamenti si sono creati in dottrina riguardo la coesistenza delle due fattispecie normative: un primo indirizzo13, ferma la disciplina prevista dagli usi vigenti, sostiene la loro sostanziale identificazione, essendo l’impresa familiare non altro che la comunione tacita familiare regolata dalla legge; l’altro14, al contrario, nega qualunque coincidenza ed evidenzia, piuttosto, le differenze.

Secondo la prima opinione, in seguito alla riforma del diritto di famiglia, la comunione tacita familiare è divenuta una species del genus impresa familiare, disciplinata dall’art.

230 bis c.c. e dagli usi agricoli. Unitarie sarebbero quindi la regolamentazione primaria, la natura giuridica e la struttura fondamentale, e se una differenziazione si dovesse rinvenire, questa riguarderebbe l’ipotesi, marginale, della mancata tutela satisfattoria del

12 A. PIRAS, op. cit., pag. 44.

13 F.D. BUSNELLI, L’impresa familiare e l’azienda gestita da entrambi i coniugi, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 1976, pag. 1397. Così anche G. TAMBURRINO, L’impresa familiare e la comunione tacita familiare in agricoltura a seguito della riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151), in Giurisprudenza Agraria Italiana, 1976, I , pag. 200. In giurisprudenza Trib. Milano, 23 maggio 1977, in Foro Italiano, 1978, Voce Famiglia, n. 68.

14 G. OPPO, Dell’impresa familiare, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia sub art. 89, diretto da L. Carraro, G. Oppo, A. Trabucchi, 1977, Pd, Cedam, pag. 518-519. Così anche

C.A.GRAZIANI, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia: prime considerazioni, in Nuovo Diritto Agrario, 1975, pag. 219-221.

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familiare: nel caso dell’impresa familiare, infatti, si dovrebbe ricorrere ad istituti affini o principi generali, mentre nell’altro agli usi.

Secondo l’altro orientamento dottrinale, peraltro dominante, i due istituti sarebbero, invece, diversi e regolati da normative distinte, ed il richiamo presente all’ultimo comma del nuovo articolo servirebbe unicamente ad estendere l’applicazione anche alla comunione tacita familiare di quel minimo di tutela disposto dall’art. 230 bis c.c..

La fattispecie della comunione tacita familiare è così rimasta invariata a seguito della riforma, essendo modificato, nei limiti anzidetti, il suo regolamento (usuale) solo riguardo ai poteri, e non anche ai diritti patrimoniali riconosciuti al familiare. Difatti, il diritto al mantenimento e ai proventi erano già riconosciuti dalle consuetudini (il secondo, anzi, in termini di diritto di comproprietà anche sui beni acquistati a nome di alcuni soltanto dei partecipanti), mentre innovative sono la regola della parità di trattamento del lavoro dell’uomo e della donna e il regime delle decisioni, da adottarsi a maggioranza dei partecipi sugli oggetti e con le conseguenze di cui all’art. 230 bis, comma 1 c.c.. Resta ovviamente fermo ogni maggior diritto attribuito ai singoli familiari dagli usi rispetto alla disposizione in esame.

Secondo un’interpretazione “di mediazione”15 fra i due indirizzi sopra citati, l’istituto più risalente acquisterebbe rilevanza come species del genus regime patrimoniale della famiglia, rispetto alle ipotesi tipiche della comunione legale e dell’impresa familiare, ma ciò non significherebbe comunque identità.

Menzione legislativa espressa della comunione tacita familiare si trovava nell’art. 2140 c.c., abrogato dall’art. 205 della novella 151, secondo il quale “le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi” (usi agrari, tanto generali quanto locali). La sua disciplina vigente è invece rappresentata dal comma 5 dell’art. 230 bis c.c. (la cui norma non ha efficacia retroattiva e trova applicazione solo per le collaborazioni familiari svoltesi in epoca successiva all’entrata in vigore della legge di riforma16) e dalle consuetudini compatibili, non necessariamente coincidenti con la disciplina dettata per l’impresa familiare, ma nemmeno pregiudizievoli rispetto a quella, ovvero che neghino in tutto o in parte un diritto riconosciuto dalla legge al familiare.

Secondo P. Marini17 la comunione tacita familiare può definirsi come “gruppo di soggetti legati da vincoli di parentela che solidalmente condividono tetto e mensa e che esercitano in comune l’agricoltura su terre proprie e indivise o di terzi, contribuendovi con il proprio lavoro e mantenendo in stato di proprietà indivisa un nucleo di beni, di solito senza obbligo di rendiconto. Il patrimonio è attribuito a tutti i componenti senza distinzione di quote: di conseguenza gli utili e le perdite rimangono in comune ed i beni in comunione sono di proprietà indivisa di tutto il gruppo familiare. La mancanza di suddivisione e, di solito, di un obbligo di rendiconto dipendono sia dal carattere fiduciario del rapporto, che dalla materiale impossibilità di effettuare una distinzione dei diritti degli uni e degli altri, dimodoché gli utili e le perdite rimangono in comune ed al singolo è inibita la possibilità di disporre di beni compresi nel patrimonio comune”. Da questa nozione si evincono i caratteri essenziali e strutturali della fattispecie, identificati

15 M.C. ANDRINI, Proprietà e impresa nell’art. 230 bis c.c., in Rivista del Notariato, 1983, pag. 1197ss.

16 La giurisprudenza di legittimità e di merito è al momento pacifica nel ritenere che la disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. sia inapplicabile ogniqualvolta l’attività o comunque la collaborazione sia cessata anteriormente al 20 settembre 1975, data di entrata in vigore della l. 151/75. Così C. Cassazione, 18 ottobre 1976, n. 3585, in Giustizia Civile, 1980, I, 930 con nota di FINOCCHIARO. Da ultimo C. Cassazione, 23 ottobre 1985, n. 5195, in Giurisprudenza Italiana, 1987, I , 1, 1126.

17 P. MARINI, L’impresa familiare, 1982, Rm, pag. 36ss.

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dall’elaborazione giurisprudenziale, nel silenzio dell’art. 2140 c.c., nell’agire comune di un consorzio familiare (non limitato ai vincoli di parentela e affinità richiesti dall’art.

230 bis c.c.), nella direzione da parte di un capo, nella comunione di vita e nell’esistenza di un patrimonio indiviso la cui amministrazione è collettiva e senza rendiconto; il tutto finalizzato al mantenimento della reciproca assistenza materiale dei componenti, piuttosto che all’incremento delle sostanze patrimoniali.

La diversa ragione giustificatrice non è l’unico elemento differenziale dell’istituto con l’impresa familiare: laddove quest’ultima partecipa della dimensione industriale, ove la titolarità dei beni aziendali non è più necessariamente in capo all’imprenditore, e il binomio proprietà-impresa è risolto, nel primo domina la logica della proprietà, e più propriamente quella della proprietà collettiva. Quindi, da una comunità di godimento e di limitata attività si è passati alla famiglia nel suo aspetto dinamico, alla famiglia quale produttrice di beni e servizi, non per il proprio consumo ma per lo scambio con gli estranei, ove il principio della produzione prevale e nel quale trova la più ampia possibilità di esplicazione l’autonomia e la personalità dei singoli familiari, i quali tutti concorrono non solo alla produzione, ma anche alle scelte direzionali.

La tutela apprestata per l’impresa familiare si pone, così, come prevalente rispetto a quella consuetudinaria prevista per il suo “antecedente storico” e questo, secondo alcuni18, consentirebbe di superare l’antico dilemma se la comunione tacita familiare sia ipotizzabile in attività diverse dall’agricoltura: questa possibilità è ormai pacificamente ammessa dalla giurisprudenza19, che riconosce l’estensione di questa figura “di immensa importanza” creata dalla prassi20 a tutti i nuclei familiari, anche non agricoli.

Paragrafo 2 Il travagliato iter di approvazione dell’art. 89 l. 151/75

L’istituto dell’impresa familiare, nei termini in cui è stato concepito nell’art. 230 bis c.c., non era contemplato nei vari progetti di legge che si sono susseguiti nel periodo antecedente la riforma del diritto di famiglia. Esso è infatti nato come proposta di un senatore, il Prof. Luigi Carraro, al termine del lunghissimo e travagliato iter parlamentare che ha condotto al varo della l. 19 maggio 1975, n. 151.

Tuttavia, il dibattito sulla necessità di apprestare forme di tutela della prestazione di lavoro svolta a favore di familiari, soprattutto nell’ambito delle attività agricole, aveva preso avvio già da dagli anni Sessanta e, precisamente, il 24 ottobre 1964, quando l’onorevole Emilio Sereni aveva presentato una proposta di legge formulata in undici articoli, il cui scopo era quello di “modificare il coevo assetto giuridico della famiglia contadina, in modo che ciascun componente fosse posto in grado di partecipare in condizione di parità alla soluzione di tutti i problemi di impresa, e potesse così svolgere in pienezza il ruolo di lavoratore e produttore”21. Questa proposta non ebbe alcun seguito, ma fu significativa perché segno di quella tendenza ad eliminare la struttura rigidamente gerarchica della famiglia coltivatrice, ad imitazione di quanto era in fatto successo nelle famiglie delle grandi città industriali.

18 In senso contrario all’estensione P. MARINI, op. cit., pag. 37.; M. DAVANZO, op. cit., pag. 124ss.

19 Da ultimo C. Cassazione, 26 febbraio 1972, n. 569, in Giurisprudenza Italiana, 1973, I , 1, 1599 con nota di MASI.

20 R. SACCO, Il manuale per le matricole, in Rivista di Diritto Civile, 1975, II , pag. 322ss.

21 C.A. GRAZIANI, op. ult. cit., pag. 199ss.

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Comunque, eliminato questo isolato precedente, la nascita dell’impresa familiare si colloca nell’ambito delle discussioni che hanno accompagnato l’emanazione della riforma del ‘75.

Innanzitutto, il disegno di legge approvato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati il 1 dicembre 1971 conteneva una norma, all’art. 55, in cui testualmente si prevedeva che “quando nelle aziende a conduzione familiare prestano la loro attività altri componenti la famiglia, costoro partecipano alla comunione in proporzione alla quantità e qualità del lavoro svolto. Il lavoro della donna è considerato equivalente all’uomo”. Si tentava una prima, embrionale, tutela del lavoro familiare e si inseriva la disposizione nell’ambito della disciplina della comunione dei beni fra coniugi; essa, anzi, veniva concepita come corollario dell’“azienda a conduzione familiare”, quell’azienda nella quale prestano attività entrambi i coniugi, prevista nel medesimo articolo, ma che è divenuta oggetto del vigente art. 177 c.c.. Siffatta previsione fu fortemente criticata sia dai commentatori della riforma, che ne rilevavano l’estrema genericità, ambiguità e incompletezza, sia dalle massime organizzazioni contadine tendenti ad una maggiore e precisa tutela della famiglia e dei partecipanti alla comunione. Passato successivamente il progetto all’esame della Commissione Giustizia del Senato, esso ha subito modifiche rilevantissime: è stato infatti proposto dal senatore L. Carraro, membro della Commissione stessa, nella seduta del 16 gennaio 1975, l’emendamento per la nuova sistemazione della materia, che ha portato alla separazione della disciplina del lavoro dei familiari in genere da quella della comunione dei beni dei coniugi. È stata così creata, da un lato, la fattispecie azienda coniugale (art. 177, comma 1, lett. d) e comma 2 c.c. nov.) che, nell’ambito della comunione legale, comprende la gestione di un coniuge nell’impresa dell’altro e, dall’altra, l’azienda familiare (art. 89 l.

151/75), alla quale, invece, é stata riservata una norma apposita da inserirsi nel codice civile come art. 2083 bis. Si voleva così porre l’accento più sull’attività che sul patrimonio, sul diritto d’impresa più che su quello di proprietà, componendo l’antica dicotomia fra materia agricola e forma commerciale, in successione concettuale con la piccola impresa.

Si è verificato, fra l’altro, per ragioni di sedes materiae, un mutamento terminologico importante: dall’“azienda familiare” si è passati, infatti, all’“impresa familiare”.

Passata la proposta all’esame, prima della Commissione in sede referente, e poi dell’Assemblea di Palazzo Madama, essa ha subito ulteriori modifiche. In particolare la disciplina del lavoro familiare è stata riportata nel Libro Primo del codice civile, costituendo un’apposita sezione del Capo Sesto (dedicato al “Regime patrimoniale della famiglia”) del Titolo Sesto, come art. 230 bis. Dal punto di vista sostanziale, la modifica di maggior rilievo è stata l’attribuzione di uno specifico potere amministrativo ai familiari nei confronti del patrimonio aziendale.

Se l’improvvisazione ha caratterizzato il sorgere della norma e costituisce la causa principale delle lacune ed imperfezioni della tecnica legislativa, bisogna però riconoscere l’evoluzione rispetto all’originario modello di disciplina dell’azienda a conduzione familiare, e il valore di questa prima organica risposta all’esigenza profondamente sentita di tutela del lavoro familiare.

Paragrafo 3 Origine e ratio legis della norma

Alla comunione tacita familiare, come sopra accennato, va riconosciuto un ruolo fondamentale nella genesi del nuovo istituto familiare. E’ da essa, infatti, dall’inadeguatezza della sua disciplina, che l’abrogato art. 2140 c.c. affidava

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integralmente agli usi, che ha preso le mosse l’attuale art. 230 bis c.c.. L’esistenza di consuetudini che attribuivano ogni potere al capo-famiglia, oppure che sancivano un deteriore trattamento della donna rispetto all’uomo, si era rilevata inadatta ai tempi e aveva provocato gravi conseguenze sociali, scoraggiando i giovani appartenenti a famiglie contadine dal partecipare all’attività economica del nucleo di appartenenza.

Ciò, unito ad un dato sociologico di progressivo allentamento dei rapporti familiari, in sintonia con lo sviluppo della “società industriale”, ha segnato la crisi dell’agricoltura italiana e del corrispondente istituto, emergendo su più fronti la necessità di una disciplina del lavoro familiare.

Questa origine, per così dire “agraria”22, dell’art. 230 bis c.c. ha portato ad una formulazione della disposizione che risente dei problemi e delle istanze di quel mondo.

L’introduzione nel nostro ordinamento giuridico dell’istituto dell’impresa familiare ha significato, nell’ambito della grande stagione di progresso culturale e sociale segnata dalla riforma, il riconoscimento del valore del lavoro reso dal congiunto nell’ambito dell’impresa gestita con l’apporto dei componenti il gruppo familiare.

Mario Finocchiaro23 ha ripercorso sinteticamente le impressioni che tale novità legislativa ha suscitato nei vari commentatori, ed in particolare la ratio che essi vi hanno individuato. Secondo una prima ricostruzione24, l’articolo rappresenterebbe “uno dei più seri e risoluti tentativi di attuazione di un insieme di norme costituzionali, risoltesi fino ad allora in sterili enunciazioni di principio”, in particolare degli artt. 1 e 29 (che dichiarano la Repubblica fondata sul lavoro e sulla famiglia, come società naturale), dell’art. 3, comma 2 (che consacra il principio di uguaglianza sostanziale), dell’art. 4, comma 1 (che riconosce ad ogni cittadino il diritto al lavoro), degli artt. 35, 36 e 37 (posti a tutela dei diritti fondamentali del lavoratore) e, infine, dell’art. 46 (che sancisce il diritto del lavoratore alla collaborazione nella gestione dell’azienda). In senso non difforme, altri25 intendono pilastri della struttura normativa il rispetto della persona umana, il principio di uguaglianza, la promozione morale e sociale del lavoro, la salvaguardia dell’autonomia e dell’indipendenza economica del familiare che presta un’attività di lavoro nella famiglia, nonché le esigenze democratiche radicate nella coscienza dei cittadini per ogni settore della vita, incluso quello familiare. Secondo altri autori26 si è voluto sanare, ovvero proteggere, situazioni ricorrenti di collaborazione ad una attività imprenditoriale individuale che ha titolo in un rapporto più o meno stretto di parentela o affinità con l’imprenditore, per cui il fondamento risiederebbe nella tutela del lavoro. Fra questi vi è chi27 riconosce nella nuova disciplina la protezione non solo del lavoro familiare, ma delle stesse imprese familiari, costituendo essa “un forte incentivo a ricercare sul mercato del lavoro una più adeguata retribuzione con l’effetto di favorire la diffusione di tale tipo di impresa”.

R. Costi28 pone invece l’accento sull’istanza sociale che si è voluto codificare come meritevole di tutela, ovvero quella di “colmare una lacuna dell’ordinamento, definendo

22 V. COLUSSI, voce Impresa familiare, in Digesto delle Discipline Privatistiche, sez. commerciale, VII , UTET, To , pag. 174.

23 M. FINOCCHIARO, Fondamento e natura (individuale o collettiva) dell’impresa familiare, in Vita Notarile, 1977, II , pag.875.

24 A. DELL’AMORE, La prestazione di lavoro nell’impresa familiare, in Rivista di Diritto del Lavoro , 1976, I , pag. 15.

25 C.A. GRAZIANI, op. cit. pag. 83.

26 N. FLORIO, Famiglia e impresa familiare, Bo, 1977. Così anche V. COLUSSI, Impresa familiare, lavoro familiare e capacità di lavoro , in Giurisprudenza Commerciale, 1977, I , pag. 702.

27 V. PANUCCIO, L’impresa familiare, Mi, 1976, pag. 50-51.

28 R. COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Mi, 1976, pag. 77.

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una serie di situazioni di fatto che si erano già prodotte, e disciplinarle conformemente alle regole che la prassi aveva già provveduto a darsi”.

Giungendo alle estreme conseguenze, G. Tamburrino29 ritiene che, oltre alla posizione del familiare nell’impresa familiare, nell’art. 230 bis c.c. sia stata prevista anche la posizione generica del familiare che presta la sua attività continuativa di lavoro nella famiglia e per la famiglia, indipendentemente da un’impresa e da un’azienda: esempio classico sarebbe la prestazione di attività (normalmente domestica) da parte di figli o parenti conviventi non anche partecipanti all’impresa, o perché questa non c’è o perché non vi collaborano.

M. C. Andrini30 restringe questo ultimo panorama e parla di tutela unicamente rivolta al familiare partecipe, cioè “il contraente più debole”, e non all’imprenditore egemone, la cui protezione si risolve in autotutela: solo così si evidenziano e valorizzano nell’ambito del gruppo familiare gli elementi solidaristici, e si avalutano, viceversa, i fini speculativi.

Si riporta, anche se viziata di incompletezza, la tesi di A. Palazzo31, secondo la quale la disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. rappresenta uno strumento giuridico per l’applicazione dei “risultati ottenuti dalla socio-psichiatria, secondo cui la donna troverà gioioso il lavoro domestico, come ritorno al lavoro nel mondo della produzione”.

Infine si riporta l’osservazione di V. Panuccio32 che, in contrasto con quanto sopra, sottolinea fra l’altro un “eccesso legislativo rispetto alla realtà”, riferendosi ai “poteri assai ampi e di dubbia costituzionalità attribuiti ai familiari soprattutto in campo decisionale”.

Volendo comunque ricondurre ad unum la rassegna di cui sopra, l’istanza sociale che si è voluta codificare, come meritevole di tutela, è stata quella di disciplinare in diritto le comunità di lavoro familiare, traducendo in termini giuridici quelle posizioni che nella realtà economica spettano a coloro che nell’impresa collaborano in posizione di dipendenza rispetto ad un imprenditore, contribuendo col proprio lavoro allo sviluppo, in assenza di un titolo che qualifichi giuridicamente questo loro comportamento produttivo. Il legislatore ha quindi codificato quel diritto giurisprudenziale che aveva esteso la disciplina della comunione tacita familiare ad ipotesi nuove e non previste dal codice del 1942 e, su questa via, anziché recepire le tralaticie affermazioni dei giudici, ha introdotto nuove norme che non possono non essere in armonia con gli altri principi affermati dalla riforma del diritto di famiglia fra cui, in particolare, la parità di diritti di tutti i membri, con ripudio di ogni visione gerarchica della famiglia, e la valorizzazione al massimo del lavoro in contrapposizione al capitale33.

Questo intervento di protezione speciale è stato giustificato dalla presenza di un tipo di vincolo familiare quale quello previsto dall’art. 230 bis, comma 3 c.c.34, e questa esigenza di tutela della “comunità paritaria di lavoro”35 si connota quindi, oltre che come motivo ispiratore, anche come principio interpretativo della nuova previsione

29 G. TAMBURRINO, Il lavoro nella famiglia, nell’azienda e nell’impresa familiare a seguito della riforma, in Massimario Giurisprudenza del Lavoro , 1976, I , 2 , pag. 138-144.

30 M.C. ANDRINI, Brevi note sulla soggettività giuridica dell’impresa familiare, in Giurisprudenza Commerciale, 1977, I , pag. 132ss.

31 A. PALAZZO, Il lavoro nella famiglia e nell’impresa familiare, in Diritto e Famiglia, 1976, pag. 827.

32 V. PANUCCIO, op. cit.

33 M. FINOCCHIARO, op. cit., pag. 878.

34 R. COSTI, op. cit., pag. 74-75.

35 C.M. BIANCA, Regime patrimoniale della famiglia e attività d’impresa , in Il Diritto di Famiglia e delle Persone, 1976, 3, pag. 1240.

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normativa, soprattutto di fronte ai problemi e alle lacune sorti nella ricostruzione dell’istituto.

Questo riconoscimento del legame fra lavoro e status, a differenza di quanto avveniva nella comunione tacita familiare, non corrisponde altro che ad una nuova rilevanza del momento economico della famiglia, nel quale la tensione fra le due esigenze di tutela, del gruppo e del singolo, viene solo in parte soddisfatta dalla normativa in esame:

quanto alla protezione apprestata per il gruppo (inteso non come soggetto autonomo, ma come insieme di interessi individuali accomunati dall’identico scopo produttivo), questa non è stata realizzata appieno; dall’altro lato, invece, la tutela del singolo è assicurata, non solo nella sua componente economica, ma anche in quella più profonda e nascosta del diritto alla dignità della persona.

Il riconoscimento e la garanzia costituzionale dei diritti inviolabili dell’uomo “sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” non consente di unificare la tutela del singolo e quella del gruppo, ancorché il primo sia parte dell’insieme, e di rafforzarle a vicenda, ma crea due distinte forme di tutela, spesso anche contrapposte. Ad esempio, nell’ambito dell’impresa familiare, il gruppo si difende dal singolo vietandogli di trasferire ad estranei il diritto di partecipazione (art.

230 bis, comma 4 c.c.) e consentendogliene una disposizione limitata solo a favore dei familiari indicati al comma 3 e con il consenso unanime; in caso di divisione per la morte dell’imprenditore, ancorché l’impresa familiare venga meno nella sua imputazione soggettiva, il gruppo ha ancora una possibilità di difesa, ovvero la sua ricostruzione in capo ad un altro familiare, partecipe ai sensi del comma 1, il quale ha diritto di prelazione sull’azienda (comma 5). In quest’ultima ipotesi, anzi, le due tutele vengono a realizzare un interesse comune e a convergere.

L’interesse del singolo è rivolto non solo al riconoscimento della sua quota di capitale- lavoro, ma anche alla possibilità di partecipare all’attività d’impresa: di qui l’utilità del diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria, indipendentemente dal grado di vocazione. A presidio della posizione del gruppo, nell’ipotesi in cui l’erede voglia cedere l’azienda ad un estraneo, è stato comunque richiamato l’art. 732 c.c. “nei limiti in cui è compatibile”.

Si sarebbe così realizzata nell’art. 230 bis c.c. l’autorevole previsione di Pietro Rescigno36, secondo la quale “la società pluralista, che conduce le formazioni sociali al massimo della libertà e riesce a creare un’ordinata distribuzione delle funzioni nei vari ambiti della vita sociale, economica e politica elaborando in ciascun settore regole di convivenza e di reciproco rispetto fra i gruppi, deve per necessità incontrare un momento in cui lo Stato è costretto ad intervenire, se non vuole che il singolo sia rimesso all’arbitrio del gruppo”.

Quanto descritto sinora si inserisce perfettamente nell’ambito del diritto di famiglia, nella sua “euforia individualistica”37, ed aggrava la già esistente confusione fra i concetti di proprietà e gestione, di partecipazione e responsabilità, di prestazione di lavoro autonomo e a carattere subordinato. Interessante a questo proposito l’intervento di E. Bertolli38 il quale, analizzando le due correnti di pensiero emerse in dottrina in sede di analisi della nuova figura, l’una portatrice di istanze individualistiche che vede prevalere la situazione giuridica soggettiva del singolo familiare lavoratore, e l’altra che

36 P. RESCIGNO in M.C. ANDRINI, Tutela dell’individuo e tutela del gruppo nell’impresa familiare, in Rivista del Notariato, 1988, I , pag. 871ss.

37 L’espressione è di SPINELLI in Rivista di Diritto Civile, 1987, I , pag. 294.

38 E. BERTOLLI, Brevi spunti in tema di lavoro nell’impresa familiare, in Responsabilità Civile e Previdenza, 1988, pag. 186ss.

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considera dominante il momento collettivo, soprattutto in termini di potere decisorio, sottolinea come entrambi gli orientamenti diano un’interpretazione riduttiva della nuova realtà e ne propone una combinazione: convivrebbero così il diritto al mantenimento, agli utili e agli incrementi, riferiti al singolo, e il potere decisorio relativo alla gestione della società, affidato al gruppo.

Queste le aspettative sociali e la ratio legis originaria: per quanto riguarda però i risultati, gli autori lucidamente rilevano come lo scopo non sia stato totalmente realizzato, accusando “soluzioni scarsamente coerenti nel complesso”. Fra questi la stessa M. C. Andrini e gli illustri A. Trabucchi e G. Oppo39.

Indipendentemente dagli esiti raggiunti, non si può comunque disconoscere il ruolo dell’art. 230 bis c.c., attraverso il quale il lavoro familiare è entrato nel campo del diritto del lavoro, assumendo una precisa connotazione di onerosità; nel processo di giuridificazione, tra i segni più evidenti del nostro tempo, la legge è penetrata all’interno della famiglia che lavora, contende i rapporti alle norme consuetudinarie e prevede obblighi e diritti dove prima vigeva la regola della gratuità affettiva, sostituita ora dalla solidarietà familiare connessa al principio egualitario40.

Paragrafo 4 Le critiche e le incertezze: gli “standards familiari” e la norma determinativa

La disciplina dell’impresa familiare, così come delineata dalla riforma, se ha dato una risposta a molti problemi, per lo più sociali, ne ha aperti tuttavia numerosi altri.

L’affrettata elaborazione legislativa, infatti, ha prodotto conseguenze notevoli: lacune ed oscurità che rendono difficile il coordinamento della nuova norma con quelle contenute in altre parti della stessa legge di riforma e, più in generale, con il sistema del diritto privato attualmente vigente. È molto importante, quindi, supplire alle lacune e chiarire le oscurità per poter meglio identificare questa figura giuridica “residuale” ma

“in espansione”41.

Dal punto di vista sostanziale, si è contestata la scadenza tecnica e l’infelice formulazione dell’articolo, foriere di imprecisione e frammentarietà.

Per quanto riguarda, poi, la collocazione topografica scelta dal legislatore, pesanti critiche sono state avanzate da gran parte degli interpreti42 e degli studiosi dell’istituto cosicché, al giudizio negativo basato sull’imprecisione della norma, si è aggiunto quello che fa leva sull’inesattezza di situare l’“impresa familiare” nel Libro del codice civile dedicato alla famiglia, e non nel Libro che del lavoro e dell’impresa si occupa in via specifica. Gli stessi giudici, sia di legittimità43 che di merito44, hanno rilevato sin dall’inizio questa peculiarità.

39 M.C. ANDRINI, op. cit. Così anche L. CARRARO, G. OPPO, A. TRABUCCHI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia sub art. 89, a cura di, 1977, Cedam, I , 1, pag. 491ss.

40 G. GHEZZI, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro , in Rivista di Diritto Agrario, 1980, pag. 1535ss.

41 M. DAVANZO, op. cit., pag. 4-5.

42 N. IRTI, L’ambigua logica dell’impresa familiare, in Rivista di Diritto Agrario, 1980, I , pag. 531ss.

Così anche M. MISCIONE, La Cassazione sull’impresa familiare, in Giurisprudenza Commerciale, 1982, II , pag. 130; P.M. PUTTI, Spunti sulla natura giuridica dell’impresa familiare, in Giurisprudenza Italiana, 1990, I , 2, pag. 691.

43 C. Cassazione, 8 aprile 1981, n. 2012, in Giurisprudenza Commerciale, 1982, I , pag. 127.

44 Pret. Bassano del Grappa, 21 giugno 1979, in Rivista Giurisprudenza del Lavoro , 1979, II , 1132.

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Parzialmente dissente M. C. Andrini45, la quale sostiene che, se curiosa è la rubricazione, la collocazione della norma è da ritenersi esatta, in quanto posta a conclusione della parte dedicata alla disciplina dei rapporti patrimoniali della famiglia.

L’art. 230 bis c.c., infatti, apre -e chiude- la Sezione Sesta del Capo Sesto del Libro Primo del codice civile, sezione intitolata appunto “Dell’impresa familiare” ed inserita dalla novella 151 prima della “Filiazione”, con una numerazione che costituisce il “bis”

di un articolo abrogato (art. 230), e che succede immediatamente, stante l’eliminazione degli articoli 220-230, all’art. 219.

V. Colussi46, assumendo una posizione critica estrema, sin dai primi anni di applicazione della disposizione, ha definito “groviglio inestricabile” le problematiche interpretative poste dall’istituto. Nello stesso anno, la stessa M. C. Andrini47 si é riferita all’impresa familiare come al “più recente esempio del complesso di insicurezza di cui soffre il legislatore, che lo spinge a gratificarsi attraverso la produzione di schemi normativi tipizzati, che nascono come vuote cornici da riempire con polemiche dottrinarie”. Come conseguenza, l’autrice ha registrato la scelta sbagliata di voler disciplinare in diritto le comunità di lavoro familiare comunque operanti con una norma di principio, dalla quale sfuggono una serie di conseguenze rilevanti.

Ma come risolvere quel “groviglio inestricabile”, come riempire quella “vuota cornice”?

Da qui gli interrogativi se, al di là della formale allocazione, vi sia stata oppure o no

“familiarizzazione” dell’impresa e, in caso affermativo, in che cosa consista, ed inoltre la necessità di indagare i legami e le mutue implicazioni fra famiglia e impresa.

Può essere utile, a tal fine, individuare i rami del diritto che si trovano coinvolti nella materia dell’impresa familiare, ed anche in questo caso, i contrasti non sono mancati.

Taluno48, nella designazione stessa dell’istituto, rinviene il collegamento fra due realtà giuridiche, la famiglia e l’impresa, collocate sul medesimo piano: l’“impresa”, che diviene “familiare” e che va studiata in rapporto a quella presenza nuova, “il diritto di famiglia che si incontra col diritto dell’economia, il diritto del gruppo domestico che si annoda al diritto degli organismi produttivi”. Ne risulta, così, qualcosa di diverso e di più maturo rispetto alla figura della piccola impresa, un peculiare modo di esercitare anche l’attività economica. Anche V. Panuccio49 scrive “diritto di famiglia e diritto commerciale si incontrano” al fine “di tentare un raccordo fra il cosiddetto interesse della famiglia e il cosiddetto interesse dell’impresa: il primo, come interesse di ciascuno dei partecipanti in vista di un interesse familiare comune di consolidamento dell’unità del gruppo sotto il riflesso economico, il secondo, oscillante fra un concetto soggettivo che lo fa coincidere con gli interessi dell’imprenditore e una distinzione fra interesse dell’impresa e interesse all’organizzazione del lavoro”. I medesimi soggetti partecipano, così, ad un duplice ordinamento giuridico, quello familiare e quello imprenditizio, non sovrapposti e caratterizzati, rispettivamente, da vincoli affettivi ed economici50.

Per quanto riguarda l’interpretazione della nuova figura, l’operazione, si sostiene, è di conoscenza e ricerca della verità, non opera di volontà, ovvero corrisponde al tentativo di immaginare la fattispecie che il legislatore ha pensato e voluto disciplinare, guardando non solo al passato, ma proiettandosi anche verso il futuro. Si avverte però il

45 M.C. ANDRINI, op. ult. cit., pag. 60.

46 V. COLUSSI, op. ult. cit. pag. 702.

47 M.C. ANDRINI, op. ult. cit., pag. 132.

48 G. GHEZZI, op. cit.

49 V. PANUCCIO, Impresa familiare, fattispecie e statuto, in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, a cura di A. Maisano, Liguori, 1977, Na, pag. 102.

50 M.C. ANDRINI, v. nota 33, pag. 135.

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giurista di non indugiare a ottiche troppo commercialistiche, lavoristiche o civilistiche, e di non lasciarsi fuorviare da schemi noti, né da principi che, a contatto con i nuovi dati, devono essere rivisti: l’impresa familiare è una novità e bisogna utilizzare schemi necessariamente nuovi, secondo quanto confermato dall’inciso iniziale dello stesso art.

230 bis c.c..

C. M. Bianca51 sottolinea anche la necessità di evitare che il tema venga dominato da un’impostazione agraristica o comunque da impostazioni che potrebbero alterare l’autonoma prospettiva dell’istituto: sarebbe “metodologicamente scorretto orientare le soluzioni sull’esperienza della comunione tacita familiare, realtà che, sebbene con aspetti positivi, non si offre come valido modello interpretativo”. Ulteriori suggerimenti provengono da G. Tamburrino52, il quale denuncia una scadente tecnica legislativa e dal punto di vista sostanziale lacune e una difficile interpretazione, da condursi, secondo lui, seguendo i principi ermeneutici generali, non tralasciando però la considerazione delle istanze sociali esistenti al momento dell’elaborazione della nuova legge, né l’esame dei lavori preparatori, al fine di stabilire esattamente l’intenzione del legislatore.

Come risultato, quindi, l’art. 230 bis c.c. quale “statuto dell’impresa familiare”53, secondo una terminologia mutuata dalla tradizione commercialistica che, a sua volta, la deriva dalla storia del diritto, e che significa, “statuto fisso”, ovvero regolamento della fattispecie nei suoi profili costanti (diritti dei partecipanti, gestione e responsabilità), mentre la parte variabile della disciplina deve essere determinata sulla base del tipo di attività svolta in concreto dall’impresa.

Di una nuova ed interessante proposta interpretativa dell’impresa familiare si legge nelle pagine di M. C. Andrini54, la quale riporta i risultati di una ricerca scientifica americana, il cui promotore è R. Pound e alla quale è stato addirittura dedicato un saggio da “uno dei più eminenti giuristi del tempo”55: l’utilità della ricerca risiede nell’individuazione di un procedimento logico-ermeneutico che riconosce un rapporto fra standards normativi e fattispecie giuridiche, fenomeno perfettamente rappresentato, secondo l’autrice, dall’art. 230 bis c.c..

Oggetto di quella ricerca sono stati schemi comportamentali generali, giuridicamente rilevanti e distinti dai modelli particolari previsti dalle norme giuridiche: schemi di vario tipo e natura, designati dal pensiero giuridico anglo-americano “legal standards”, ai quali il diritto formalizzato a volte fa esplicito riferimento, oppure che addirittura presuppone.

Loro caratteri distintivi sono la generalità e l’indeterminatezza, temperate dal loro fondamento pratico e dalla relatività in rapporto all’epoca, ai luoghi, alle circostanze e in funzione del caso concreto.

La funzione di questi standards è fungere da strumenti di adattamento per la concretizzazione della singola norma giuridica, nel nostro caso, quella che disciplina l’impresa familiare.

Il processo di determinazione della realtà giuridica è la componente di due differenti procedimenti: quello di concretizzazione del valore giuridico con eventi e

51 C.M. BIANCA, Regime patrimoniale della famiglia e attività d’impresa , in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, op. cit., pag. 35.

52 G. TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, Utet, 1978, pag. 243.

53 V. PANUCCIO, op. cit., pag. 105-106.

54 M.C. ANDRINI, op. cit., pag. 215ss.

55 A. FALZEA, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Rivista di Diritto Civile, 1987, II , pag. 1ss.

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comportamenti che evidenzino nel contesto sociale l’insorgere del valore astrattamente configurato dalla norme, e quello di specificazione con eventi e comportamenti a contenuto ancor più puntuale. Questi due passaggi mirano a determinare la realtà giuridica tramite un processo di individuazione progressiva del suo valore e, mentre la specificazione attiene all’effetto, la concretizzazione attiene al fatto: una serie di eventi, determinativi o attuativi del valore astratto, vengono così considerati nella loro definitiva valenza e compiutezza. Lo standard, come modello e criterio di giudizio, grazie anche alla sua fondamentale caratteristica che è l’adattabilità, serve ad adeguare l’effetto giuridico alla specificità del fatto concreto, con riferimento a quelle norme nelle quali “il valore è preidentificato in maniera generica”.

Applicando questo procedimento alla fattispecie di cui all’art. 230 bis c.c., si è rilevato come la disposizione muova da un enunciato di grande genericità (“salvo che non sia configurabile un diverso rapporto”) che rispecchia lo standard della tutela contrattuale del rapporto di lavoro, per poi specificare il fatto nella direzione del doppio comportamento (il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa), comportamento che funge da presupposto per l’attribuzione di una serie di diritti, che vengono ulteriormente specificati: il

“mantenimento” è infatti valutato “secondo la condizione patrimoniale della famiglia”, mentre la partecipazione, riferita “agli utili (…) e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda”, con l’aggiunta dell’ulteriore specificazione “anche in ordine all’avviamento”, deve essere valutata con il criterio della proporzionalità “alla qualità e quantità del lavoro prestato”.

Anche in questa ipotesi sperimentale, quindi, l’integrazione fra standard e norma determinativa opera in senso doppio ed opposto: lo standard rinvia alla norma determinativa e questa, viceversa, rinvia al primo. Il modello generale, che rappresenta lo standard (il familiare che presta lavoro nell’impresa di un congiunto senza che la sua prestazione abbia fonte in un’obbligazione) ha bisogno infatti di venire integrato da norme più determinate, che lo avvicinino alla realtà della vita giuridica. Di qui il riferimento puntuale ai soggetti ed al tipo di impresa (comma 3), alla natura e alle modalità della prestazione svolta (“in modo continuativo nella famiglia o nell’impresa”), alla valutazione, anche soggettiva oltre che qualitativa e quantitativa, del lavoro (“il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”), ai criteri della partecipazione –sociale più che societaria- per il riparto dei beni aziendali e dei loro frutti, al meccanismo, infine, proprio della divisione ereditaria, da utilizzare in caso di trasferimento d'azienda, per espresso richiamo all'art. 732 c.c..

A sua volta, la norma determinativa si giova dello standard per conseguire il risultato finale e fondamentale dell’adeguamento dell’effetto al fatto. Ecco quindi l’adozione del principio maggioritario (per capi) proprio del gruppo familiare e non del gruppo societario; l’esclusione dalle decisioni relative agli indirizzi produttivi, alla programmazione dell’obiettivo di gestione ed alla cessazione dell’attività d’impresa di quei familiari che non partecipano all’impresa; l’inclusione, tra i soggetti destinatari della protezione normativa, dei minori e degli incapaci, purché idonei al rapporto di lavoro; infine, il richiamo agli usi della comunione tacita familiare, purché non in contrasto con la norma determinativa.

Mentre gli “standards familiari” consentono di dare attuazione ad una norma giuridica basata sull’effettività ed intitolata all’impresa, sfuggendo così alle regole del diritto commerciale, la norma determinativa (art. 230 bis c.c.), come fatto normativo concretizzante della presenza di altri familiari accanto ai coniugi, consente di attuare il

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