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La storia intorno alle foibe

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La storia intorno alle foibe

Nicoletta Bourbaki, gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico 10 febbraio 2017

Dal sito di Internazionale

Una conversazione con gli storici Carlo Spartaco Capogreco, Anna Di Gianantonio ed Eric Gobetti.

Nicoletta Bourbaki. Nell’ottobre 1993, su iniziativa dei governi dei due paesi, si è costituita una commissione mista storico-culturale italo-slovena, che ha presentato la sua relazione nel 2000. Lo scopo dichiarato era ricostruire i processi storici che, nel periodo 1880-1956, influenzarono i rapporti tra italiani e sloveni, per poter avviare nuove relazioni tra i due stati. Come giudicate quella vicenda, sia riguardo a come è nato e si è svolto quel lavoro di ricerca storica comparata, sia alla luce della diffusione pressoché nulla – ai limiti della censura – che ha avuto in Italia la relazione finale?

Eric Gobetti. Ho forti perplessità sui tentativi di creare una “memoria condivisa”, cosa oggettivamente molto difficile in situazioni di violenze estreme e di lunga durata. Ritengo più logico un riconoscimento dei rispettivi torti e delle rispettive memorie, senza necessariamente condividerne gli assunti o trovare una, spesso impossibile, mediazione. Fatta questa premessa, il lavoro della commissione ha rappresentato un enorme sforzo, portato avanti con estrema abilità diplomatica e nobili obiettivi di pacificazione delle memorie. Si possono muovere molte critiche a quel lavoro (a titolo d’esempio si può notare la totale assenza del termine “crimini” nel descrivere le repressioni italiane durante la guerra), tuttavia l’elemento più significativo è proprio la sua mancata circolazione in Italia. L’impostazione oggettiva e fattuale di quel testo infatti andrebbe in contraddizione con la vulgata che si è preferito diffondere al livello politico e mediatico in questi anni. In definitiva, pur con tutti i suoi limiti, credo che quel documento potrebbe aiutare almeno a ristabilire corretti dati fattuali dai quali partire per una seria analisi di un fenomeno complesso. In questa fase storica, sarei favorevole a un utilizzo della relazione per esempio nelle scuole e nelle commemorazioni del 10 febbraio. Tutto sommato, su quei decenni di violenze l’Italia ha prodotto un vero e proprio documento ufficiale, perché non utilizzarlo nella data ufficialmente destinata a ricordarli?

Carlo Spartaco Capogreco. Infatti, la mancata diffusione della relazione da parte dell’Italia non depone bene. Soprattutto considerando la discutibile impostazione impressa dall’Italia, alcuni anni dopo, alla legge sul Giorno del ricordo. In questo senso, come scrissi nel 2007 in occasione della polemica intercorsa tra gli allora presidenti di Croazia e Italia, Mesid e Napolitano, il modo in cui era stata scritta la legge istitutiva di questa commemorazione finiva per consolidare una lettura degli eventi storici sospesa in un ambito metastorico privo di sfondo nazionale e internazionale.

Al di là di ogni altra considerazione, aggiungo solo che nelle “leggi memoriali” sulla shoah (2000) e sulle foibe (2004) l’omissione del contesto storico e, perfino, del termine “fascismo” non aiutano gli italiani di oggi a “fare memoria” realmente. A comprendere e a ricordare, anche, le sofferenze cagionate al nostro e ad altri popoli dalla dittatura fascista. Sulla legge del 2004 relativa alle foibe, confermo quanto scrivevo nel 2007 sul numero di aprile di L’Indice dei libri del mese: con la sua impostazione chiusa e nazionalistica, corre seriamente il rischio di “legalizzare il ricordo di crimini (altrui) sull’oblio di altri crimini (i nostri)”.

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Anna Di Gianantonio. Si è tentato di trovare dei punti di equilibrio, dei punti di contatto incontrovertibili tra italiani e sloveni, in base all’idea che gli italiani hanno sbagliato con il fascismo e gli sloveni con le foibe, ma non so quanto possa reggere dal punto di vista storico questo tentativo di contemperare le varie responsabilità. Ultimamente un filone storiografico mette in discussione il rapporto causa-effetto nella storia. Certamente i fatti storici hanno un’evoluzione più complessa dei processi chimici o meccanici, eppure il fascismo e la guerra hanno determinato le vicende al confine orientale in misura tale che risulta impossibile pensare che non abbiano avuto conseguenze nel 1945. Non mi pare che si possano accusare gli sloveni degli abusi da essi stessi subiti durante il ventennio. Al contrario, al razzismo antislavo tipico di queste terre si è accennato pochissimo, lo si è molto edulcorato, quando invece per loro è stata una cosa durissima. Questo razzismo si spiega in primis con una ragione sociale.

Fino alla metà dell’ottocento, infatti, gli slavi occupavano i posti più bassi e più umili nella gerarchia sociale.

Tutta la cultura italiana legge lo slavo come l’Altro, compreso Scipio Slataper, che pure era una delle persone più attente alle implicazioni sociali del “problema slavo”. Nel suo libro Il mio Carso dipinge gli slavi come rozzi contadini senza cultura e senza storia. Certo ci sono intellettuali diversi, come Angelo Vivante, che nel suo Irredentismo adriatico si mostra molto consapevole del problema sociale ed economico che l’irredentismo può creare all’impero austroungarico, ma mi pare un caso molto isolato.

Quando poi gli slavi già nei primi anni del novecento riescono a costruire le loro banche e le loro imprese, a emergere economicamente, si scatena anche una concorrenza. L’affermazione dell’italianità in ambienti misti porta a negare i legami che ci sono in una società come questa, dove è molto difficile dire chi è italiano e chi è sloveno. Aggiungo che la relazione del 2000 non è stata divulgata anche a opera degli stessi studiosi che l’hanno scritta. Gli stessi che ci hanno lavorato poi non hanno preteso che il lavoro fosse divulgato.

NB. Entriamo nel cuore delle questioni. Cosa rappresenta la Jugoslavia per l’Italia fascista?

EG. La Jugoslavia rappresenta il principale obiettivo strategico non solo dell’Italia fascista ma del nazionalismo italiano in generale. La prospettiva di espansione territoriale verso est è infatti precedente al fascismo e viene motivata storicamente con la secolare presenza veneziana lungo le sponde orientali dell’Adriatico. Con l’attacco del 1941 e l’annessione di ampie fette di territorio jugoslavo (della Dalmazia in particolare), il regime ottiene dunque un significativo successo politico e propagandistico, raggiungendo obiettivi strategici di lunga durata.

NB. L’aspetto che lei sottolinea, della volontà di espansione italiana nei Balcani anche prima del ventennio fascista e per tutta la sua durata, è centrale. Il razzismo antislavo a cui accennava Anna Di Gianantonio ne costituisce un aspetto davvero oscuro e poco conosciuto, che però serve a comprendere tutto ciò che avverrà in seguito. Ci torneremo più avanti. Prima analizziamo il culmine di questo processo: quello delle violenze belliche nei confronti delle popolazioni slovena, croata e montenegrina.

EG. Le forze d’occupazione italiane reagiscono subito con estrema durezza ai primi fenomeni di resistenza nei Balcani, che avvengono già poche settimane dopo la resa dell’esercito jugoslavo, e cioè nell’estate del 1941. In ogni diversa realtà geografica i fenomeni resistenziali e repressivi assumono forme differenti. In Montenegro l’apice della repressione si raggiunge immediatamente dopo l’insurrezione del 13 luglio 1941, quando l’esercito italiano impiega fino a 70mila uomini in quella che si caratterizza come una vera e propria spedizione punitiva. In quelle stesse settimane nelle città della Dalmazia cominciano a operare i tribunali speciali, che condannano a morte diversi attivisti comunisti. In Slovenia la svolta avviene nell’inverno del 1942, quando i comandi militari ricevono l’autorizzazione a operare senza più l’intromissione delle autorità civili, che dovrebbero amministrare un territorio ufficialmente annesso all’Italia. L’inizio di questa nuova fase repressiva coincide con la costruzione di una vera e propria cintura di filo spinato e posti di blocco attorno a Lubiana, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1942. Nei mesi successivi, poi, una serie di rastrellamenti sempre più massicci seminano morte e distruzione in Slovenia, Croazia, Bosnia e Erzegovina.

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NB. Che ruolo hanno in tutto questo personaggi come Mario Roatta e Mario Robotti?

EG. Mario Roatta, ex capo del servizio informazioni militare (Sim) e delle forze fasciste in Spagna, è uno dei più apprezzati generali italiani. Non a caso viene scelto per comandare la seconda armata, che governa i territori jugoslavi annessi e occupati, dal confine italiano fino al Montenegro (escluso). Roatta guida l’esercito italiano in Jugoslavia nei mesi centrali dell’occupazione (essenzialmente nel corso del 1942) e imposta la strategia italiana su un doppio binario: un sistema di ampie alleanze militari con le realtà locali disposte a collaborare in una logica anticomunista, e una durissima repressione, codificata nella famosa circolare 3C (emessa in due versioni nella primavera e poi nell’estate del 1942) che identifica esplicitamente i civili come possibili favoreggiatori dei partigiani e dunque obiettivo privilegiato delle operazioni repressive.

CSC. La circolare 3C era un articolato repertorio rivolto alle forze di occupazione, contenente disposizioni per l’internamento dei civili e la lotta antipartigiana non molto diverse da quelle utilizzate dai nazisti nello stesso periodo. E dai rapporti della polizia segreta fascista dell’epoca emerge un forte apprezzamento dei comandi militari italiani per i metodi antiguerriglia usati dai tedeschi nei Balcani.

EG. Quanto a Robotti, già comandante militare in Slovenia, succede a Roatta al comando dell’armata nel febbraio del 1943. La sua nomina (che avviene però in una fase di recessione dell’impegno italiano in questi territori) è dovuta allo zelo con cui ha condotto la repressione in Slovenia nei mesi precedenti.

Robotti è infatti noto agli studiosi per la severità con cui condusse le operazioni di rastrellamento, ma soprattutto per un atteggiamento particolarmente cinico verso le vittime delle repressioni italiane, esemplificato dalla famosa annotazione: “Si ammazza troppo poco!”.

CSC. I nomi di Roatta e Robotti – accusati di crimini come fucilazione di ostaggi, terrore pianificato e atrocità e rappresaglie di vario genere – figurarono tra i primi negli elenchi degli italiani di cui, nel 1945, il governo di Belgrado chiese l’incriminazione alla War crimes commission dell’Onu.

NB. È possibile quantificare il numero di vittime dei crimini di guerra italiani in Jugoslavia?

EG. Non sarà mai possibile stabilire una cifra precisa. Esistono però cifre parziali, che danno un’idea di un fenomeno niente affatto estemporaneo o marginale. Gli sloveni fucilati dagli italiani sono tra i 1.500 e i duemila; cinquemila montenegrini sono vittime dell’ondata repressiva dell’estate 1941.

Le vittime dell’internamento italiano sono invece circa centomila, e tra questi si contano cinquemila morti per fame, malattie, inedia. E ovviamente non stiamo contando i profughi, le migliaia di persone rimaste senza casa e proprietà in seguito alle devastazioni, ai saccheggi, agli incendi ordinati dagli italiani. Poi bisognerebbe considerare le vittime “indirette” del sistema di occupazione italiano, ovvero uccise fisicamente per mano di ustascia, cetnici e altre forze collaborazioniste che operano grazie al supporto italiano.

NB. Nel suo I campi del Duce, edito anche in Slovenia e in Croazia, il professor Capogreco ha ricostruito l’intera rete del sistema concentrazionario fascista operante in Italia e in Jugoslavia. Quanti furono i campi italiani in Jugoslavia? Potrebbe parlarci di quelli operanti sulle isole di Rab (Arbe) e di Molat (Melada)?

CSC. L’internamento dei civili jugoslavi, nell’ambito più generale dell’internamento civile fascista, fu numericamente preponderante. Se prendiamo in considerazione anche i più piccoli campi di transito e quelli temporanei, il numero complessivo delle strutture concentrazionarie italiane attive in Jugoslavia tra la fine del 1941 e l’8 settembre 1943 fu alquanto alto. Considerando, invece, solo i campi maggiori, essi furono una decina. Furono impiantati soprattutto lungo la costa adriatica, mano a mano che si andò sviluppando la resistenza nei confronti degli occupanti. E per i campi più importanti gli italiani preferirono la localizzazione insulare, come avvenne, per esempio, ad Arbe (nel golfo del Quarnero), a Melada (nell’arcipelago Zaratino) e a Mamula (all’imbocco delle Bocche di Cattaro).

I campi di Arbe e Melada furono indubbiamente tra i più grandi per capienza, e i peggiori per condizioni di vita. Peraltro, le pratiche d’internamento “a tappeto” realizzate dall’Italia fascista in quei due campi –

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vista l’assoluta arbitrarietà del sistema di “internamento parallelo”, irrispettoso delle più elementari tutele previste per i civili dal diritto internazionale – rientrano nella fattispecie dei crimini di guerra.

La mortalità, ad Arbe e Melada, fu sempre molto alta e legata soprattutto alla fame, alle intemperie e agli stenti. Ad Arbe morirono 1.477 persone su un numero totale di reclusi che nell’anno di funzionamento oscillò dai duemila agli ottomila. È una cifra raccapricciante. Gli internati di Melada, talvolta, morivano anche per fucilazione: giustiziati in quanti ostaggi, in occasione di particolari azioni partigiane.

NB. Che memoria ha avuto l’Italia del dopoguerra dei campi di concentramento fascisti e dei luoghi a essi collegati?

CSC. All’indomani della seconda guerra mondiale, la storia dei campi allestiti, tra il 1940 e il 1945, dal Regno d’Italia e dalla Repubblica di Salò, fu pressoché rimossa dalla memoria collettiva. Questi argomenti – poco congeniali alla narrazione del passato che andò affermandosi dopo la fine della guerra – rimasero sostanzialmente avulsi dal sentire comune degli italiani e dall’interesse della ricerca accademica. Anche le strutture fisiche e i siti geografici dei campi italiani – al centro-nord non meno che al sud – furono oggetto di questa rimozione, restando privi di tutela e divenendo perciò, per così dire,

“luoghi dell’oblio”…

La ricostruzione storica del sistema concentrazionario fascista, la relativa mappatura geografica e la riappropriazione di quel retaggio da parte della comunità nazionale richiesero tempi lunghissimi (e in parte restano ancora incompiuti). Anche perché – tra rimozione istituzionale e “latitanza” della storiografia ufficiale – a farsi carico delle ricerche e della riscoperta dei siti, il più delle volte, furono studiosi free-lance, che agivano unicamente per passione personale.

La rimozione o la lettura assolutoria del passato più scomodo – supportate dalla mancanza di una

“Norimberga italiana” – ebbero, evidentemente, nei campi di concentramento fascisti uno dei propri momenti topici, dando luogo a un vuoto di memoria tra i più emblematici e persistenti del secondo dopoguerra: un buco nero che, oltre alle vicende dei siti legati alla shoah (i “campi provinciali” per ebrei istituiti dalla Rsi, a partire dal dicembre 1943), avvolse anche quelle dell’“internamento parallelo”, la rete di campi fascisti per slavi che interessò sia la penisola sia i territori jugoslavi occupati; e azzerò perfino la memoria dei campi coloniali, nonostante che il suo stesso ideatore, il generale Rodolfo Graziani, ne avesse ammessa e rivendicata la creazione fin dagli anni trenta.

Tant’è che, nel 1965, a una delegazione slovena giunta in Italia per rendere omaggio alle spoglie mortali di tanti propri connazionali internati a Monigo (Treviso), le autorità trevigiane non seppero dir nulla di quel campo, e neppure indicare il luogo di sepoltura degli internati deceduti. Un episodio che testimonia la rimozione dello stesso dato storico dell’esistenza di campi di concentramento italiani. Una cancellazione tanto tenace e diffusa che contagiò, talvolta, perfino le benemerite associazioni dei deportati nei lager. In un libro del 1963 – Notte sull’Europa, a cura di Fernando Entasi e Roberto Forti – l’Associazione nazionale ex-deportati (Aned) attribuì sbadatamente alcune delle immagini più raccapriccianti del campo fascista di Arbe all’universo concentrazionario hitleriano.

NB. Quando comincia la partecipazione degli italiani alla resistenza jugoslava nei territori occupati nel 1941? Che caratteristiche e dimensioni ha il fenomeno, e che rapporto c’è tra resistenza jugoslava e resistenza italiana?

EG. Sono circa 300mila gli italiani che sperimentano sulla propria pelle la straordinaria capacità organizzativa e militare della resistenza jugoslava. Molti di loro porteranno a casa questa esperienza e, per chi farà la scelta partigiana dopo l’armistizio, la Jugoslavia rappresenterà sempre un modello da imitare, un incredibile esempio di efficacia militare, coerenza politica e appoggio popolare.

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Si calcola che siano almeno 50mila gli italiani che scelgono di resistere ai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Si tratta di una cifra considerevole, ma va sottolineato che molti di questi uomini finiranno per essere uccisi o catturati nei primi mesi dopo l’armistizio. Per esempio i primi tentativi di resistenza nelle città dalmate di Spalato e Dubrovnik vengono subito stroncati dai tedeschi, che riconquistano le località e fucilano gli ufficiali catturati. Solo i più fortunati e i più motivati riescono a sfuggire ai rastrellamenti tedeschi e aderiscono o trovano un accordo con le unità partigiane jugoslave. Col tempo saranno costituite due divisioni partigiane interamente italiane – Italia e Garibaldi – che combattono agli ordini dell’esercito di liberazione jugoslavo fino alla fine della guerra; mentre molti volontari italiani restano inquadrati come singoli o piccoli gruppi nelle unità jugoslave.

Nel caso che ho studiato più a fondo, quello della resistenza italiana in Montenegro raccontata nel mio film Partizani, dei 20mila uomini che inizialmente scelgono la resistenza, solo cinquemila andranno a formare la divisione Garibaldi nel dicembre del 1943. Dopo aver subìto gravissime perdite ed essere stata integrata con numerosi rimpiazzi, la Garibaldi rientrerà in Italia nel marzo del 1945 con circa 3.800 uomini.

NB. Con Anna Di Gianantonio, i cui studi si basano molto sulla raccolta di fonti orali, focalizziamo lo sguardo sulle regioni dell’alto Adriatico, la cosiddetta Venezia Giulia, a partire dalle centinaia di interviste con i testimoni diretti che ha realizzato. Che caratteristiche ha la resistenza in queste regioni e perché si manifesta per certi versi molto prima? Qual è il collante che permette di tenere assieme le forme prima embrionali e poi più strutturate di collaborazione antifascista tra i diversi gruppi “nazionali”

e linguistici fin dalla fine della prima guerra mondiale?

ADG. Per quanto riguarda le caratteristiche della resistenza, il punto di partenza è sicuramente il lavoro operaio nelle fabbriche, in particolare nei cantieri navali, sia di Trieste sia di Monfalcone. Qui la manodopera è mista, composta da italiani e sloveni, in un cantiere lavorano migliaia di operai ed è facile avere rapporti con persone di diverse nazionalità. Tra l’altro è molto significativo che gli operai italiani, che avevano mansioni più elevate, riescono a costruire con i colleghi sloveni un rapporto che dura per tutti gli anni trenta. Quindi il dibattito sul fascismo e successivamente la coesione nella resistenza hanno radici profonde. Le cellule erano miste, si riunivano in anfratti del cantiere, nelle navi in costruzione e discutevano della situazione politica nei momenti di pausa.

L’operaio qualificato spiegava agli altri non solo il lavoro ma anche la politica. C’erano stati poi dei collegamenti negli anni trenta con le organizzazioni come il Tigr (acronimo di Trieste, Istria, Gorizia, Rijeka – Fiume), composte da sloveni e croati che compivano attentati terroristici per reagire alle condizioni di vita cui erano costretti. Quindi nel 1941, al momento dell’occupazione italiana e tedesca del Regno di Jugoslavia e l’annessione della provincia di Lubiana, i contatti sono già attivi.

NB. Quali paure innesca la collaborazione tra antifascisti italiani e sloveni nelle classi dominanti dell’epoca?

ADG. Già all’indomani della prima guerra mondiale ci furono scontri di piazza e scioperi molto decisi nel cantiere, che il padronato tentò di sedare. Queste lotte erano nate soprattutto per il problema della casa, che era drammatico. Monfalcone era distrutta, gli operai erano costretti a vivere in alloggiamenti di fortuna precari, per di più in un territorio affetto da malaria, cui erano esposte soprattutto le donne.

Lottavano per un aumento salariale, un orario di lavoro adeguato e contro gli incidenti sul lavoro, che erano all’ordine del giorno.

Gli operai quindi entrarono in azione subito, spinti da un lato dalla volontà di riscattare con più diritti i sacrifici patiti dai soldati e dai loro familiari durante la guerra, dall’altro dalle condizioni economiche e sociali in cui vivevano, dure e precarie.

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E non solo gli operai. Dopo la guerra il clima insurrezionale è diffuso, nel periodo che nella storiografia italiana viene chiamato “biennio rosso”. Fin da subito ci sono occupazioni dei comuni nel 1920, nel 1921 un gruppo di fascisti assalta il cantiere di Monfalcone con lanci di bombe contro i lavoratori, uno dei quali viene ucciso. Dalla fine del 1919 a tutto il 1920 vengono colpite sedi dei circoli di cultura e delle camere del lavoro, subito entrano in gioco le squadre fasciste esterne e interne al cantiere, gli “operai a doppia paga” che si guadagnavano un surplus con il pestaggio dei loro colleghi di lavoro. Lo scontro è acuto, così come precocissimo è il manifestarsi del fascismo. La violenza si scatena immediatamente, dalla fine della guerra e sotto i regimi liberali, grazie all’intervento di squadre sovvenzionate dagli armatori Cosulich in risposta a scioperi e manifestazioni. Il clima è incandescente – come ho detto – e proprio per questo a Monfalcone le squadre entrano in azione praticamente da subito.

NB. Stiamo parlando di episodi di violenza squadristica, antislovena ma anche antioperaia, che avvengono già prima della presa del potere da parte del fascismo.

ADG. L’opera di repressione, sia nei confronti degli operai sia nei confronti degli sloveni, avviene già sotto il governo liberale. L’azione delle squadre fasciste è precoce, precede di molto la marcia su Roma, che è la data di inizio del fascismo al livello nazionale. I lavoratori di questo parlano, anche perché gli sloveni conoscono l’italiano. Trascorrono insieme le domeniche, fanno feste, si incontrano, discutono, quindi la situazione politica è nota a tutti e due i gruppi “nazionali”. Questi gruppi di operai però nel corso del tempo si assottigliano, con i licenziamenti in fabbrica da un lato e la repressione dall’altro le cellule si riducono a pochi operai.

Si tratta tuttavia di una fetta importante della popolazione, di un mondo sloveno che è da subito antifascista perché anche la persecuzione comincia subito. Il Tigr nasce e agisce alla fine degli anni venti e già nel 1930 si celebra il primo processo di Trieste che si conclude con le fucilazioni di Basovizza. In seguito si forma una larghissima aggregazione clandestina di tutte le componenti politiche slovene – cristiano-sociali, cattolici, liberali, comunisti – che subisce la sua battuta d’arresto con il secondo processo di Trieste nel 1941, un processo grandioso e unico nella storia europea, in cui decine di esponenti di una comunità linguistica, di ogni estrazione politica, furono processati perché non volevano scomparire, e cinque furono mandati a morte senza che fosse provato nulla contro di loro.

NB. Spostiamoci al secondo dopoguerra, al “controesodo” dei cantierini monfalconesi che dal 1946 decidono di trasferirsi in Jugoslavia. Per quella scelta viene proposta l’interpretazione del perseguimento dell’ideale socialista, o di adesione alle direttive di partito, quindi motivazioni tutte ideologiche, fino ad arrivare, pensiamo al libro di Claudio Magris, Alla cieca, a questa idea dei cantierini che se ne vanno come degli ingenui idealisti che non hanno capito che si stanno gettando tra le braccia di un potere dispotico. Leggendo le testimonianze nei suoi libri sembra emergere una questione spesso non considerata, ovvero quella di una classe operaia multietnica che è abituata fin dall’ottocento a muoversi in un’area geografica molto vasta, che non guarda per niente al fatto se ci si muova nel mondo slavo o meno.

ADG. Va considerata assolutamente la dimensione europea di questa ricerca del posto di lavoro. In molti casi parliamo di operai provetti che trovano lavoro facilmente, come i Fontanot che vanno a Vienna, dove trovano lavoro, poi vengono mandati in Bulgaria in un piccolo cantiere, infine ritornano a Trieste e poi a Monfalcone. Un altro pezzo della famiglia va in Francia, dopo un tentativo fatto negli Stati Uniti, ma anche in quel caso continua l’attività antifascista sul campo. Spartaco, per esempio, entra nel famoso gruppo partigiano composto esclusivamente da mano d’opera immigrata, cioè da stranieri, che ha compiti di guerriglia urbana. Finirà fucilato dai nazisti come i cugini Nerone e Jacques, ma anche in quel caso i superstiti tornano a Monfalcone alla fine. Sono persone che sanno lavorare, costruire una nave a quel tempo è un’operazione artigianale, c’è un sapere che viene fatto valere.

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Per quanto riguarda coloro che vanno in Jugoslavia dopo la guerra, bisogna ricordare che nel periodo 1945-1947 operava il Partito comunista della regione Giulia (Pcrg) e permanevano i “poteri popolari”, forme di democrazia diretta instaurate dopo il conflitto e prima dell’amministrazione americana.

Aleggiava l’idea che si potesse ancora “dare una spallata” e creare un mondo nuovo, ma ci fu anche una sequela spaventosa di attentati fascisti e una mancanza di posti di lavoro dovuta ai novemila licenziamenti minacciati e ai duemila messi in atto dal cantiere. A Monfalcone e a Trieste nel luglio del 1946 si svolse un enorme sciopero chiamato “dei dodici giorni” che cominciò con il blocco del Giro d’Italia a Pieris e proseguì con il blocco totale di tutte le fabbriche e le campagne, ma poi fu represso e fallì.

Va ricordato il clima nel dopoguerra alimentato dal Pcrg, che il partito di Togliatti cercò di “moderare”

nel suo desiderio di passare alla Jugoslavia, cosa che riuscì solo con il ritorno a Trieste di Vittorio Vidali, che stroncò anche in modo violento coloro che non avevano rinnegato Tito dopo il 1948. Il Pcrg dunque aveva creato il mito della Jugoslavia e pertanto esitava a fermare le partenze degli operai.

In conclusione, c’è stata la spinta dei licenziamenti, della repressione, e l’idea che lì si potesse stare meglio, alimentata anche dal partito. Infine ci sono gli esuli dall’Istria, che si stabiliscono a Gorizia, Monfalcone, Trieste. Ci sono scontri, lotta per il posto di lavoro, licenziamenti da una parte e assunzioni dall’altra. Molti esuli vengono assunti in cantiere. Mario Udovisi, un esule e un fascista dichiarato che ho intervistato, sostiene di essere stato una specie di ufficio di collocamento del cantiere che suggeriva ai responsabili chi assumere e chi licenziare. Quindi si genera una situazione politica e sociale di grande tensione. E poi appunto i rapporti e i contatti che c’erano stati spingono la gente a cercare lavoro altrove, sia per motivi economici sia per ideali politici.

NB. Cosa comportò realmente la rottura tra Tito e Stalin per gli italiani trasferiti in Jugoslavia? Quali e quanti finirono stritolati nel conflitto? Negli ultimi anni si è parlato molto del campo di prigionia di Goli Otok, dove furono mandati i “cominformisti” e dove finirono anche italiani.

ADG. Non tutti cadono nella dinamica repressiva che segue la rottura tra Stalin e Tito del 1948.

Centinaia di persone partecipano a un’assemblea a Fiume a favore dell’Unione Sovietica dopo lo strappo del Cominform, subito individuate dalla polizia e quindi incarcerate, anche se pochi italiani finirono a Goli Otok. A Fiume vi è una forte concentrazione di dissidenti che prende posizione pubblicamente, ma quelli che erano da altre parti della Jugoslavia, della risoluzione verranno a sapere molto tempo dopo, nessuno gli chiede da che parte stanno, non si pronunciano e continuano a lavorare. Non tutti sono repressi, e non tutti se ne andranno, alcuni torneranno in Italia molti anni dopo.

Pino Petean, uno dei miei intervistati, rimane e anche Silvano Cosolo, che vive a Sarajevo e ne parla come un mondo per lui meraviglioso, dove si fanno le lotte per migliori condizioni di lavoro. Ha scritto un libro intitolato Amare Sarajevo in cui descrive un mondo che sente più libero, parla di libertà religiosa e sessuale, di un mondo che non aveva nulla a che fare con la rigidità dei costumi nell’Italia degli anni cinquanta. È il racconto di una bellissima gioventù, con un rapporto molto aperto con le donne per esempio, in cui lui fa le lotte operaie nel contesto jugoslavo per avere maggior reddito, e dove non è che venga perseguitato perché è italiano. Lui torna molti anni dopo perché vuole tornare al suo paese, a San Canzian d’Isonzo.

Questi che vanno in Jugoslavia trovano un ambiente per loro stranamente liberale, riconducibile al fatto che non è un paese cattolico. A Sarajevo poi già nell’immediato dopoguerra sono rappresentate e praticate tutte le confessioni religiose, non c’è discriminazione religiosa. Infine diversi lavoratori con le loro famiglie tornano in Italia, ma dalla metà degli anni cinquanta. E magari poi diranno “eravamo sciocchi perché pensavamo di trovare le salsicce che cascavano dagli alberi”: erano partiti con l’idea di

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vivere in un mondo economicamente più ricco, solo perché socialista, mentre si erano ritrovati in una nazione distrutta dalla guerra.

Tutto questo non significa negare Goli Otok, ma collocare quella vicenda nella sua prospettiva di repressione politica mirata sugli oppositori interni, tant’è vero che vi finirono anche alti dirigenti militari, professionisti, professori jugoslavi. Il fatto è che Tito, oltre ai problemi di ricostruzione di un paese distrutto, non vuole avere anche il problema della quinta colonna sovietica al suo interno. A Goli Otok ci sono quelli che si schierano con l’Urss, e nemmeno tutti, e la maggior parte proviene da altre repubbliche jugoslave.

Esodo e foibe. Separare ciò che appare unito Di Jože Pirjevec, Nicoletta Bourbaki, Sandi Volk

La Zona di operazioni Litorale Adriatico (Ozak), stabilita dall’amministrazione militare tedesca nel settembre 1943, annessa de facto al reich nazista. Analogo statuto ebbe la Zona di operazioni delle Prealpi (Ozav), che comprendeva le province di Trento, Bolzano e Belluno.

Intervista con gli storici Jože Pirjevec e Sandi Volk.

Nicoletta Bourbaki. Ogni anno si sente ripetere dai mezzi di informazione che gli infoibati tra 1943 e 1945 furono almeno diecimila, e si parla spesso di un genocidio della popolazione italiana paragonabile alla shoah per crudeltà se non per i numeri. È credibile tutto ciò? Ci può dare una stima attendibile del numero di persone uccise nella Venezia Giulia dalle forze legate alla resistenza Jugoslava, nel corso di esecuzioni collettive, tra il settembre 1943 e il maggio-giugno 1945? Queste vittime sono tutte

“infoibate”?

Jože Pirjevec. Per quanto riguarda i morti in Istria dopo l’8 settembre 1943, il numero è stato frequentemente gonfiato. Penso che al massimo si possa parlare di 400 – 500 vittime.

Relativamente alle persone decedute a causa di tutte le forme di violenza – arresti, deportazioni,

“infoibamenti” – dopo il 1 maggio 1945, secondo la storica slovena Nevenka Troha le vittime nella zona di Trieste sarebbero state 601. Claudia Cernigoi fornisce cifre leggermente più basse e parla di 498 morti. Sempre secondo Troha, nella zona di Gorizia morirono 901 persone, in Istria e a Fiume 670. Per queste ultime zone, determinare il numero dei morti risulta più difficile. Sono circa 2.200 morti, ai quali dovremmo aggiungerne alcuni altri, sebbene non ci siano a disposizione dati precisi. Per esempio, il 12 maggio 1945 intorno a Ilirska Bistrica i partigiani jugoslavi catturarono diverse migliaia di soldati tedeschi, e secondo alcune fonti almeno una parte di loro fu uccisa sommariamente. In totale dunque circa tremila, tremilacinquecento persone, circa due terzi delle quali di nazionalità italiana, per lo più soldati inquadrati in formazioni che, a diversi livelli, collaboravano con gli occupanti tedeschi.

Questi numeri trovano conferma in una recente ricerca: Urška Lampe, nella sua tesi di dottorato dell’Università del Litorale di Capodistria – Deportazioni dalla Venezia Giulia dopo la seconda guerra mondiale, 1945-1954 – cita documenti dell’ufficio zone di confine, tra i quali ha reperito i dati di uno studio sugli scomparsi, coordinato negli anni cinquanta dal commissariato generale del governo per il Territorio di Trieste. Nel 1959, dopo alcuni anni di ricerca, i risultati mostrarono che nel territorio di Trieste, Gorizia e Udine i morti per diverse cause – “infoibati”, fucilati o deceduti per malattia – furono 645; i deportati che poi rientrarono dai campi jugoslavi 1.239; quelli che non ritornarono 1.982. Dunque, secondo questa indagine il numero totale delle vittime per mano jugoslava nel periodo dopo la liberazione non dovrebbe superare i 2.627, numero non dissimile dalle stime sopra menzionate. Inoltre possiamo ritenere che un certo numero di persone rimpatriate non sia stata registrata o non si sia

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presentata alle autorità per paura di un nuovo arresto dovuto al presunto passato fascista. Sono cifre che le autorità italiane avevano a disposizione già nel 1959, ma non sono mai state pubblicate. Ciò mi sembra significativo, perché dimostra che grande operazione propagandistica e politica sia stata portata avanti negli ultimi decenni.

NB. Quali persone furono uccise, e in quali contesti? Si parla di foibe istriane, dell’occupazione di Trieste nel maggio del 1945, di deportazioni…

JP. Si tratta di situazioni molto diverse. Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia crollò, l’amministrazione statale scomparve, l’esercito italiano e le forze dell’ordine si dissolsero. Di conseguenza, in Istria si verificò una sorta d’insurrezione popolare, fondamentalmente anarchica, che si manifestò con assalti a municipi, tentativi di distruggere i registri erariali e così via. Negli stessi giorni, però, si formarono in Istria le prime formazioni partigiane, composte da croati, ma anche da italiani che manifestavano il loro odio nei confronti della borghesia locale.

I maggiorenti fascisti erano già fuggiti, quelli rimasti erano pesci piccoli legati al regime: piccoli borghesi, commercianti, professionisti, maestri di scuola. Molti di questi vennero arrestati e concentrati in varie località, nella maggior parte dei casi in base alle decisioni degli organi centrali del movimento partigiano istriano, ma non mancarono episodi di vendetta personale. In seguito, come emerso dalle ricerche dello storico croato Darko Dukovski, un tribunale di guerra svolse indagini sugli arrestati e una settantina di persone fu condannata a morte. Nelle zone dove i fascisti avevano attuato repressioni più feroci contro la popolazione la reazione popolare fu ancora più radicale.

Quando all’inizio dell’ottobre 1943 i tedeschi cominciarono a occupare l’Istria per assicurarsi il controllo sulla neocostituita Zona di operazione Litorale Adriatico (Ozak), le forze partigiane non furono in grado di far fronte alla Wehrmacht. Per questa ragione decisero di sbarazzarsi dei prigionieri. Molti di questi furono frettolosamente fucilati. In altri casi si procedette invece al loro rilascio, in alcuni frangenti liberando, senza rendersene conto, anche criminali fascisti. Relativamente al numero delle vittime, nelle stime degli storici non ci sono grandi divergenze: dovrebbero aggirarsi tra 400 e 500, sebbene il numero delle persone realmente “infoibate” – cioè gettate nelle voragini carsiche – sia inferiore, tra le 250 e le 300. Le altre morirono in modi diversi e alcune semplicemente scomparvero. I morti sul territorio dell’attuale Repubblica di Slovenia dovrebbero essere 26, mentre le altre vittime si riferiscono alla parte dell’Istria che oggi si trova in Croazia.

Va sottolineato che i tedeschi, quando occuparono l’Istria nell’ottobre del 1943, fecero decisamente molte più vittime e deportarono moltissimi istriani a Dachau e in altri campi di concentramento, ma di questo non parla quasi nessuno.

A guidare la repressione sul Litorale Adriatico fu mandato Odilo Globočnik, uno degli alti ufficiali nazisti più vicini a Himmler. Globočnik ha una storia particolare: nato a Trieste da padre sloveno, emigrato in Austria dopo il crollo dell’impero asburgico, aveva fatto una notevole carriera dentro il partito, diventando uno dei leader del nazismo carinziano. Nel 1941 fu inviato in Polonia per pianificare lo sterminio degli ebrei. Nel 1943, accusato di malversazioni e di appropriazione indebita, fu mandato punitivamente a Trieste con i suoi collaboratori per combattere i partigiani. Oltre a effettuare repressioni e rappresaglie, lo staff di Globočnik sfruttò la questione foibe in funzione antibolscevica, come era stato già fatto nel caso dell’eccidio di Katyo in Polonia. I corpi decomposti delle vittime istriane furono recuperati, le loro foto affisse nelle vie cittadine. Furono pubblicati opuscoli sull’argomento. Le autorità fasciste, quelle di Salò, si agganciarono immediatamente a quel filone, e l’azione propagandistica acquisì un’enorme risonanza, collegandosi poi – a guerra finita – alla questione delle foibe triestine e goriziane.

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NB. Riguardo alle foibe triestine e goriziane e alle deportazioni, abbiamo visto che negli avvenimenti del 1943 le vittime appartengono alla borghesia dei paesi istriani. Invece nei fatti del 1945 le vittime chi sono?

JP. Negli ultimi giorni di guerra quasi tutti i nazisti fuggirono, cercando di raggiungere l’Austria o la Germania. In loco rimasero i collaborazionisti. Quando la quarta armata dell’esercito jugoslavo liberò e occupò Trieste e Gorizia, si scatenò una caccia all’uomo diretta contro quelle persone. Diverse cause convergevano in quella vicenda: da una parte la volontà di controllare e neutralizzare i possibili avversari, dall’altra ragioni di vendetta personale, di rivalsa. Si verificarono pure episodi di saccheggio, perché le nuove autorità non erano in grado di controllare la situazione.

NB. Si accusano spesso i partigiani jugoslavi di avere infoibato molti dirigenti e partigiani del Comitato di liberazione nazionale di Trieste, è vero? Perché le forze legate alla resistenza jugoslava, compresi diversi reparti formati da partigiani italiani comunisti, si scontrarono con le forze della resistenza italiana

“moderata”?

JP. La resistenza italiana – che oltre a essere appunto “moderata”, era anche numericamente modesta – non fu in grado di comprendere che la frontiera stabilita nel 1920 a Rapallo era ormai obsoleta. Pensava ancora di poter conservare il vecchio confine, che privava la nazione slovena di un quarto del suo territorio. Quei “liberali” italiani riconoscevano i molti torti subiti dagli sloveni durante il fascismo, e assicuravano che in futuro i rapporti interetnici nella zona sarebbero stati più corretti, ma non erano disposti ad accettare una frontiera diversa tra Italia e Jugoslavia. Men che meno, l’idea di Trieste jugoslava.

Per questo motivo i rapporti tra le due resistenze furono conflittuali fin dall’inizio: alcuni esponenti della resistenza moderata, non molti per la verità, furono arrestati e rinchiusi nelle prigioni dell’Ozna, la polizia segreta della Jugoslavia. Vi rimasero per qualche mese e alla fine del 1945 alcuni furono fucilati.

NB. Di quante persone stiamo parlando?

JP. Non abbiamo dati certi. Grazie all’intervento di uno dei capi comunisti sloveni, Boris Kraigher, i membri del Cln incarcerati a Trieste – tra i più noti lo storico Carlo Schiffrer – furono tutti rilasciati tranne uno. Due membri del Cln goriziano furono deportati e probabilmente uccisi già a maggio. Uno dei capi del Cln di Trieste, Giovanni Paladin, pubblicò un elenco di trenta partigiani del Corpo volontari per la libertà a suo dire deportati o “infoibati”. Tra questi troviamo i nomi di alcuni morti in prigionia, ma anche di altri che riuscirono a ritornare dopo alcuni anni.

NB. Perché fin dall’immediato dopoguerra in Italia si comincia a parlare di foibe? E perché questo termine diventa così carico di significati simbolici?

JP. Bisogna dire innanzitutto che l’idea della voragine in cui sono gettati i nemici ha qualcosa di orrido, di spaventoso, è molto efficace nel colpire emozionalmente ed evocare paure primordiali.

Da un punto di vista politico, invece, in una situazione in cui la questione del confine orientale era ancora aperta, le forze di destra – non tanto la politica ufficiale, ma piuttosto i giornali ed i fascisti che si erano riscoperti “democratici” – sfruttarono a fondo le “foibe”, elaborando una narrazione che colpisse l’immaginario collettivo.

NB. La foiba di Basovizza è stata proclamata monumento nazionale perché vi sarebbero stati gettati i cadaveri di centinaia se non migliaia di persone. Su quali basi si afferma ciò?

JP. Su nessuna, per quanto mi risulta. Io ho visto i documenti statunitensi e britannici su Basovizza.

Appena presero il controllo di Trieste, dopo il 12 giugno 1945, gli alleati furono sollecitati dalle forze politiche italiane a effettuare un’esplorazione della foiba. Nei primi giorni dopo la ritirata jugoslava ci furono alcune esplorazioni. Ricerche più concrete cominciarono alla fine di luglio o all’inizio agosto, e si protrassero fino alla fine di novembre. Nella voragine furono trovati i resti di 150 persone, tutti soldati tedeschi e un civile, oltre a carogne di cavalli. Tra la fine di aprile e l’inizio del maggio 1945, infatti,

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Basovizza fu teatro di intensi combattimenti tra tedeschi e partigiani. A scontri finiti era necessario liberarsi il più presto possibile dei nemici caduti e delle carogne degli animali, gettando tutto nella fossa più vicina. Non si trattava di una foiba naturale, tipica del Carso, ma del pozzo d’ingresso di una miniera di carbone, mai entrata in funzione. Da tempo era utilizzata dagli abitanti della zona come discarica, e in due o tre casi era stata teatro di suicidi. Sembra che anche fascisti e nazisti vi abbiano gettato i corpi dei loro avversari per sbarazzarsene.

Statunitensi e britannici svolsero una ricerca molto approfondita, cercando di individuare le vittime basandosi sulle uniformi. In particolare cercarono i bottoni, perché da essi si poteva capire a quale formazione appartenessero le vittime. Nonostante l’impegno profuso nella ricerca – speravano di poter sfruttare la vicenda a fini politici contro la Jugoslavia comunista – non riuscirono a trovare praticamente nulla oltre a quanto già citato. Negli anni successivi furono fatti altri sopralluoghi da speleologi triestini e anche dall’esercito italiano. Il risultato è stato nullo.

Negli anni cinquanta il pozzo di Basovizza fu usato per un certo periodo come discarica dal comune di Trieste. Gli alleati, prima di abbandonare Trieste nel 1954, vi gettarono a loro volta molta ferraglia.

Successivamente, una ditta locale ottenne il permesso di sgomberare la “foiba” da quel materiale, per poterlo riutilizzare come ferrovecchio. Nemmeno gli operai che ci lavorarono trovarono resti umani.

Nel 1959 il pozzo fu sigillato con una lastra di pietra, affinché nessuno potesse procedere a ulteriori indagini, con il pretesto che la sua esplorazione era troppo pericolosa per la presenza di esplosivi o simili. C’era stato effettivamente un ferito, si trattava di uno degli operai della ditta incaricata di svuotare il pozzo. Aveva utilizzato durante il carnevale un petardo trovato nella fossa.

Nei primi anni sessanta il pozzo di Basovizza diventò una specie di simbolo di tutte le “foibe” della nostra zona, un luogo di pellegrinaggio, tanto che nel 1992 è stato proclamato monumento nazionale.

NB. È corretto a suo parere parlare di “negazionismo” in merito alle foibe come si fa riguardo alla shoah?

JP. È offensivo, francamente. Per il libro sulle foibe che ho pubblicato con Einaudi nel 2009 insieme ad alcuni collaboratori, sono stato accusato di essere un negazionista, alla stregua di David Irving, lo studioso che nega la shoah. Ma io non nego affatto le foibe: ne contesto l’uso politico e l’entità delle cifre riportate. Si tratta di conoscere la verità storica e inserirla in una realtà oggi lontana e difficilmente comprensibile nella sua drammaticità. Non va dimenticato che in ogni paese dove c’è stata la resistenza, a guerra finita ci furono episodi di repressione analoghi, anche feroci. Ma dove si sono ammazzati tra connazionali – italiani che uccidevano italiani, francesi che uccidevano francesi, norvegesi che uccidevano norvegesi… – la questione è stata lasciata cadere nell’oblio. Nelle nostre terre, dove sloveni, croati, serbi, jugoslavi hanno ammazzato italiani, ovviamente la vicenda è stata coltivata e sfruttata da coloro che hanno interesse che i rapporti tra i nostri popoli non migliorino.

Il Territorio libero di Trieste (TlT), istituito dal trattato di pace del 1947 e diviso provvisoriamente in zona A (sotto amministrazione angloamericana) e zona B (sotto amministrazione jugoslava). Nel 1954, in base al memorandum di Londra, la zona A passò sotto amministrazione italiana. Con il trattato di Osimo nel 1975 Italia e Jugoslavia sancirono la definitiva spartizione del TlT tra i due stati.

Nicoletta Bourbaki. Parliamo dell’esodo dai territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia al termine della seconda guerra mondiale. I numeri dei profughi sono nebulosi e non c’è completa chiarezza nemmeno sull’arco temporale. Perché?

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Sandi Volk. Perché quei numeri servivano allo stato italiano alla conferenza di pace, quale dimostrazione dell’attaccamento della popolazione all’Italia e proprio per questo sono numeri inattendibili. La verifica più facile, rispetto al numero canonico di 350mila, consiste nel prendere e sommare le cifre fornite per le varie ondate: da Zara e da Pola, ipotizzando che se ne siano andati tutti gli abitanti censiti nell’anteguerra, rispettivamente 21.372 e 32mila; da Fiume 38mila, e si tratta della stima più alta; dalla zona B del Territorio libero di Trieste 40mila (anche in questo caso è la stima più alta); dai territori annessi alla Slovenia dopo il trattato di pace, cioè dalla parte orientale e settentrionale dell’ex provincia di Gorizia, 21.322. Il risultato è 152.694 persone.

Anche i numeri del censimento effettuato dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati (Oapgd, più conosciuta come Opera profughi) agli inizi degli anni cinquanta sono tutt’altro che affidabili.

L’Opera profughi reperì 140.091 persone con la qualifica ufficiale di profugo rilasciata dalle prefetture e 4.553 profughi deceduti dopo l’emigrazione. A questi furono aggiunte 46.260 persone non materialmente reperite, verosimilmente emigrate all’estero, e altre 10.536 persone che non avevano avuto la qualifica di profugo ma che, a dire dell’Opera profughi, “non potevano essere escluse”, compresi i familiari acquisiti dopo l’emigrazione. In questo modo l’Opera profughi è arrivata a “censire”

201.440 profughi ai quali ha però aggiunto 50mila persone “presumibilmente” sfuggite al censimento, arrivando così a 250mila profughi.

Questo tipo di “censimento” è alla base di tutte le ancor più fantasiose quantificazioni successive. Padre Flaminio Rocchi, artefice della cifra “ufficiale” dei 350mila, aggiunge al numero dei profughi anche i deceduti prima dell’esodo! Mi pare evidente che ci sia una volontà politica di non arrivare a una quantificazione seria, che peraltro potrebbe essere ottenuta tranquillamente ricorrendo alle schede di censimento dell’Opera profughi oppure, meglio ancora, alle anagrafi slovene e croate, dove sono annotate le cancellazioni dalla residenza e dalla cittadinanza.

NB. Per quale ragione si associano le foibe all’esodo, pur essendo fenomeni distinti?

SV. L’esodo è presentato come conseguenza di un tentativo di genocidio degli italiani in quanto tali. Le foibe, appunto. L’argomento degli intenti genocidi dei partigiani nei confronti degli italiani fu utilizzato dalla classe dirigente italiana dell’Istria già all’indomani l’8 settembre 1943, per cercare di ottenere un intervento angloamericano in Istria. Era chiaro che il movimento partigiano non le avrebbe mai consentito di conservare – o riprendere – il potere. Al contrario, come dimostrava quanto stava accadendo in Italia, l’arrivo degli angloamericani avrebbe garantito all’élite italiana dell’Istria il mantenimento del suo ruolo sociale e politico. Perciò i maggiorenti istriani cominciarono a inviare al governo del Regno del Sud, a Brindisi, una serie di relazioni, petizioni e appelli in cui si descrivevano gli intenti sterminatori degli “jugoslavi” e si preannunciava la partenza in massa della popolazione italiana.

Fu anche sulla base di quelle comunicazioni che nel 1944 il governo Bonomi cercò di fare pressione sugli alleati – che le respinsero – perché sbarcassero in Istria, e di organizzare in segreto – la cosa fu tenuta nascosta ai partiti di sinistra nel governo, ma fu scoperta da Togliatti – l’alleanza tra X Mas e formazioni Osoppo contro l’esercito popolare di liberazione jugoslavo al momento del crollo tedesco.

L’esodo preannunciato fu di fatto organizzato dopo la fine della guerra, quando già a margine della conferenza di pace il ceto dirigente istriano cominciò a pianificare l’emigrazione della popolazione in caso di assegnazione dei territori contesi alla Jugoslavia, e a progettare il suo insediamento nel goriziano e a Trieste. Anche la Democrazia cristiana triestina si impegnò a insediare a Trieste il maggior numero possibile di profughi dall’Istria, per rafforzare il campo dei sostenitori del ritorno della città all’Italia, in quel momento inconsistente a livello numerico.

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NB. Si dice che gli italiani d’Istria scelsero di andarsene per rimanere italiani e al tempo stesso che furono obbligati ad andarsene in quanto italiani: cosa c’è di vero – o di falso – in queste affermazioni?

Quale fu il destino di chi scelse di rimanere?

SV. Chi rimase si trovò in una situazione in cui da gruppo dominante passava a gruppo minoritario.

Sebbene la Jugoslavia si facesse vanto delle numerose minoranze che vivevano al suo interno, compresa quella italiana, e garantisse agli italiani posti negli organismi rappresentativi e nelle istituzioni politiche, ci furono anche spinte alla “slovenizzazione” o “croatizzazione”, con i diritti garantiti sulla carta alla minoranza italiana applicati in maniera molto diseguale.

Quanto alle interpretazioni citate, si tratta dell’ennesima semplificazione a uso politico. Se ne andarono italiani, sloveni e croati, come attestano le stesse organizzazioni dei profughi. Anche perché il diritto a optare per la cittadinanza italiana non era legato alla nazionalità, bensì alla “lingua d’uso italiana”.

Sul fatto che gli italiani furono tutti cacciati, diverse testimonianze di profughi e documenti delle associazioni attestano che la Jugoslavia rigettò parecchie domande d’opzione per la cittadinanza italiana. Credo che le cose vadano viste nel contesto complessivo: si trattò sicuramente di uno stravolgimento dell’ordine sociale, con episodi anche di discriminazione degli italiani da parte di alcune autorità locali (le autorità federali jugoslave erano decisamente contrarie a tali pratiche e intervennero in varie occasioni), ma fu anche un fenomeno inserito in un contesto economico e sociale in cui l’emigrazione è stata sempre presente, con significativi aumenti dopo l’annessione della regione all’Italia e dopo le distruzioni belliche. Il geografo Gianfranco Battisti ha descritto l’esodo come l’intensificazione di un processo, già in atto precedentemente, di spostamento degli italiani dalle zone del confine orientale verso l’interno dell’Italia, verso il “triangolo industriale”, che infatti fu una delle principali zone d’insediamento dei profughi del dopoguerra.

Inoltre vanno considerate le singole realtà dell’Istria, spesso molto diverse tra loro, e le realtà di singoli gruppi, per esempio i funzionari dello stato italiano immigrati tra le due guerre che “seguirono il posto di lavoro” tornando in Italia.

Sarebbe inoltre necessario indagare l’attività delle organizzazioni filoitaliane e il peso che ebbero nello spingere gli istriani a partire: il Comitato di liberazione nazionale dell’Istria distribuiva denaro alle famiglie dei sostenitori e simpatizzanti dell’Italia e sovvenzionava attività di propaganda. Il fatto che all’inizio degli anni cinquanta, in una situazione di totale indigenza della popolazione, il Cln dell’Istria comunicasse che i sussidi sarebbero cessati e i soldi sarebbero stati utilizzati per il sostegno ai profughi in Italia, fu certamente un fattore che spinse la gente ad andarsene, come anche la propaganda volta a far partire gli istriani. Sicuramente ci fu chi se ne andò “per restare italiano”, ma si trattava di solito del ceto dominante. Si verificarono anche episodi di persone espulse, solitamente oppositori politici o attivisti delle organizzazioni filoitaliane, prese e accompagnate alla frontiera, ma si trattò di casi molto limitati.

NB. Si diceva che l’esodo è avvenuto in un arco temporale molto ampio, ma è corretto parlare di un unico esodo?

SV. È problematico, perché in realtà cominciò nella primavera del 1941, con l’esodo da Zara decretato dalle autorità militari italiane in previsione dell’attacco alla Jugoslavia, esodo che coinvolse alcune migliaia di persone. Se teniamo conto che la data limite “ufficiale” è il 1958 e in realtà le persone ebbero la qualifica di profughi anche più tardi, definirlo un unico esodo è piuttosto azzardato.

NB. Dipendeva anche dall’anno, dalla situazione internazionale?

SV. Sì, sicuramente. Infatti, come già detto, per capire contesti e motivazioni andrebbero approfondite le singole ondate. Ma evidentemente si preferisce ridurre tutto a una “partenza degli italiani per rimanere italiani”. Questa è una spiegazione politica che non spiega nulla, in ciò speculare a quelle date

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da parte jugoslava secondo cui quelli che se ne n’erano andati erano tutti fascisti ovvero “sfruttatori del popolo”.

NB. Qual è il ruolo dei Cln di Pola e Fiume nell’esodo dalle rispettive città? E quale fu l’atteggiamento dell’Italia rispetto a questi trasferimenti da Pola e Fiume, che sono un po’ diversi rispetto agli altri?

SV. Il Cln di Fiume fu il primo a usare apertamente l’invito all’esodo come strumento di lotta politica con il quale convincere gli alleati ad assegnare la città all’Italia. Ma, a parte qualche volantino, ebbe poco peso reale. Il Cln di Pola, invece, era un’organizzazione probabilmente maggioritaria in città, interlocutrice ufficiale del governo italiano e con in mano le leve del potere politico. Di fatto, decretò e organizzò l’esodo, sempre per convincere la conferenza di pace che quelle terre dovevano tornare all’Italia, nella speranza che ciò potesse accadere magari a lungo termine. Il governo italiano mise a disposizione del Cln di Pola denaro, trasporti e posti dove alloggiare gli emigrati, senza però un piano preciso per il loro insediamento definitivo. I profughi furono dunque sventagliati per tutta Italia in situazioni di alloggio e sanitarie pessime, in ex campi di concentramento, caserme, edifici abbandonati, campi profughi, spesso insieme ai profughi dalle ex colonie africane – che erano molto più numerosi – e agli sfollati causati delle distruzioni belliche. Nonostante la retorica sui loro meriti patriottici, molti rimasero in quelle condizioni per decenni. L’ultimo campo profughi fu chiuso alla metà degli anni settanta.

Ad allungare i tempi per la sistemazione definitiva di istriani e dalmati contribuì anche la scelta, collaudata proprio con l’esodo da Pola, di insediarli il più compattamente possibile, in particolare nelle zone del confine orientale, soprattutto a Trieste e nel goriziano, e in zone politicamente inaffidabili per i governi democristiani, come Emilia-Romagna e Toscana, allo scopo di “bonificare” nazionalmente o politicamente quelle zone. L’insediamento compatto in borghi destinati esclusivamente ai profughi istriani corrispondeva anche all’interesse delle organizzazioni degli esuli. Queste, evitando che i profughi – cioè la loro base – si “diluissero” nella società, potevano mantenere il proprio peso e il ruolo politico.

Tuttavia già negli anni cinquanta gli stessi dirigenti delle organizzazioni dei profughi cominciarono a porsi la domanda se fosse stato giusto scegliere la strada dell’emigrazione definitiva. Alcuni, come Guido Miglia, dirigente del Cln di Pola, giunsero a sostenere che l’esodo era stato usato strumentalmente dalle forze politiche italiane più reazionarie in funzione anticomunista e per mantenere tesi i rapporti con la Jugoslavia.

NB. Il nome Comitato di liberazione nazionale di solito è associato alla lotta antifascista. I Cln di Fiume, di Pola e dell’Istria sono coinvolti nella lotta antifascista?

SV. No, nascono dopo la fine della guerra. Durante la guerra, in Istria i Cln praticamente non ci sono.

Quello di Pirano e quello di Isola sono gli unici di cui abbia conoscenza, ma la loro attività fu pressoché insignificante. Tutti gli altri Cln sono nati, come dicevo, dopo la guerra e avevano come obiettivo il mantenimento di quei territori all’interno dello stato italiano. Facevano anche attività clandestina:

raccoglievano informazioni di tipo giornalistico, che venivano passate a Radio Venezia Giulia, e di tipo spionistico, che passavano ai servizi segreti. C’era anche un’attività di tipo “militare” (sabotaggi, eccetera), ed è uno degli aspetti meno studiati di questa vicenda.

Il più importante e duraturo di questi Cln fu quello dell’Istria, che fu organizzato a Trieste con i rappresentanti dei comitati clandestini delle varie località istriane. Una volta riorganizzato su base partitica, il Cln dell’Istria diventò l’interlocutore principale di Roma per quanto riguardava l’appartenenza statale dell’Istria, ma fu anche molto importante nella vita politica triestina. Per esempio, fu proprio il Cln dell’Istria a portare la maggioranza dei partecipanti alla prima manifestazione di massa del fronte favorevole all’Italia a Trieste nella primavera del 1946. Dopo il 1954 si trasformò da organizzazione dei filoitaliani dell’Istria in organizzazione dei profughi a tutto tondo, mantenendo rapporti privilegiati con il governo e aumentando il suo peso nella politica triestina.

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NB. Quali altre organizzazioni si occupavano dei profughi?

SV. Ce n’erano una miriade, organizzate su base di provenienza geografica o di categoria, ma per quanto riguarda l’assistenza, la più importante fu di gran lunga l’Opera profughi, che ho già citato. L’Opera fu un organismo unico, nato su iniziativa dello stato italiano ma diretto da privati, che gestì completamente l’assistenza agli esuli in qualunque aspetto, dall’alloggio nei campi profughi, all’assistenza all’infanzia, alla sistemazione lavorativa. Ebbe un ruolo molto importante anche perché contribuì a costruire una nuova identità “profuga” che sostituì la precedente identità locale, fatta anche di dialetti diversi e di accentuate rivalità campanilistiche.

La costruzione di questa identità “profuga” comune avvenne nei vari enti, istituti e iniziative dell’Opera – dove giocoforza si trovarono insieme esuli di tutte le età e di tutte le località dell’Istria – attraverso l’uso del dialetto quale “lingua ufficiale”, attraverso la costruzione di una memoria storica patriottica comune, attraverso i mezzi d’informazione (negli anni cinquanta la radio Rai nazionale trasmetteva uno specifico programma per i profughi), attraverso i raduni e le celebrazioni delle organizzazioni degli esuli.

NB. Qual è l’identikit del profugo istriano?

SV. In realtà non c’è un identikit del profugo istriano, perché se ne andarono persone di tutti i tipi, provenienti da luoghi diversi, di condizioni sociali diverse, per ragioni diverse. Nell’Archivio centrale dello stato ci sono elenchi molto dettagliati dei profughi, divisi per categorie professionali o addirittura di mestiere, in cui si trova di tutto.

NB. Ma dunque esiste una statistica sui profughi?

SV. Esistono le statistiche basate sul censimento dell’Opera profughi, che sono del tutto inaffidabili.

Tuttavia, potendo accedere ai moduli del censimento, che sono molto dettagliati, sarebbe sicuramente possibile fare delle statistiche. Ma l’archivio, con il pretesto che contiene dati personali, è consultabile solo da pochi eletti e, purtroppo, chi ha avuto modo di accedere a quei dati non ha mai prodotto nulla di interessante o di scientificamente significativo.

NB. L’orientamento politico dei profughi era determinante?

SV. Direi discriminante per poter accedere ai sostegni e agli aiuti dello stato. Per avere la qualifica di profugo, che dava diritto all’assistenza (aiuti economici, accesso al campo profughi, assistenza all’infanzia, ai giovani e agli anziani, impiego, assegnazione degli alloggi), si doveva passare per apposite commissioni al livello provinciale, di cui facevano parte, con ruolo decisivo, le organizzazioni dei profughi. Chi era considerato “non abbastanza italiano” non otteneva la qualifica. Va anche detto che non tutti i profughi erano ritenuti ugualmente meritevoli o affidabili per le iniziative di “rafforzamento dell’italianità” e di bonifica politica di zone ritenute “calde”. Spesso ai profughi le commissioni chiedevano anche di fornire informazioni su conoscenti e altro, e non tutti erano disponibili a farlo. I

“cominformisti” istriani, cioè i comunisti che nel 1948 si schierarono con Stalin contro Tito e poi si rifugiarono in Italia, spesso nemmeno si rivolsero alle commissioni. E in queste ultime ci fu chi propose di non dare loro nessun tipo di assistenza. Alla fine, ai cominformisti fu concesso unicamente l’alloggiamento nei campi.

Ci furono inoltre notevoli differenze nel livello di assistenza, anche a seconda delle varie “ondate” di profughi. Ciò generò proteste e recriminazioni anche pesanti da parte di chi era partito già nel 1945 e considerava i profughi recenti “meno fedeli all’Italia” rispetto a chi se n’era andato subito. Una categoria particolare fu poi quella dei cosiddetti “muggesani”, quelli che abbandonarono alcune frazioni del comune di Muggia comprese nella zona A del Territorio libero di Trieste, cedute alla Jugoslavia nel 1954.

Erano in gran parte operai dei cantieri navali di Muggia (che rimase in Italia) di orientamento comunista.

Proprio per questo della loro sistemazione non si occuparono gli organismi di governo o l’Opera profughi, bensì l’amministrazione comunista del comune di Muggia. Fu l’unico caso in cui fu rotto il monopolio dei partiti di governo, della Dc in primis, nella gestione dell’assistenza ai profughi a Trieste.

Un monopolio che fu segnato anche da pesanti scandali finanziari e da appropriazioni indebite.

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NB. Al termine del secondo conflitto mondiale in Europa abbiamo diversi esempi di spostamenti forzati di popolazione, che a loro volta rientrano nel quadro degli scambi di popolazione che hanno interessato il continente per tutto il novecento. Quali sono le differenze e quali le similitudini con l’esodo dell’Adriatico orientale? Per esempio rispetto ai tedeschi della Polonia o dei Sudeti?

SV. La differenza sostanziale è che non c’è uno scambio di popolazioni, anche se l’Italia l’aveva proposto durante le trattative di pace, né un esodo forzato. Nulla di paragonabile con gli scambi di popolazione tra Polonia e Ucraina o con l’espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale, fenomeni accompagnati da massacri, campi di concentramento e scontri armati. Le stesse organizzazioni dei profughi hanno focalizzato le similitudini piuttosto sulla gestione della sistemazione dei profughi. In particolare, ho trovato richiami alla vicenda dei finlandesi emigrati dai territori annessi all’Urss dopo il 1945, in parte a quella dei tedeschi espulsi dai paesi dell’est, ma soprattutto a quella dei profughi greci dopo il 1923, quando i cristiani ortodossi dell’Anatolia dovettero emigrare in Grecia mentre i musulmani di Grecia dovettero trasferirsi in Turchia. In Grecia l’insediamento dei profughi ebbe un impatto molto maggiore che in Italia, dato che i profughi erano più di un milione su una popolazione totale di circa 4,5 milioni di abitanti. Il loro insediamento fu mirato, gestito da organizzazioni ad hoc ed ebbe anche precise finalità politiche, in questo caso opposte a quelle perseguite in Italia: i profughi greci erano infatti generalmente schierati su posizioni liberali e di sinistra e furono utilizzati per rafforzare il partito liberale di Venizelos.

NB. L’antropologa Pamela Ballinger paragona gli esuli istriani a quelli cubani, per l’ideologia, per l’uso politico dei profughi a Miami…

SV. Credo il paragone possa essere plausibile, anche se personalmente li vedo più simili ai pieds noirs, i coloni francesi emigrati dopo l’indipendenza algerina. I dirigenti e le organizzazioni degli ex coloni francesi usarono spesso argomentazioni razziste nei confronti degli algerini, sottolineando la “missione civilizzatrice” dei francesi nei confronti dei barbari indigeni, argomentazioni simili a quelle usate dalle organizzazioni degli esuli nei confronti degli “slavi”. Chiaramente questo paragone calza relativamente all’atteggiamento delle organizzazioni e delle loro dirigenze, non a quello della massa profuga.

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