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Il Tradimento degli Anarchici

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Academic year: 2022

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Il Tradimento degli Anarchici

La verità sulla strage di piazza Fontana, a Milano, del 12 dicembre 1969 è un mosaico che si cerca faticosamente di ricostruire da ben cinquantuno anni, aggiungendo tassello dopo tassello.

Oggi, grazie all'inchiesta condotta dal giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, possiamo dire che il mosaico è stato in gran parte completato, con l'inserimento in esso di tasselli fondamentali che chiariscono il ruolo avuto dai militanti di Ordine Nuovo in Veneto.

Anche se la prudentissima magistratura giudicante non ha sancito sul piano giudiziario tutta la verità che riguarda le responsabilità degli ordinovisti imputati nel processo, la condanna per concorso in strage di Carlo Digilio, figlio del partigiano Michelangelo Digilio, e il tardivo riconoscimento della partecipazione al sanguinoso evento di Franco Freda e Giovanni Ventura rimangono punti fermi sui quali si appoggia la verità storica, che ha trovato ulteriori conferme per merito di accertamenti eseguiti anche dopo l'esito del processo per la strage.

Per comprendere per quali ragioni il giudice istruttore milanese, Guido Salvini, non ha potuto, suo malgrado, pervenire ad una verità completa, è sufficiente leggere quanto ha scritto nel suo libro, La maledizione di piazza Fontana, edito da Chiarelettere e pubblicato un anno fa.

Si scoprirà in questo modo che, ad opporsi all'accertamento della verità sulla strage di piazza Fontana, non ci sono solo i “poteri forti“ e quelli “occulti“, ma anche una magistratura di parte (la procura della Repubblica di Milano) e di partito (vedi Felice Casson) sostenuta da tutta la sinistra italiana, dal compagno ed ex camerata Massimo Brutti del Partito Democratico ad Oliviero Diliberto di Rifondazione Comunista.

Un'opposizione sordida, condotta con spregiudicatezza e totale mancanza di scrupoli, motivata dalla paura della sinistra italiana che dall'inchiesta del giudice Guido Salvini emergessero, come difatti è accaduto, le responsabilità dei servizi segreti americani, civili e

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militari, che erano i veri gestori della rete ordinovista in Veneto, in concorso con quelli israeliani e francesi.

Una verità temutissima dalla sinistra italiana, che dal dicembre del 1969 propaganda la menzogna sulla strage “fascista” compiuta da una “cellula nera” in odio alla democrazia e al servizio di “padroni” rimasti ignoti.

In realtà, la strage di piazza Fontana s'inquadra in un'operazione di respiro internazionale, che avrebbe dovuto, attraverso la destabilizzazione dell'ordine pubblico, stabilizzare il regime – modificando la democrazia parlamentare in democrazia autoritaria, capace di mettere, se necessario, fuori legge anche il Partito Comunista Italiano.

Una verità che la sinistra italiana vorrebbe occultare in eterno, temendo che la sua affermazione possa irritare gli alleati-padroni americani, israeliani e Nato.

Se l'azione condotta da Felice Casson e colleghi milanesi ha provocato danni irreversibili alla verità giudiziaria, ma non a quella storica, sulla strage di piazza Fontana, ha certamente impedito anche l'approfondimento, necessario per completare il mosaico, sul ruolo avuto dalla Unione democratica per la nuova Repubblica di Randolfo Pacciardi, dal Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese, di cui Avanguardia Nazionale costituiva la forza d'urto, dal Movimento Sociale Italiano di Giorgio Almirante e dal gruppo anarchico del “Ponte della Ghisolfa” di Milano, per tacere degli attori istituzionali, primo fra tutti la divisione Affari Riservati del ministero degli Interni, diretta, all'epoca, da Elvio Catenacci e, come suo vice, da Umberto Federico D'Amato.

Contro la verità, però, non ci sono state solo la politica, i servizi segreti, una certa magistratura ma anche gli anarchici italiani, quelli che fra di loro sapevano ed hanno scelto di tacere, anzi di mentire, avallando ogni depistaggio pur di presentarsi come vittime innocenti di un'operazione poliziesca intesa a fare di loro i capri espiatori di una strage alla quale erano estranei.

Abbiamo sempre sostenuto - e continueremo a farlo sempre - l'estraneità degli anarchici nella strage di piazza Fontana, senza attendere le verità giudiziarie.

Ma l'eccidio di piazza Fontana e gli attentati a Roma del 12 dicembre 1969 sono solo il penultimo atto (l'ultimo è la manifestazione nazionale organizzata dal Msi a Roma, il 14 dicembre 1969) di un'operazione diretta dalla divisione Affari riservati del ministero degli Interni ed iniziata nell'estate del 1968.

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La decisione di creare una sinistra “rivoluzionaria” alla sinistra del Partito Comunista Italiano risale ai primi anni Sessanta: ed il primo atto operativo di questa strategia risale all'affissione dei manifesti cosiddetti “cinesi” nei primi giorni del 1966, ad opera di militanti di Avanguardia Nazionale arruolati per l'occasione da Mario Tedeschi, direttore de Il Borghese, per conto di Umberto Federico D'Amato.

Da quel momento in avanti, militanti di estrema destra alle dipendenze degli apparati di Stato nazionali ed internazionali procedono ad infiltrarsi nei gruppi “cinesi”, “maoisti”,

“marxisti-leninisti”, uno dei quali, a detta di Stefano Delle Chiaie, fondato direttamente dalla Cia a Livorno.

Questa frenetica opera di infiltrazione e strumentalizzazione portata avanti dei militanti di estrema destra non poteva trascurare gli anarchici, che costituivano un obiettivo privilegiato del controspionaggio italiano.

Perché gli anarchici avevano una caratteristica che li distingueva nettamente da tutti gli altri gruppi definibili genericamente di sinistra: infatti erano anticomunisti, decisamente anticomunisti.

Il loro anticomunismo rendeva gli anarchici permeabili alle infiltrazioni, ed anche disponibili ad alleanze operative contingenti fra loro e militanti di estrema destra, che della lotta al comunismo erano gli alfieri.

Erano gli anni in cui la destra, non solo estrema, paventava la nascita in Italia di una Repubblica “conciliare”, cioè clerico-marxista, con una maggioranza governativa composta da democristiani, socialisti, comunisti e benedetta da Mosca e dal Vaticano.

Fantapolitica, certo, ma quanti in quegli anni ci hanno creduto? Tanti, sia a destra che fra gli anarchici, che temevano l'alleanza fra i loro nemici storici: la Chiesa e il comunismo.

Nel Parlamento italiano, nel corso di 75 anni, si sono seduti non solo ladroni, mafiosi, corrotti e corruttori ma anche massacratori: uno di questi rispondeva al nome di Luigi Longo, che ricopriva l'incarico di segretario nazionale del Pci per essere subentrato ad un altro stragista del calibro di Palmiro Togliatti.

Luigi Longo è uno dei protagonisti dei massacri della primavera del 1945 in Nord Italia.

Migliaia di italiani, uomini, donne, ragazzi, uccisi perché fascisti o presunti tali, per la cui uccisione i responsabili, fra i quali appunto Luigi Longo, non sono mai stati accusati e condannati.

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Ma Longo le sue doti di massacratore le aveva messe in evidenza già prima, esattamente in terra di Spagna dove, sul finire della guerra civile, aveva preso parte all'eccidio degli anarchici, che pure avevano combattuto con i comunisti contro le truppe nazionaliste del generale Francisco Franco y Bahamonde.

Per i comunisti, gli anarchici in Spagna erano stati nemici da uccidere; per gli anarchici italiani negli anni Sessanta i comunisti erano nemici da combattere, se necessario anche accettando alleanza contingenti con i “fascisti”.

Nulla di strano né di sorprendente, perché il nemico del mio nemico può essere mio amico, almeno in certi momenti. Del resto, in quegli anni, i servizi segreti occidentali collaboravano con quelli cinesi in funzione antisovietica.

Perché stupirsi se alcuni anarchici hanno accettato l'aiuto dei “fascisti”?

Antonio Sottosanti, da tutti conosciuto come “Nino il fascista”, aveva testimoniato a favore dell'anarchico Tito Pulsinelli, conosceva Giuseppe Pinelli e ne frequentava la casa.

L'anticomunismo anarchico negli anni Sessanta è una realtà storicamente provata e documentata dal congresso internazionale svoltosi a Carrara dal 31 agosto al 3 settembre 1968.

Nelle conclusioni finali, il congresso anarchico individua come nemici da combattere il militarismo, la Chiesa e il comunismo. Non a caso ai lavori congressuali hanno partecipato le delegazioni in esilio degli anarchici bulgari e cubani.

Con esplicito riferimento al massacro degli anarchici compiuto dai comunisti in Spagna, Alfonso Failla, in una dichiarazione pubblicata dalla rivista Panorama, il 12 settembre 1968, afferma:

«Siamo stufi di morire per rivoluzioni che danno il potere a chi poi ci stermina».

Non si può scrivere la storia completa dell'operazione che porta alla strage di piazza Fontana ed al coinvolgimento degli anarchici, se si cancella, come si è fatto fino ad oggi, il dato fondamentale dell'anticomunismo anarchico, che ha rappresentato il terreno sul quale è maturato l'incontro, non solo dialettico, fra anarchici e militanti di estrema destra.

Il tradimento anarchico inizia il 16 dicembre 1969, quando, a poche ore dalla morte di Giuseppe Pinellli, è diffuso un comunicato, firmato “Anarchici di Milano”, nel quale il redattore, Chicco Gerli, scrive:

«Il compagno Pinelli, comunista anarchico, è morto...».

Un'affermazione grottesca, ridicola, perché non si può essere comunisti ed anarchici, che denuncia la conoscenza della verità su quello che è accaduto a Milano il pomeriggio del

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12 dicembre 1969 da parte di Chicco Gerli, che si assume, di fronte alla storia, la responsabilità di dare inizio alla cancellazione della verità sui rapporti intercorsi fra gli anarchici ed i militanti di estrema destra, segnalando contestualmente ai “compagni” la linea da seguire.

Omertà e menzogne che trasformeranno gli anarchici italiani nei migliori alleati dei loro nemici, nei complici dei servizi di sicurezza che hanno predisposto il loro coinvolgimento nella strategia della destabilizzazione, nella quale la “violenza anarcoide” doveva collocarsi al primo posto.

Dalla menzogna oscena su Giuseppe Pinelli, “comunista anarchico”, a quella su Pietro Valpreda, “anarchico innocente”, il passo è breve e conseguente.

Chi era Pietro Valpreds?

Nell'opera di santificazione di Pietro Valpreda condotta da tutta la sinistra italiana, è stato omesso il dato più rilevante per la comprensione del personaggio: era un delinquente.

Pietro Valpreda era stato condannato per rapina il 13 giugno 1956. Aveva scontato la pena ed era uscito come un emarginato senza arte né parte, impegnato a procurarsi pane e companatico con una vita di espedienti.

Un piccolo delinquente senza valori, principi e ideali, Pietro Valpreda, che compare sul palcoscenico della politica proprio al congresso anarchico di Carrara, svoltosi dal 31 agosto al 3 settembre 1968.

Non vi giunge con gli anarchici ma con i “camerati” di Avanguardia Nazionale romani:

Pietro “Gregorio” Manlorico, Luciano Paulon, Augusto De Amicis, Aldo Pennisi, Alfredo Sestili, Mario Merlino.

A questo proposito è doveroso rilevare cbe nessuno si è mai chiesto - e tantomeno l'interessato lo ha mai spiegato - dove cotanto idealista anarchico avesse conosciuto i

“camerati” di Avanguardia Nazionale sopra citati.

In qualche circolo anarchico è da escludere. E, allora, dove?

Un altro “buco” nella biografia di Pietro Valpreda, che si accompagna a quello del silenzio che il presunto anarchico ha sempre mantenuto sui “compagni” che lo hanno scortato al congresso di Carrara.

Mai Pietro Valpreda ha commentato, per condannarlo e spiegarlo, l’“inganno” nel quale sarebbe caduto in quell’occasione, nella quale avrebbe scambiato per anarchici militanti

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di Avanguardia Nazionale noti negli ambienti politici e polizieschi in quanto attivisti, non quadri coperti.

Non dovrà attendere anni e decenni, Pietro Valpreda, per conoscere la vera collocazione politica dei suoi accompagnatori a Carrara, perché nel gennaio del 1970 sarà uno di loro, Alfredo Sestili, a rivelare in sede giudiziaria la verità sulla partecipazione degli

“avanguardisti” al congresso di Carrara e, di conseguenza, sull'opera di infiltrazione dell'estrema destra nel mondo anarchico.

Se a Carrara, l’“anarchico” Pietro Valpreda era stato - dice lui - cieco, ora, dinanzi alle sconvolgenti dichiarazioni di Alfredo Sestili, diventa muto.

Muto sull'infiltrazione degli “avanguardisti” fra gli anarchici, perché Pietro Valpreda, in realtà, parla, e pure tanto, affiancandosi a Mario Merlino nell'accusare gli anarchici.

Sua, difatti, è la brillante idea di inventare un sosia che, per straordinaria coincidenza, non è democristiano, né fascista, né socialdemocratico o monarchico o socialista – è anarchico.

Un idealista anarchico non collabora con gli “sbirri”; non così Pietro Valpreda che, il 9 gennaio 1970, dichiara testualmente:

«Desidero precisare che nel mese di marzo-aprile del 1969, mentre mi trovavo al bar Gabriele sito in corso Garibaldi, (...) sentii un certo Gino, che dovrebbe essere un emiliano, parlare rivolgendosi ai presenti - era in compagnia di due uomini e mi sembra di una ragazza - della certezza di potersi rifornire di esplosivo e di altro materiale necessario pertinente...».

Pietro Valpreda è un delatore scrupoloso e, per questa ragione, il 13 gennaio affonda il coltello, dichiarando:

«Potrebbe darsi che lavorasse anche nelle Ferrovie. Mi impressionò il tono deciso delle affermazioni; parlava in italiano corretto, in modo cattedratico, aveva la carnagione del viso scura e all'epoca aveva un piccolo pizzetto al mento. Ciò affermo in quanto il predetto Gino mi rassomiglia somaticamente; forse più alto di me di pochi centimetri, forse con i capelli più scuri, almeno così mi sembra. Potrebbe fornire indicazioni sul Gino tale Giovanni, altro emiliano. Giovanni conosceva da tempo Gino; mentre io ho conosciuto quest'ultimo in occasione di un'assembIea tenuta nella Casa dello studente... Gino potrebbe essere meglio conosciuto da Leonardo Claps».

Negli intendimenti di Pietro Valpreda, la polizia avrebbe dovuto fare una retata di anarchici, ma gli va male e, con suo grande disappunto, riesce a mandarne in galera solo uno:

Tommaso Gino Liverani.

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Lo stesso 13 gennaio 1970, difatti, Liverani prevede l'intervento della polizia e si presenta in Questura a Milano, rifiutando di fare qualsivoglia dichiarazione per non assecondare «una manovra politica per screditare e calunniare il movimento anarchico», venendo quindi arrestato per reticenza.

La “manovra politica” contro gli anarchici si alimenta, però, con le contestuali dichiarazioni accusatorie di Mario Merlino e di Pietro Valpreda, il quale ultimo ha iniziato da subito a collaborare con “la giustizia”.

Il 16 dicembre 1969, infatti, Pietro Valpreda guida la polizia alla ricerca del deposito di esplosivi, senza però individuarne il luogo, di cui gli aveva parlato Mario Merlino. Dichiara pertanto:

«Ricordo che Ivo Della Savia, prima di partire da Roma l'ultima volta, passando per la via Tiburtina, all'altezza della Siderurgica romana e della ditta Decama, a circa 200-300 metri dal Silver Cine, mi indicò un tratto di boscaglia dicendo: “non molto lontano dalla strada, ai piedi di una pianta non molto alta, tengo della roba conservata”. Non mi precisò - conclude Valpreda - di che cosa si trattasse. Comunque con la parola roba noi intendiamo fare riferimento a esplosivi, detonatori e micce».

E per l'anarchico Ivo Della Savia scatterà un mandato di cattura per detenzione di esplosivi firmato da Pietro Valpreda, che però è coerente con il compito, affidatogli nell'estate del 1968, di screditare e calunniare il movimento anarchico.

Il 21 marzo 1969, sul bollettino Terra e Libertà, edito a Milano dal gruppo “Gli Iconoclasti”, fondato da lui stesso, Pietro Valpreda scrive:

«Che gli anarchici facciano scoppiare le loro bombe in zone isolate è falso. Abbiamo visto dove sono scoppiate e possiamo dire che non sempre, anzi quasi mai scoppiano in zone isolate... Centinaia di giovani sono pronti ad organizzarsi per riprendere il posto di nemici dello Stato e gridare né Dio né padrone, con la dinamite di Ravachol, col pugnale di Caserio, con la pistola di Bresci, col mitra di Bonnet, le bombe di Filippi e di Henry. Tremate borghesi!

Ravachol è risorto!…».

Può bastare per presentare gli anarchici come individui sanguinari, pronti a uccidere e a massacrare i borghesi?

No, perchè Pietro Valpreda prosegue elencando ben dieci attentati compiuti, a suo dire, dagli anarchici e promette:

«Altri attentati seguiranno a questi qui elencati. La polizia brancola nel buio. I borghesi tremano e cercano di svignarsela con il capitale. Gli pseudocomunisti pigliano posizione

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contro questi atti di terrorismo anarcoide. La coscienza popolare comincia a risvegliarsi e... i botti aumentano ancora».

Per procedere all'arresto e all'incriminazione di Pietro Valpreda sarebbe bastato molto meno, ma i confidenti, i provocatori, gli infiltrati non si arrestano e nemmeno si picchiano.

Nel suo ultimo libro, Prima di piazza Fontana, Laterza, Roma-Bari 2019, Paolo Morando descrive bene il trattamento riservato agli anarchici dagli uomini dell'ufficio politico della questura di Milano, agli ordini del commissario Luigi Calabresi: botte, schiaffi, digiuni, vessazione fisiche e psicologiche, verbali dettati e fatti firmare a forza per accusarli di aver compiuto gli attentati del 25 aprile 1969 alla stazione ferroviaria di Milano ed alla Fiera campionaria.

Anche Pietro Valpreda è ufficialmente anarchico, anche lui viene convocato e interrogato in Questura per ben due giorni dal commissario di Ps Luigi Calabresi e dai suoi uomini, ma non c'è traccia di pestaggi o di altri atti vessatori.

Dopo due giorni, dal 26 al 28 aprile 1969, Valpreda firma un verbale nel quale è scritta una sola frase:

«Ho appreso degli attentati alle chiese e ai luoghi pubblici solo dalla lettura dei giornali borghesi».

Per due giorni, due lunghi giorni, Pietro Valpreda, interrogato su tutto, compresi - riteniamo - i dieci attentati che lui aveva elencato il 21 marzo 1969 sul bollettino Terra e Libertà attribuendoli agli anarchici, se la cava così, con una frase che solo a provare a dirla avrebbe procurato all'anarchico vero di turno una raffica di schiaffoni.

A Pietro Valpreda non succede all’“anarchico” presentato ancora oggi come il perseguitato principale dalla polizia italiana, è consentito verbalizzare una dichiarazione che dovrebbe essere la sola da lui fatta nel corso di un interrogatorio, durato due giorni, circondato da agenti di polizia dalle mani veloci e pesanti.

Nessuno potrebbe crederci, nemmeno Pietro Valpreda, che il giorno successivo, 29 aprile, abbandona Milano e si trasferisce prudentemente a Roma.

I sospetti sulla figura di Pietro Valpreda negli ambienti anarchici milanesi e romani precedono il suo coinvolgimento nella strage di piazza Fontana che, per quanto grottesco possa apparire, sarà utilizzato per farli dimenticare, nonostante proprio da questo emerga il rapporto che intrattiene con Mario Merlino, militanti di Avanguardia Nazionale, infiltrato fra gli anarchici.

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Il 29 novembre 1969, a Roma, il responsabile del circolo anarchico “Bakunin”, Veraldo Rossi, accusa Pietro Valpreda di essere un confidente della polizia e un provocatore, obbligandolo ad abbandonare la sede del circolo, insieme a Roberto Gargamelli, Enrico Di Cola e Leonardo Claps, diffidati dal ripresentarsi. Da quel giorno sarà permesso al solo Roberto Mander di frequentare la sede del circolo.

Veraldo Rossi è in ottimi rapporti con Giuseppe Pinelli, responsabile del circolo anarchico “Il Ponte della Ghisolfa” a Milano. E proprio a lui e a Pio Turroni, ex combattente nella guerra di Spagna, Giuseppe Pinelli il 1° dicembre 1969 scrive per riportare l’accusa, rivolta da Paolo Braschi a Pietro Valpreda, di aver rivelato al giudice Amati, che glieli ha contestati, due attentati compiuti rispettivamente uno a Genova e l'altro a Livorno, nonché di aver rubato l'esplosivo «attribuendo allo stesso Braschi l'origine della sue informazioni».

Un'accusa gravissima, alla quale Giuseppe Pinelli crede, tanto da concludere:

«La prossima settimana vado a Roma per parlare con Pietro Valpreda, per vedere cosa intende fare il giorno del processo».

Giuseppe Pinelli, giustamente, si pone il problema di indurre Pietro Valpreda a ritrattare le accuse contro Paolo Braschi.

Se Veraldo Rossi disprezzava Pietro Valpreda, Giuseppe Pinelli certo non lo stimava e tanto dichiara, in un verbale reso alla polizia il 15 dicembre:

«La sera del 7 ottobre scorso... dissi a Valpreda che non lo stimo, in quanto nella zona di Brera avevo raccolto delle voci abbastanza strane che lo davano come autore di vari attentati in quanto lui stesso si era vantato della cosa. Il Valpreda negò di essersi vantato e disse di essere venuto a Milano anche per sfatare queste dicerie. Un altro incontro con Valpreda l'ho avuto al convegno svoltosi a Empoli il 2 novembre scorso. Dopo il convegno anarchico i partecipanti, una cinquantina, andammo a mangiare insieme in una trattoria... durante il pranzo Valpreda mi rivolse il saluto a cui io non risposi, giustificando questo mio rifiuto col fatto che non tenevo alla sua amicizia. Indispettito mi lanciò una saliera che non mi colpì».

Rifiutare il saluto non è prova di sola disistima ma di autentico disprezzo da parte di Giuseppe Pinelli nei confronti di Pietro Valpreda.

Lo confermano le dichiarazioni rese dalla vedova, Licia Pinelli, rese l'8 gennaio 1970, quando afferma che suo marito aveva cacciato Valpreda dal circolo “Il Ponte della Ghisolfa”:

«Non ne conosco i motivi - dice -. Posso però ricostruirli per una circostanza narratami da mio marito. Egli, infatti, dopo gli attentati del 25 aprile 1969, ebbe un colloquio con il dirigente dell'ufficio politico della questura, dottor Allegra, che gli disse che non avrebbe

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preso provvedimenti nei suoi confronti perché sapeva che aveva escluso Valpreda dal circolo, e gliene indicò anche le precise circostanze. Ritengo - conclude Licia Pinelli - che il Valpreda non fosse più un elemento che potesse riscuotere la fiducia del movimento anarchico».

Dichiarazioni pesantissime, che fanno intravedere anche il disprezzo personale del commissario capo di Ps, Antonino Allegra, nei confronti di Pietro Valpreda, espresso, non a caso, a Giuseppe Pinelli dopo la permanenza del soggetto in questura per due giorni durante i quali ufficialmente non ha detto nulla. Ufficialmente: beninteso, Pietro Valpreda è anarchico perché lo dice lui, come del resto faceva Dario Merlino, salvo poi riconoscere di essere stato un “infiltrato“ fra gli anarchici.

A Valpreda non credevano e lo disprezzavano i soli due elementi di primo piano dell'anarchia italiana del periodo con i quali era entrato in contatto: Veraldo Rossi e Giuseppe Pinelli.

Per il resto attorno a lui c'erano quattro ragazzi che definire sprovveduti è legittimo e generoso. Loro lo credevano anarchico, non Rossi né Pinelli.

La conferma della mancanza di ogni ideale, in particolare di quello anarchico, Pietro Valpreda la offre nel mese di marzo del 1972 quando si candida nelle liste de Il Manifesto per le elezioni politiche del 7 maggio di quell'anno.

Non si era mai visto un anarchico partecipare ad una competizione elettorale per farsi eleggere deputato, nelle liste di un partito, per di più, che propagandava quel comunismo che gli anarchici temevano e combattevano.

Immediata la reazione di numerosi gruppi anarchici, che fanno sapere alla stampa che non lo voteranno. Loro sono anarchici, Valpreda no.

Pietro Valpreda è solo un delinquente ed ha un solo obiettivo: uscire dal carcere, non importa come.

Chi incastra Pietro Valpreda?

La domanda potrà sembrare retorica, perché si ritiene che sia stato il tassista comunista Cornelio Rolandi a farlo, indicandolo come l'uomo che aveva trasportato a piazza Fontana il pomeriggio del 12 dicembre 1969.

In realtà, Pietro Valpreda è fuori dai giochi, perché la polizia non lo cerca a Roma e nemmeno a Milano.

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È solo nel pomeriggio del 14 dicembre 1969, che il capo dell'ufficio politico della questura di Roma, Bonaventura Provenza, chiede al suo omologo di Milano, Antonino Allegra, di arrestare Pietro Valpreda.

In base a quali elementi e su suggerimento di chi Bonaventura Provenza punta decisamente su Pietro Valpreda non si è mai saputo.

Il 9 gennaio 1970, in un articolo intitolato “Fu Di Cola a orientare le indagini della polizia?”, Paese Sera scrive che sarebbe stato Enrico Di Cola, fermato e rilasciato dopo ventiquattro ore, ad indirizzare la polizia, con dichiarazioni non verbalizzate, sulla pista di Pietro Valpreda.

La notizia, ovviamente, non ha mai trovato conferma: ma è giusto riportarla per dovere di cronaca perché prova che qualcuno si è chiesto allora perché l'ufficio politico della questura di Roma, dopo averlo ignorato per due giorni, punti dritto su Pietro Valpreda per la strage di piazza Fontana a Milano, non per gli attentati compiuti a Roma – perché la polizia sa che Valpreda il 12 dicembre non era nella capitale ma a Milano.

Una pista, quella seguita dal capo dell'ufficio politico della questura di Roma, che trova conferma ventiquattro ore dopo, il 15 dicembre, nelle dichiarazioni di Cornelio Rolandi.

Incredibile! Mai la polizia aveva risolto un caso di tale eccezionale rilevanza nel giro di un giorno, individuando l'esecutore materiale di una strage.

È lecito a questo punto ritenere che la scelta di Pietro Valpreda come correo nella strage di piazza Fontana sia stata fatta a Roma e solo dopo sia stata confermata a Milano dalla testimonianza di Cornelio Rolandi, al quale però viene mostrata una foto di Pietro Valpreda.

Un “aiuto” che avvalora l'ipotesi che il questore di Milano sapesse già su chi puntare come responsabile della strage di piazza Fontana.

È normale che Cornelio Rolandi si sia convinto di aver visto proprio Valpreda sul suo taxi, sollecitato in questo suo convincimento dalla possibilità concreta di incassare i cinquanta milioni stanziati per la taglia.

Perché Pietro Valpreda?

Perché - è la prima risposta - l'incriminazione di Pietro Valpreda sposta l'attenzione su un gruppetto “anarchico” di Roma, che si palesa come responsabile degli attentati avvenuti nella capitale lo stesso 12 dicembre, cancellando ogni altra pista alternativa.

La protezione accordata dalla divisione Affari Riservati e dalla polizia gli ordinovisti è lampante, sfacciata, tanto da tenere nascosto per tre anni, quando la notizia sarà rivelata da L'Espresso, il fatto che le borse utilizzate negli attentati erano state vendute a Padova.

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La pista cosiddetta “nera” non sarebbe mai stata percorsa se non ci fosse stata la testimonianza di Guido Lorenzon, perché la “brillante opeazione di polizia” e la testimonianza di Cornelio Rolandi avevano circoscritto la ricerca dei colpevoli al gruppo

“anarchico” romano, di cui erano promotori e protagonisti Pietro Valpreda e Mario Merlino.

Non aveva denunciato, nel corso di un discorso alla Camera dei deputati, il ministro degli Interni, Franco Restivo, la “violenza anarcoide” che dilagava nel Paese?

Non si poteva smentire il ministro e vanificare l'opera di infiltrazione nel mondo anarchico, diretta dalla divisione Affari Riservati: e, per loro sfortuna, Valpreda, Merlino e i quattro “scappati di casa” del circolo “22 marzo” erano i soli “anarchici” credibilmente disponibili e spendibili sulla piazza.

Del resto, i burattinai sanno bene che fra l'accusa e l'eventuale condanna, specie in questo Paese, passano anni, durante i quali si possono far scomparire prove, crearne di false, compiere omissioni e intimidire testimoni: con il risultato che, alla fine, giungerà l'attesa ed auspicata assoluzione, poco importa se per insufficienza di prove.

Con buona pace per gli stragisti del 2 agosto 1980, a Bologna, e per i loro estimatori, accusare i propri burattini per depistare le indagini è un metodo che gli apparati di sicurezza e di polizia hanno applicato in più di un'occasione, come appunto quella relativa agli attentati del 12 dicembre 1969.

Già il 23 febbraio 1979, i giudici della Corte di assise di Catanzaro aveva scritto che «le prime mosse della polizia indicano eloquentemente che il fermo del Merlino ebbe, in realtà, la sostanza della sollecita convocazione di un informatore».

Affermazione questa che non ha scalfito la fiducia di Pietro Valpreda in Mario Merlino.

Il 22 aprile 1997, il maresciallo Giuseppe Mango, memoria storica della divisione Affari Riservati, riferisce al giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni:

«Nell'ufficio Affari Riservati era noto che Merlino era o era stato fonte dell'ufficio politico di Roma. Tanto ho appreso da D'Amato ed altri nel periodo successivo all’attentato, e nel corso dei processi questa circostanza non è mai emersa».

Accusa, questa, che non fa venire meno l'amicizia di Pietro Valpreda nei confronti di Mario Merlino.

L'11 novembre 1997, il questore Milioni, già in forza alla divisione Affari Riservati, riferisce al giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni, che, qualche giorno dopo la strgge di piazza Fontana, sul conto di Mario Merlino apprese dai suoi colleghi che «il sedicente anarchico era proveniente dalla destra, era stato infiltrato dal dr. Improta e comunque credo

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con l'assenso del capo dell'Ufficio politico di Roma, retto all'epoca da Provenza, nel circolo

“22 marzo”, allo scopo di esperire attentati attribuibili agli anarchici e alla sinistra».

Rivelazione che, per evidenti ed ovvie ragioni, lascia del tutto indifferente Pietro Valpreda che di questa realtà era a conoscenza fin dall'estate del 1968.

Secondo quanto afferma il questore Milioni, quindi, l'operazione di infiltrazione nell'ambiente anarchico è gestita direttamente dall'ufficio politico della Questura di Roma, nelle persone del capo dell'ufficio, Bonaventura Provenza, e del commissario Umberto Improta, con l'obiettivo di «far esperire attentati attribuibili agli anarchici e alla sinistra».

Detto e fatto.

In concomitanza con la partecipazione dei “camerati” di Avanguardia Nazionale al congresso anarchico di Carrara del 31 agosto 1968, qualcuno fa ritrovare all'interno della

“Rinascente” di Milano un ordigno inesploso e, contestualmente, fa pervenire alla questura del capoluogo lombardo la rivendicazione di un gruppo anarchico scritta con lo stile inconfondibile, come riconosce onestamente Paolo Morando, di Pietro Valpreda.

Un modo astuto per indurre la polizia a riconoscere di matrice anarchica tutti gli attentati che saranno compiuti con identici o similari ordigni.

L'accusa di concorso nella strage di piazza Fontana e negli attentati del 12 dicembre 1969 parte, pertanto, dai dirigenti dell'ufficio politico della Questura di Roma a carico dei confidenti e dei provocatori che hanno gestito in prima persona.

Non serve qui ricordare che proprio Improta sapeva che Mario Merlino non aveva un alibi per il pomeriggio del 12 dicembre 1969, che quanto da lui affermato (di essere andato a casa di Leda Minetti alle ore 17.00 di quel pomeriggio) era falso, perché lo testimoniavano i suoi agenti che sorvegliavano l'abitazione, e lo ha di fatto avallato facendolo verificare dai carabinieri e dando a Stefano Delle Chiaie il tempo di confermarlo.

Serve, ora, prendere atto che, mentre grazie alle indagini del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, la verità sugli esecutori materiali della strage di piazza Fontana è stata raggiunta, quella sui nomi degli attentatori di Roma non si conosce.

I funzionati di polizia, agli ordini della divisione Affari Riservati, hanno gestito i Merlino e i Valpreda nell'azione di penetrazione nel mondo anarchico, li hanno poi accusati e, infine, hanno finto di fare indagini che non potevano e mai avrebbero potuto raggiungere alcun risultato.

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I “meriti” di cotanto risultato non sono però attribuibili esclusivamente ai D'Amato, Provenza, Improta ecc., perché ci sono precise e gravissime responsabilità politiche, soprattutto di quella sinistra che ha avallato la leggenda di due piste contrapposte, quella anarchica e quella “fascista”.

La prima creata dalla polizia per incastrare degli innocenti, la seconda svelata dalla magistratura ostacolata dal Servizio segreto militare.

La pista, invece, è stata sempre una, una soltanto.

Giovanni Ventura l'aveva delineata con chiarezza, senza alcuna ambiguità, in una intervista pubblicata da Il Mattino di Padova, il 20 dicembre 1986:

«Sì, il '68 ha prodotto le circostanze del nostro avvicinamento. Valpreda, Merlino, Delle Chiaie. Il giro era così...».

Dichiarazione che è stata semplicemente ignorata.

Nessun rilievo viene dato anche alle dichiarazioni rese al giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni, dal brigatista rosso Michele Galati che, il 10 gennaio 1991, rivela che le Br avevano condotto una contro-inchiesta sulla strage di piazza Fontana, dalla quale era emerso che vi aveva partecipato Pietro Valpreda, che il cervello dell'operazione era stato Delle Chiaie e che un “particolare ruolo“ aveva avuto anche Guido Giannettini.

Il 12 maggio 1997, è Enrico Rovelli, fonte della divisione Affari Riserati nell'ambiente anarchico, a rivelare che lui e gli altri appartenenti al circolo Ponte della Ghisolfa fossero convinti che questo fosse estraneo alla strage «fatta eccezione per quel che riguardava la persona di Pietro Valpreda».

Anche il pentito ordinovista Martino Siciliano, il 25 novembre 2003, dichiara che «la convinzione generale, proprio dopo le bombe di Milano, era che un esecutore materiale fosse stato fra gli altri anche Pietro Valpreda».

Anche Bettino Craxi crede alla responsabilità di Pietro Valpreda affermando, nel mese di settembre del 1992, di credere alla testimonianza di Cornelio Rolandi:

«Il tassista Rolandi, che era comunista, perché - chiede- doveva mentire?».

Insomma, chi crede all'innocenza di Pietro Valpreda? Non coloro che, per una ragione o per un'altra, si sono interessati alla strage di piazza Fontana o addirittura, come Giovanni Ventura, vi hanno partecipato.

La pista anarchica non è mai esistita perché, chiarito quasi subito il ruolo di infiltrato di Mario Merlino, è rimasta la sola responsabilità individuale del presunto anarchico Pietro Valpreda.

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Un individuo solo non è una “pista”, non coinvolge un ambiente politico nella sua interezza: Pietro Valpreda non era l'anarchia.

Non potevano esserci due “piste”, ma una sola, che portava diritta alla divisione Affari Riservati e ad Umberto Federico D'Amato perché sia i “romani” che i “veneti” erano alle sue dipendenze.

Era il controspionaggio italiano, con il suo rappresentante principale, che coordinava l'operazione di infiltrazione degli elementi di estrema destra non solo fra gli anarchici ma anche nei gruppi “cinesi” e marxisti-leninisti, così come farà con i depistaggi a Roma e in Veneto con il concorso del Sid.

Si dovrà arrivare al 15 dicembre 2009, perché il maresciallo di Ps Giuseppe Mango ammetta che Umberto Federico D'Amato aveva relazioni con Stefano Delle Chiaie, Delfo Zorzi e Massimiliano Fachini.

Ed era stato proprio Stefano Delle Chiaie, in uno dei suoi appunti ritrovati a Caracas, Venezuela, il 23 marzo 1987, ad affermare i rapporti di Franco Freda con il ministero degli Interni, stabiliti tramite Delfo Zorzi e Giovanni Biondo.

E se il puparo era uno solo, i pupi non avrebbero mai potuto agire separatamente, all'insaputa l'uno dell'altro, tant'è che gli attentati del 12 dicembre 1969 a Milano e a Roma erano perfettamente sincronizzati.

La pista era unica perché c'era in Italia uno schieramento politico trasversale, che andava dai socialisti ai missini, sostenuto ed incoraggiato da forze internazionali, che intendeva fare dall'Italia una democrazia autoritaria: gli apparati di sicurezza dello Stato hanno operato, con i metodi che ben conoscono, per rendere possibile questa svolta.

In un mondo di pupari e di pupi, l'unico, fra questi ultimi, a non aver compreso nulla fino alla momento della sua dipartita, il solo “ingenuo” sarebbe stato Pietro Valpreda, che mai ha rinnegato con le parole e con i fatti la sua amicizia con Mario Merlino, tanto a accoglierlo affettuosamente quando questi, con i “camerati”, é venuto a trovarlo nel bar che gestiva a Milano.

Non poteva, Pietro Valpreda, rinnegare il complice, con il quale aveva “lavorato” contro gli anarchici e con il quale era stato alle dipendenze della polizia, e dalla polizia era stato, insieme a lui, salvato.

Prende sempre più consistenza la tesi, avanzata dal giornalista Paolo Cucchiarelli, che, a provocare la morte di Giusppe Pinelli, sia stato il brigadiere Vito Panessa, che gli avrebbe

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sferrato un pugno, per evitare il quale l'esponente anarchico sarebbe caduto dalla finestra trovando la morte.

Vite Panessa, ormai dimissionario (perché?) dalla polizia, sara l'uomo che salverà processualmente Pietro Valpreda.

Valpreda aveva dichiarato agli agenti che lo avevano arrestato, diretti dal brigadiere Vito Panessa, di essere stato a casa malato per tre giorni.

Nel corso del processo di Catanzaro, dall'interrogatorio di Pietro Valpreda, l'ex brigadiere Panessa esibisce un appunto informale, mai esibito prima ad alcuno, che conferma l'alibi di Pietro Valpreda e contribuisce a determinare la sua assoluzione.

La polizia incastra Valpreda, la polizia lo salva, nella persona di chi avrebbe ucciso, sia pure involontariamente, Giuseppe Pinelli, con una deposizione che dubitiamo sia stata spontanea e sincera.

E il cerchio si chiude.

Tutta la verità sull'operazione iniziata nel mese di agosto del 1968, che avrebbe dovuto concludersi il 14 dicembre 1969 con la proclamazione dello stato d'emergenza da parte del presidente del Consiglio, Mariano Rumor, non è emersa nella sua interezza.

La verità sul ruolo avuto dal gruppo spionistico di Ordine Nuovo operante in Veneto, che rappresentava la guardia pretoriana di Pino Rauti, è stata raggiunta per la parte relativa alla strage di piazza Fontana dal giudice istruttore di Milano Guido Salvini, che la sinistra italiana al governo ha cercato in tutti i modi di bloccare utilizzando i suoi magistrati storici e affidabili.

Va ascritto a demerito di Fílice Casson, Gerardo D'Ambrosio, Massimo Brutti, Oliviero Diliberto e via elencando se il giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, non ha potuto andare oltre e giungere fino a Roma, cioè pervenire ad una verità che ancora non è emersa sul conto degli uomini del Fronte Nazionale, di cui Avanguardia Nazionale era una componente; di Pino Rauti; di Randolfo Pacciardi con la sua Unione Democratica per la Nuova Repubblica; di Mario Tedeschi con Il Borghese; fino ai vertici dei partiti politici rappresentati in Parlamento e a quelli della Nato, di cui era segretario generale all'epoca Manlio Brosio, liberale, legato a Edgardo Sogno, della cui figura e del cui ruolo tutti si sono opportunamente dimenticati.

L'operazione, diretta dai vertici del controspionaggio italiano, con il concorso determinante del servizio segreto militare e di qualche altra struttura clandestina, è stata

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negata e il tutto è stato circoscritto ad un solo episodio, certamente il più tragico, quello della strage di piazza Fontana, divenuta “fascista”, ed alla “persecuzione” poliziesca di un ex rapinatore come Pietro Valpreda, elevato agli altari come martire anarchico.

Un delinquente fortunato, Pietro Valpreda: muore, ucciso, il commissario di Ps Luigi Calabresi, che non avrebbe mai potuto testimoniare sulla adesione sua all'ideale anarchico;

“cade” dalla finestra Giuseppe Pinelli che, comunque, aveva già verbalizzato il suo disprezzo per il persoaggio; muore, in un incidente stradale, nel 1974, Veraldo Rossi che lo aveva buttato fuori dalla sede del circolo “Bakunin”, accusandolo di essere un confidente di polizia ed un provocatore.

Gli altri tacciono.

È una campagna politica e mediatica senza precedenti in Italia che fa di Pietro Valpreda un “anarchico innocente”, facendo leva sull'accusa inverosimile di aver compiuto la strage di piazza Fontana trasportando la bomba su un taxi, preso a cento metri della Banca nazionale dell'agricoltura.

Ed è una campagna condotta da tutta la sinistra italiana, la stessa che tenterà di bloccare l'inchiesta del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, che proverà la responsabilità degli ordinovisti veneti ed i loro collegamenti con i servizi segreti italiani, americani ed israeliani.

Con buona pace delle figlie, io ho sempre affermato l'innocenza del loro padre, Giuseppe Pinelli, dalla strage di piazza Fontana, collocandolo eventualmente fra coloro che erano stati ingannati, facendo leva sul suo anticomunismo, dai Merlino, dai Valpreda, dai Sottosanti, dai Bertoli e da altri.

Cadere in una trappola non è una colpa, lo è quella di mettere sullo stesso piano chi ha ingannato e chi lo è stato; chi ha tradito e chi è stato tradito, Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli; chi per la polizia ha lavorato e da essa è stato salvato, insieme ai suoi complici, e chi dalla polizia è stato ucciso, in un modo o in un altro.

Tra le tante verità fasulle, vere e proprie menzogne, che la sinistra italiana ha imposto agli Italiani nel corso dell'intero dopoguerra, quella della “strage fascista” e dell'anarchico innocente, Pietro Valpreda, è fra le più aberranti.

Per conformismo, vale a dire per codardia, gli anarchici italiani hanno tradito l'anarchia e la memoria di Giuseppe Pinelli iniziando da quel Chicco Gerli che, a poche ore dalla morte, lo ha qualificato come “comuista anarchico”.

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Sono ancora in vita anarchici disposti a raccontava la verità? Forse no, ma ci sono ancora anarchici che avvertono il bisogno di non accostare, il 12 dicembre, il nome e la figura di un rapinatore e confidente di questura come Pietro Valpreda con quella immacolata di Giuseppe Pinelli?

Non basta dire non è vero, non basta scagliarsi contro il fascista (orgoglioso di esserlo) che dice da tanti anni ormai quello che su Pietro Valpreda va detto.

Non basta: devono smentire Giuseppe Pinelli, Licia Pinelli, Veraldo Rossi, Paolo Braschi, devono contrapporre i fatti ai fatti.

Non la hanno mai fatto, non possono farlo.

Non hanno la forza ed il coraggio di liberarsi da mezzo secolo di disinformazione poliziesca e politica, almeno per rendere omaggio alla sola memoria di Giuseppe Pinelli.

Invece, per conformismo, preferiscono ammazzarlo per la seconda volta.

Non è giusto.

Opera, 9 novembre 2020

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