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Academic year: 2021

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1.1. Il teatro inglese contemporaneo fra sperimentazione e ‘realismo’.

Il XX secolo rappresenta uno dei periodi più vitali nella storia del teatro inglese per varietà sia di contenuti che di sperimentazioni formali. La produzione teatrale britannica si impone nel panorama artistico contemporaneo rivelando una tale straordinaria ricchezza di tendenze artistiche così profondamente diverse le une dalle altre per presupposti estetici e tematici, da non trovare un termine di paragone adeguato in gran parte delle epoche precedenti, fatta eccezione forse per l’epoca elisabettiana. Questa fioritura di contributi e innovative produzioni teatrali rende difficile ogni proposta di periodizzazione sistematica delle diverse correnti che si susseguono e sovrappongono nel corso del secolo. La sperimentazione formale e la ricerca di nuove risposte artistiche si manifesta secondo diverse linee di sviluppo che oscillano fra i due poli contrapposti della rielaborazione dei generi e delle norme della tradizione, da una parte, e del rifiuto di quelle stesse convenzioni, dall’altra, sempre all’interno di un costante processo di estensione dei soggetti portati sulle scene che rappresenta un aspetto caratteristico della produzione teatrale novecentesca. 1

In questo contesto di grande dinamismo artistico e culturale, la riscrittura della tragedia greca classica rappresenta un fenomeno costante che caratterizza una parte cospicua della produzione teatrale del Novecento inglese, riproponendosi con modalità specifiche nel passaggio fra la prima e la seconda metà del secolo. La ripresa di modelli tratti dal patrimonio letterario e culturale antico in ambito teatrale si è riproposta ciclicamente in momenti cruciali della sua storia come aspetto peculiare della cultura occidentale in generale e del contesto anglosassone nello specifico ma, alla luce dei profondi rivolgimenti sociali e culturali legati al collasso degli imperi coloniali all’indomani della seconda guerra mondiale e al conseguente allargamento della prospettiva internazionale nella seconda parte del XX secolo, si è imposto come fenomeno diffuso su scala mondiale, con conseguenze significative che ridefiniscono il rapporto fra tradizione e produzione

1 Cfr. Cristhopher Innes, Modern British Drama 1890-1990, Cambridge, Cambridge University

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5 artistica contemporanea. Questi profondi cambiamenti storico-culturali si collocano verosimilmente intorno alla metà del secolo. Tenendo doverosamente conto delle inevitabili semplificazioni alle quali va incontro ogni operazione di periodizzazione sistematica di un fenomeno artistico e letterario, questo momento storico rappresenta una sorta di spartiacque ideale a partire dal quale è possibile definire le linee di sviluppo del teatro contemporaneo come fenomeno indipendente e autonomo rispetto alle tendenze del periodo precedente. Nel corso di circa un decennio fra la prima e la seconda metà del secolo, a cavallo fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, si concentra una serie di trasformazioni che incidono profondamente nella produzione artistica, cambiando radicalmente il volto del teatro inglese, a partire dall’opera di John Osborne Look Back in Anger del 1956 che per suo carattere fortemente innovativo è tradizionalmente assunto come termini di riferimento con il quale si apre la nuova stagione del teatro contemporaneo.

La ripresa del patrimonio letterario classico, coinvolta nella sperimentazione formale e tematica che connota la contemporaneità, si colloca a pieno titolo in questo processo di profondo ripensamento critico delle capacità comunicative dell’arte che porta con sè, nel caso specifico della produzione drammatica, una necessaria rivalutazione della funzione e degli strumenti espressivi tradizionali del teatro. Questa acuta rielaborazione artistica non concerne soltanto la seconda metà del secolo, ma attraversa trasversalmente tutto il Novecento. Si tratta, anzi, di una tendenza che affonda le proprie radici in quella necessità di ricercare mezzi formali nuovi in grado di esprimere la complessità dell’esperienza novecentesca alla base della sperimentazione modernista fin dagli esordi del XX secolo. A partire dalle premesse gettate nella prima metà del secolo, nel secondo Novecento, questa straordinaria vitalità sperimentale si intensifica ulteriormente dando voce a quella nuova generazione di artisti e scrittori che comincia a rivendicare il proprio ruolo sulle scene inglesi, in aperta contrapposizione con l’establishment tradizionalista, portatore di una certa idea di cultura ‘fossilizzata’ e chiusa in se stessa.

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6 Cercando di ripercorrere sommariamente l’evolversi della produzione teatrale novecentesca nella sua globalità, il primo aspetto che emerge è rappresentato da un’incalzante esigenza di novità, comune a tutto il secolo, che si esprime essenzialmente nella volontà di creare modelli di espressione artistica che si fondino su presupposti culturali e intellettuali diametralmente contrapposti a quelli alla base della produzione teatrale del secolo precedente. Per quanto riguarda la prima metà del Novecento, fin dagli esordi del secolo, la ricerca artistica di intellettuali e drammaturghi è guidata dall’esigenza di elaborare forme alternative rispetto a quelle modalità tradizionali, ormai avvertite come logore e totalmente inadeguate per veicolare i contenuti e le forme della contemporaneità. In questo contesto il principale obiettivo polemico del radicale processo di ripensamento e risistemazione dei mezzi di espressione artistica è costituito dal realismo di fine Ottocento, che si era imposto con la diffusione a livello europeo del movimento naturalista. La produzione teatrale che si afferma con l’inizio del Novecento si colloca in una posizione di rifiuto netto nei confronti quelle drawing-room manners che avevano dominato il teatro europeo del tardo Ottocento e che hanno continuato a manifestarsi per tutta la prima metà del secolo nelle produzioni più commerciali. La consapevolezza dell’inadeguatezza espressiva e delle restrizioni, che la pretesa di una resa fedele e ‘fotografica’ della realtà inevitabilmente comporta, induce gli autori di teatro ad abbandonare il cosiddetto surface realism mossi dall’urgenza di esplorare livelli più profondi di realtà. 2

La produzione drammatica del secondo Novecento prosegue questa medesima linea di tendenza improntata al rifiuto delle modalità tradizionali di rappresentazione della realtà, già duramente contestate dalla sperimentazione modernista. In questo particolare momento storico tuttavia, se si utilizza il termine ‘realismo’ per designare il tentativo di resa naturalistica della realtà, in quanto istanza rigettata da tutta la produzione teatrale contemporanea, è necessario introdurre una precisazione per cercare di definire con maggior chiarezza il

2 Cfr. Cohn, Ruby, Currents in Contemporary Drama, Bloomington and London, Indiana

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7 significato che questo termine viene ad assumere nel contesto del teatro inglese della seconda metà del Novecento. Il punto di partenza di questa proposta interpretativa è rappresentata dallo sviluppo peculiare della produzione teatrale britannica rispetto al continente europeo fin dagli esordi del XX secolo. Christopher Innes, nella sua indagine dedicata alle tendenze del teatro inglese del Novecento, mette in luce come, a partire dall’inizio del secolo,

The nature and the function of theatre have been questioned, dismantled, redefined in a process of continual revolution: Symbolism, Expressionism, Surrealism, Dada, Futurism, Antonin Artaud’s ‘Theatre of Cruelty’, the Absurd. All these avant-guard factions share a rejection of logical structures and reason, which are seen in Artaud’s phrase as ‘chains that bind us in petrifying imbecility’. […] and it is noticeable that from this avant-guard perspective, Britain barely rates a mention. Although continental trends have been imported by the occasional British playwrights or director […] they have exerted relatively little influence on the development of British drama as a whole. Its evolution has been markedly different.3

Una parte consistente della produzione teatrale inglese della prima metà del XX secolo sembra elaborare, quindi, una risposta espressiva alternativa rispetto alle proposte del panorama europeo. La principale differenza che allontana il teatro britannico dalle tendenze dominanti nel continente è rappresentata dall’attenzione che accomuna gran parte dei drammaturghi britannici, rivolta all’impegno e al diretto coinvolgimento nella realtà sociale e politica del contesto nel quale sono proiettati. In aperta contrapposizione con la tradizione naturalista, il teatro contemporaneo inglese elabora una nuova forma di ‘realismo’, antitetico rispetto al naturalismo di metà Ottocento – inteso come riproduzione oggettiva della realtà contemporanea – del quale, tuttavia, condivide la medesima dichiarazione di intenti, rifiutandone però la forma. Lo stesso Innes spiega:

Given the loosening and merging of stylistic divisions that is one of the hallmarks of modernism, realism only continues to have relevance as a way of defining focus rather than form. The key qualities become type of subject and authorial intention, so that the term applies to all playwrights

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who describe their work as social/socialist realism, even when it does not fit naturalistic criteria. They deal directly with political issues, typically addressing questions of justice or calling for revolutionary change. Their aims differ in degree, but are comparable in range: from presenting ethical challenges to the audience to raising ideological consciousness, or from working to correct abuses within the system to inciting violent action against it.4

L’“ethos artistico” di cui parla Innes, in aperta contrapposizione rispetto alle avanguardie europee comincia ad affermarsi nella prima metà del secolo, ma si ripresenta in maniera costante in tutto il resto del Novecento, manifestandosi sotto svariate forme. I diversi contributi secondo i quali si declina questo atteggiamento, tipico della produzione drammatica inglese, si collocano all’interno di una medesima linea di sviluppo che dal dramma razionale di Bernard Shaw all’inizio del secolo, passando negli anni successivi attraverso le produzioni del gruppo dei cosiddetti kitchen-sink realists di Osborne, e i contributi di Auden e Bond, arriva fino alla produzione degli anni Settanta e Ottanta, improntata ad una presa di posizione apertamente ideologica e provocatoria nei confronti della realtà politica e sociale. Nel corso del secolo, l’atteggiamento di questi drammaturghi all’insegna di un diretto coinvolgimento dell’artista nell’attualità si estremizza progressivamente, diventando da una punto di vista formale sempre meno ‘realistico’, nel senso di una resa fedele della realtà presa in esame. Alla luce di questa linea di sviluppo, risulta quindi legittimo conservare il termine ‘realismo’- intendendo con esso, quel insieme di “alternatives modes of portraying society in terms of politics”5 - per definire la tendenza che accompagna in modo costante il teatro inglese per tutto il XX secolo, e che assume caratteristiche peculiari a partire da quel decennio cruciale, a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, getta le basi del teatro contemporaneo. Questa peculiarità della produzione teatrale britannica non deve certo considerarsi come esclusiva, anche se di fondamentale importanza, ma, anzi, all’interno di una stessa generazione convivono linee di sviluppo spesso in aperto contrasto fra loro. Basti pensare a due nomi cruciali nella storia letteraria inglese e del tutto estranei

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Ibid., p. 5.

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9 a questa tendenza, Samuel Beckett e Harold Pinter, che hanno impresso una marca indelebile nello sviluppo del teatro contemporaneo del Regno Unito nel XX secolo.

Pur tenendo presente questa straordinaria varietà di risposte e approcci, è comunque possibile individuare un punto di partenza comune che lega in maniera stretta queste diverse esperienze, rappresentato in primo luogo da quella sfida aperta nei confronti dei generi tradizionali e dalla volontà di interrogarsi sulle capacità espressive della lingua come veicolo di contenuti e messaggi che riflettano quel complesso e intricato viluppo costituito dall’esperienza novecentesca.

Alla luce della precisazione proposta in relazione alla produzione drammatica inglese, è possibile contestualizzare il fenomeno della riscrittura della tragedia classica, che si colloca in un processo di progressivo allontanamento dalla realtà oggettivamente descritta secondo i canoni della resa naturalistica, in direzione di una ricerca di nuove modalità per esprimere il contesto contemporaneo. Nello stesso tempo, come cercherò di mettere in luce nel corso della mia indagine, il fenomeno della riscrittura della tragedia classica soprattutto nell’ultimo trentennio del secolo si pone in perfetta sintonia con questa vocazione di gran parte della drammaturgia inglese a parlare della realtà attuale, accogliendo nel processo di riproposizione dei classici del teatro antico la volontà di indagare quella nuova dimensione politico-sociale che ha così profondamente sconvolto e ridefinito i parametri di valutazione del reale, a partire dalla seconda metà del Novecento. L’operazione di appropriazione del teatro antico si inaugura però già all’inizio del secolo con la sperimentazione modernista e attraversa in maniera più o meno costante, pur nella varietà e ricchezza di risposte e soluzioni, tutto il XX secolo, fino ai più recenti sviluppi della produzione teatrale contemporanea, che ha visto una vera e propria ‘invasione’ di rifacimenti e adattamenti dei testi classici. La scelta di rivolgersi a quel inesauribile patrimonio di modelli e forme della classicità può in prima istanza sembrare in apparente contraddizione con la radicale e necessaria sperimentazione che costituisce la marca caratteristica del secolo appena trascorso. Tale tendenza costituisce, anzi, nel corso di tutto il Novecento uno dei percorsi costanti intrapresi dalla sensibilità contemporanea per

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10 rispondere a quella esigenza profonda di elaborare nuove possibilità di espressione. In tutti i campi della produzione artistica, si avverte la necessità di guardare al passato, rielaborandolo attraverso lo sguardo necessariamente deformante della contemporaneità, nel tentativo di individuare in esso una lente attraverso la quale osservare e riflettere sul presente. Nell’ambito teatrale questo fenomeno si manifesta proprio nel diffuso interesse dimostrato da drammaturghi e registi per le più diverse operazioni di riscrittura della tragedia classica greca che, a partire dalle premesse di radicale trasformazione dei presupposti costituitivi del teatro che maturano in quello specifico contesto storico fra gli anni ’50 e ’60, raggiunge il suo culmine di massimo sviluppo nel decennio successivo. A partire dagli anni Settanta, nel panorama teatrale non soltanto britannico, ma più generalmente internazionale è emerso un forte incremento nel numero di produzioni di tragedie greche, sia nella forma di traduzioni che di adattamenti e rifacimenti. L’Oxford Archive of Performances of Greek and Roman Drama,6 che raccoglie le diverse produzioni relative alle riscritture e riproposizioni del teatro classico in ambito internazionale, ha registrato un’ulteriore accelerazione di questo processo nell’arco di tempo compreso fra gli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo. Nel dicembre 2003 il database dell’archivio registrava su scala mondiale 4.246 produzioni di drammi classici portati sulla scena fra il 1951 e il dicembre 2003; di esse, circa 1.200 si concentravano negli anni Novanta.7 La raccolta e il riferimento a dati che esprimono la diffusione delle operazioni di riscrittura del teatro classico su scala mondiale anziché restringere il campo al contesto specificamente britannico intende dare conto in maniera più immediata dell’ampiezza e della capillare affermazione di questo fenomeno che in proporziono più ridotte si riflette nell’ambito inglese.

A partire dalla constatazione del crescente affermarsi della riscrittura delle tragedie classiche, la prima domanda che è necessario porsi per analizzare questo

6 Si veda: http: //www.apgrd.ox.ac.uk/, curato da Edith Hall e Oliver Taplin; Il sito è stato visitato

il 16 aprile 2009.

7 Cfr. Herman Altena, “The Theater of Innumerable Faces”, in A Companion to Greek Tragedy,

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11 aspetto della produzione teatrale novecentesca è quella di chiedersi per quale ragione un numero così elevato di artisti e intellettuali legati al teatro abbia avvertito la necessità di attingere in maniera cospicua alla tradizione culturale della classicità in generale e nello specifico, al patrimonio mitico veicolato dalla tragedia antica.

Nel tentativo di fornire una visione che sia il più ampia ed esaustiva possibile di questo aspetto complesso della contemporaneità, è possibile affrontare la questione assumendo due diverse prospettive. La prima si propone di analizzare le ragioni della persistenza del mito - in quanto contenuto essenziale della tragedia greca e latina - nelle diverse espressioni artistiche e culturali che si sono susseguite nel corso dei secoli fino ad arrivare ai giorni nostri. La seconda si concentra invece, sul rapporto che intercorre fra il modello classico e i rifacimenti moderni, i quali spesso, nelle loro eterogenee manifestazioni, si allontanano sensibilmente dall’opera di riferimento, nella prospettiva di mettere in luce la legittimità e la coerenza di un’operazione di riscrittura così radicale e incisiva.

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1.2. La persistenza del mito.

“E un nuovo uomo senza miti, eternamente affamato, circondato da tutte le età passate, scava e rovista alla ricerca di radici, anche se per trovarle deve scavare fra le antichità più remote” (Friederich Nietzsche, La Nascita della tragedia, 1872)8

Un primo tentativo di risposta alla questione della capillare diffusione nella contemporaneità di rifacimenti legati al teatro antico può prendere spunto dalla considerazione della riproposizione pressoché costante dei miti greci nella letteratura mondiale, cercando di valutare come questa prospettiva di analisi possa giustificare e chiarire l’affermazione del fenomeno della riscrittura della tragedia classica nel XX secolo.

George Steiner nella sua approfondita analisi della presenza quasi ininterrotta del mito di Antigone nel repertorio dell’arte e nella letteratura dell’Occidente, individua un “carattere singolarmente ripetitivo del pensiero e dello stile occidentale nella sua totalità […] che si sono sviluppati attraverso una successione di ricapitolazioni del classico”.9 Secondo Steiner, la sensibilità occidentale ha fatto continuamente riferimento, nel corso della sua storia, a una “manciata di storie antiche” come codice di referenza canonico per esprimere la sua concezione del mondo e dell’individuo. Questo nucleo relativamente ristretto di “miti-chiave” costituisce per l’Occidente il metro di valutazione e di comprensione imprescindibile per definire le moderne categorie interpretative in ogni ambito del sapere.

L’autore mette in luce come nel corso della storia culturale occidentale

Abbiamo aggiunto davvero ben poco alle presenze costanti che la Grecia ci ha fornito. Le nostre fatiche sono quelle di Ercole. Le nostre ribellioni si rifanno a quella di Prometeo. Il Minotauro abita i nostri labirinti, ed i nostri voli si schiantano al suolo come quello di Icaro. Anche prima di

8

Friederich Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, Leipzig, E. Fritzsch, 1872, (ed.it. La nascita della tragedia, edizione commentata da Vincenzo Vitello e Ettore Fagioli, trad. it di Umberto Ladini, Milano Bruno Mondatori, 2003).

9 George Steiner, Antigones. How the Antigones legend has endured in Western literature, art and

thought, Oxford, Clarendon Press, 1984 (ed. it. Le Antigoni.Un grande mito classico nell’arte e nella letteratura dell’Occidente, trad. it di Nicoletta Marini, Milano, Garzanti Editore, 1990, cap.

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Joyce – heureux qui comme Ulysse – le nostre peregrinazioni ed i nostri ritorni sono stati quelli di Odisseo. Il dolore esasperato delle donne offese continua a parlare per bocca di Medea. Le donne troiane danno voce ai nostri lamenti sulla guerra. La cultura della droga e dei figli dei fiori facevano riferimento alle Baccanti di Euripide. Edipo, Narciso sono assunti per dare dignità, per definire i nostri complessi. Specchio di fronte a specchio, eco su eco – anche queste sono immagini che provengono dai miti greci. 10

La ragione del fascino costante esercitato dalla cultura classica, greca in particolare, sul mondo occidentale può essere rintracciata nel fatto che essa costituisca non soltanto la prima letteratura che riconosciamo come tale, ma anche una delle componenti costitutive nella quale ritroviamo i codici culturali e simbolici che definiscono i tratti fondamentali dell’identità europea.

Nel corso dei secoli, sostiene Steiner, la mitologia greca si è imposta come “un centro o un perno di riferimento permanente di tutta l’inventiva poetica e l’allegoria filosofica successiva.”11 Questo aspetto risulta immediatamente comprensibile se si tiene presente lo stretto legame che intercorre tra la conoscenza mitica e l’origine stessa del linguaggio e della poesia, individuato da Giambattista Vico nella Scienza Nuova del 1725. Nel mito, in quanto una delle forme primitive della conoscenza umana, si riconoscono le radici profonde della poesia, le cui origini vengono ricondotte alla conoscenza intuitiva e pre-razionale propria del racconto mitologico.

L’analisi descrittiva del mito rappresenta un dato costante della critica novecentesca. Le discipline più diverse hanno cercato nel tempo di proporne una definizione esaustiva. Il mito nel corso del Novecento è venuto a costituire una delle categorie interpretative privilegiate nella psicologia moderna, nell’analisi delle strutture sociali proposta dall’antropologia strutturale, nella teoria delle forme letterarie.

All’inizio del secolo, Freud nelle sue innovative riflessioni da cui prende avvio la disciplina della psicanalisi riconosce il ruolo centrale svolto dal racconto mitico nel processo di creazione di immagini e forme che costituiscono vere e proprie proiezioni degli stimoli e delle configurazioni elementari che vanno a formare la

10

Ibid., p.149.

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14 struttura inconscia e subconscia dell’individuo e garantiscono lo sviluppo dell’identità umana.Nei miti ‘primari’ si ritrovano i contenuti profondi e oscuri della psiche resi accettabili alla coscienza dalla perfezione formale e dalla coerenza narrativa con cui lo spirito greco ha dato voce a quegli aspetti indicibili della psiche, attribuendo loro una veste esteticamente appagante.

Carl Gustav Jung, inizialmente allievo e poi contestatore delle posizioni espresse da Freud, muovendo dalle fondamenta gettate dal maestro, riprende e rielabora le posizioni del medico austriaco relative all’importanza del mito nell’ambito della psicanalisi. Jung prende le distanze da Freud fin dal 1914, quando comincia a indirizzare i propri sforzi scientifici verso l’analisi non dell’inconscio personale e della libido sessuale come aveva fatto il suo predecessore, ma sull’inconscio collettivo, concentrandosi sulla ricerca degli aspetti latenti espressi attraverso i miti e i simboli presenti in tutte le culture e riguardanti una condizione primitiva che accomuna l’intera umanità. Questa svolta nelle posizioni di Jung si concretizza nella formulazione della cosiddetta ‘teoria degli archetipi’, termini con cui lo psichiatra svizzero descrive le immagini che simboleggiano l’intero patrimonio culturale umano e che manifestano l’inconscio collettivo. Nelle configurazioni e nei personaggi mitici che la mente umana crea mediante un processo di distacco da sé, si riflettono le esperienze più intime della coscienza che assumono forma riconoscibile nei miti eterni, definiti da Jung come ‘strutture psichiche archetipiche’ preposte a veicolare i contenuti costanti della sensibilità collettiva, caratteristici di ogni esperienza umana.

Anche l’antropologia strutturale, soprattutto grazie all’analisi di Lévi-Strauss, condotta nella sua opera capitale del 1958, Antropologia strutturale, sul significato dei miti all’interno delle società primitive, ha dato un contributo importante alla definizione della funzione del mito. In quanto espressione diretta della realtà biologica e sociale legata alla condizione umana, i miti fondamentali della nostra cultura corrispondono, secondo Lévi-Strauss, a specifici confronti e conflitti sociali primordiali all’interno dell’evoluzione delle configurazioni mentali e delle istituzioni materiali della società umana.

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15 Il contributo principale dato dalla teoria della letteratura alla definizione di ‘mito’ nel Novecento deriva dalle posizioni elaborate dal critico canadese Northrop Frye che nella sua opera più importante Anatomia della Critica, uscita nel 1957, avanza un’ipotesi di ricostruzione su basi mitico-antropologiche dell’intera storia della letteratura. Frye individua nel patrimonio letterario universale la presenza di una stessa struttura – rappresentata dalla quest dell’eroe, costruita sul ciclo di avvicendamento delle stagioni, che dà forma ai principali generi (romance, commedia, tragedia e ironia) – che è alla base di tutte le diverse forme artistiche, le quali nelle loro manifestazioni particolari non sono altro che la diversa declinazione di quell’unica storia che rimane costante nell’immaginario letterario.12

Al di là della varietà delle singole posizioni teoriche relative alla definizione di mito, tutti questi contributi condividono un elemento comune fondamentale, capace di spiegare la persistenza e la straordinaria vitalità del mito nell’immaginario umano nel corso della sua storia. I diversi critici riconoscono nel mito la presenza di una ‘struttura permanente’,13 per dirla con Lévi-Strauss, che si ripete invariata e garantisce quella caratteristica di intrinseca elasticità del racconto mitologico. Nell’analisi di Lèvi-Strauss, il mito si definisce in base ad un sistema temporale che si colloca contemporaneamente all’interno e all’esterno del tempo cronologicamente inteso. Esso si avvicina sempre ad avvenimenti del passato che si ritiene debbano svolgersi in un momento preciso del tempo, ma insieme costruisce una struttura costante che si riferisce simultaneamente al passato, al presente e al futuro. Il mito si colloca nello stesso tempo in una dimensione storica, in quanto riferita ad una situazione contingente che ne

12 Le posizioni teoriche di Northrop Frye qui riportate sono tratte e rielaborate dai seguenti testi

dell’autore: Anatomy of Criticism: Four Essays, Princeton, Princeton University Press, 1957(ed.it.

Anatomia della Critica. Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari, trad. it. di

Paola Rosa-Clot e Sandro Stratta, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1969); Fables of Identity.

Studies on Poetic Mythology, New York, Harcourt, Brace & World, 1963 (ed. It. Favole d’identità. Studi di mitologia poetica, trad. it. di Ciro Monti, Torino, Giulio Einaudi Editore,

1973).

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Claude Lévi-Strauss, Anthropologie Structurale, Paris, Plon, 1958 (ed.it. Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1990, cap. ‘La struttura dei miti’, p. 234).

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16 determina il contenuto e il significato primario, e astorica perché dotata di una struttura che gode di un’esistenza privilegiata al di fuori del flusso temporale, grazie alla quale le immagini espresse dal mito appaiono come non vincolate a un tempo e uno spazio specifici cosicché possono essere riadattate a contesti diversi rispetto a quello originario.

Applicando questo tipo di analisi al caso della riscrittura della tragedia classica nella contemporaneità emerge con chiarezza che sono proprio queste caratteristiche di duttilità e flessibilità della struttura profonda del mito a permettere al drammaturgo moderno, nel momento in cui si accinge ad affrontare l’operazione di rielaborazione di un testo teatrale antico, di modellare i suoi contenuti in modo tale da creare eventi e personaggi credibili e pertinenti rispetto all’esperienza contemporanea. Astraendo il mito antico dal contesto originario, l’autore dei giorni nostri è in grado di mantenere l’intelaiatura generale che dovrà essere “riempita” dai nuovi contenuti che derivano dall’operazione di riscrittura. La presenza di questa struttura costante si lega ad un altro aspetto caratteristico che concorre a determinare la fortuna del mito nelle diverse epoche. Questo elemento caratteristico è rappresentato dal costante riferimento nel racconto mitologico a contenuti universali quali la guerra, i rapporti con il potere politico, le dinamiche interne alla famiglia, i sentimenti estremi come l’odio, la vendetta, la paura e così via, che se da un lato nella contemporaneità si manifestano secondo modalità necessariamente diverse, derivate dal mutato contesto storico e culturale, dall’altro possono tutt’oggi dimostrare una qualche attualità in quanto temi ricorrenti nella storia dell’uomo perché profondamente connaturate nella sua esperienza di vita. La natura più autentica del racconto mitico risiede proprio nella presenza di elementi, tematiche e motivi propri della condizione umana nei suoi tratti generali e costanti che nel corso dei secoli si sono progressivamente sedimentati nell’immaginario collettivo culturale in senso lato e di riflesso nella dimensione propriamente letteraria, grazie dell’universalità dei suoi contenuti. Gilbert Highet, nella sua opera fondamentale The Classical Traditon: Greek and Roman Influences on Western Literature, spiega in maniera incisiva questo

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17 particolare aspetto del mito, analizzando la reinterpretazione operata dagli autori legati al movimento modernista:

[…] We opened the discussion by asking why these playwrights chose Greek legends for their subjects. The central answer is that the myths are permanent; they deal with the greatest of all problems, the problems which do not change, because men and women do not change. They deal with love, with war, with sin, with tyranny, with courage, with fate: and all in some way or other deal with the relation of man to those divine powers which are sometimes felt to be irrational, sometimes to be cruel, and sometimes, alas, to be just.14

Questi contenuti universali dei miti, che dall’antichità classica continuano a riproporsi con inalterata vitalità nel panorama letterario di ogni epoca come forma costante dell’espressione umana derivano dal fatto che il mito, in quanto forma simbolica, ha da sempre rappresentato un modo per organizzare e dare coerenza al rapporto dell’uomo alla realtà che lo circonda. Esso costituisce un elemento fondamentale di quel processo attraverso il quale l’uomo si relaziona alla propria esperienza e dà forma linguistica a quegli aspetti cruciali della propria esistenza e del suo modo di concepire e conoscere il mondo. 15

In questi termini, è possibile comprendere le ragioni profonde per cui il mito rappresenta una presenza costante nell’immaginario culturale e nella produzione artistica dell’uomo.Esso rappresenta, in quanto atto originario di conoscenza, il contenuto comune dal quale hanno attinto tutte quelle forme di espressione artistica e letteraria attraverso le quali l’uomo ha cercato di comprendere e definire il suo rapporto con la realtà che lo circonda, dando forma attraverso il mito - inteso nel suo significato più generale come modello di narrazione coerente ed esteticamente appagante - alle esperienze fondamentali dell’esistenza. Solo analizzando il racconto mitico in questi termini è possibile comprendere pienamente la sua immutata vitalità anche in contesti così lontani e culturalmente

14 Gilbert Highet, The Classical Tradion: Greek and Roman Influences on Western Literature,

New York, Oxford University Press, 1967, cap XXIII, “The Reinterpretation of the Myths”, p. 540.

15 Albert L. Lavin, “The Position Paper: Some meaning and Uses of Myths”, in Paul A Olson

(editor), The Uses of Myth, The Darmouth Seminar Study Group on Myth, at Darmouth College, New Hampshire, 1966, pp. 21-24.

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18 diversi, derivata proprio dalla sua capacità di conservare inalterata nel tempo la sua funzione di veicolo espressivo privilegiato che tanto nel passato quanto nel presente, ha consentito all’uomo di esprimere bisogni, esigenze e paure più profonde.16

16 Cfr. Enrico Giaccherini (a cura di), L’alfabeto del mondo. Miti e archetipi nella letteratura

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1.3. La riscrittura e i classici.

The past [is] altered by the present as much as the present is directed by the past

(T.S. Eliot, Tradition and the Individual Talent, 1919)17

Il fenomeno della riscrittura di testi tratti dal patrimonio della tradizione del passato introduce nel dibattito sulle cause che hanno contribuito all’affermazione di questo fenomeno su scala mondiale, una serie di problematiche teoriche e metodologiche legate alla questione della legittimità e dell’accettabilità di un’operazione di questo genere alla luce del delicato rapporto che lega i rifacimenti moderni ai testi definiti ‘classici’. Questo aspetto pone in primo luogo il problema di definire fino a che punto sia consentito spingersi nella rielaborazione di un testo entrato a far parte nel corso dei secoli del canone artistico e letterario che a parere di una certa parte della critica più ‘tradizionalista’18 sembrerebbe definitivo e non più modificabile, perchè profondamente radicato nell’immaginario collettivo come fondamento imprescindibile dell’identità culturale occidentale, la quale affonda le radici profonde del proprio modo di essere e di concepire il mondo nell’eredità classica. Questa prospettiva di analisi deve in primo luogo rispondere a due questioni essenziali:

1. Trasporre in un’epoca diversa le dimensioni estetiche, sociali, politiche, culturali di un’opera d’arte da una cultura all’altra così lontana nel tempo e così profondamente diversa per sensibilità e concezione del mondo.

2. Rendere accettabile per un pubblico contemporaneo trame mitiche e personaggi tratti dalla tragedia classica, rendendo pertinenti e validi ai giorni nostri contenuti etici, psicologici e religiosi del mondo antico.

17 Eliot, T.S., ‘Tradition and the Individual Talent’, in Selecetd Essays, London, Faber, 1951, pp.

13-22.

18 Il maggior sostenitore di questa posizione teorica è senz’altro Harold Bloom con la sua

controversa opera The Western Canon: The Book of Ages, New York, San Diego, London, Harcourt Brace & Company, 1994.

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20 Contestualmente a un tentativo di risposta alle questioni sopraccitate, l’obiettivo principale della mia analisi sarà quello di proporre una possibile spiegazione al significato che le operazioni di riscrittura del teatro classico vengono ad assumere nella contemporaneità, cercando di mettere in luce le finalità e le strategie più diffuse messe in atto da registi e drammaturghi degli ultimi trent’anni.

L’analisi di queste complesse questioni non può prescindere dalla presa di coscienza del fatto che ogni forma di rilettura a posteriori di un testo del passato è sempre frutto di un’operazione di selezione mai del tutto ‘innocente’, che dà inevitabilmente luogo a una reinterpretazione del testo in questione, anche nel caso in cui si tratti di una traduzione ‘fedele’ dell’opera classica in una lingua moderna. Questo aspetto risulta cruciale soprattutto nel caso del testo teatrale, che per sua stessa natura deve fare i conti con la dimensione della performance ed è quindi costantemente sottoposto alla molteplicità di rielaborazioni, decostruzioni e riproposizioni che derivano inevitabilmente dall’operazione di messa in scena dell’opera nel passaggio dal testo scritto alla sua concreta rappresentazione in teatro.

Una delle prospettive più feconde dalla quale prendere in esame la questione del legame fra opera classica e riscrittura moderna è rappresentata dalla ormai consolidata proposta di analisi che intende contestualizzare il rapporto che lega le opere letterarie del passato e del presente all’interno di una relazione dialettica di reciproco scambio. Questo filone della critica recente si inserisce nell’ambito di quelle posizioni teoriche che affermano la centralità della dimensione intertestuale di un testo, sostenuto fra gli altri, da Gerard Genette nel suo testo Palimpsestes. Il critico francese nella sua analisi delle diverse categorie di ‘transtestualità’ – termine con cui definisce tutti quei legami che mettono un “testo in relazione, manifesta o segreta, con altri testi”19 – pone in particolare rilievo l’aspetto dell’‘ipertestualità’ che indica il rapporto che lega secondo le due le principali categorie relazionali, la trasformazione e l’imitazione, una certa opera (definita ‘ipertesto’) a un testo anteriore (che Genette chiama ‘ipotesto’), postulando un

19

Gerard Genette, Palimpsestes. La Littérature au econd degré, Paris, Éditions du Seuil, 1982 (ed. it. Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Torino, Giulio Einaudi editore, 1997, p. 3).

(19)

21 vincolo di dipendenza fra il testo derivato e quello preesistente. Al di là della complessa e articolata classificazione delle varie forme di trasformazione diretta e indiretta fra ipertesto e ipotesto proposta in Palimpsestes, l’autore riflette sulla natura più profonda dell’opera letteraria e muove dal presupposto secondo il quale l’ipertestualità rappresenta una categoria universale delle letterarietà. Secondo Genette, “non vi è opera che, a qualche livello e a seconda del tipo di lettura, non ne evochi qualche altra, e in questo senso tutte le opere sono ipertestuali”.20 Questo aspetto caratteristico della creazione letteraria rappresenta un meccanismo di primaria importanza nell’elaborazione di nuovi testi e secondo Genette, offre all’artista l’opportunità di creare oggetti più complessi e “più avvincenti” grazie alla possibilità di sovrapporre e intrecciare “una funzione nuova a una struttura vecchia”, 21 operazione resa stimolante proprio dalla compresenza “dissonante” di questi due elementi profondamente diversi fra loro. Per descrivere con efficacia questo tipo di operazione, il critico utilizza l’immagine del palinsesto che mostra sulla stessa pergamena, un testo sovrapposto a un altro che non viene completamente nascosto, ma rimane visibile in trasparenza. Questa operazione di sovrapposizione e intreccio di testi antichi e moderni, che si adatta perfettamente al caso dei rifacimenti delle tragedie classiche nel ambito del teatro contemporaneo, rappresenta nell’ottica di Genette un aspetto fondante della creazione letteraria in virtù della possibilità offerta all’artista moderno di attivare nuove prospettive di significato rilanciando costantemente i testi in un circuito di incessante circolazione che stimola la produzione artistica.

Tenendo presente questi presupposti teorici, nell’acceso dibattito a cui la critica degli ultimi anni ha dato vita, riprendendo l’interminabile querelles des anciens et des moderns che dall’epoca del classicismo francese si ripropone ciclicamente all’attenzione di artisti e intellettuali, si sono affermate due tendenze complementari che riguardano il rapporto fra testi del passato e testi moderni. In primo luogo, una parte della critica, spesso ponendosi da una prospettiva estremamente diffidente nei confronti delle riscritture contemporanee di testi

20

Ibid., p. 12

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22 ‘classici’, ha concentrato la propria attenzione sulle effettive possibilità di un rifacimento moderno di essere accolto a pieno titolo nell’universo letterario dei grandi autori della ‘tradizione’. Parallelamente, si è imposta un’altra prospettiva di analisi, legata soprattutto alla teoria della ricezione, che si è rivolta piuttosto alla descrizione della capacità del testo classico di prestarsi all’operazione di rielaborazione senza per questo compromettere il proprio intrinseco valore artistico.

Secondo un’opinione molto diffusa, anche se altamente problematica e dibattuta, fra quei critici che potrei definire più ‘tradizionalisti’, ogni forma moderna di riscrittura e rielaborazione di un testo antecedente deve dimostrare la propria validità nei confronti del modello classico la cui “autorità totale” permette di assorbire senza perdere la propria identità, i rifacimenti successivi.22 Tale presa di posizione che afferma la necessità per un testo letterario ‘nuovo’ di affermare il proprio valore artistico e letterario nei confronti del retaggio della tradizione può essere ricondotto alle posizioni espresse dal critico americano Harold Bloom, il quale prende in esame in termini generali il rapporto fra testi appartenenti alla tradizione letteraria e nuovi ‘innesti’ nel patrimonio canonico già consolidato. Nel saggio del 1973, The Anxiety of Influence, Bloom formula una concezione ‘agonica’ della tradizione letteraria, intesa non come processo di trasmissione e di imitazione dei valori e delle opere da un’epoca all’altra, ma come vero e proprio confronto, in cui ogni successore per non essere sopraffatto dall’influenza dei predecessori deve sottoporli a una sistematica ‘misinterpretazione’ che rappresenta la base imprescindibile per il progresso evolutivo della letteratura. Bloom rifiuta una concezione riduttiva di tradizione come retaggio o processo di mera trasmissione, sostenendo come essa debba essere intesa soprattutto nei termini di “un conflitto fra genio del passato e attuale aspirazione, il cui premio è la sopravvivenza letteraria ovvero l’inclusione nel Canone”. Proprio in questa capacità di superare la ‘pressione’ esercitata dai grandi autori del passato – la cosiddetta “angoscia dell’influenza” a cui fa riferimento il titolo dell’opera di Bloom - risiede secondo il critico, la sola possibilità di sopravvivenza dello

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23 scrittore, il quale attraverso un’operazione di fraintendimento creativo e quindi di interpretazione erronea dei testi dei suoi predecessori riesce a imporsi in quella sorta di agone che è la storia della letteratura, in cui si affrontano i grandi nomi del passato e del presente, riuscendo ad imprimere il proprio segno di originalità e di ‘singolarità’ che assicura a un’opera letteraria lo status canonico. 23

Le posizioni sostenute da Bloom si pongono come diretta continuazione di quella prospettiva critica che prende il nome classical tradition, che si limita a studiare la trasmissione e l’azione della cultura classica attraverso i secoli, ponendo l’attenzione sull’influenza esercitata dagli scrittori dell’antichità su opere individuali di un singolo autore e su movimenti di pensiero successivi. Questo approccio si fonda sull’assunzione del principio secondo cui i testi cosiddetti canonici trasmettano un contenuto non problematico e incontestabile, che deve essere mantenuto tale senza modificazioni di alcun tipo in ogni tipo di contesto, anche molto lontano rispetto a quello antico nel quale è stato originariamente elaborato.

Sul versante opposto si pone invece la teoria della ricezione che, a mio avviso, contribuisce in maniera sostanziale a comprendere le ragioni profonde della straordinaria affermazione del fenomeno della riscrittura dei testi tragici della classicità nel Novecento. Per descrivere brevemente queste posizioni, vorrei partire dal riferimento alla questione della cosiddetta ‘autorità totale’ del cosiddetto classico che ho citato poco sopra. Le ragioni di questo aspetto peculiare attribuito all’opera canonica emergono analizzando la natura autentica del testo ‘classico’, la cui caratteristica essenziale è costituita proprio dalla sua straordinaria capacità di modellarsi e piegarsi a diversi approcci e interpretazioni, mantenendo inalterata quella struttura profonda di contenuti e motivi che, come Frank Kermode indica nella sua definizione di classico, “deve essere riportata sulla terra” perché possa dimostrare il proprio imprescindibile valore per la contemporaneità.24 Solo in questi termini, comprendendo cioè, all’interno di un

23 Harold Bloom, The Anxiety of Influence. A Theory of Poetry, London, Oxford Universuty Press,

1975.

24

Frank Kermode, The Classic, London, Faber & Faber,1975, cap. IV, p.141. (The implication remains that the classis is an essence available to us under our disposition, in the aspect of time. So

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24 unico processo di reciproco confronto che tenga conto tanto dell’estrema flessibilità e plasticità del classico, quanto della libertà creativa dei testi contemporanei, è possibile accogliere come legittime e valide quelle operazioni di appropriazione del patrimonio della tradizione in un contesto moderno.

Secondo i teorici della ricezione, la riscrittura della tragedia antica può essere ripensata nella prospettiva di una relazione dialogica che pone in comunicazione diretta passato e presente, tradizione e sperimentazione moderna. Il rapporto con i testi classici nel contesto contemporaneo non può presentarsi come processo passivo di trasmissione e accoglimento acritico da parte della modernità di una tradizione ‘fossilizzata’ e non più rielaborabile, ma deve essere reinterpretato come un rapporto di costante e reciproco scambio. La teoria della ricezione rifiuta in maniera netta questo presupposto teorico che comporta una visione della tradizione come trasmissione di un’immagine ‘iconica’ e chiusa in se stessa del passato piuttosto che come “sponda di un processo dialogico di riappropriazione e riconfigurazione”25 e concentra il proprio interesse sulle profonde differenze che separano la fonte antica dalla rielaborazione moderna, permettendo una più netta distinzione delle idee e dei valori del passato e quelli delle società che li ricevono in un panorama non solo cronologicamente anche culturalmente lontano. Questa maggiore consapevolezza della distanza che separa passato e presente produce un effetto ‘liberatorio’ sul testo antico, reso in tal modo aperto e disponibile a operazioni di riappropriazione e rielaborazione da parte di nuove generazioni di scrittori e artisti che selezionano e utilizzano aspetti significativi della cultura antica della quale si servono per dare valore e significato al proprio contesto storico e intellettuale di riferimento, ispirando nuove opere creative. In questa caratteristica ‘flessibilità’ del testo classico che deriva dalla distanza di tempo, spazio e cultura fra versioni antiche e moderne di una stessa opera, risiede la

the image of the imperial classic, beyond time, beyond vernacular corruption and change, had perhaps, after all, a measure of authenticity; all we need do is bring it down to earth”).

25 Lorna Hardwick, Greek Drama at the end of the Twentieth Century: Cultural Renaissance or

Performative Outrage? , Annual meeting for the Promotion of Hellenic Studies, London June

2000, p. 3 (Questo articolo è disponibile in formato elettronico sul sito internet: www2.open.ac.uk/ClassicalStudies/GreekPlays/essays/Hardwickessay2.doc, consultato in data 23/03/2009).

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25 possibilità per il lettore di ‘muoversi’ al di fuori dei limiti della sua società e dei suoi orizzonti culturali e quindi vederli in modo più chiaro e critico analizzandoli dall’esterno. 26

Lo sviluppo della teoria della ricezione ha preso avvio dal contributo indiretto delle riflessioni di Hans-Georg Gadamer nella sua opera di maggior importanza Verità e Metodo,27 (pubblicata nel 1960) in cui analizza i meccanismi della comprensione dell’opera letteraria. Il presupposto della posizione filosofica sostenuta da Gadamer è costituito dalla natura storica e contingente del processo di interpretazione in cui il significato di un testo si costruisce nel tempo ed è plasmato dall’impatto esercitato dalle sue successive ricezioni che entrano a far parte della dimensione testuale dell’opera stessa.

A partire queste premesse espresse da Gadamer nell’ambito filosofico dell’ermeneutica, la teoria della ricezione ha ricevuto nuovo impulso, verso la fine dagli anni Sessanta, con l’attività Robert Jauss e Wolfgang Iser presso l’Università di Costanza in Germania. 28 Nel contesto di questa prospettiva critica, il lettore diventa il centro di una riflessione che riguarda non soltanto la soggettività dell’interpretazione di un’opera, ma anche la più generale ricostruzione delle modalità attraverso le quali il testo viene accolto. Il punto di partenza di questo nuovo approccio teorico al rapporto fra patrimonio culturale e artistico dell’antichità e modernità è rappresentato dal netto spostamento dal

26 Cfr. Lorna Hardwick, Reception Studies, Oxford, Oxford University Press, 2003, cap. 1, 'From

the Classical Tradition to Reception Studies’, pp.1-11.

27 Gadamer, Hans-Georg, Wahrheit und Methode. Grundzüge Einer Philosophchen Hermeneutik,

Tübingen, 1960, (ed.it. Verità e metodo, trad. it di Gianni Vattimo, Milano, Bompiani, 1986).

28

Robert Jauss elabora la teoria seconda la quale il carattere profondo di un’opera d’arte può essere colto soltanto analizzando il rapporto di interazione fra produzione e ricezione che coinvolge in uno scambio attivo il produttore-artista da un lato e il lettore dall’altro. Il nodo centrale della riflessione teorica proposta da Jauss è quello di valutare non soltanto il testo nella sua specifica singolarità, ma anche la sua ricezione da parte dei lettori in una prospettiva di analisi diacronica delle successive interpretazioni, cogliendo nella “catena di ricezioni” l’efficacia di un’opera, ossia la sua capacità di incidere sull’orizzonte di attesa del lettore. Wolfgang Iser partendo dalle basi teoriche gettate dal collega Jauss, sviluppa e approfondisce la teoria della ricezione, ponendo in primo piano l’apporto partecipativo del lettore e proponendo il modello del cosiddetto reader-response. A differenza di Jauss, si concentra su una prospettiva essenzialmente sincronica di analisi dell’opera concentrando la propria attenzione sul processo di formalizzazione della risposta del lettore, partendo dall’assunto secondo il quale il testo è uno schema dotato di più o meno ampi margini di indeterminatezza che il lettore è chiamato colmare nel momento in cui si pone di fronte all’opera letteraria.

(24)

26 concetto di ‘tradizione’, inteso come trasmissione pura e semplice di materiale dal passato al contesto storico presente, a quello di ‘ricezione’. Secondo il modello proposto dalla Scuola di Costanza, la fruizione dei testi appartenenti al canone tradizionale opera su un tipo di temporalità che coinvolge la partecipazione attiva del lettore in un processo che si muove in due direzioni, guardando contemporaneamente dietro e avanti a sé, ponendo passato e presente in una relazione dinamica di dialogo continuo, che include a pari diritto tanto il testo-fonte dell’antichità quanto il rifacimento moderno.29

Tornando all’analisi del fenomeno della riscrittura della tragedia greca antica nel panorama teatrale contemporaneo, alla luce di questi significativi contributi che ho brevemente cercato di delineare in questa sezione, il processo di ricezione dei testi antichi può essere interpretato come una forma di produzione in se stessa o almeno uno stimolo che invita alla produzione. Ogni operazione di ricezione implica quindi un processo creativo di adattamento a un contesto completamente diverso da quello originario. Esso consiste in un duplice movimento, che prevede in primo luogo un intervento di ‘decontestualizzazione’ e di ‘dislocazione’ del testo classico come base di partenza per ‘appropriarsi’ dell’opera in questione. In seconda istanza, segue un atto di ricontestualizzazione di questo materiale al fine di renderlo familiare all’ambito contemporaneo.30 Questo complesso processo produce vari fenomeni di ‘ibridazione’ fra il testo antico e il rifacimento moderno, tal che, come spiega Marianne McDonald, facendo riferimento al modello della Medea di Euripide, nella catena delle successive ricezioni che si sono susseguite nel corso del tempo:

29

Per ulteriori approfondimenti sulle posizioni dei teorici della ricezione si vedano i seguenti testi consultati nelle edizioni italiane: Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzüge Einer

Philosophchen Hermeneutik, Tübingen, 1960, (Verità e Metodo, trad. it. Di Gianni Vattimo,

Milano, Bompiani, 1986); Hans-Robert Jauss, Ästhetische Erfahrung und Literarische

Hermeneutik, Suhrkamp, 1982, (ed. It. Estetica della ricezione, trad.it di Antonello Giuliano,

Napoli, Guida, 1988); Wolfagang Iser, Der Akt des Lesens: Theorie Ästhetischer Wirkung, München, Uni-Taschenbücher 1976, (L’atto della lettura: una teoria della risposta estetica, Bologna, Il Mulino, 1987).

30

Lorna Hardwick, Greek Drama at the end of the Twentieth Century: Cultural Renaissance or

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27

Non esiste un ‘testo di Medea’ in quanto tale: è stato dissolto nel processo di adattamento. […] Così Euripide anche se ha formato la nostra concezione della sofferenza di Medea, non è come l’anello di una catena, ma piuttosto un catalizzatore in una soluzione: certe particella del mito sono precipitate, ma le altre rimangono sospese. Tutto questo è a disposizione dei nostri artisti moderni. 31

Riassumendo queste posizioni, emerge chiaramente che il concetto-chiave alla base di questa posizione teorica è rappresentato dalla concezione dei testi classici come ‘presenze attive’, in grado farci riflettere sul presente attraverso la mediazione dell’esempio del passato, perché si pongono come strumento critico efficace per sondare la dimensione contemporanea. È ancora una volta il filosofo Gadamer a sintetizzare con grande chiarezza questo concetto proponendo la propria definizione di ‘classico’:

[...] Classico è ciò che si conserva perché significa se stesso e spiega se stesso; ossia quello che parla in tal modo che non è un’enunciazione su qualcosa di scomparso, non è a sua volta una semplice testimonianza di qualcosa d’altro ancora bisognosa di spiegazione, ma parla di ogni presente come discorso che si rivolga specificamente ad esso. Ciò a cui spetta il nome di ‘classico’ non richiede anzittutto il superamento della distanza storica, giacché esso compie, in una costante mediazione, questo superamento. Ciò che è classico è dunque bensì ‘fuori dal tempo’, ma questa sua eternità è un modo proprio dell’essere storico [...] Ma in tale comprensione ci sarà sempre di più che la pura e semplice ricostruzione storica del mondo passato a cui l’opera apparteneva. La nostra comprensione implicherà anche sempre la coscienza che, insieme all’opera, anche noi apparteniamo a quel mondo; e che, parallelamente, l’opera appartiene a sua volta al nostro mondo. 32

Il filosofo tedesco postula in questo passaggio la presenza di una duplice dimensione storico-culturale del testo classico: il passato nel quale è originariamente elaborato e il presente in cui viene riproposto, inscindibilmente legati fra loro all’interno di un processo nel quale ognuno dei due termini deve dare forma e rafforzare l’altro. Ponendo il testo classico e il rifacimento moderno in una relazione di dialogo, il lettore/spettatore percepisce una sensazione di quasi perfetta sovrapposizione fra queste due dimensioni temporali separate, che dal

31 Marianne Mc Donald, Ancient Sun, Modern Light, Columbia University Press, 1991 (ed. it. Sole

antico, luce moderna, trad. it. di Francesca Albini, Levante,1999, ‘prologo’, p. 5).

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28 piano generale proposto da Gadamer nella citazione sopra riportata, può essere applicato a pieno titolo al caso in esame della tragedia. È proprio questo aspetto che garantisce la vitalità del testo classico e la sua presenza viva sulle scene del teatro internazionale.

Recuperando in tal modo la dimensione dinamica e attiva del testo classico in quanto tale, è possibile applicare questa ‘definizione’ anche nell’ambito dell’influenza del teatro greco antico sulle produzioni moderne. Assumendo questa prospettiva di analisi, emerge, infatti, il ruolo di ‘attivatore’ di reazioni e risposte culturali le più diverse ed eterogenee, svolto dalla tragedia classica nell’ambito del teatro contemporaneo. Il modello classico si pone come centro propulsore di nuovi testi e rielaborazioni capaci di affermare la propria validità e autonomia rispetto a quel testo di riferimento, mantenendo tuttavia inalterata la funzione-chiave della tragedia, quella di porre domande e stimolare reazioni sulla realtà umana, lasciando in sospeso una dimensione di “attesa irrisolta”33 che costituisce la marca caratteristica essenziale di questo genere teatrale e nella quale affonda le proprie radici quella straordinaria plasmabiltà del teatro classico che ci permette di interrogare il presente, facendolo parlare attraverso la voce del passato.

(27)

29

1.4. La riscrittura e canone.

Il rapporto fra rifacimenti moderni e testi classici che ho cercato di delineare nella sezione precedente impone inevitabilmente la necessità di prendere in esame un ulteriore aspetto strettamente legato al concetto stesso di tradizione letteraria, quello cioè del canone. Questa riflessione appare quanto mai necessaria a questo punto della mia indagine, in virtù del fatto che il fenomeno così capillarmente diffuso della riscrittura della tragedia antica nella contemporaneità riceve un impulso significativo proprio dal processo di contestazione dell’idea stessa di canone letterario. L’artista contemporaneo avverte la necessità di guardare alla tradizione del passato scardinando i presupposti stessi sui quali si fonda l’idea di canone per appropriarsi in maniera creativa e originale dei testi assunti nel pantheon dei grandi nomi della storia della letteratura.

Questa linea di sviluppo del teatro contemporaneo che ripensa in modo radicale il rapporto con il patrimonio della tradizione e la riappropriazione creativa da parte della contemporaneità dell’eredità classica procede di pari passo con l’affermarsi di una tendenza di dura critica rivolta al ‘canone letterario’ che prende avvio a partire dagli anni Cinquanta. Il concetto di ‘canone’, etimologicamente connesso all’idea di unità di misura, nacque nel IV secolo con la fissazione dell’elenco delle opere sacre di ebrei e cristiani e successivamente con l’elaborazione del corpus dei Padri della Chiesa. Fin dalle origini, il canone si fonda su un’idea di esemplarità e ordine, imponendosi come misura ideale per valutare il patrimonio letterario in quanto insieme di testi che costituiscono il fondamento dell’eredità culturale e dell’identità di una nazione.

Per tutta la prima metà del XX secolo, artisti e intellettuali si erano posti nei confronti della tradizione assumendo un atteggiamento per lo più ‘reverenziale’ verso il patrimonio classico,34 in quanto base del canone ufficiale, e concepito come serbatoio inesauribile di immagini e temi profondamente radicati nell’immaginario collettivo come tratti fondativi della cultura occidentale. Nei

34 Cfr. Sara Soncini, ‘Riscritture dei classici nella drammaturgia inglese contemporanea’, in Il

lessico della classicità nella letteratura europea moderna, Tomo II: La Commedia, Roma,

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30 secoli, nonostante le continue configurazioni e i riassestamenti dei testi compresi all’interno del canone, legati alle successive trasformazioni sia del gusto estetico che delle contingenze storico-culturali, i classici si sono sempre imposti come veri e propri monumenti artistici, relativamente stabili, che per la loro indiscussa autorità hanno da sempre rappresentato dei “punti di irradiazione di percorsi letterari in successive filiazioni”, come li definisce Alessandro Sarpieri nel suo intervento sui processi di riconfigurazione e di ripensamento del canone in atto nel dibattito intellettuale a partire dagli anni Cinquanta35.

L’ approccio deferente nei confronti della tradizione è esemplificato con chiarezza dalle posizioni teoriche di T.S. Eliot espresse nel suo celebre saggio del 1919, Tradition and the Individual Talent, 36 in cui il poeta propone la propria personale visione del legame fra contemporaneità e patrimonio della tradizione, che influenzerà profondamente la critica letteraria fino alla metà del secolo. Eliot individua nel senso storico, di cui ogni vero artista dovrebbe essere dotato e inteso come capacità di percepire la presenza viva del passato nel presente, il concetto essenziale che consente l’integrazione positiva della nozione di tradizione nell’operazione di scrittura e composizione di un’opera letteraria. Scrive Eliot:

The historical sense compels a man to write not merely with his own generation in his bones, but with the feeling that the whole of the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature of his own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous order […] No poet, no artist of any art, has his complete meaning alone. His significance, his appreciation is the appreciation of his relation to the dead poets and artists. You cannot value him alone; you must set him, for contrast and comparison, among the dead. […] He must be aware that the mind of Europe – the mind of his own country - a mind which he learns in time to be much more important than his own private mind – is a mind which changes, and that this change is a development which abandons nothing en route, which does not superannuate either Shakespeare, or Homer, or the rock drawing of the Magdalenian draughtsmen.37

35 Alessandro Sarpieri, ‘La questione del canone tra genealogie e ibridazioni: da quali lingue

vogliamo essere parlati?’, in Giovanna Mochi e Gianfranca Balestra (a cura di), Ripensare il

canone: la letteratura inglese e angloamericana, Roma, Artemide, 2007 (Proteo, 28), pp. 59-69.

36 Eliot, T.S., ‘Tradition and the Individual Talent’, in Selected Essays, London, Faber, 1951, pp.

13-22.

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31 In questo breve passo Eliot esprime chiaramente la propria concezione di ‘tradizione’ in contrapposizione con le idee romantiche dell’originalità assoluta e individuale dell’artista. Secondo l’autore, il patrimonio letterario del passato costituisce la base di partenza imprescindibile per qualsiasi opera d’arte e il termine di paragone necessario al quale artisti e scrittori moderni devono continuamente fare riferimento per dimostrare il proprio valore e la propria autorevolezza, cercando di “alterare quell’ordine simultaneo” costituito nei secoli dagli autori cosiddetti canonici. Eliot rifiuta un’idea meramente conservatrice e passiva della ‘tradizione’ e sostiene piuttosto la necessità di un rapporto attivo grazie al quale ogni nuovo capolavoro costringe a ri-leggere i classici da una nuova prospettiva. Solo raccogliendo ed elaborando in modo personale i riferimenti del passato, l’autore contemporaneo può dimostrare quel “talento individuale” che secondo Eliot acquista vero significato soltanto solo se posto in rapporto con l’insieme dei testi della tradizione e che rappresenta la marca autentica del grande artista capace di imporsi a pieno titolo sullo stesso piano degli scrittori del passato.

Negli ultimi decenni, questi presupposti sono progressivamente tramontati e il dibattito critico sulla questione del canone ha assunto in molti casi connotazioni di tipo politico e ideologico. Lo spettro delle posizioni coinvolte nel dibattito va da una difesa conservatrice del canone tradizionale sulla base dell’universalità incontestabile del valore estetico dei testi in questione,38 alle proposte di rivedere il canone accogliendo opere rappresentative di gruppi considerati marginali,39 fino ad arrivare a posizioni più estremistiche come quelle che affermano la necessità di stabilire un canone alternativo fondato su diversi valori culturali rispetto a quelli tradizionali, o addirittura un rifiuto totale del canone stesso in quanto strumento ideologicamente orientato.40 Il dibattito è stato animato essenzialmente dallo scontro fra due principali posizioni. La prima concepisce il canone come prodotto

38 Anche in questo caso, il contributo teorico di Harold Bloom rappresente l’esempio più calzante

per esemplificare questa posizione.

39 Questa sfida è accolta dagli esponenti di quelle correnti di pensiero che si affermano a partire

dalla seconda metà del Novecento come i Cultural Studies e i Gender Studies.

40

Questa posizione prende avvio dalle riflessioni di Raymond Willims di cui avrò modo di parlare in seguito.

(30)

32 di un processo culturale inevitabilmente autoritario e mistificante, che, operando le sue selezioni in base a motivi che esulano dal concetto di letterarietà nel senso proprio del termine, ma riconducibili piuttosto a questione di ordine sociale, economico e politico, ha comportato l’esclusione di soggetti culturali e di identità marginalizzate come le minoranze etniche, le donne, le popolazioni colonizzate41. Questa presa di posizione afferma la necessità di scardinare la pretesa universalità dei valori veicolati dai testi entrati a far parte del pantheon dei ‘classici’, condannando il fatto stesso di stabilire una ‘raccolta’ ufficiale di opere privilegiate e indiscusse come un’operazione inevitabilmente arbitraria ed elitaria. In quest’ottica, gli women studies, gli studi postcoloniali e delle minoranze di genere, le teorie neostoriciste e decostruzioniste – ossia tutto l’insieme di approcci teorici che Harold Bloom nella sua appassionata difesa della validità del canone occidentale etichetta come School of Resentment 42 – rivendicano la necessità di ridefinire i criteri di inclusione e di esclusione, rivedendo i confini del canone tradizionale nella prospettiva di avviare un radicale processo di ricanonizzazione che includa le letterature minori o marginali in direzione di un tentativo di scalfire il perpetuarsi del millenario dominio occidentale dei cosiddetti Dead White European Males di cui il canone è espressione.

Sul versante opposto si collocano invece i critici che sostengono una posizione più conservatrice, per i quali la costituzione e il consolidamento del canone attraverso i secoli si fonda su criteri di eccellenza estetica. In questi termini, è lo stesso giudizio di valore a selezionare e consacrare il patrimonio culturale di una nazione. Fra le file dei sostenitori di questa posizione, un ruolo di indubbia importanza è assunto da Harold Bloom il quale nella sua opera The Western Canon, uscita nel 1994, duramente polemica nei confronti delle attuali tendenze dei cultural studies, colpevoli secondo l’autore di non dare valore al genio

41 Cfr. Giovanna Mochi, ‘Pagare il Canone’, in Ripensare il canone: la letteratura inglese e

angloamericana, a cura di Giovanna Mochi e Gianfranca Balestra, Roma, Artemide, 2007, pp. 13

-15.

42

Cfr. Harold Bloom, The Western Canon. The Book of Ages, New York, San Diego, London, Harcourt Brace & Company, 1994.

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