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2. Esseri umani e animali

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2. Esseri umani e animali

Il rapporto alla pari fra umanità e animali in Horcynus Orca può essere verificato analizzando, per esempio, le formule utilizzate dal narratore e dall'autore per parlare di loro: le stesse serie aggettivali vengono utilizzate indifferentemente per animali ed esseri umani, leggendo in loro, di conseguenza, gli stessi paradigmi etici di comportamento. Inoltre tutte le specie viventi possono rivestire un ruolo simbolico forte, venendo a significare una situazione o un complesso di idee importanti per lo sviluppo del romanzo. Grazie alla “figuralità” della scrittura di D'Arrigo, di cui parlerò più avanti, metafore e similitudini coinvolgono indiscriminatamente tutti i regni dell'esistente e costruiscono immagini ibride, cangianti e potenti, quasi fossero delle vere e proprie metamorfosi.

Osservando più da vicino la trama, infatti, i corpi che abitano lo scill'e cariddi sono fatti tutti della stessa sostanza, e sembrano diversi da quelli delle popolazioni che vengono da fuori, come i tedeschi; non a caso le abitatrici mitiche dello Stretto, le sirene, hanno generato sia le fere che le femminote, stirpi di donne e di delfini con cui i pellisquadre si confrontano da sempre. Come i corpi, anche i sentimenti e l e pulsioni degli abitanti del Duemari non sono poi molto diversi, e così pescatori e squali possono condividere modi di sentire che non siano solo gli istinti più arcaici, comuni a tutti gli esseri animati, ma anche stati d'animo più sottili, profondi.

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2.1 La coda: capacità di costituirsi a paradigma

Giancarlo Alfano ha riconosciuto in Horcynus Orca un meccanismo particolare1, in virtù del quale alcuni personaggi o episodi sono costruiti in modo da diventare immagini paradigmatiche, a cui si allude spesso nel proseguire della storia. Il critico individua due diverse e opposte tendenze nel romanzo: in primo luogo un procedere narrativo per lunghe dimensioni che porta alla progressiva cognizione di sé del protagonista e del suo ruolo nel mondo (articolazione “per stazioni”), in secondo luogo un andamento che invece si articola su nuclei generativi localizzati, in episodi che si susseguono l'un l'altro; in virtù dei rapporti interni a questa successione si sviluppa e si mette in luce l'intenzione complessiva del testo.

In altre parole gli episodi di cui si compone il romanzo2 e le figure che

li animano vengono richiamati attraverso aggettivi o similitudini nel proseguire del romanzo, rendendo pienamente esplicito il loro significato simbolico solo in un secondo momento e per sovrapposizione di immagini:

Riferimenti simili sono disseminati lungo un centinaio di pagine, sino a trasformare il personaggio in paradigma, in cellula di senso che gerarchizza tutta la vicenda narrata.3

Alfano analizza per esempio la figura del pellesquadra decaduto a riattiere, che occupa uno dei primi episodi del romanzo e che viene richiamato spesso alla mente di 'Ndrja mentre lui si accorge, 1 G. Alfano, Gli effetti, cit. Cfr. in particolare il capitolo 2.

2 D'Arrigo stesso riconosceva all'interno del romanzo “49 storie, ed ognuna è

uno scavo dentro l'antica storia della nostra gente, della gente di tutto il Mediterraneo o di tutto il mondo”. Cfr. L'autore: non hanno saputo (o voluto)

leggermi, Intervista a Stefano D'Arrigo curata da Marco Cesarini Sforza, in “Il

Secolo XIX”, 22/03/1975.

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gradualmente, della caduta dei valori dei cariddoti, ma che si fa chiaro del tutto solo quando tutti i pellisquadre raccolti sullo sperone si fanno coinvolgere nel linguaggio sporco di Sanciolo4

Un procedimento simile, ma più semplice nei suoi sviluppi, può essere rilevato per il termine “trionfera”, che credo trovi la sua origine nella visione in cui incappa Caitanello quando vaga in cerca di cibo: sei militari della Dicat uccisi mentre mangiavano, al centro della cui tavola campeggia una fera, come in trionfo, che sembra ridere della loro morte5.

Un esempio più calzante, invece, è quello del verdone scodato, che si struttura in modo molto simile a quello descritto dal critico: prima vengono un paio di vaghi accenni in cui viene presentata come semplice immagine6, mentre la descrizione vera e propria dell'episodio7 arriva solo

dopo che questo è stato accostato alla figura di Caitanello8, della cui

disperazione si fa allegoria: un essere temibile ridotto a zimbello dalle fere e condannato a una morte lenta e ignominiosa – non a caso in uno dei vaneggiamenti di Caitanello nella sua lotta con la morte, questa gli si presenta anche in forma di fera9.

Si rimise a girare attorno alla testaditenaglia, col respito arruffato di suo padre, ora grosso, ora fino, dentro l'orecchio: il respiro grosso di lui, il respiro fino dell'Acitana, perché Caitanello spartiva con lei il suo stesso respiro, glielo gettava come una cima e con quella corda invisibile, più sottile d'un capello, se la tirava di qua, e qua si stringevano insieme. Al suo orecchio, quel respirare di uno più uno, meno uno, era come qualcosa di grosso con dentro qualcosa di fino, qualcosa di

4 HO p. 1150-2. 5 Cfr. ivi pp. 552-556. 6 Ivi pp. 163 e 293. 7 Ivi pp. 431-4. 8 Ivi p. 430.

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potente con dentro qualcosa di debole, qualcosa che se fosse stato morto, non sarebbe stato più morto di quanto lo era da vivo.

Davanti agli occhi, come un simbolo, gli venne un verdone scodato, un verdone che alcune fere avevano pigliato a tradimento e gli avevano strappato la coda, facendolo poi galleggiare come un rottame, giocandoci e facendosene miserabile zimbello, spettacolo tra i più terribili e pietosi che lui avesse mai visto. Un pescecane scodato: qualcosa di grosso con dentro qualcosa di fino, qualcosa di potente con dentro qualcosa di debole, qualcosa di vivo con dentro qualcosa di morto10.

[…] C'era una sola differenza ed era che il verdone, per sua disgrazia o sua fortuna, non si poteva sfantasiare a fare l'opera che faceva suo padre, illudendosi di potersi riattaccare la coda con gli sputi di quella saliva che gli veniva in bocca a furia di sparlarsi da solo.11

Il tema dello scodamento, però, ricorre frequentemente nel libro, anche a prescindere dalla presenza del personaggio di Caitanello e in luoghi particolarmente importanti; per esempio in un sogno di 'Ndrja Ciccina Circè, in forma di sirena, perde la coda: quasi che, dovendo far vedere la sua faccia alla luce del sole, la femminota, che teneva tanto alla sua aura di mistero, perda anche gli attributi di “maghessa” e principessa delle fere, le quali non la seguono più, anzi “subito, sconcertate, schifate se ne allontanavano come se il troncone si fosse già incarognito e puzzasse”12; infatti, quando Ciccina Circè si mostra alla luce di un

“riflettore” nella stanza in cui si prostituisce per gli inglesi, cade del tutto la sua aura e la fama e 'Ndrja ne rimane scioccato, tanto che subito dopo non riesce quasi a chiamarla per nome13.

Il sogno in cui Ciccina Circè viene scodata dal sole sembra una 10 HO pp. 429-430.

11 Ivi p. 434. 12 Ivi p. 652.

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prefigurazione dello scodamento più notevole, quello che coinvolge l'orca: questa, attaccata dalle fere e ormai sconfitta, recide da sola l'ultimo legame con un colpo potente e inspiegabile. In questo passo ritornano alcune immagini della scena onirica con la femminota, in particolare la “coda ramata”, che là era giustificata dal racconto dei giochi in cui i ragazzini di Cariddi si travestivano da sirene, proprio con dei rami di palma per rappresentare la coda:

E lo strabilio da vedere fu, quando non s'aspettavano di vedere altro […] vedere che l'orcaferone azionava contro abitué e africanesche la terminazione falcata, ormai penzolante dall'immenso troncone come il grande ventaglio di una rama di palma gigante, tenuto ancora da qualche sfilaccio un istante prima e l'istante dopo già spezzato. […] ora, come avrebbe potuto il terribile animalone, azionare a mulinello quella specie di lungo e grosso tronco ramato, se non era che quegli sfilacci di carne e di nervi che ancora passavano fra la punta e il troncone, da questo ricevevano un'ultima volta e come per magnetismo, scariche d'una forza e d'una vitalità così potente, da dare la netta sensazione d'un fenomeno che non poteva assolutamente essere di questo mondo?14

Tutta l'energia, la forza dell'orca si distacca quasi volontariamente dal corpo ormai destinato alla morte e ricompare, non a caso in forma di coda, nella “barchissima” che porta 'Ndrja verso la morte:

[era] come se abbuiando alla lancia fosse spuntata un'anima, come una spina dorsale fra poppa e prua, un'anima in forma di coda d'orcaferone, e spinta da questa, corresse sulle acque, viavia che queste s'ottenebravano.15

La coda quindi sembra rappresentare per tutti gli esseri la forza profonda, intesa non solo come forza fisica, ma anche come peculiarità che permette la sopravvivenza di ogni essere e ce lo fa riconoscere in quanto tale:

14 Ivi p. 892. 15 Ivi p. 1255.

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il principio del suo vivere, anche se non della sua vita, e principio del suo morire, anche se non della sua morte.16

Per Ciccina Circè è la sua apparenza da maghessa, il mistero e il buio che la circondano: infatti quando il mistero cade la femminota perde anche l'apparente indifferenza da deissa e la vediamo correre come una donna spaurita, smarrita e poi “schiacciata nella polvere della strada”17.

La “forza” dell'orca sta senz'altro nella sua fama di Orcinusa, che sfuma e si rivela fallace proprio a partire da quel momento e invece ricompare nella morte inspiegabile di 'Ndrja. Anche le fere sembrano scodate quando l'orca agonizzante le coglie di sorpresa uccidendone diverse, perché le coglie in un momento in cui non usano la loro forza più grande, l'astuzia18. Infine la “coda” di Caitanello è la moglie, l'Acitana, alla

cui perdita il pescatore non si rassegna e sopravvive tormentato dal dolore, incapace di dormire.

Inoltre il concetto di coda si oppone a quello di testa in quanto quest'ultima è sede di ragionamento, di forza intellettuale, tant'è vero che spesso don Luigi è detto essere la testa o mente pensante dei cariddoti mentre 'Ndrja per un certo momento ne diventa la coda, ovvero la forza trainante; con lo stravolgimento di tutti i valori morali anche queste parti si sono invertite, causando una perdita dei punti di riferimento che si risolve nell'incapacità o nell'inutilità di agire e muoversi, come il verdone o l'orca scodati:

Ma era proprio questo [che a 'Ndrja] sonava male, falso, perché il solo fatto che lui si trovasse là a fare delle domande a don Luigi, e questa ex testaricca, in un certo senso obbligato a dargli, cosa da non credere, forzatamente delle risposte, il fatto

16 Ivi p. 434. 17 Ivi p. 1220. 18 Ivi p. 945.

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cioè che si trovasse là a fare una parte non sua, la parte che fu sempre di don Luigi, la parte della testa, e don Luigi a sua volta faceva la parte di lui, di 'Ndrja, la parte di tutti gli altri, della coda rispetto alla testa, il fatto cioè di trovarsi là con don Luigi, a fare uno la parte dell'altro, questo solo fatto era talmente fenomenale ai suoi stessi occhi che lui non poteva assolutamente fare a meno di pensarsi alterato pure lui19.

Le mani dei cariddoti, proprio come le manuncole dei pesci, non sono in grado di portare alla sopravvivenza, sembrano servire piuttosto per confermare i rapporti sociali, mentre è la coda il vero punto di forza, è la coda che metaforicamente ognuno di noi ha e che per la comunità cariddota è rappresentata dall'unità e dalla fermezza nella propria etica.

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2.2 Parità lessicale e parità etica

Il mondo dello Scill'e Cariddi si struttura immediatamente per nette contrapposizioni, richiamate continuamente dall'uso di riferimenti rigidi come il Teatro dei pupi (con i suoi personaggi che sono paradigmi etici di comportamento), come il mondo del mare, diviso in pesci cristiani e pesci bestini. In generale, la dialettica del testo orienta la materia narrativa su alcune opposizioni (femminote / altre femmine, fera / delfino,

pellisquadra / pescatori femminoti) che diventano campi

semantici 'forti' nel romanzo.

La sfera di attributi legati a questi campi di tensione realizza un 'secondo grado' dell'attribuzione; in altri termini, se un aggettivo è legato all'area attributiva della fera o di un altro sostantivo-chiave di Horcynus Orca, la sua riutilizzazione in un contesto diverso condiziona e orienta il nuovo sostantivo di cui diventa attributo.20

Così Francesca Gatta commentava acutamente una delle caratteristiche dell'attribuzione nel romanzo di D'Arrigo, sottolineando l'importantissima presenza di campi di tensione in opposizione, che si realizzano in un sistema stabile di aggettivi. Appena prima la studiosa aveva individuato la presenza di due gruppi di attributi distinti per la loro funzione: “aggettivi analitici” e “aggettivi sintetici”.

I primi sono definiti come attributi il cui valore è implicito nel sostantivo che accompagnano, e talvolta si presentano in una forma ripetitiva, quasi fossero epiteti formulari codificati dalla tradizione orale21,

Gatta porta l'esempio della “iattamammona sperta e lungimira”: ogni volta che si presenta questa coppia di aggettivi sapremo di doverci riferire al campo semantico delle femminote, che conoscono i segreti del mondo e in essi sanno leggere.

Gli “aggettivi sintetici” invece acquistano il proprio significato in un 20 F. Gatta, Semantica e sintassi dell'attribuzione in «Horcynus Orca» di Stefano

D'Arrigo, in “Lingua e stile”, a. XXVI. n. 3. settembre 1991: pp. 483-495.

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particolare contesto del romanzo e poi lo trasportano nei contesti in cui vengono a trovarsi, modificandoli. Sembra che si comportino in modo simile a quei personaggi ed episodi paradigmatici che abbiamo osservato sulla scorta di Alfano a partire dall'esempio del pellesquadra “sceso di barca”22: l'aggettivo “invaiolato”, per esempio, si fa “metafora di una

situazione che innerva tutta la prima parte del romanzo” e negli sviluppi successivi concorre a creare nuovi agglomerati di senso conservando al suo interno le sedimentazioni del suo significato.

Nel caso di “invaiolato” è chiaro il valore (anche etico) che ricopre nella narrazione, mentre ci sono alcuni attributi c h e mi sembra possano svolgere una funzione simile ma non mostrano altrettanto chiaramente il loro significato implicito; esso andrebbe forse ricercato avendo a disposizione un repertorio completo delle occorrenze, visti i diversi ambiti in cui si presenta. È il caso, mi pare, di “barbaro”, aggettivo che v i e n e usato indifferentemente per indicare una peculiarità delle femminote (il loro “barbaro coraggio”23), il tedesco di Napoli (“un barbaro

individuo”24) ma anche la “barbara insofferenza”25 di 'Ndrja verso le

inconsulte “ruffianaggini” di don Lugi o il “barbaro desiderio”26 di

Masino di riportare il corpo di 'Ndrja a casa. Un altro esempio, probabilmente meno misterioso, è il “parlare spartano” caratteristica sia delle femminote che di don Luigi27. Come possa il più alto

22 Cfr. in questo capitolo il § 2.1. 23 HO p. 1205.

24 Ivi p. 636. 25 Ivi p. 1004. 26 Ivi p. 1257.

27 Cfr. F. Gatta, La rigenerazione del lessico: lingua comune e neologia in «Horcynus

Orca», in AA- VV., Il mare di sangue pestato, cit.: pp. 153-4. Spartane sono anche

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rappresentante dell'etica cariddota esprimersi come una femminota (anche in tempi non sospetti) è spiegabile col fatto che viene ritenuto fuori norma che una donna parli energicamente, come un uomo.

L'uso degli aggettivi nei modi individuati finora si appoggia spesso ai “campi di tensione” di cui parla Gatta in cui si può leggere un valore etico fondamentale. L'applicazione di aggettivi in luoghi diversi della narrazione implica quindi quasi sempre l'attribuzione anche a quelle situazioni e a quei personaggi di un significato etico particolare, che si inserisce quasi sempre nell'opposizione fondamentale cristiano/bestino.

Certamente gli esempi riportati non esauriscono le funzioni e i modi con cui viene utilizzata l'attribuzione in Horcynus Orca, ma già in quelli evidenziati vediamo che non ci sono distinzioni radicali fra la partecipazione degli animali e quella delle comunità umane: entrambe partecipano in modo equilibrato al sistema etico e sono sullo stesso piano anche dal punto di vista dell'aggettivazione. Questo per quanto riguarda l'antinomia Bene/Male, che di questo sistema è la forma più evidente e più diffusa28; esiste però una terza categoria di cui gli animali

non fanno parte e che riunisce personaggi la cui moralità è profondamente disprezzata dai pellisquadre (e dal narratore, con loro sempre concorde) e radicalmente rifiutata.

La coppia di termini che più spesso indica l'opposizione fra bene e male è certamente cristiano/bestino; nasce, sembrano insegnarcelo i termini stessi, come scontro fra il mondo animale (bestino) e quello 28 I termini ricorrono in modo tanto diffuso e insistito che che mi limiterò a

pochi esempi, sebbene tratti da diversi punti del romanzo, e citerò il luogo solo in caso di forme rare.

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umano (cristiano)29, ma immediatamente i referenti si estendono e

assumono un valore assoluto, etico, che trova le sue radici nel comportamento e nell'atteggiamento di ciascuno: così avremo animali cristiani e comportamenti “bestini”. Di qui il gioco si complica ulteriormente, infatti l'opposizione sembra farsi di genere e vediamo il principio femminile della fe r a e d e l l e femminote contrastare la mascolinità dei pellisquadre e indirettamente, degli spada: ma un principio etico non può appoggiarsi su una divisione puramente di genere, quindi troviamo subito distinzioni (minori ma necessarie) fra le oneste femmine “di casa” cariddote, le “spadesse” e i maschi femminoti “notorii armimbrogli”30. Inoltre l'aggettivo “cristiano” può opporsi a

“maomettano” in riferimento, ovviamente, al ciclo orlandiano: si costituisce così un ulteriore livello di significato per questa parola apparentemente semplice e quotidiana.

Fere e femminote hanno come progenitrice comune le sirene, di cui condividono i caratteri e quindi le serie aggettivali; innanzitutto la bellezza: le fere, come le sirene, sono “belle sciscì” e “femmine scicchettose” quindi “sciampagnine” con corpi flessuosi e un “culo a mandolino”. Sono “scialacquone”, termine che si riferisce ambiguamente alla loro abilità in acqua, e “malefemmine ruinafamiglie”, con un altro gioco di parole che si sdoppia nel riferimento alle sirene: le fere rovinano le famiglie perché fanno soffrire loro la fame.

Le femminote hanno perso questa bellezza fisica e la continua allegria:

29 Termine di uso dialettale che indica le persone in generale, come dice Oscar

Bruno (cfr. Id., Echi e riflessi letterari nell'Horcynus Orca, in “Atti dell'Accademia Peloritana”, Classe di Lettere, LIV, 1977-78: pp. 233-298), ma che, secondo l'uso di D'Arrigo, si piega a rivestire significati ulteriori.

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sono donne dalla figura imponente, c o n una forza fisica notevole e soprattutto dotate di un'etica del tutto particolare, che rispecchia profondamente quella delle fere: le femminote credono nella sopravvivenza ad ogni costo, nel vivere faticando il meno possibile, come dice a 'Ndrja il “femminòtoro” spiaggiatore:

la femminota, non è lei quella che si rassegna, rovesciando le mani, resa palma e reso palmo […] lei sapete come ragiona? Scappare è vergogna ma è salvazione di vita. 31

Il comportamento di tutte queste “pescesse bestine” dallo “stile trucchigno e attirante”32 è l'esatto opposto di quello dei pellisquadre:

segue la morale del sotterfugio, del tradimento, dell'attacco alle spalle. Fere e femminote sono “maganzesi” cioè, come Gano di Maganza, traditrici in modo catastrofico. Inoltre non bisogna sottovalutare la “teatranteria” che viene loro attribuita: simbolo di doppiezza morale sarà uno dei segnali di cambiamento di don Luigi di fronte a Sanciolo; inizialmente 'Ndrja la chiama solo “arte scenica”33, ma presto si accorge

della trasformazione della testaricca del paese in un qualsiasi “trucchigno” “armimbrogli”.

Il principio della sopravvivenza ad ogni costo porta le femminote ad e s s e r e “tragediatore” , “tranellatrici” e, appunto, “trucchigne” e “armimbrogli”; in altre parole, proprio come le fere, sono capaci di volgere le situazioni in proprio favore in modi impensati. Sono “millunanotte”, dotate di “furbizia” e di “arte mammalucchina” come erano le sirene e come sono ancora le loro discendenti animali. Mentre per le abitanti del Paese delle Femmine, però, l'accento risulta più 31 Ivi p. 119.

32 Ivi pp. 656-9. Ma sono attributi che si trovano riferiti indifferentemente a

sirene, fere e femminote.

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spostato sul mistero delle loro risorse (tanto che spesso sono dette “deisse” o “magone”), per le fere questi termini non ricorrono mai e invece è frequente il disprezzo o addirittura l'odio per le incredibili imprese della loro “mente tranelluta”.

Questa differenziazione è motivata certamente dall'ammirazione timorosa per l'orgogliosa indipendenza, la forza e la sfrontatezza delle femminote, stigmatizzate anche negli appellativi “piratesse” e “galeote”; grazie a queste peculiarità esse si distinguono addirittura come una “razza” particolare:

razza di femmine, al cui confronto molti e molti uomini facevano la figura di femminelle.34

Sono portatrici di una femminilità e soprattutto di una sessualità non passiva, aggressiva e quindi spaventosa per gli uomini di Cariddi35, che

temono di poter diventare come i femminoti, “piacentissimi alle loro femmine, che sembra li tengano solo a quell'uso”36.

Per le fere solo raramente si esprime ammirazione, normalmente le frasi del narratore e dei pellisquadre sono segnate dal disprezzo: “tappinare”, “infamone”, “malanova”, “zingare” e “sdiregnatrici”. Questi ultimi due elementi creano un parallelo implicito fra le fere e la guerra, la grande sdiregnatrice, che nel suo trionfo viene raffigurata proprio come una zingara37; anche le fere vengono rappresentate in quella forma in una

piccola similitudine, ma si tratta di un quadretto gioioso che allenta la

34 Ivi p. 52.

35 Cfr. G. Alfano, Quel che vuol dire ricordare. Il senso del ritorno in Horcynus orca,

in “Atelier”, n. 43, a. XI, 2006: pp. 12-31.

36 HO p. 9. Anche fra le fere i rapporti sociali sono pericolosamente ambigui:

tutti gli esemplari della specie concorrono a compiere le loro nefandezze e un occhio non esperto fatica a distinguere maschi e femmine.

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tensione durante l'invasione dello scill'e cariddi:

Viaggiavano come una tribù di zingari scialacquoni per i quali bontempo o malotempo è sempre un tempo e dove gli scura, ci mettono un punto. Le madri giocavano coi figli, […] e c'erano quelli che ciuliciuliavano fittofitto e quelli che s'inseguivano con sgridii, quelli che correvano avanti e quelli che avanzavano a rilento, fermandosi e formando crocchi, facendo riunione in circolo. Da tutto l'insieme, insomma, venivano risate, voci senza pensieri, rumori in sordina come di una grande comarca zingaresca in movimento.38

Da notare il termine “comarca”, spesso riferito alle femminote, che quindi vengono chiamate in causa solo indirettamente.

Fere e femminote rappresentano il polo negativo nell'universo dei pellisquadre, l'Altro con cui ci si scontra – non a caso sono entrambe mangiatrici di verdoni39, animale dalle carni bestine in cui i pellisquadre

si riconoscono perché è un “serio, spartano micidiatore”, che uccide per mangiare e non nasconde le sue intenzioni dietro una falsa leziosità:

Porta scritto in fronte il suo assassinaggio, non si maschera, è sempre lì che si guadagna il pane da pescecane, campando sulla vita degli altri40.

Forse è proprio in ragione di questa appartenenza al “campo nemico” che le serie di aggettivi con cui vengono descritte sono più compatte e uniformi di quelle che riguardano i pellisquadre e gli spada, come se fosse più facile individuarle e nominarle; le serie positive, infatti, appaiono disomogenee fra di loro e composte di un numero di elementi molto minore. Potrebbe essere interessante, inoltre, capire se c'è una motivazione del fatto che questi aggettivi risultano più fedeli all'italiano

38 Ivi p. 506.

39 Cfr. ivi pp. 145 e 162. 40 Ivi p. 431.

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strettamente inteso e vi si trovano poche neoformazioni e neologismi.

Il polo positivo dello scill'e cariddi è rappresentato dai pellisquadre, termine che non indica esclusivamente i cariddoti41 ma tutte le

popolazioni affacciate sullo stretto che si rifanno a principi etici comuni, fra cui si crea una sorta di relazione parentale; ci sono poche testimonianze dirette di questo fenomeno, fra cui posso citare la confidenza immediata fra 'Ndrja e l'ex-pellesquadra dopo che lui usa la parola fera42 e la magnanimità degli scilloti nei momenti di difficoltà,

(infatti spesso sono detti “brave anime”43).

I principi a cui si ispirano i cariddoti sono condensabili negli aggettivi che descrivono il modo di parlare di don Luigi: “leale”, “spartano”, “netto”, “franco”, “dichiarato”, “specchiato”, “solare” dallo “stile incarnato” e lo stesso don Luigi è un “uomo marmorino” non intaccabile da ferro o da fuoco: dignità e onore, quindi, ma anche lealtà e franchezza.

Mentre il principio morale delle femminote è la sopravvivenza ad ogni costo i pellisquadre ammirano il sacrificio, stimano il lavoro faticoso come unica fonte lecita di guadagno; il lavoro e l'onore sono la prima virtù, come ricorda don Luigi a 'Ndrja:

[noi pescatori] siamo gente che lotta la vita col più barbaro nemico che esista, il mare, […] gente, insomma, che il pane se lo busca sudando sangue, e non l'elemosina mai, gente, t'intendo dire, che vive e muore con la sua dignità, senza dovere abbassare gli occhi di fronte a nessuno.44

41 Vista la scarsa presenza dei pellisquadre di altri paesi nel romanzo continuerò

a usare il termine per indicare solo quelli cariddoti, salvo diversamente indicato.

42 Cfr. qui sotto § 2.2.1. 43 HO p. 192.

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E a questa vita dura i pellisquadre resistono, restano attaccati fedelmente alla loro terra – o meglio al loro mare; nelle parole di don Luigi a un fascista:

«Che disse vossia? Che ci manda all'isola, al confino?» gli aveva domandato. «Ma a vossia gli pare che non è isola, non è confino pure questo qua?» E batteva col piede sopra Cariddi in Sicilia. […]

«Qua siamo» […] «Vossia, o ci trova sopra o ci trova sotto mare. Ma qua siamo»45

La scelta dei cariddoti è incisa profondamente nella loro pelle “di squadri”, eppure la guerra è riuscita a scalfire questa pelle, a piegare con la fame le loro convinzioni:

C'è un limite a tutto, per tutti, un limite anche al potere di resistenza d'un pellesquadra, e voleva dire che la guerra aveva lasciato le sue intacche anche sulla loro pelle di squadri, anche su queste pelli dure e raspose come quella del verdone e della carta per svetriare: intacche sulla pelle delle persone, che era la stessa pelle sotto la quale si erano come tatuati in sangue i loro principi e convincimenti, le loro regole di vita e tutto il bell'onesto che ci vedevano in quel loro miserabile mestieruzzo. E in conseguenza di queste intacche, 'Ndrja trovava al suo ritorno il mondo sottosopra, trovava i pellisquadre come se scappassero da quelle battaglie perse: principi, convincimenti, regole di vita e bell'onesto di mestieruzzo, ed era come scappassero da dentro se stessi, come facessero per uscire dalla loro pelle e lasciarsela cadere ai piedi.46

Deduco che il lavoro stia alla base di questo sistema (e per questo è quanto di più prezioso esista per i pellisquadre) anche dal fatto che proprio il lavoro, il “daffare di mano”, è la prima cosa che 'Ndrja pensa di restituire loro per riportarli all'antico splendore; inoltre credo che si possa inferire dagli oggetti che i pescatori portano con sé quando l'intera

45 Ivi pp. 191-192. 46 Ivi p. 913.

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comunità ripara sulle alture dell'Antinnammare per sfuggire alla guerra:

Erano scappati così come si trovavano, pensando a salvare solo il più prezioso: la vita, e con la vita i ferri delle due traffinere, le fiocine, le gistre di conzo coi sugheri e le reste di ami, i remi, le lampàre ad acetilene e le reti, specie la più valorosa cioè la palamitara. Alle barche palamitare, a ontro e feluca, dissero invece, almeno con le labbra, forzatamente addio.47

sul rapporto fra i pescatori e le loro barche dirò più avanti48 qui mi

limito semplicemente a ricordare che navigare senza fatica nelle acque agitate dello Stretto significa per i pescatori crescere davvero, imparare a gestire le correnti “è come una seconda sverginatura”49 anche se si

conquista quando la barba comincia a biancheggiare.

Il corrispettivo positivo dei pescatori nel mondo animale è il pescespada, a cui vengono riconosciute virtù umane: la fedeltà a una vita di durezze, la lealtà alla propria compagna fino alla morte. Lo spada però è caratterizzato da una serie aggettivale piuttosto breve, vista anche la sua scarsa presenza come personaggio; ricordo per esempio gli aggettivi “orlandicchio”, uno dei più frequenti che imposta il parallelismo con l'epica cavalleresca, “valoroso”, “fedele” e “innamorato”.

Dunque abbiamo visto finora l'assegnazione di alcune figure del romanzo a due campi etici, segnalati dalle serie di aggettivi: non si tratta di una divisione netta, il verdone, per esempio, pur avendo carni bestine è in qualche modo simile ai campioni del “campo cristiano”, i

47 Ivi p. 496. 48 Cfr. infra § 2.4 49 HO p. 322.

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pellisquadre, che da lui prendono il nome50.

Inoltre è importante sottolineare che fra gli animali di mare nessuno, nemmeno la fera o l'orca, vengono indicati con il disprezzo riservato, invece, ad alcune tipologie di esseri umani come i “riattieri”, gli “intrallazzisti”, i fascisti e i tedeschi.

La colpa dei riattieri è senz'altro quella di vivere imbrogliando le persone, sia i pescatori che i clienti: nessun uomo onesto potrebbe smerciare carne di fera per tonno, secondo i cariddoti. Quindi la caratteristica distintiva dei riattieri è il “parlare lazzaronesco” e l'aggettivo che accompagna il loro nome come un epiteto è “fallattutti”. Inoltre, anche in tempo di pace, se questi figuri si spingono fin dentro il paese in cerca di pesce significa che è un periodo di magra, e quindi il loro arrivo è accompagnato da improperi51.

Le persone per cui viene mostrato il maggior disprezzo sono Sanciolo, lo scagnozzo del Maltese, e soprattutto Dumdum, il “bomboattatore”. Quest'ultimo viene presentato come un “miserabile, incallito carnevenduta”52 (immagino riferendosi al fatto che ha fatto il mercenario)

e addirittura come “feccia del genere umano”53, ma l'epiteto più

ricorrente è “verme di terra”: è certamente un terribile segno dei tempi che sia proprio lui, “orcinuso a comando”54 a rappresentare il Destino

dell'orca. Ed è sempre lui, circostanza senz'altro non casuale, a far sparire la “Borietta”, l'ultima barca dei cariddoti.

Anche Lillo Sanciolo viene indicato con i peggiori appellativi, forse 50 E cfr. supra § 2.1.

51 Cfr. HO p. 547. 52 Ivi p. 876. 53 Ivi p. 877. 54 Ivi p. 877.

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perché ha una responsabilità ancor più diretta nello “sdegettamento” dei pellisquadre. Abbiamo una carrellata di esempi nella presentazione che ne fa il narratore mentre lo “scagnozzo” sale verso lo sperone: ometterò la breve descrizione fisica per concentrarmi sulle connotazioni morali:

Ai pellisquadre doveva ricordare i riattieri, lo stesso tipo di malandrinotto di cittade, borioso e sciantiglì, a chiacchiere, però, e sotto sotto vigliacco e cacone […] tutto l'insieme [dell'abbigliamento] arrangiato alla mafiosa […] Eppoi, era, all'occhio, d'animo losco, invaiolato […] era iattante, vigliacco […] sapeva il fatto suo di ruffiano e bazzarioto, eppoi aveva la sua facciatosta e la sua parlantina di disonorato [...]55

Sono pochi gli aggettivi e i sostantivi che abbiamo già incontrato: invaiolato prima di tutto (che nel suo caso compare anche come “puntinato”) e poi “sciantiglì”, che viene usato anche per le fere; per Sanciolo, però, questa è solo l'apparenza, in realtà egli è soprattutto un “vigliacco”, unico termine ripetuto in questo lungo giro di frase. Più avanti nel romanzo compare anche l'importante aggettivo “maganzese”, che ho già commentato, e credo che basti qualche piccolo esempio per dare un'idea della lunga serie di veri e propri insulti con cui viene indicato lo scagnozzo, soprattutto alla fine dell'episodio: “sciacquapalle”, “nettorecchi”, “scellerato”, “infamone” “facciadibronzo”, “spudorato” e “porta cazzi a pisciare”; inoltre in virtù della sua presenza il termine “scagnozzo”, che finora aveva indicato semplicemente i giovani che stanno imparando a governare da soli la barca, assume una sfumatura spregiativa, e il narratore ha modo di spiegarcene l'origine:

un pupo, ma di quelli che all'Opera si chiamano scagnozzari e che un paladino ammazza per lo meno due alla volta.56

Il modo di parlare di Sanciolo, la sua lingua, è il mezzo attraverso cui

55 Ivi p. 952. 56 Ivi p. 991.

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sembra diffondersi l'invaiolamento, e quindi è coerente con l'immoralità del personaggio: è “iattante”, “sprezzantesco”, “linguto”, “lazzaronesco”, “borioso”, “malandrinesco”, “allusivo”, “doppio” e “ruffianesco”.

Questi personaggi, privi di morale e di una comunità di riferimento appartengono a una sfera di tale bassezza che, in tempi normali, è inutile e perfino dannoso confrontarcisi: la loro immoralità sembra potersi trasmettere per contatto come una malattia, i cui segni pericolosi compaiono sui cariddoti durante l'episodio finale sullo sperone57.

Mi pare che il fatto che queste figure così negative provengano dalle città non sia un elemento da sottovalutare: le città sono sempre rappresentate come luoghi distrutti, piene solo di macerie e di gente sbandata, mentre abbiamo visto che lo scill'e cariddi può essere oggetto di descrizioni idilliche nonostante le battaglie recenti; parimenti tutti i personaggi profondamente negativi sono cittadini, mentre quelli positivi appartengono al mondo dei paesi; un caso particolare è forse il Maltese mister Maniàci, che però mi sembra una figura ambigua, il cui ruolo all'interno del romanzo è certamente particolare e delicato e andrebbe studiato nel dettaglio.

Mentre gli intrallazzisti non sono disprezzati come categoria58, i riattieri

e i fascisti sono pressochè condannati a priori. Quest'ultima categoria comprende molti personaggi, ma l'impressione generale è che una stessa bassezza morale trovi terreno fertile e si riconosca in una stessa bandiera. 57 Cfr. per esempio ivi p. 969 o p. 1092-3.

58 Cfr. l'episodio del ragazzo che va a morire nella Casa del Fascio, fra 'Ndrja e le

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“Testedimorto” vengono chiamati, con riferimento ai teschi che campeggiavano, per esempio, sulle uniformi delle brigate nere e che vengono caricati di un evidente significato luttuoso.

I fascisti sono “mezzi cristiani […] cristiani finti”59 e spesso

maganzesi60, traditori. Sebbene talvolta questa categoria venga messa in

relazione con le fere, è certamente preferibile essere sottoposti alle prepotenze degli animali, di cui almeno si sa fino a che punto possono arrivare:

forse perché, delle fere, conoscevano la mentalità e sapevano sin dove poteva arrivare il loro prepotere, mentre di questi [i fascisti], la mentalità la conoscevano pure, ma ignoravano sino a che punto poteva spingerli la loro prepotenteria.61

Un trattamento simile viene riservato al popolo tedesco, che come altri (inglesi62 e americani63 per esempio) viene stilizzato su un unico64

paradigma, quello degli assassini inflessibili, ammazzatori per natura:

animalazzi […] ammazzatori e basta, ammazzatori che mentre ammazzano ora quelli e ora quegli altri, a loro non li può ammazzare nessuno, 'sendo fatti non di carne e ossa, ma di ferro e fuoco.65

In questo sono simili all'orca, non a caso c'è uno stretto rapporto fra loro e la morte, di cui sono detti essere i lavoratori a cottimo:

per lei [la Morte] dev'essere un piacere a doppio gusto se alquandalquando c'incappa pure lui, il tedesco, suo gran

59 Ivi p. 556. 60 Ivi p. 214. 61 Ivi p. 190.

62 Caratterizzati da impassibilità e amore per lo sport fine a se stesso, Cfr. HO pp.

940 e 942.

63 “L'americano è un grande uomo businisso” Ivi p. 507.

64 Anche se le femminote, all'inizio del romanzo, distinguono fra i soldati

germaneschi quelli che “ridono come noi” cfr. ivi p. 316.

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travagliatore a cottimo, suo gran giornataro perenne.66

Questi soldati restano esclusi sia dall'opposizione fra lo scill'e cariddi e le perversioni della città che da quella fra cariddoti e fere, ma anche nel loro caso è quasi un sacrilegio ritenerli cristiani per l'inumana freddezza; ad esempio nel caso dei tedeschi uccisi da Masino il distacco prevale sulla pietà:

Non era sacrilegio chiamare miracolo un ammazzammazza di cristiani. O era questo, invece, sacrilegio, questo di ritenere cristiani tre tedeschi di quella specie là?67

Già nel “sentitodire” dello spiaggiatore avevamo visto “quegli statuoni bronzati di dentro e di fuori”68 arrogarsi il diritto di passare per mare

prima degli italiani, e mettersi in salvo mentre i “soldatelli italiani” subivano gli attacchi degli aeroplani inglesi che “come falconi” incendiano “quella macchie di grigioverde soldatesco”, tanto che alla fine “non si distingueva più se quei tizzi e tizzoni erano stati rami e tronchi di alberi oppure braccia, gambe e tronchi di cristiani”69. Implicita ma forte

l'opposizione fra i deboli corpi organici dei soldatelli e quelli bronzei, inattaccabili dei tedeschi. Il richiamo al metallo è frequente ogniqualvolta la popolazione viene chiamata in causa dal procedere del racconto70 e si

estende anche alla loro voce, infatti quella che esce dalla radio della nave che affonda sembra quella di un

tedesco che parlava con lingua italiana, come molasse l'uno con l'altro due coltelli, lama contro lama71

All'altezza dell'episodio del soldato catturato a Napoli la somiglianza è

66 Ivi p. 639.

67 Ivi p. 833 Il contesto sono le riflessioni sui tre tedeschi uccisi da Masino. 68 Ivi p. 115.

69 Ivi.

70 Cfr. per esempio ivi p. 546. 71 Ivi p. 711.

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abbastanza approfondita da essere richiamata solo con pochi accenni ed è pronta per modificarsi dando vita alla similitudine della mano in forma di pistola:

come se nervi e ossa avessero pigliato la forma della cosa che la mano stringeva d'abitudine, la destra che offriva, non la teneva bella rovesciata a palma aperta, ma senza minimamente scandaliarsene, la teneva di taglio come una pistola puntata in avanti, col mignolo anulare medio e indice stretti insieme per lungo, che facevano la canna, e il pollice per alto, a grilletto, in posizione di sparo.72

In quell'occasione rarissima di avere un tedesco indebolito e solo, da poter uccidere con tutta calma, la composizione dei corpi si inverte e i “guaglioncelli”73 che l'hanno catturato diventano statue immobili mentre

il suo corpo si fa debole:

Lo guardavano veramente così: come fossero fatti, loro, d'una materia immortale, della materia indistruttibile delle statue, marmo o bronzo, e lui della comune materia mortale, di carne e d'ossa, della polvere di cui è fatto l'uomo. Lo guardavano che parevano le statue del loro monumento, il monumento di quello che avevano fatto.74

Che strano luogo per citare l'“aere perennius” oraziano! Troviamo anche, poco prima, un minimo riferimento al tema della poesia e del suo valore, un filo, questo, che corre sottile e quasi invisibile nel libro, con cui sarebbe interessante confrontarsi75:

se cominciavano ad arrivargli all'orecchio fischi d'uccelli e cominciava ad alzare gli occhi al cielo, se insomma un barbaro individuo come quello se n'usciva in poesia, questo doveva significare che per quanto d'acciaio, volere o non volere, il tedesco s'andava sconsentendo dentro, doveva significare che

72 Ivi p. 633.

73 Sottolineo, incidentalmente, la nota linguistica che insiste sulla localizzazione

geografica dell'episodio.

74 HO p. 638.

75 Il primo accenno è proprio all'inizio: “certo, era notorio, le femminote non

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sentiva farsi scuro in cuore.76

In Horcynus Orca, quindi, valgono le stesse regole e le stesse distinzioni etico-morali sia per le persone che per gli animali marini, che però risultano immuni da una serie di “malattie” sociali che invece affliggono l'umanità, e in essa si espandono, come avviene sullo scill'e cariddi. Gli aggettivi che indicano i riattieri e i loro consimili solo raramente vengono applicati alle fere o ad altri animali, non ne sarebbero degni – e così pure alle femminote, con cui è lecito confrontarsi.

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2.2.1 Il valore del linguaggio

Il linguaggio svolge in questo romanzo un ruolo importantissimo: non solo attraverso la voce del narratore con le sue incredibili evoluzioni verbali ma anche il modo in cui i personaggi si esprimono ha un valore fondamentale: attraverso i termini che ciascun personaggio usa, esso si distingue come appartenente a un campo o all'altro, al mondo del delfino o a quello della fera, al mondo dei riattieri o a quello dei pellisquadre. I pescatori conoscono le cose, non le parole che quindi si concretizzano appena pronunciate, modificando chi le usa: forse per questo don Mimì, dopo tanto parlarne, assume quasi le sembianze delle sirene77 e

certamente per questo basta che don Luigi pronunci delle parole a doppio senso, “a baccaglio” perché perda la sua etica di uomo integro, marmorino.

Don Luigi nell'episodio sullo sperone insegue “un'idea senza ideale, un'idea come mira”78, quindi un'idea vuota del senso etico che dovrebbe

sostenere le parole dei pellisquadre, oppure, ancora peggio, insegue l'idea quasi blasfema che 'Ndrja possa concedersi “femminilmente” al Maltese79:

Questo don Luigi […] si piglia insomma d'infamità, si piglia alla lettera dell'infamità che pigliava dalla bocca di quello scellerato di Messina, e le infamità che pigliava dalla bocca di quella bassa canaglia me le voleva mettere sulla bocca a me ['Ndrja], arrossendone per primo lui e arrossendone poi anch'io con lui e per lui […] a quel punto, altro che scambiarsi i vestiti, a quel punto erano ormai talmente simillimi in tutto, che si potevano scambiare addirittura di persona […] a quel punto insomma, agli occhi suoi, l'uno e l'altro erano perfettamente pari, parlavano la stessa lingua, l'identico

77 Cfr. HO p. 660. 78 Ivi p. 982.

79 Pochi sono gli studi sul pur interessante rapporto fra i sessi in Horcynus Orca,

per esempio cfr. A. Infanti, Tracce e simboli del discorso alchemico in «Horcynus

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baccaglio: voleva dire che don Luigi, alterandosi, si era alterato anche in quel tipo, in quella scellerata specie d'uomo, in quella feccia, si era fatto anche scagnozzo un poco, anche nettorecchi e anche ciarlatano, anche ruffiano e anche sciacquapalle.80

Le parole sembrano oggetti concreti, che si prendono da un'altra persona ma veicolano un contagio irrefrenabile che modifica nel profondo chi le pronuncia: anche l'aspetto, anche il corpo. 'Ndrja non sopporta di essere chiamato 'Ndrjuzza dai pellisquadre perché rischia di diventare ciò che quel nome comporta.

Come sottolinea Alfano nel Duemari vige un uso del linguaggio di tipo icastico, con alle spalle una cultura di tipo sineddochico nel senso che “ogni fenomeno, ogni sua denominazione contiene i tratti essenziali di ogni altro fenomeno e denominazione”81; dall'altra parte troviamo invece

una cultura svincolata dalla concretezza, che usa un linguaggio fondato su corrispondenze allegoriche, costruito dall'incastro di “nomi di cosa astratta, o per meglio dire, nomi astratti di cosa reale”82. Però mentre

esistono formazioni di compromesso che permettono a un pellesquadra di esprimersi e comunicare con un delfinaro senza mescolarsi troppo col suo mondo83, non esiste una lingua che possa mettere in rapporto il

mondo dei retti pescatori con il mondo dei riattieri senza far decadere i primi, senza far diffondere la malattia.

La lingua dei bazzarioti e dei maganzesi è caratterizzata da doppiezza, da un secondo senso osceno o infamante insopportabile per un pellesquadra. Con questi personaggi non ci si mescola in tempo di pace, 80 HO p. 1023.

81 G. Alfano, Gli effetti, cit.: p. 152.

82 HO p. 240 e cfr. Romanò che evidenzia come nel sogno di 'Ndrja la cultura del

delfino venga associata anche alla scrittura che i pellisquadre, vestiti da ammiragli, tracciano sulla sabbia come se fossero a scuola (art. cit.: p. 103).

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ma in guerra, quando “la fame confonde le lingue”84, anche i punti di

riferimento si perdono e la guida della comunità diventa incapace di parlare: forse allora è davvero impossibile una redenzione per l'intera comunità, destinata alla perdizione e alla solitudine della grande città, in cui la lingua non è univoca85.

Mentre non mi dilungo ulteriormente sulla differenza fra il modo di parlare dei riattieri e quello dei pellisquadre può essere interessante indagare i termini in cui viene posto lo scontro fra chi usa la parola “delfino” e chi usa la parola “fera” perché riguarda più da vicino questi animali così importanti per la costruzione del romanzo. L'ingresso del parlare lazzaronesco a Cariddi ha tutto l'aspetto di un'invasione senza rimedio, non dissimile, da questo punto di vista, dalla calata delle fere nelle acque dello Stretto; invece il caso, anzi il “casobello”, di cui mi sto per occupare è uno scontro in cui almeno una delle due parti cerca (in modo per altro fallimentare) di avvicinarsi all'altra, attraverso dei termini che siano a metà fra i due mondi; inoltre i “delfinari” non sono irrevocabilmente distinti dalle persone rette, ma possono esistere delfinari come Portempedocle e compagni, che si avvicinano alla fera s in modo “fisico” azzardandosi ad assaggiarne le carni e quindi

si risentono dall'ombellico in sotto e sono quelli che hanno il palato misterioso, ignaro di pesce ricco […] e quella sua merdarella la pigliano, al summosummo, per cibaria squisitissima.86

Oppure ci sono delfinari che “si risentono dall'ombellico in sopra” ed essendosi avvicinati alla fera attraverso la mente e ne subiscono solo il

84 HO p. 543.

85 Cfr. anche ivi p. 1015: “forse a Messina le confondeste le lingue”. 86 Ivi p. 291.

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fascino esteriore87 e infine ci sono i delfinari convertiti, come il signor

Cama. Il Delegato di spiaggia, infatti, proviene dal mondo della “cultura”, come è evidente quando cerca di diffondere fra i pellisquadre la verità sulle foche oppure la leggenda di Pelorus Jack, incredibile grampo grigio australiano:

Il signor Cama, capace che se lo era inghiottito, che ci credesse ciecamente in quella Grampo Grigio che lui chiamava al mascolino: do'phino, al mascolino americano, perché il delfino, lui, doveva averlo sentito la prima volta nella lingua americana e in quella gli era rimasta, e anche se a Cariddi se era messo a masticare pure lui la fera che masticavano tutti, e sennò come s'intendevano? ogni tanto, vuoi o non vuoi, il do'phino fatalmente gli tornava sopra come un piccolo rigurgito. Ma si capiva, umanamente lo capivano.88

I luoghi del confronto, dunque, sono i due “casobelli del delfino contro fera” con il seguito che provocano nei sogni di 'Ndrja89. Il primo

vede opporsi i rappresentanti più scelti della comunità (Don Luigi, Caitanello Cambrìa, Arturo Palamara... ma anche lo stesso 'Ndrja e Duardo Cacciola, il suo più caro amico) alle prepotenze di un gerarca fascista, un'Eccellenza dalle fattezza di orango; il secondo casobello invece coinvolge 'Ndrja e Crocitto, un rappresentante delle comunità dello stretto che viene da Spatafora, contro il signor Monanin, un Guardiamarina veneziano di origini benestanti e di vasta cultura.

Mentre il primo caso potrebbe ridursi al sopruso mosso da un 87 Il signor Cama assomiglia anche, vagamente, ad un fera essendo “un colosso

con la testa liscia e bozzuta” cfr. ivi p. 662.

88 Ivi p. 519.

89 Ovviamente il passo è ampiamente commentato dalla letteratura critica per

cui sottolineo qui solo gli elementi che mi sembrano più rilevanti. Cfr G.Alfano, Gli effetti, cit.: pp. 149-177 oppure E. Giordano, Il viaggio, cit.: pp. 65-72 e A. Romanò, art. cit. pp. 99-103.

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comandante fascista di passaggio sugli abitanti dello Stretto, nello scontro che avviene sulla corvetta si sviluppa una discussione. 'Ndrja, però, probabilmente memore dello scontro con l'Eccellenza, non si fa coinvolgere più di tanto e lascia portare avanti le ragioni della fera a “quel pazziscolo di Crocitto”:

«Ma perché lei per una volta non fa la prova a mettere avanti l'animale, lo mette all'opera e poi gli mette il nome?»90

arriva a dire spazientito il marinaio di Spatafora al signor Monanin. E poi più avanti:

«Delfino, va be', io me lo ricordo, ma lei perché non glielo dice pure a lui, al suo delfino, di ricordarselo per primo lui che è delfino e non si deve comportare come fera?» 91

Ma il Guardiamarina Monanin92 è irremovibile, non capisce le ragioni

dell'altro, anzi le rifiuta a priori perché il suo rapporto con l'animale è un rapporto mediato, le “favole” che gli hanno insegnato sembrano aver addirittura compromesso la sua capacità di giudizio; e questo è vero al punto che 'Ndrja si trova a chiedersi se l'istruzione del signor Monanin l'abbia reso più potente o più debole:

che potere può dare l'istruzione se è tutto il contrario della vita? potere di uomini morti, tuttalpiù: un potere debole, una debolezza potente...”93;

Infatti il Guardiamarina crede a storie “che nemmeno ai muccuselli si sarebbero potute raccontare”94, e possiamo insinuare addirittura che

90 HO p. 235. 91 Ivi p. 243.

92 Interessante nella valutazione generale di questo personaggio il fatto che

venga nominato con il grado militare solo quando svolge le sue funzioni ufficiali (l'ammainabandiera), mentre in tutto l'episodio viene designato con il termine civile “signor”: la guerra non è certo fra gli interessi e le attitudini di questo delicato signorino veneziano.

93 HO p. 254. 94 Ivi p. 253.

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questa cultura lo renda incapace di analizzare gli elementi della realtà per ricavarne conoscenze utili: già a quest'altezza del libro cogliamo al volo l'inesattezza dell'affermazione che il delfino sia mortale nemico della guerra e che durante la guerra sparisca per riapparire alla fine95, basta

leggere proprio l'incipit del primo “casobello”:

Era dalla Grande Guerra, a detta dei pellisquadre, che in quei paraggi di mare non c'era più stato un concentramento di fere come quello del millenovecentotrentacinque, quando le fere cominciarono a crescere a vista d'occhio, perché alle vecchie abitué si aggiungevano quelle, della stessa razza di brune, che da Malta o dalle Isole, arrivavano sulla scia delle navi, che navigando verso l'Abissinia, tagliavano per lo stretto96.

Il “potere debole” del signor Monanin quindi lo rende incapace di vedere il mondo, di interpretarne i segni. Quello che la sua istruzione gli ha insegnato è una fede nel delfino cieca a qualsiasi dimostrazione contraria, una fede tanto profonda da spingerlo, cosa mai successa prima, a immischiarsi con i marinai e dar loro confidenza, solo perché li ha sentiti chiamare “fere” i delfini:

[Monanin] parlava del nome del delfino, c'era poco da dire, come i Crociati parlavano del nome di Dio: partivano con quel nome inciso sulla punta della spada, Dio era con loro e allora potevano fallire i fatti gloriosi, i colpi di spada, i fendenti, i saraceni decollati, fatti a pezzi, convertiti alla fede nel nome affilato, tagliente di Dio?97

I riferimenti al campo semantico della religione sono piuttosto diffusi in tutto l'episodio98, soprattutto in merito al rapporto del Guardiamarina

con il delfino, ma possiamo utilizzarli anche per accostare il comportamento di Monanin con la violenza e il sopruso perpetrati 95 Cfr. ivi p. 244.

96 Ivi p. 181. 97 Ivi p. 242.

98 Per esempio il delfino è “vergine e martire”, e 'Ndrja uscendo dal cimitero si

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dall'Eccellenza fascista nell'episodio precedente; in quel caso il riferimento andava però in direzione opposta: il fascista è un “saracino” che ha rinnegato il cristianesimo:

Pure tu ti chiami fera, fascista fera, eccellenza di fera. Ti cancellasti la croce di cristiano, se mai la portasti, per la mezzaluna del saracino: col tranello ci pigliasti a tiro. Pentiti e chiedi acqua di battesimo in Abissinia, se qualche lancia di negro, per buona ventura, t'indovina il cuore in mezzo alla boscaglia di malo pelo che ti ricopre il petto99.

I due personaggi vengono sovrapposti nelle meditazioni di 'Ndrja già in diversi luoghi100, ma vengono a coincidere del tutto ed esplicitamente

durante il sogno che segue e compendia questi ricordi con l'episodio della Mezzagiornara; già dormendo sulla marina femminota 'Ndrja aveva visto se stesso mirare ai delfini attraverso il mirino di un moschetto o di una macchina fotografica, mentre in questa ricostruzione onirica, precedente sul piano della fabula, troviamo i due “delfinari” fusi in un unico animale impagliato: ogni volta che l'Eccellenza spara il Guardiamarina si affaccia dalla sua pancia per fotografare i delfini in volo101.

E gli si leggeva in faccia, a tutti e due, che quella era stata sempre l'aspirazione più grande della loro vita e ora finalmente, incontrandosi, avevano potuto realizzarla, ognuno per la sua parte, con quella trovata semplicissima di accoppiarsi, mettersi in società: aspirazione, l'uno di essere immortalato mentre sparava al delfino, e l'altro, di immortalare il delfino, scattandogli la fotografia come se gli sparasse102.

Dalla sovrapposizione delle due azioni mi pare diventi chiaro che la

99 Ivi p. 214.

100 Cfr. per esempio ivi p. 241, p. 251 o p. 257.

101 Sulla fotografia cfr. anche C. Spila, L'istantanea della morte: L'elefante dello

Zambesi di Stefano D'Arrigo, in “Rivista di studi italiani”, Anno 2002, n. 1: pp. 231-236

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violenza e il sopruso non si limitano all'imposizione del proprio volere e della propria lingua sull'altro. L'atteggiamento di Monanin non è meno violento di quello dell'Eccellenza fascista solo perché non utilizza armi, infatti a un certo punto arriva a dire a 'Ndrja e Crocitto che loro non possono rivendicare nessuna lingua particolare rispetto all'italiano con cui stanno comunicando: ignorare la presenza di una lingua, però, significa anche ignorare e quindi cancellare un'intera cultura, o per lo meno non considerarla valida in confronto a quella che nasce dallo studio del latino. E l'offesa è abbastanza seria da far sì che Crocitto “si facesse in faccia come gli avessero strappato anche la lingua che aveva in bocca”103.

La differenza fondamentale fra 'Ndrja e Crocitto (che pure non si lasciano passivamente sopraffare) e l'atteggiamento dei due delfinari sta, secondo me, in una caratteristica che mi pare distintiva di questi ultimi, e cioè il modo in cui concepiscono lo spazio che li circonda. Il signor Monanin e l'Eccellenza, infatti, sembra che vedano il mondo e la natura come campi aperti da conquistare, su cui imporre il proprio marchio. Inizialmente 'Ndrja pensa che questo attaccamento al delfino sia semplicemente un puntiglio, che il signor Monanin sia “attaccato ai nomi delle cose, piuttosto che alle cose, all'apparenza, piuttosto che alla sostanza”104: ma questo viene smentito dal successivo atteggiamento del

Guardiamarina che, sebbene non usi i delfini per un tiro al bersaglio che li uccide, comunque dimostra nei loro confronti un desiderio di possesso che si esterna nella fotografia. Mi sembra che questo desiderio quasi maniacale di fotografare i delfini, così come il gesto di falsa pietà verso il

103 Ivi p. 240. 104 Ivi p. 241.

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delfino morente siano piuttosto dettati dal desiderio di lasciare un proprio marchio sulla preda – e questo è un atteggiamento tipico di quella parte della nostra società (e della nostra cultura) che fonda la propria esistenza sul dominio degli altri esseri viventi, è tipico di chi concepisce l'esterno come un ambito da inglobare e macinare, di qualsiasi cosa si tratti, talvolta con l'innocente proposito di migliorarlo: dalle culture di altri popoli a ogni forma di vita e di paesaggio in cui si veda un'utilità o una ricchezza.

Questo atteggiamento salta agli occhi in modo evidente finché si realizza nella prepotenza di una cultura “egemone” sulla cultura “subalterna” dello Stretto105, ma nasce dallo stesso paradigma che

impedisce ai due delfinari di accogliere un qualsiasi parere contrario o che fa desiderare loro di “possedere” in qualche modo l'oggetto del loro amore. Questo desiderio, peraltro, è mosso da ragioni misteriose agli occhi dei cariddoti, i quali non dimostrano nessuna velleità di possedere la natura: a quale scopo?

Si tratta, ancora una volta, della differenza fra le cosiddette società evolute e le società di sussistenza, che dipendono direttamente dalla natura – e forse il fatto che 'Ndrja si giudichi lontano da Monanin (“come facessero rotte completamente opposte nella vita”106) può suggerire che

non si indica in una delle due un modello di sviluppo per l'altra, ma semplicemente due modi diversi e incompatibili di guardare al mondo che potrebbero proseguire ciascuno per la propria strada.

105 Sono i termini utilizzati da Giordano in Il viaggio, cit.: p. 66. 106 HO p. 253 ma già in modo simile a p. 236.

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2.3 Metafore e similitudini

Beniamino Fioriglio107 evidenzia come in Horcynus Orca si possano

trovare metafore con diversi livelli di ampiezza: il primo live l l o è rappresentato da un “lessema nucleo”, in cui il significato metaforico è veicolato da una sola parola (es. “sconchigliare”); quindi si può trovare un elemento lessicale che veicola il significato metaforico sul sintagma cui partecipa in qualità di determinante (es. “scirocco zucchero del pesce spada”); a un terzo livello il veicolo metaforico ricopre un intero sintagma preposizionale (es. “mi riempisti a prua di parolette”), ma si possono trovare anche blocchi metaforici complessi, che coinvolgono diversi sintagmi e si sviluppano in una serie di metafore secondarie; l'intero romanzo, infine, può essere interpretato come una grande metafora. In questo sistema le metafore e le similitudini animali risultano particolarmente frequenti. Queste due considerazioni prese da sole, però, non rappresentano una particolare novità: ciò che invece risulta notevole è la frequenza con cui queste similitudini tendono a diventare sotto i nostri occhi mutazioni metamorfiche,108 talvolta inquietanti. Certamente

la scrittura di D'Arrigo aspira a un'estrema visività:

ho cercato di far coincidere i fatti narrati con l'espressione, la scrittura con l'occhio e l'orecchio109

Questo è confermato dall'evidente e continua tendenza del procedere narrativo in Horcynus Orca (assente, mi pare, in Cima delle Nobildonne) a costruire immagini, a limarle giocando con le parole e poi, quasi preso 107 B. Fioriglio, art. cit.: pp. 394-6.

108 Sul tema della metamorfosi in senso lato in Horcynus Orca è interessante G.

Pontiggia, cit. passim ma cfr. anche A. Mastropasqua, Lo spazio drammatico del

grottesco in Horcynus Orca, Avanguardia, n. 6, 1997: pp. 167-165.

109 Sono parole di D'Arrigo in un'intervista raccolta da Stefano Lanuzza, citata

proprio a proposito della visività della scrittura darrighiana in C. Spila, Il mostro

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dal gioco, seguire la catena dei significanti fino a costruire un'altra immagine che si sovrappone alla prima, talvolta con cambiamenti istantanei e multipli:

La lingua, nel suo riplasmarsi e rigenerarsi continuo per sfuggire alla convenzionalità del rapporto significato-significante, struttura profondamente il romanzo in un grandioso ritmo che s'instaura fra la sedimentazione delle immagini in momentanei quadri e la tensione deformante che provoca lo scorrere denso e sensuoso della narrazione110.

Questo continuo riplasmarsi e rigenerarsi della lingua è stato percepito da parte della critica111 (ma anche da Moresco112, per esempio)

come vuota eloquenza, inutile gioco di parole, uso di procedimenti retorici troppo insistiti; è innegabile che in alcuni passi del romanzo questo continuo ripiegarsi su stesso del discorso, questa tendenza all'esplicazione sopra la visione, risultano davvero eccessivi; in particolare questo accade nel lungo episodio sullo sperone, dove il tempo si dilata al massimo nel susseguirsi dei pensieri di 'Ndrja e ai ripiegamenti del discorso si aggiunge un utilizzo della ripetizione che rende oltremodo faticosa la lettura.

Altrove, però, il gioco attorno alle parole permette di svelare significati impliciti, oppure, quando l'intreccio dei significanti rimanda esclusivamente al piano della vista, stimola il succedersi e il confondersi di vivide immagini.

La vitalità e la pregnanza di queste immagini, “potenziata da diverse retine associative, inerzie espressionistiche, iperconnotazioni

110 F. Gatta, Semantica e sintassi, cit.: p. 483.

111 Cfr. per esempio G. Amoroso, Analisi stilistica di Horcynus Orca, in D'Arrigo e

il «capolavoro», in Novecento

, cit.: pp. 9235-9246.

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coloristiche”113 potrebbero essere indagate non solo nel loro valore

metaforico, ma anche, per esempio, analizzando le fonti pittoriche che D'Arrigo poteva aver accumulato nella sua formazione da critico d'arte. Il colore e la sua matericità114 sono fondamentali nella scrittura

darrighiana115: anche quando non si carichino di un valore simbolico,

infatti, mi sembra che rappresentino un elemento importantissimo della forza e dell'incisività della lingua nella rappresentazione figurale.

Quando la visività a cui ho accennato coinvolge gli animali, soprattutto se i loro corpi si sovrappongono, come spesso accade, a quelli umani, la reciprocità fra i regni dei viventi116 si concretizza in una contiguità fra

tutte le creature di cui parla anche Cristiano Spila in un importante articolo sul bestiario di Horcynus Orca117; il critico individua questa somiglianza in primo luogo fra esseri umani e animali marini:

gli animali marini sono “contigui” (in termini retorici potremmo dire “metonimici”) agli uomini: il modo di descriverli si muove su un piano tendente a stabilire un confronto di tipo analogico e metaforico […] Il mare è unito alla terra come somma delle realizzazioni fenomeniche in natura, realizzando tutte le possibilità mostruose e caotiche della combinatoria naturale.118

Io credo però, e cercherò di dimostrarlo con l'aiuto di alcuni esempi, che tale rapporto non si istituisca solo nei confronti degli animali marini, almeno per quanto riguarda la contiguità espressa dalle catene di 113 Per cui cfr. C. Spila, Il mostro barocco, cit.: pp. 71-77.

114 Cfr. le interessanti osservazioni di F. Gatta, Semantica e sintassi, cit.: p. 487. 115 Non solo in questo romanzo: sarebbe interessante, per esempio, analizzare il

modo in cui viene usato il colore in Cima delle Nobildonne.

116 Cfr. A. Romanò, art. cit.: p. 97.

117 C. Spila, Bestiario orcynuso in Simbolismo animale e letteratura a cura di D.

Faraci, Vecchiarelli, Roma, 2003: pp. 299-314.

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similitudini. Inoltre mi sembra importante sottolineare che le ibridazioni e le mostruosità caotiche che nascono da quelle similitudini non vadano intese necessariamente come espressioni del mondo straviato e offeso dalla guerra, ma siano un modo di esprimersi peculiare di quel mondo.

Si muoveva in mezzo al bucato, fra rena e pietrebambine, sopra mani e ginocchi, con la testa sotto, allungandosi, accorciandosi, gonfiandosi, sgonfiandosi, ora ripigliava apparenza di cagna o di rospo e ora di strana animala senza testa, sorda, muta e cieca: era come una macchia ondulosa della sabbia, un gonfiore nelle dune, abortito nel mezzo della vallatella, ed era come se la figlia ci fiatasse contro e squietasse quel dorsetto di sabbia nera, ma neanche quella era opera della figlia, anche quella era un'illusione combinata della vista e dell'udito.119

Questo è un esempio di come si costruiscano le successioni di immagini: da un animale all'altro, fino a vedere la donna come una presenza inanimata, un “gonfiore nelle dune”; troviamo facilmente casi in cui la similitudine si appoggia al mondo vegetale, e non è un'immagine orribile o deforme:

Fatalmente sorgeva alla mente il confronto con quell'Ercole mustacciuto, sulla quarantina, che nel Ventottodicembre lottava coi cavalloni alti come montagne, che fra rimbombi e boati gli rovinavano sopra, per strappargli i muccuselli che salvava a quattro a quattro, a intere bracciate, aggrappati al suo collo, alle braccia, alle gambe, tanti passerelli sdiluviati che posava sopra i rami delle limonare e delle olivare, per le rasole di Spartà dove si potevano dire al sicuro […].

Il maremoto si ruppe le corna con lui. Il mare si alzava impennandosi sino all'altezza della rocca di Scilla e delle volte, quel cavallone pazzo, schiumante, si ergeva sino all'Aspromonte, […] e poi di lassòpra, con spaventevole scotrumbo, si precipitava sopra marine e alture, sommergendo villaggi e paesi: Ferdinando scompariva ogni volta alla vista, ma ogni volta, schiumando di rabbia, il cavallone tempestoso rinculava dai piedi di quel gigantomo fatato, come dal tronco di un albero incrollabile, dai rami carichi di muccuselli, stretti

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