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La terapia insulinica nel diabete tipo 2

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Academic year: 2021

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RIASSUNTO

I motivi che giustificano il ricorso alla terapia insulinica nei diabe- tici tipo 2 sono molteplici: trattamento specificamente mirato al deficit d’insulina presente in tali soggetti; protocollo terapeutico

“a tappe” spesso inefficace; controllo glicemico ottimale ai fini di una prevenzione secondaria; attuale disponibilità di analoghi dell’insulina in grado di consentire il raggiungimento di glicemie ottimali. La terapia insulinica nel diabete tipo 2 andrà instaura- ta ogni qualvolta la terapia tradizionale non sia in grado di far- ci raggiungere gli obiettivi glicemici concordati con il diabetico.

L’attuale disponibilità di analoghi, sia rapidi sia lenti, offre inoltre la possibilità di utilizzare lo schema terapeutico più indicato in rapporto agli obiettivi specifici del paziente.

SUMMARY

Insulin therapy in type 2 diabetes

There are many reasons for having to start insulin therapy in type 2 diabetic subjects. Examples are: 1) treatment specifically addresses the insulin deficit, one of the two main defects of type 2 diabetes; 2) traditional “step-by-step” treatment is often ineffective; 3) more effi- cacious glycemic control, for preventing chronic complications, can be achieved with insulin; 4) better glycemic values can be reached with the latest insulin analogs. Insulin therapy can be started in type 2 diabetics every time that traditional therapy with oral hypoglyce- mic agents is ineffective in achieving established glycemic targets.

In addition, the current availability of both rapid and long-term insu- lin analogs means that the most appropriate therapeutic protocol can be applied to targets established with patients.

Rassegna

La terapia insulinica nel diabete tipo 2

D. Fedele

Cattedra di Malattie del Metabolismo, Università di Padova, UOC di Diabetologia e Dietetica ULSS 16, Padova

Corrispondenza: prof. Domenico Fedele, Servizio Diabetologia, Complesso Sociosanitario dei Colli, via dei Colli 4, 35143 Padova

e-mail: domenico.fedele@unipd.it G It Diabetol Metab 2006;26:10-17 Pervenuto in Redazione il 7-9-2005 Accettato per la pubblicazione l’8-11-2005

Parole chiave: diabete tipo 2, terapia insulinica, analoghi insulina, terapia “basal bolus”

Key words: type 2 diabetes, insulin therapy, insulin analogs, “basal bolus” therapy

Introduzione

Da alcuni anni da più parti emerge la sollecitazione a un in- tervento terapeutico più intensivo anche nei diabetici tipo 2, intervento che dovrebbe prevedere eventualmente il ricorso all’utilizzo dell’insulina in fasi più precoci della malattia. Tale sollecitazione logicamente trova una sponda più che interes- sata nelle case produttrici di insulina che spingono verso un utilizzo più massivo dei loro prodotti.

A questo punto in molti di noi sorge il bisogno di capire, e per questo di approfondire, la problematica, anche allo scopo di poter espletare il proprio compito di sanitari nel modo più corretto, meno gravato da conflitti (anche d’interesse), oltre che più efficace possibile.

L’inquadramento del problema richiede tre risposte a tre do- mande chiave:

1. Perché l’insulina in una forma di diabete che per definizio- ne è insulino-resistente?

2. Quando sarebbe opportuno prescrivere l’insulina in un diabetico tipo 2?

3. Come è opportuno intervenire?

Perché ricorrere

alla terapia insulinica nel diabete tipo 2

Un approfondimento oculato della vasta problematica

inerente il diabete tipo 2 (DMT2) ci consente di avan-

zare alcune risposte sui possibili motivi che giustificano

il ricorso alla terapia insulinica in questo tipo di diabete

(Tab. 1).

(2)

Che il diabete sia ormai diventata una malattia a diffusione epidemica lo testimonia il grande incremento della sua in- cidenza quale emerge da vari studi epidemiologici

1-4

. Già l’International Diabetes Federation (IDF) anni or sono ave- va previsto che il numero dei diabetici sarebbe passato dai 175 milioni del 2000 a oltre 300 milioni nel 2025

4

, mentre i dati USA suggeriscono che già nel 2001 il 7,9% degli adulti americani, pari a circa 17 milioni di soggetti, erano affetti da diabete

3

e che nel 2050 tale numero salirà a ben 29 milioni

1

. Tale aumento della frequenza comporta inevitabilmente un aumento dei costi sociosanitari legati alla malattia diabetica, costi che dal 2002 al 2020 negli USA sono previsti passare da 132 a 192 miliardi di dollari

5

. È stato inoltre ampiamente documentato non solo che l’incremento della prevalenza del diabete sia soprattutto a carico del diabete tipo 2, verifican- dosi in particolare tra i soggetti con età più avanzata

6

, ma anche che i costi di tale malattia sono in gran parte legati alla ospedalizzazione e alle complicanze cardiovascolari

5,7

, e sono correlati positivamente al cattivo compenso metabolico, quale documentato dai valori della HbA

1c7,8

. Il costo infatti del diabete è tre volte superiore nei diabetici con HbA

1c

> 10%

rispetto ai pazienti con valori < 8%

5

. Dal 5° rapporto sulle politiche della cronicità (aprile 2005) emerge che la spesa sa- nitaria in Italia per il diabete ammonta a oltre 5 miliardi di euro, pari al 7% del fondo sanitario nazionale. Un’analisi recentissi- ma farmaco-epidemiologica eseguita tra i circa 400mila resi- denti dell’ULSS 16-Padova, evidenzia che dal 1995 al 2003 la prevalenza del diabete noto è passata dal 3,6 al 4,3% con un incremento che, se la tendenza continuerà, sarà del 35%

nel 2015

9

. Da tale indagine si conferma inoltre che l’incre- mento della prevalenza è a carico quasi esclusivamente delle classi con età > 65 anni nelle quali da un 10% del 1995 si passa in media, nel 2003, a oltre il 14%. In pratica, l’epidemia interessa quasi esclusivamente il diabete tipo 2 tipico delle classi di età più avanzate.

Dal punto di vista della fisiopatologia è ben noto che l’iper- glicemia del DMT2 è motivata da due difetti, l’insulino-resi- stenza, determinata geneticamente e potenziata dall’obesità

viscerale, che è causa di una difettosa utilizzazione periferica del glucosio, e il deficit di secrezione insulinica responsabile di un’aumentata produzione di glucosio da parte del fegato

10

. L’insulino-resistenza causa un’iperglicemia postprandiale che inizialmente viene tamponata da un’aumentata produzione d’insulina (iperinsulinismo), con il tempo però la secrezione d’insulina si riduce progressivamente per cui compare l’iper- glicemia anche a digiuno (diabete). Come chiaramente docu- mentato dall’UKPDS, la riduzione della secrezione d’insulina inizia già alcuni anni prima della comparsa del diabete ed è destinata ad aggravarsi progressivamente con la durata della malattia

11

. Oltre a ciò, è ben noto che il DMT2 è caratteriz- zato anche da un difetto della fase precoce della secrezione d’insulina

12

. Del Prato et al. hanno documentato in modo chiaro ed elegante che nel DMT2 la riduzione della sensi- bilità insulinica va di pari passo con la progressiva riduzione della capacità del pancreas di produrre insulina

13

. Proprio sulla base di queste considerazioni sorge la ovvia consta- tazione che il trattamento del DMT2 dovrebbe essere mirato alla fisiopatologia cercando pertanto di correggere non solo l’insulino-resistenza, ma anche il deficit d’insulina. Ciò al fine di mimare sia la secrezione basale sia quella prandiale d’in- sulina

14

e raggiungere gli obiettivi glicemici più idonei a una prevenzione efficace delle complicanze croniche.

Non c’è dubbio, infatti, che il goal primario del trattamento, anche nel DMT2, sia ottenere il più precocemente possibi- le, e mantenere nel tempo, un controllo glicemico ottimale, evitando possibilmente il pericolo delle ipoglicemie

15

. I valori delle glicemie (PG), sia a digiuno (F) sia pre- (PreP) e post- prandiali (PP), oltre che dell’HbA

1c

, proposti quali goal da raggiungere nel trattamento di ogni forma di diabete dalle organizzazioni scientifiche internazionali, sono riportati nella tabella 2. Si può evincere che, di fronte ai valori più permissivi dell’American Diabetes Association (ADA), le altre associa- zioni propongono soglie di riferimento ben più severe. Ciò nella consapevolezza che la prevenzione delle complicanze Tabella 1 Possibili motivazioni che giustificano il ri-

corso all’insulina nei diabetici tipo 2.

1. Il diabete tipo 2 è una malattia epidemica progressiva- mente evolutiva

2. Il trattamento deve essere mirato alla fisiopatologia 3. L’attuale schema di trattamento “a tappe” spesso non

consente di raggiungere gli obiettivi

4. Il controllo glicemico è indispensabile per la prevenzio- ne delle complicanze

5. Attualmente la disponibilità degli analoghi dell’insulina può consentire con maggiore facilità di raggiungere i

“goal” glicemici

Tabella 2 Goal glicemici raccomandati rispettiva- mente dall’American Diabetes Association (ADA)

16

, dall’American Association of Clinical Endocrinol- ogists (AACE)

17

e dall’International Diabetes Federa- tion (IDF)

18

.

Indici ADA AACE IDF

HbA

1c

(%) < 7 ≤ 6,5 ≤ 6,5

F/PrePPG * (mg/dl) 90-130 ≤ 110 < 110

PPPG ** (mg/dl) < 180 ≤ 140 -

Bedtime PG (mg/dl) 110-150 - -

* F/PrePPG: fasting/preprandial plasma glucose.

** PPPG: postprandial plasma glucose.

(3)

sarà tanto più facilmente raggiungibile quanto più vicino alla normalità sarà il controllo delle glicemie.

Purtroppo però un’analisi della situazione attuale ci consente di evidenziare che tali goal non vengono raggiunti nella mag- gior parte dei diabetici tipo 2 e ciò indipendentemente dalla nazione in cui essi vengano trattati. Già nel 1999 Harris se- gnalava dall’analisi del NHANES III

19

che solo il 38% dei dia- betici trattati con ipoglicemizzanti orali era in buon compenso glicemico, testimoniato da valori di HbA

1c

< 7%, mentre il 20% aveva valori tra il 7 e l’8%, il 15% tra l’8 e il 9% e ben il 27% superiori al 9%. In Italia, come testimoniato da vari studi tra cui lo SFIDA

20

e in particolare il Metascreen

21

, la situazione forse non è così catastrofica, ma neanche tanto lusinghiera.

Dal Metascreen, studio eseguito nel nostro Paese su circa 10.000 diabetici e i cui risultati sono in corso di pubblicazio- ne, emerge che tra i diabetici trattati con ipo-orali il 49% ha valori di HbA

1c

< 7%, il 40% tra il 7 e il 9% e l’11% > 9%.

La situazione è ben peggiore nei diabetici trattati con asso- ciazione ipo-orali e insulina tra i quali solo il 23% ha valori di HbA

1c

< 7%, mentre il 51% ha valori tra il 7 e il 9% e il 26%

valori > 9%. Tali dati trovano conferma da altri studi recenti che segnalano come negli USA ben il 64% dei diabetici tipo 2 hanno valori di HbA

1c

> 7%

22

, mentre in Europa il 69% ha valori > 6,5%

23

. Tra l’altro, il confronto dei dati del 2000 con quelli del 1988

22

non è certo incoraggiante, dal momento che evidenzia negli USA un peggioramento della situazione. La percentuale infatti dei diabetici con HbA

1c

< 7% è passata dal 45 al 36%, quella dei diabetici trattati con ipo-orali è salita dal 45 al 52%, mentre quella dei trattati solo con insulina si è ridotta dal 24 al 16%. Uno studio recentissimo europeo invece testimonierebbe che, almeno in Svezia, le cose sta- rebbero in modo un po’ diverso, visto che la percentuale dei diabetici tipo 2 svedesi (oltre 55.000) con HbA

1c

< 6,1% dal 1996 al 2003 sarebbe passata dal 9,3 al 15,6% e quella dei diabetici con HbA

1c

< 7,3% dal 40,5 al 58,3%

24

. Comunque stiano realmente le cose è indubbio che gran parte dei diabe- tici tipo 2, trattati secondo gli schemi attuali, è ben al di fuori dei parametri glicemici raccomandati dalle linee guida inter- nazionali, configurando in tal modo un grave gap tra i goal consigliati e la, alquanto più cruda, realtà

24

. Il che tra l’altro continua a rappresentare un rischio pesante di complicanze cardiovascolari, di mortalità precoce e di costi sociosanitari elevatissimi. Ricordiamo infatti come l’UKPDS 23 abbia do- cumentato che nei diabetici tipo 2 la HbA

1c

rappresenti un fattore di rischio di coronaropatia secondo solo ai parametri lipidici, quali l’eccesso di LDL e il difetto di HDL

25

. Per quanto riguarda i costi è stato dimostrato

26

che valori di HbA

1c

> 6%

comportano un aumento dei costi sanitari che va dal 5% per HbA

1c

del 7% all’11% per valori dell’8% e arrivi al 36% per HbA

1c

pari al 10%. A determinare il valore della HbA

1c

con- corrono sia le glicemie preprandiali sia quelle postprandiali, la migliore correlazione essendo stata riportata con la media delle concentrazioni glicemiche giornaliere

27

. È ben noto inol-

tre che i profili glicemici dei diabetici tipo 2 sono caratterizzati sia da una costante iperglicemia a digiuno e preprandiale, sia da consistenti rialzi glicemici postprandiali

28

. Secondo alcuni l’iperglicemia postprandiale contribuirebbe, nel DMT2, sino al 30-40% dell’iperglicemia totale giornaliera

28,29

. Monnier et al.

30

più recentemente hanno documentato che nei diabetici tipo 2 il contributo delle escursioni glicemiche postprandiali all’iperglicemia totale giornaliera è predominante in presenza di un compenso glicemico soddisfacente, mentre il contribu- to dell’iperglicemia a digiuno aumenterebbe gradualmente, da un 30% a circa un 70%, man mano che aumentano i livelli della HbA

1c

. È stato documentato anche dal NHANES III

31

che l’iperglicemia postprandiale è piuttosto comune nei diabetici tipo 2 con valori di HbA

1c

che possono essere de- finiti soddisfacenti. Tale “onda” iperglicemica che si protrae per molte ore è causa di “glicotossicità” e anche di lipotos- sicità, accompagnandosi a una concomitante “onda” iperli- pemica, con conseguente danno endoteliale e aterosclerosi.

Il DECODE ha chiaramente dimostrato che un inadeguato controllo dell’iperglicemia postprandiale, che è causata dal- la mancata prima fase di secrezione insulinica, rappresen- ta un fattore di rischio cardiovascolare e di morte ben più importante dell’iperglicemia a digiuno

32

. Numerosi sono or- mai gli studi che hanno documentato la stretta correlazio- ne tra valori di HbA

1c

e mortalità cardiovascolare non solo nel DMT2

33,34

, ma addirittura nelle donne non diabetiche

35

. Dai recenti dati di statistica sanitaria emerge inoltre che negli USA, e verosimilmente anche nel nostro Paese, dal 1980 al 2000, mentre la mortalità per cardiovasculopatie si è ridotta del 37%, quella per cerebrovasculopatia del 38%, quella per neoplasie è rimasta praticamente invariata, la mortalità per diabete è invece aumentata di ben il 40%

36

. Non a torto per- tanto recentemente Ceriello, riassumendo i tanti meccanismi con cui gli spike iperglicemici postprandiali possono causa- re il danno vascolare, pone retoricamente la domanda “Is it time to treat?”

37

. Una risposta positiva a tale quesito trova ampia giustificazione nei risultati dei famosi studi prospettici, quali il DCCT

38

, il Kumamoto

39

e l’UKPDS

40

, che hanno do- cumentato come un trattamento intensivo in grado di ridurre la HbA

1c

riduca significativamente il rischio di complicanze microvascolari. L’UKPDS

41

ha inoltre documentato che ogni riduzione dell’1% della HbA

1c

consente di ridurre del 37% il rischio di microangiopatia, del 21% quello di morte correlata al diabete e del 14% il rischio di infarto del miocardio. Pro- prio di recente, durante il 65° congresso dell’ADA svoltosi in San Diego, sono stati presentati in anteprima ulteriori dati dell’EDIC, studio epidemiologico di follow-up del DCCT. Tali dati evidenziano come una riduzione significativa della HbA

1c

, protratta a lungo, sia responsabile di una riduzione significati- va della mortalità cardiovascolare (-57%) anche a distanza di 10 anni e ciò nonostante l’interruzione della terapia intensiva e il ritorno della HbA

1c

ai valori pretrattamento

42

.

Pertanto, la risposta al primo quesito è senz’altro sì; è as-

(4)

solutamente necessario, al fine di prevenire le complicanze, evitare la mortalità precoce e ridurre i costi sociosanitari, instaurare una terapia insulinica onde riuscire a ottenere un controllo glicemico, sia pre- sia postprandiale, ottimale con valori di HbA

1c

< 7%.

Quando iniziare la terapia insulinica nel DMT2

Il secondo quesito a cui dare una risposta è: quando è op- portuno iniziare la terapia insulinica nel DMT2?

Una risposta salomonica non risolutiva è: non troppo presto, non troppo tardi. Il non troppo presto sarebbe giustificato da alcune considerazioni, quali il fatto che il difetto principale del DMT2 non sia il difetto della secrezione insulinica, bensì l’in- sulino-resistenza, e anche i possibili rischi sia di ipoglicemia sia di incremento ponderale. Sulla prima considerazione ab- biamo già ricordato che il difetto della secrezione insulinica va di pari passo con la riduzione dell’insulino-sensibilità

13

, che nel DMT2 manca la prima fase della secrezione d’insulina, con conseguente iperglicemia postprandiale

12

, e che il difetto di secrezione inizia anni prima della comparsa del diabete

11

. Non c’è dubbio pertanto che nel DMT2, dal punto di vista fisiopatologico, il deficit d’insulina sia ugualmente importante dell’insulino-resistenza. Circa il rischio di ipoglicemia è ben noto che, proprio grazie alla resistenza all’insulina, nel DMT2 la sua frequenza e severità non siano così importanti come nel DMT1. Dall’UKPDS è riportata una frequenza del 2,3% di ipoglicemie “maggiori” nel gruppo trattato intensivamente

40

. Inoltre, è stato documentato che la sua frequenza aumen- ta con valori di HbA

1c

< 7,4%

43

, mentre l’utilizzo dei nuovi analoghi dell’insulina ne consente una significativa riduzione.

L’obiezione più corretta è quella dell’incremento ponderale.

Nell’UKPDS i diabetici trattati intensivamente hanno guada- gnato, nell’arco dei 10 anni, circa 4 kg più del gruppo di con- trollo

40

. È possibile però contenere tale incremento di peso educando i soggetti a un incremento dell’attività fisica e a una maggiore attenzione alle restrizioni caloriche. C’è inoltre da chiedersi: è preferibile un controllo glicemico ottimale a costo di un modesto aumento di peso, ma con un più basso rischio cardiovascolare (CV) oppure un peso stabile con va- lori elevati di HbA

1c

e un più pesante rischio CV? La risposta a me sembra ovvia.

Il non troppo tardi troverebbe invece giustificazione nel fatto che il trattamento insulinico potrebbe o non essere più effica- ce o anche essere rifiutato dal paziente.

Il trattamento del DMT2 si basa oggi su un protocollo “a tap- pe” che prevede un approccio iniziale con sola dieta e modi- fiche dello stile di vita, per passare poi alla monoterapia con ipoglicemizzanti orali, insulino-secretagoghi o insulino-sen- sibilizzanti, all’associazione tra antidiabetici orali, all’ulteriore associazione con insulina e, solo alla fine, alla sola insulina. In

realtà tale schema non solo non è seguito da gran parte dei medici, ma anche quando viene rispettato per vari motivi non garantisce frequentemente il raggiungimento di un controllo glicemico ottimale.

È risaputo che gran parte dei diabetici tipo 2 è in sovrappeso.

Secondo lo SFIDA

20

un’obesità viscerale è riscontrabile nel 41% dei maschi e nel 79% delle femmine affetti da DMT2, dati confermati dal Metascreen

21

che riporta percentuali del 35% nei maschi e del 75% nelle femmine. Ciò sta a indicare che in gran parte dei diabetici tipo 2 assume particolare si- gnificato l’insulino-resistenza per contrastare la quale si ren- derebbe indispensabile il ricorso a sostanze insulino-sensi- bilizzanti. In realtà, come testimoniano i vari studi nazionali, i farmaci più utilizzati anche in fasi precoci della malattia sono gli insulino-secretagoghi, in particolare le sulfoniluree, da soli o in associazione con la metformina. Lo studio Metascreen evidenzia che oltre il 32% dei tipo 2 è trattato con associa- zione sulfonilurea-metformina (S + M), mentre circa il 14%

assume insulino-secretagoghi e il 13% insulina

21

, dati sovrap- ponibili a quelli dello SFIDA, secondo il quale l’associazione S + M è praticata dal 31% dei maschi e dal 32% delle femmine, le sulfoniluree rispettivamente dal 17 e 14%, la metformina dal 17 e 19%, l’insulina dal 9 e 10%

20

. Un’indagine recente eseguita nella regione Veneto, che ha coinvolto ben 38.000 diabetici, ci segnala inoltre che la situazione non è sostan- zialmente cambiata dal 1998 al 2002

44

. La percentuale molto elevata di diabetici in trattamento con sole sulfoniluree si è ridotta di poco, passando dal 49 al 41%, compensata da un modesto incremento del consumo di metformina (dall’8 al 19%), mentre sostanzialmente invariate restano le percentuali sia dell’associazione (29 e 26%) sia dell’insulina (11 e 10%).

Dati sovrapponibili si evincono da un’indagine di farmaco- epidemiologia eseguita tra i circa 400.000 abitanti dell’ULSS 16 di Padova

8

, indagine che conferma le modeste riduzioni, dal 1995 al 2003, sia del consumo di sulfoniluree (dal 45 al 40%) sia dell’associazione S + M (dal 41 al 32%), compen- sate dall’incremento della metformina (dal 3 al 16%), mentre stabile risulta l’utilizzo dell’insulina (dal 32 al 31%). Il ricorso in- discriminato alla terapia con insulino-secretagoghi, oltre a non garantire spesso il raggiungimento di un controllo glicemico ottimale, è causa di un più precoce esaurimento delle capa- cità secretorie pancreatiche con ulteriore deterioramento dei valori della HbA

1c

. La terapia con ipo-orali in genere è in gra- do, sia come monoterapia sia come associazione, di ridurre la HbA

1c

di non più dell’1-2%, riduzione spesso insufficiente a garantire un controllo soddisfacente e quindi una prevenzio- ne delle complicanze. L’UKPDS 49 ci ha documentato che già dopo pochi anni la monoterapia non è più in grado di garantire valori accettabili di HbA

1c45

. La percentuale infatti di diabetici che dopo 3 anni di terapia con sulfoniluree ha valori di HbA

1c

< 7% è del 45%, percentuale che si riduce al 28%

dopo 6 anni e al 21% dopo 9 anni. Percentuali sovrapponibili

si hanno con la terapia con metformina (45%, 34%, 13%).

(5)

Tali dati sono stati ulteriormente confermati dall’UKPDS 57 il quale segnala che, dopo 6 anni, la percentuale di pazienti con HbA

1c

< 7% trattati con antidiabetici orali (ADO) era del 20%, percentuale che saliva al 34% per quelli trattati con insulina e al 47% per quelli trattati con ADO + insulina

46

. Dopo 6 anni ben il 53% dei pazienti in trattamento con ADO richiedeva l’aggiunta d’insulina. In realtà il percorso a tappe, quale ge- neralmente è seguito da gran parte dei medici e quale è stato descritto mirabilmente da Nathan in un recente articolo

47

, è alquanto lento nei tempi di attuazione. La diagnosi di diabete è quasi sempre fatta dopo alcuni anni, da 4 a 8, dal suo reale esordio. È quindi con un certo ritardo che si inizia la monote- rapia basata sulle modifiche dello stile di vita. Per aggiungere gli ADO si aspettano almeno altri 3 anni e altri 3 per consi- gliare l’associazione tra più ADO. Ci vogliono almeno altri 6 anni prima di decidere l’associazione con insulina o l’insulina da sola. In tutti questi anni il paziente ha avuto tutto il tempo di andare incontro alle complicanze croniche sia micro- sia macrovascolari. È tra l’altro ben documentata la lentezza o, come la chiamano alcuni, l’“inerzia” con cui noi medici deci- diamo le modifiche della terapia anche in presenza di elevati valori di HbA

1c

. Secondo alcuni ci vogliono 14 mesi prima di modificare una terapia con metformina in diabetici con HbA

1c

> 8%, e ben 20 mesi per una terapia con sulfoniluree

48

. Da sottolineare che in tale studio nel momento in cui si decideva il cambio della terapia i diabetici avevano una HbA

1c

> 9% e avevano già eseguito in precedenza ben altre 4 determinazio- ni della HbA

1c49

. Proprio recentemente uno studio di confron- to tra le decisioni di specialisti e quelle di medici di famiglia

50

ha evidenziato che, di fronte a un paziente con valori di HbA

1c

> 8%, una generica decisione di intensificare la terapia viene presa rispettivamente nel 45% dei diabetici seguiti dallo spe- cialista contro il 37% di quelli seguiti dal medico di famiglia.

Invece, la decisione di aggiungere un nuovo farmaco è pre- sa rispettivamente nel 22 e 21% dei pazienti, mentre quella di passare all’insulina solo nel 9 e 3%. Come si può notare, anche in presenza di un precario controllo glicemico, la de- cisione di iniziare una terapia insulinica viene presa da una estrema minoranza non solo dei medici di famiglia (3%), ma anche degli stessi specialisti (9%). I motivi di una simile rilut- tanza sono molti e le responsabilità vanno ripartite in ugual misura tra pazienti e curanti. L’accettazione dell’insulina da parte di diabetici spesso anziani è sempre molto difficile, sia perché l’insulina viene percepita come ultima scelta e quindi viene rifiutata (insulino-resistenza psicologica), sia per paura dell’iniezione, sia per le ripercussioni sulla privacy e sulla quo- tidianità, sia infine per la paura di ipoglicemie o di un ulterio- re aumento di peso. Tutte queste difficoltà possono essere superate grazie a un approccio educativo e di counselling adeguato e centrato sulla persona. Anche il medico però ha le sue barriere: mancanza di tempo e di risorse, convinzioni errate quali la scarsa efficacia dell’insulina in soggetti insulino- resistenti (insulino-resistenza biologica) o schemi terapeutici

troppo complessi. Anche queste barriere possono essere superate grazie a un aggiornamento scientifico costante e all’accettazione delle più recenti opportunità terapeutiche. Sia il medico sia il paziente devono essere convinti che il tratta- mento insulinico precoce presenta degli indubbi vantaggi in quanto è più efficace nel ridurre le glicemie e quindi la HbA

1c

, consente di programmare un’alimentazione flessibile e più adatta alla vita quotidiana, migliora la sensibilità insulinica e riduce sia la glico- sia la lipotossicità, infine si adatta meglio ai bisogni del paziente. La tabella 3 sintetizza i vari effetti bene- fici che comporta la terapia con insulina.

Possiamo riassumere nella tabella 4 le situazioni in cui è do- veroso ricorrere alla terapia insulinica nel DMT2.

Quale protocollo terapeutico utilizzare

Una volta deciso di instaurare una terapia insulinica bi- sognerà decidere quale protocollo terapeutico utilizza- re tenendo ben presente che gli obiettivi sono due, non solo la quasi normalizzazione dei valori glicemici pre- e

Tabella 3 Benefici conseguenti all’instaurazione di una terapia precoce con insulina.

– Migliori livelli insulinemici sia basali sia postprandiali – Controllo glicemico a lungo termine ottimale (HbA

1c

< 7%)

– Rispetto della riserva β-cellulare – Riduzione di glico- e lipotossicità – Miglioramento dell’insulino-sensibilità

– Soppressione della produzione epatica di glucosio – Incremento della risposta β-cellulare agli ipoglicemiz-

zanti orali

– Prevenzione delle complicanze micro- e macrova- scolari

Tabella 4 Situazioni in cui è necessario instaurare precocemente una terapia con insulina.

– In presenza di sintomi o chetoni

– In presenza di intolleranza o di “fallimento” degli ipogli- cemizzanti orali

– In presenza di calo ponderale non altrimenti giustifica- bile

– In presenza di malattie intercorrenti o di “chirurgia”

– In anziani inappetenti o con ipoanoressia

– Quando la terapia tradizionale non è più in grado di farci

raggiungere gli obiettivi glicemici concordati

(6)

postprandiali sino al raggiungimento di valori di HbA

1c

<

7,0%, ma anche evitare il rischio sia di ipoglicemie sia di eccessivo incremento ponderale. Lo schema iniziale pre- vede il mantenimento della terapia orale supplementata da un semplice regime di insulina basale

43,51-53

. L’aggiunta di una insulina “long-acting” serale o “bedtime” alla tradizio- nale terapia con ipo-orali, migliorando il controllo glicemico notturno, ha un effetto “carryover” positivo sui livelli glice- mici con conseguente riduzione dei livelli di HbA

1c

e della glicotossicità. Il che tra l’altro consente ai farmaci orali di espletare meglio la loro azione modulatrice della secrezio- ne insulinica prandiale

54

. Da un lato, infatti, l’insulina se- rale, riducendo la produzione epatica di glucosio, riduce la glicemia a digiuno, dall’altro, la terapia orale, miglioran- do l’uptake di glucosio, consente di ridurre l’iperglicemia postprandiale. La scelta dell’insulina “long-acting” cadrà inevitabilmente o sulla NPH (Neutral Protamine Hagedorn) o sulla glargine

55

, essendo sia l’insulina lenta sia quella ul- tralenta poco utilizzate nel nostro Paese. Più recentemente è stata offerta la possibilità di utilizzare una nuova insuli- na, la detemir, dalle caratteristiche farmacocinetiche simili alla glargine

56

. Il medico deciderà di volta in volta in base alle caratteristiche del paziente che dovrà trattare e del- l’insulina che dovrà prescrivere, tenendo ben presenti le differenze farmacocinetiche e farmacodinamiche delle due insuline. L’NPH è caratterizzata da un picco 4-6 ore dopo la sua somministrazione, causa di non infrequenti crisi ipo- glicemiche notturne, e da una durata di azione di 14-16 ore che non consente un controllo glicemico prolungato. La glargine (Lantus) invece è priva di picco notturno, ha una durata d’azione ben più prolungata e presenta un minor rischio di ipoglicemie

57,58

. Tale insulina pertanto si presta bene per mimare la situazione fisiologica della secrezione basale d’insulina minimizzando nel contempo il rischio di ipoglicemie. Un algoritmo strutturato da utilizzare per tito- lare la dose d’insulina è quello raccomandato nel “Glargine treat-to-treat trial”

59

allo scopo di raggiungere una glicemia a digiuno ≤ 100 mg/dl, riportato nella tabella 5.

Recentemente uno studio ha confrontato due algoritmi per il trattamento con glargine, il primo caratterizzato da una titola- zione della dose d’insulina eseguita dal medico a ogni visita, il secondo in cui la titolazione veniva eseguita dallo stesso paziente ogni 3 giorni

60

. Entrambi gli algoritmi hanno dato i medesimi risultati, ossia un migliorato controllo glicemico e una bassa incidenza di episodi ipoglicemici. Una recente me- tanalisi dei vari studi di confronto glargine vs NPH

61

ha con- fermato quanto già evidenziato dai trial

53,57

: l’insulina glargine associata agli ADO garantisce un controllo glicemico equipa- rabile a quello ottenuto con la NPH (HbA

1c

7,8% vs 7,7%), ma con un numero significativamente minore di ipoglicemie, in particolare notturne (- 26%). Uno studio recente eseguito su diabetici tipo 2 trattati con insulina detemir associata agli ADO ha documentato un controllo glicemico paragonabile a

quello ottenuto con NPH, ma con un minore incremento di peso

62

. Equiparabile il controllo glicemico.

Dal momento che lo scopo del ricorso all’insulina nel DMT2 è quello di correggere il difetto fisiologico e di mimare la secrezione endogena d’insulina, si rende necessario non solo rivolgere la propria attenzione alle glicemie a digiuno e preprandiali, ma anche alle iperglicemie postprandiali.

Pertanto, nel caso della presenza di elevati livelli glicemi- ci postprandiali, si può rendere necessaria l’associazione agli ADO di formulazioni insuliniche premiscelate, quali la lispro Mix 75/25 o la BiAsp bifasica 70/30, in unica o dop- pia somministrazione. Uno studio di confronto lispro Mix 75/25 più metformina vs glargine più metformina, eseguito su 105 diabetici tipo 2, ha dimostrato che la Mix 75/25 si associava a minori rialzi delle glicemie postprandiali, a un numero maggiore di diabetici con HbA

1c

< 7,0%, ma a un modesto aumento delle crisi ipoglicemiche

63

. Un altro stu- dio della durata di 28 settimane, condotto su 209 diabetici tipo 2, ha evidenziato che una terapia iniziale con due som- ministrazioni/die di BiAsp 70/30 associate agli ADO è più efficace nel consentire di raggiungere valori ottimali di HbA

1c

della singola somministrazione di glargine, in particolare nei diabetici con HbA

1c

> 8,5%

64

. Tali risultati contraddirebbero quelli di uno studio precedente che aveva documentato che iniziare la terapia insulinica con una iniezione/die di glargine, in associazione a glimepiride e metformina, è più efficace di una terapia con doppia somministrazione/die di analogo 70/30 associato sempre a glimepiride e metformina

65

. Infine è stato dimostrato che nel DMT2 una terapia insulinica intensiva, non associata pertanto ad agenti orali, è in grado di far ottenere risultati perfettamente sovrapponibili a quelli che si ottengono con una infusione continua sottocutanea d’insulina

66

, con tra l’altro uguale sicurezza e soddisfazione del paziente.

Tabella 5 Algoritmo per la titolazione dell’insulina

59

. 1. Iniziare con 10 U di insulina basale “bedtime”

2. Aggiustare la dose settimanalmente in base alla media di 2 giorni della glicemia a digiuno (FPG), valutata a do- micilio, nel modo seguente:

FPG ≥ 180 mg/dl insulina + 8 U 140-179 mg/dl insulina + 6 U 120-139 mg/dl insulina + 4 U 100-119 mg/dl insulina + 2 U

3. Insistere sino a ottenere una FPG ≤ 100 mg/dl

4. Nessun aumento della dose d’insulina se la FPG ≤ 72 mg/dl

5. In presenza di severa ipoglicemia o di FPG ≤ 56 mg/dl

si possono apportare lievi (2-4 U) riduzioni delle dosi

d’insulina

(7)

Conclusioni

Per concludere, nel trattamento del DMT2 la terapia insuli- nica non dovrebbe essere considerata quale opzione finale, ma dovrebbe essere instaurata quanto prima possibile. La combinazione insulina e ADO spesso garantisce un controllo glicemico migliore della sola terapia orale. Il ripristino di più fisiologici profili insulinemici postprandiali migliora la tolleran- za glucidica e riduce il rischio di ipoglicemia. Il rischio di au- mento di peso è annullato dai benefici del migliorato controllo glicemico.

Per chiudere possiamo utilizzare le parole di Gerich: “The cli- nical management of T2DM therefore needs to be re-exami- ned and redefined to reflect new insights into the underlying pathogenetic mechanisms, including consideration of the potential benefits of early, aggressive intervention to counter both β-cell dysfunction and insulin resistance”

14

.

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