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2 NIETZSCHE: NICHILISMO E VOLONTÀ DI POTENZA

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Academic year: 2022

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2 NIETZSCHE: NICHILISMO E VOLONTÀ DI POTENZA

Come è noto Nietzsche non è stato il primo a parlare di “nichilismo” (il termine, infatti, fu impiegato per la prima volta da Jacobi, secondo il quale ogni razionalismo porta inevitabilmente ad un ateismo e quest’ultimo, a sua volta, reca con sé il nichilismo, vale a dire una svalutazione dell’essere del mondo), né il primo ad interpretarne tutta la drammaticità. Prima di lui il genio di Fëdor Michajlovicˇ Dostoevskij colse con un’acutezza insuperabile tutta la por- tata spirituale del problema. André Gide ha detto che con entrambi questi autori, Nietzsche e Dostoevskij, si impone una nuova domanda: non più “Cos’è l’uomo?”, “Dove va?”,

“Cos’è la verità?”, bensì “Cosa può l’uomo?”. Una domanda accompagnata dall’inquietudine che l’uomo avrebbe potu- to essere qualcosa di più, la domanda dell’ateo ontologico, di chi sceglie di essere non a partire da una provenienza.

“Se Dio non esiste, tutto è lecito”, faceva dire Dostoevskij a Ivan Karamazov. Ciò che però caratterizza il grande nar- ratore russo è l’intenzione di rappresentare il nichilismo per superarlo, non certo di condurlo a compimento, come in- vece si propone Nietzsche, che vede in se stesso il primo vero nichilista d’Europa. È questo che fa di Dostoevskij e di Nietzsche due “fratelli nemici”, nella lettura – qui proposta – di Henri de Lubac, una lettura incrociata di due testimo- ni del nichilismo che però, a rigore, non può rientrare né nell’ordine delle fonti (in quanto Dostoevskij non conobbe Nietzsche e quest’ultimo non ebbe che un piccolo saggio dello straordinario talento del primo, inizialmente salutato con entusiasmo, ma ben presto rigettato a motivo delle sue implicazioni religiose), né nell’ordine delle somiglianze. Do- stoevskij ha infatti una finalità diversa rispetto a Nietzsche e per questo costituisce una importante alternativa al suo pensiero: egli ha il presentimento, vive, precede la crisi che Nietzsche ha teorizzato, ma al contempo la previene, nella misura in cui porta in scena la morte di Dio, il mito del su- peruomo, la volontà di potenza e, nel rappresentarli, li attra- versa e si schiera contro di essi.

Una seconda prospettiva interpretativa del ni- chilismo pensato e perseguito da Nietzsche è quella of- ferta dal pensiero di Karl Löwith. Interrogandosi sul senso dell’esistenza umana in seno alla totalità dell’essere, Löwith evidenzia nella riflessione nietzscheana un percorso che, a partire dalla morte di Dio, e passando per il compimento del nichilismo che da tale evento scaturisce, approda da ul- timo alla crisi e all’autosuperamento del nichilismo stesso

nella dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale. Nel brano che qui proponiamo Löwith mette l’accento proprio sul rovescia- mento del nichilismo nell’eterno ritorno – rovesciamento in cui la volontà del nulla si capovolge nella volontà dell’esse- re – quale modo imprescindibile per comprendere in tutta la sua problematicità l’autentica portata della filosofia di Nietzsche. Essa è profezia del nichilismo nella sua forma estrema (scepsi assoluta, fede nell’incredulità, trasvaluta- zione di tutti i valori), volontà del nulla da cui scaturisce la volontà dell’eterno ritorno e che ne tiene insieme l’ambiguità della sua doppia dimensione. Da un lato, la sua dimensione antropologica, che è il progetto di un nuovo modo di vivere – volontà di palingenesi, di autoeternizzarsi – che cioè pone lo scopo di vivere in modo tale che si possa sempre volere a ritroso. Dall’altro lato, la sua dimensione cosmologica, una nuova concezione del mondo che prevede, invece, la totale assenza di origini e di scopi e l’ineluttabilità di un continuo mutamento dell’identico.

Ma l’interpretazione che più di ogni altra ha contribuito ad intendere il nichilismo nietzscheano nel suo nesso con la tradizione metafisica, e anzi come momento costitutivo dell’intera storia della metafisica è stata quella di Martin Heidegger. Porta il titolo di Nietzsche la celebre e monumentale opera in due volumi pubblicata nel 1961, de- dicata al pensatore tedesco quale punto di approdo dell’in- tera storia della metafisica – opera dalla quale è tratto il brano che presentiamo qui di seguito, sebbene sia possibile rintracciare in Heidegger un costante riferimento al ruolo della filosofia nietzscheana già a partire da Essere e tempo.

Punto di approdo, fine, tappa ultima della storia del pensiero occidentale, Nietzsche ha di fatto suggellato per Heidegger un itinerario la cui essenza più profonda è il nichilismo: se, nel determinare l’essere a partire dall’ente, la metafisica ha sistematicamente obliterato l’essere nella sua verità di manifestazione e nascondimento, disvelatezza e velatezza, configurandosi come la storia della dimenticanza o ritrazio- ne dell’essere, Nietzsche ne ha portato alla luce l’essenza, pensando la fine del platonismo in nichilismo, ma appellan- dosi alla volontà di potenza come libera e autonoma posi- zione di nuovi valori e alla dottrina dell’eterno ritorno ne ha confermato la vocazione onto-teo-logica, cioè di trattazione dell’ente in quanto ente e insieme del fondamento dell’ente.

Da ultimo ci pare significativa la lettura offerta da Gianni Vattimo della filosofia post-heideggeriana come

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possibilità di riappropriarsi e di rilanciare la posizione eman- cipativa di Nietzsche. Paradossalmente tornare a Nietzsche dopo Heidegger. Vattimo vede soprattutto in Nietzsche il pensatore della liberazione, il filosofo dell’“oltreuomo”

– come lo stesso studioso propone di tradurre il tedesco Übermensch, per sottolineare il senso dell’oltrepassamento dell’uomo tradizionale, nel modo in cui era pensato dalla metafisica, e aggirare il rischio di far coincidere tale nozione con un mero potenziamento vitalistico dell’uomo, specie a fronte della fuorviante lettura che ne diede la propaganda nazista. Fondamentale per tale oltrepassamento è la dot- trina dell’eterno ritorno quale negazione della trascendenza platonico-cristiana e istituzione di una unità inscindibile tra evento e senso in forza della quale ogni momento del tem- po ha il suo significato in sé e non in altro (cioè non è in funzione dei momenti che lo precedono e che lo seguono).

In tal modo l’uomo non si trova più né a rapportarsi con

un passato immodificabile né a dilazionare costantemente il senso della propria esistenza, ma piuttosto a desiderare che essa si ripeta eternamente. Su tale base la liberazione messa in atto dall’oltreuomo si compie secondo un duplice movimento. Il primo movimento consiste in una fuoriuscita dal sistema della ratio, della metafisica e della morale, cioè in una liberazione da tutte quelle forme (come la produzione e l’organizzazione del lavoro, la società, Dio, la legge mora- le) che, rispondendo a un bisogno di sicurezza del singolo, finiscono di fatto per configurarsi come forme di violenza, oppressione e subordinazione, in quanto lo riducono a mero strumento di lavoro, ne reprimono gli impulsi e in generale gli impongono una volontà esterna. Il secondo movimento consiste invece nella liberazione del simbolico, cioè nell’e- mergere di un soggetto debole, ermeneutico e prospettico caratterizzato dalla esuberante inventiva con cui ricrea au- tonomamente i propri rapporti col mondo.

H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo

[trad. di L. Ferino, Morcelliana, Brescia 1979, pp. 225-230]

Si pensa subito ad un altro profeta, all’altro profeta del nostro tempo: Nietzsche. Il confronto è inevitabile. Tutto vi ci porta, e più di tutto la terribile lotta che si svolge presentemente nella coscienza umana, sotto i loro segni uniti ed opposti. Il dramma al quale noi assistiamo, nel quale tutti siamo attori, ha per posta in gioco la vittoria dell’uno o dell’altro, ed il suo esito deciderà chi dei due, nel pieno senso della parola, fu profeta.

Il loro incontro risale al 1887, quando Dostoievski era già morto da sei anni. Nietzsche, condannato ad una vita errante, allora si trovava a Nizza. Il 23 febbraio egli scriveva a Fran- cesco Overbeck:

«...Una trovata fortuita in una libreria: Le memorie del sottosuolo di Dostoievski. È stato un caso simile a quello che mi è occorso a 21 anni per Schopenhauer, e a 35 per Stendhal.

La voce del sangue (come chiamarla diversamente?) si fece subito sentire, e la mia gioia fu grandissima».

Nietzsche aveva avuto la mano felice. Nessuno più dell’eroe di Le memorie del sottosuolo, questo uomo «rinnegato dalla coscienza comune» che egli a sua volta rinnega con una risata, era atto a fargli sentire l’«affinità» di cui parla, a lui che aveva celebrata la «gaia scienza» e che si era designato, a proposito della composizione di Aurora, come «l’uomo sotterraneo al lavoro».

Ma la sua scoperta era tardiva, poiché dinnanzi a lui non restavano più che due anni di vita lucida. Inoltre, ignorando il russo, egli non conobbe il fratello maggiore che attraverso qual- che traduzione francese e non poté leggere né I demoni, né I Fratelli Karamazov. L’Idiota gli suggerì senza dubbio alcuni lineamenti sotto i quali egli stava per dipingere Gesù e il gruppo dei primi cristiani. Forse anche il personaggio di Raskolnikov – se veramente lo poté studia- re – contribuì a consolidarlo nel suo immoralismo aggressivo. Tuttavia se Dostoievski fu per più ragioni il precursore di Nietzsche, e benché questi abbia detto: «È l’unico che mi abbia

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insegnato qualche cosa in psicologia», ciò è troppo poco, perché si possa veramente parlare di profonda influenza dell’uno sull’altro. Del resto ben presto l’entusiasmo di Nietzsche si spegne. Senza rinnegare il suo primo sentimento, egli ebbe tempo di riprendersi. In una nota del 1888, egli dice ancora: «Quale liberazione, leggendo Dostoievski!». Ma il 20 novembre dello stesso anno, ecco come risponde a Giorgio Brandes, che lo mette in guardia da questo scrittore, «tutto cristiano di sentimento», che ha aderito alla «morale degli schiavi»: «Gli ho serbata una strana riconoscenza, benché vada contro i miei più profondi istinti». «Press’a poco è come per Pascal», egli aggiunge. E nell’Ecce homo, quando ricorda quelli che furono i suoi nutrimenti spirituali, egli non lo nominerà. Alla prima attrattiva si è unita una ripulsione ugualmente violenta.

Come non essere colpiti anzitutto dal giudizio simile che tutti e due hanno pronunciato sul loro secolo? La stessa critica del razionalismo e dell’umanesimo occidentale, la stessa condanna dell’ideologia del progresso, la stessa insofferenza per il regno scientista e per le prospettive stoltamente idilliche che, in molti, lo prolungano, lo stesso sdegno per una civiltà tutta superficiale di cui essi fan saltare la vernice, lo stesso presentimento della catastrofe che ben presto la inghiottirà. Nietzsche insorge contro l’idealismo e contro la morale: Dosto- ievski se la prende con quelle che egli chiama «le idee ginevrine» che press’a poco sono la stessa cosa. L’uno e l’altro annunciano la rivincita degli «elementi irrazionali» che il mondo moderno reprime senza per altro riuscire ad estirparli. Essi invocano questa rivincita, fosse anche a prezzo dei peggiori cataclismi. Si sente in essi una volontà di distruzione, e il martello iconoclasta del pensatore tedesco ha un compito analogo alle immaginazioni apocalittiche del visionario russo. Gli scherni dell’uno per la stessa idea di verità, la sua rivolta contro «l’ordine stabilito» del sapere, non fanno forse eco alla protesta dell’altro contro il «due e due fanno quattro» ed alla sua negazione del «muro dell’evidenza»? In loro due l’umanità cerca di eva- dere dalla prigione in cui una cultura ristretta l’ha rinchiusa. Essi ricusano di lasciare mutilare l’uomo sotto pretesto di evitare la contraddizione, e, mettendo sossopra l’universo fittizio ma comodo in cui esso si lasciava collocare, essi gli restituiscono il senso del suo tragico destino.

È noto l’amore di Nietzsche per la Vita, amore che nel suo Zarathustra si rivela superiore al gusto della saggezza. Si conosce il suo disprezzo per la felicità e la sua ricerca dell’eroismo, come pure la parte essenziale che da lui è attribuita alla sofferenza ed alla malattia, nella for- mazione degli eroi: «solo questo alto tormento procura l’emancipazione finale dello spirito»;

«i grandi innovatori sono tutti, senza eccezione, malaticci ed epilettici». Dostoievski aveva detto prima di lui nell’Adolescente, per bocca di Versilov: «Mio caro, io non voglio affatto sedurti con qualche bella virtù borghese, in cambio dei tuoi ideali. Non ti dico che la felicità vale più dell’eroismo. Tutt’altro, l’eroismo è superiore a qualunque felicità».

Lui pure pensava che «l’uomo sano» è condannato a vivere nell’esistenza ordinaria, in quel «terrestre ordine normale», al quale non si sfugge che guastandosi l’organismo. Si po- trebbe rilevare nella sua opera un misticismo della vita, più precisamente un misticismo tel- lurico, che è assai vicino al culto di Dioniso. Tutta la famiglia dei Karamazov, su cui egli ha posto così fortemente la sua impronta, è ossessionata da una «sete di vivere», da un «furioso appetito di vivere», che nessuna disperazione può vincere, e il dolce, il puro, il saggio Alioscia dice lui pure a suo fratello Ivan:

– ...Si vorrebbe amare con il cuore e con il ventre, tu l’hai detto molto bene. Io sono rapito dal tuo ardore di vivere. Penso che si debba amare la vita sopra ogni cosa.

– Amare la vita anziché il senso della vita?

– Certamente. Amarla prima di ragionare, senza logica come dici; solamente allora se ne capirà il senso...

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Il parallelo è stato spinto molto più lontano. Si è voluto vedere in questi due profeti i portatori di un identico messaggio. La parentela della loro opera critica non si spiegherebbe solamente con certi caratteri comuni, ma la loro orientazione positiva sarebbe la stessa; Ra- skolnikov che maledice «quel bene del diavolo» rivelerebbe una audacia del tutto analoga a quella dello sprezzatore della morale. Già la volontà di potenza, prima di essere magnificata ed esaltata da Nietzsche, definirebbe il fine segreto degli sforzi di Dostoievski, quel fine di cui aveva dovuto contro sua voglia prendere coscienza fin dal suo soggiorno al bagno. La sola differenza considerevole consisterebbe nel fatto che ciò era stato per lui la rivelazione di una

«verità spaventosa che solo con vergogna e terrore osava proclamare per bocca dei suoi eroi», nascondendosi, per così dire, dietro ad essi anche ai suoi stessi sguardi; mentre per Nietzsche venuto più tardi, ormai si tratta di una nuova «dichiarazione dei diritti». Il primo parlava della trasformazione delle proprie convinzioni, mentre il secondo parla di una trasmutazione dei valori: ma sotto nomi differenti, il processo sarebbe lo stesso e da una parte e dall’altra.

Appena poté essere finalmente se stesso ed osò rendersene conto, all’uscire da un periodo umanitario e liberale, Dostoievski sarebbe stato già nietzschiano di fatto.

Questa è la tesi che poco fa sosteneva Leone Chestov, in un libro profondo ma eminente- mente soggettivo e che ancora si incontra qui o là: essa non è priva di una verità apparente, e diciamo pure che non è senza una verità parziale. È fuori di dubbio che parecchi degli esseri creati dal grande romanziere, sono con una parte di sé stessi come araldi preannunciatori dell’idea di Nietzsche e non è men certo che questi esseri sono «carne della carne di Dosto- ievski». L’uomo sotterraneo, Raskolnikov, Stavroghin, Ivan Karamazov, il Grande Inquisi- tore stesso, tutti si sforzano almeno di raggiungere una regione situata «al di là del bene e del male», e ciascuno di essi non è che una delle maschere del loro unico animatore. Per ora prendiamone solo un esempio. Quando Ivan Karamazov dichiara apertamente ad Alioscia che non ha mai potuto comprendere come si può amare il prossimo; quando Stavroghin stesso confessa di non aver mai potuto amare nessuno; allorché un Versilov ripete a suo figlio che

«l’uomo è stato creato fisicamente incapace di amare il suo prossimo», che «amare gli uomini come sono è impossibile», e gli dà questa consegna: «sappi disprezzarli, anche quando sono buoni», non si potrebbe dubitare che in essi si esprima un profondo sentimento di colui che li fa parlare, e ciò tanto più per il fatto che il Diario di uno scrittore contiene, nella forma più esplicita, una confidenza analoga. Ma non si può neppure fermarsi qui. Se infatti Versilov insegna il disprezzo degli altri, aggiunge subito che ciò è perché sa bene quello che dice, e che «chiunque non sia troppo stupido, non può vivere senza disprezzarsi; onesto o disonesto che sia, poco importa»! Il cinismo delle sue parole si mostra allora sotto altra luce. Ivan, Sta- vroghin senza dubbio, hanno ben ragione; sì, «bisogna che un uomo sia nascosto per poterlo amare; appena egli mostra il suo volto, l’amore dispare». Chi dunque dopo di aver riflettuto, lo negherà? Ma con che diritto anche trasformare questa dolorosa ed aspra constatazione in dichiarazione di principio? Perché poi rifiutare di credere a ciò che si chiama «balbettamenti monotoni ed importuni» di un ragazzo? Certo, Alioscia non ci informa su ciò che era Dosto- ievski, ma nondimeno la sua testimonianza, come quella dello staretz Zosimo, ci sono utili per comprendere ciò che l’autore pensava. Sarebbe un controsenso non vedervi che l’eco di un conformismo al quale il romanziere avrebbe pubblicamente sacrificato per un resto di scrupo- lo e per nascondersi dietro ad esso agli occhi del mondo.

Noi ritroveremo Alioscia e misureremo la sua importanza. Quanto a Dostoievski in perso- na, ascoltiamo tutta intera la sua professione di fede: «Io dichiaro che l’amore per l’umanità è una cosa completamente inconcepibile, incomprensibile, ed anche impossibile, senza la fede nell’immortalità dell’anima umana». Si potrà dire ora che questa condizione era per lui una

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pura chimera, abbandonata per sempre? Non bisognerebbe tuttavia rigettare così presto l’idea di Chestov. I due eroi sono fratelli, profondamente fratelli. Dostoievski è penetrato in prece- denza nell’universo solitario in cui Nietzsche ben presto si avventurerà. Egli ha presentito la crisi, forse la più terribile di tutte, di cui Nietzsche si farà il banditore e l’operaio; l’ha vissuta, ed ha assistito alla morte di Dio». Ha visto l’assassino prendere lo slancio per una impresa gigantesca. Ateismo, ideale del superuomo: in tutta la loro forza, egli li ha «realizzati» l’uno e l’altro. Poi, nonostante tutte le complicità che essi trovavano in lui, con piena coscienza, ben- ché non senza lotte ripetute, si è schierato contro di essi. In un certo senso, egli ha fatto dun- que più che prevedere e abbozzare Nietzsche. Per dire tutto in una parola, egli l’ha prevenuto;

ha superata la tentazione nella quale quest’ultimo doveva soccombere. Ed è questo che dà alla sua opera una portata eccezionale. Colui che vi si è immerso, ne esce immunizzato contro il veleno nietzschiano, senza che per questo abbia a disconoscere la grandezza di Nietzsche.

Dostoievski non l’obbliga né a chiudere gli occhi, né a spaventarsi e ad indietreggiare.

Non lo fa ritornare al di qua delle terre nuovamente scoperte, ma lo porta al di là. Lui stes- so dissipa le illusioni rassicuranti, strappa crudelmente i veli che l’uomo non cessa di tessere per non vedersi come è. Ma Dio non è per lui uno di questi veli. Anche lui condanna questo mondo e la sua menzogna. Ma Dio non è per lui un ingranaggio di questo mondo, né il sole di un universo morente. Poiché se si tratta più precisamente della nostra età, la parità che abbiamo riconosciuta nell’atteggiamento critico dei due pensatori rispetto ad essa, non deve ingannarci sulle loro ispirazioni discordanti. Nietzsche, maledicendola, vede una eredità del Vangelo, mentre Dostoievski, che pure non la maledice di meno, vi scorge il risultato di un rinnegamento del Vangelo. In fin dei conti, opponendosi sull’uomo e su Dio, essi non si op- pongono meno sul senso del mondo e sulla nostra storia umana, poiché tra loro due è piantato il segno di contraddizione.

Non cerchiamo per altro nel nostro romanziere prove che il suo genio non era in grado di creare e che il suo oggetto non comportava affatto. Le sue creazioni di carne e di sangue non sono più sillogismi di quanto lo fossero gli aforismi di fuoco o le visioni del suo antagonista.

I suoi romanzi non sono delle tesi e quello che ci offre, molto più che risposte, sono delle domande! O piuttosto egli ci obbliga a riporre sempre le domande che risposte perentorie pretendevano avere per sempre liquidate: «Il pro e il contro» si dibattono in lui. Egli ci strappa alla nostra beata tranquillità. Ed in questo, anzitutto, la sua testimonianza è preziosa.

K. Löwith, Nietzsche e l’eterno ritorno

[trad. e cura di S. Venuti, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 56-61]

Nietzsche si definisce maestro dell’eterno ritorno e considera questa sua «dottrina» quale proprio «destino». L’elemento determinante che ci consente di dare una risposta al quesito sul senso filosofico di questa dottrina è il contesto nel quale essa viene collocata. Ogni volta che si è cercato seriamente di interpretarla, si è sempre fatto riferimento al «sovra-uomo» o alla

«volontà di potenza», per dimostrare la sua conciliabilità o inconciliabilità con l’uno o con l’altra. La dottrina del sovra-uomo è il presupposto della dottrina dell’eterno ritorno, giacché soltanto l’uomo che ha superato se stesso può anche volere l’eterno ritorno di tutto ciò che è, e i progetti per la Volontà di potenza presuppongono a loro volta la dottrina di Zarathustra.

Proprio gli ultimi piani per la Volontà di potenza dimostrano che anche per quest’opera la dottrina dell’eterno ritorno sarebbe rimasta la soluzione definitiva, propriamente del problema del nichilismo, che scaturisce a sua volta dalla morte di Dio. Il superamento del nichilismo,

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all’opera dell’uomo che supera se stesso, è la condizione della profezia dell’eterno ritorno, e la filosofia di Nietzsche non va in linea di principio oltre questa. La volontà del sovra-uomo e dell’eterno ritorno è l’«ultima volontà» di Nietzsche, il suo «ultimo pensiero», nel quale si riassume sistematicamente la totalità del suo esperimento.

A causa di questo nesso sostanziale tra eterno ritorno e nichilismo, la dottrina di Nietzsche presenta un doppio volto: essa è l’«autosuperamento del nichilismo», in cui il «superante» e il

«superato» sono una cosa sola. Zarathustra supera «se stesso», vale a dire la volontà di nulla, divenuta libera, e il disgusto per l’uomo come è stato fino ad ora, per la volontà di un’esisten- za che sempre ritorna nella totalità di tutto ciò che è.

La «profezia» dell’eterno ritorno fa tutt’uno con quella totalmente diversa del nichilismo, proprio come la «duplice volontà» di Zarathustra, il «doppio sguardo» dionisiaco sul mondo e il «doppio mondo» dionisiaco stesso sono un’unica volontà, un unico sguardo e un unico mondo.

Quale unico movimento la volontà dell’eterno ritorno è tuttavia duplice per il fatto che con- verte il proprio progresso verso il nulla in un regresso verso l’essere che eternamente ritorna, riprendendo al culmine della modernità anticristiana, l’antica visione del mondo.

Nietzsche definisce la propria dottrina come la «forma estrema di nichilismo» e al contem- po come l’«autosuperamento» di quest’ultimo, giacché vuole riconoscere proprio l’insensa- tezza di un’esistenza che ritorna senza scopo. «Pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza scopo e senza senso, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla: “l’eterno ritorno”. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (la “mancanza di senso”) eterno!». Ma quale forma estrema del nichilismo è già anche la sua

«crisi» e, all’apice del suo compimento, il nichilismo si rovescia nella dottrina opposta dell’e- terno ritorno. «Coloro che si sono rovesciati» insegnano l’eterno ritorno. La fede nell’eterno ritorno dà all’esistenza dell’uomo «il nuovo centro di gravità», dopo che essa aveva perduto, con la perdita della fede cristiana, il vecchio; l’eterno ritorno, come la fede cristiana, è un

«contrappeso» alla volontà di nulla. L’«uomo redentore, dell’epoca futura» non è perciò sol- tanto il vincitore di Dio, bensì anche il vincitore del nulla, giacché questo nulla è esso stesso l’espressione conseguente del successo dell’ateismo.

Quest’uomo dell’avvenire, che ci redimerà tanto dall’ideale perdurato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, dal grande disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco di campane del mezzodì e della grande decisione, il quale nuovamente affranca la volontà, restituisce alla terra la sua meta e all’uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla – dovrà un giorno venire...

Lo «scopo» della terra è tuttavia «la mancanza di scopo in sé» del suo movimento circo- lare, così come lo scopo dell’ultima metamorfosi è la libertà da tutti i fini e gli scopi, da ogni

«volontà-di». A questo rimanda già il primo aforisma della Gaia scienza, e alla fine del IV libro Nietzsche accenna per la prima volta alla sua dottrina, con il titolo: Il peso più grande.

Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo

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immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina?».

Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo suggello?

L’aforisma che segue ha per titolo Incipit tragoedia e rimanda a Zarathustra. Parimenti in Ecce homo il rovesciamento viene definito come il problema «psicologico» che sta a fonda- mento del tipo Zarathustra: la produzione di un estremo sì da un estremo no e di una suprema spensieratezza da un’abissale malinconia. Per mezzo del dire-di-sì dionisiaco diviene facile tutto ciò che prima era difficile, giacché esso libera dal fardello dell’esser-ci toccato in sorte.

Per questo rovesciamento tuttavia è necessario anzitutto l’ulteriore sviluppo dei diversi tipi di «pessimismo» diffuso: la brama del «diverso», del no a metà e del mero nulla. Il nichilista radicale cerca al contrario «di non volere avere altro» che ciò che è, già è stato e anche di nuovo sarà.

Zarathustra diviene poco a poco più infelice e più felice, e solo quando lo raggiunge l’e- strema distretta egli conquista anche la sua estrema felicità: la necessità. Impara infine ad

«amare il suo abisso». «Vetta e abisso» diventano per lui tutt’uno. Infatti: «Donde vengono le montagne più alte? chiedevo in passato. E allora imparai che esse vengono dal mare. Questa testimonianza sta scritta nelle loro rocce e nelle pareti delle loro cime. Dall’abisso più fondo, la vetta più alta deve giungere alla sua altezza». Zarathustra percorre questo cammino verso l’ultima grandezza, per raggiunger la quale ogni scala è insufficiente e alla quale l’uomo come tale può giungere solo se sale oltre se stesso. E quando infine porta in superficie il suo pensiero «più abissale» e si trasforma, da uno che dice di no, in un sostenitore della circolarità dell’esistenza, dice: «parla il mio abisso», vale a dire: nell’esistenza insieme alla perorazione della vita si esprime anche il nichilismo. Con ciò Zarathustra ha «rovesciato alla luce» la sua

«estrema profondità», in altri termini: nichilismo ed eterno ritorno si condizionano reciproca- mente come sì e no, come luce e tenebra. Prima di intraprendere quest’ultimo viaggio verso l’estrema solitudine, Zarathustra scende ancora una volta «più in basso che mai», fin negli

«abissi più cupi», dove l’«estremo pericolo» si trasforma nel suo «ultimo rifugio».

Così, come nella metafora di Zarathustra l’eterno ritorno si presenta quale nichilismo ro- vesciato, anche nell’esistenza stessa di Nietzsche la smania di autoeternizzarsi è, in modo rovesciato, tutt’uno con la tentazione di autoannientarsi. La stessa volontà di eternizzare è quindi ambigua: può derivare dalla gratitudine per l’esistenza, ma può anche essere la volontà tirannica e vendicativa di chi dispera dell’esistenza.

La volontà di eternizzare esige [...] una doppia interpretazione. Può scaturire da gratitudine e amo- re: un’arte che abbia questa origine sarà sempre un’arte di apoteosi, ditirambica, forse, con Rubens;

beatamente beffarda, con Hafis; piena di chiarità e di indulgenza, con Goethe; un’arte che diffonde un omerico chiarore di luce e di gloria su tutte le cose (in questo caso, parlo di arte apollinea). Ma può anche essere quella volontà tirannica di un uomo straziato dal dolore, in lotta, martoriato, che vorrebbe imprimere in quello che è più legato alla sua persona, alla sua singolarità, in quel che è più intimo in lui, nella caratteristica idiosincrasia del suo dolore, il sigillo di una legge vincolante e di una forza coattiva, e che prende, per così dire, vendetta di tutte le cose, incidendo, incastrando a viva forza, marchiando a fuoco in esse la sua immagine, l’immagine della sua tortura. Quest’ultimo è il pessimismo romantico nella sua forma più significativa, sia come schopenhaueriana filosofia del volere, sia come musica wagneriana: il pessimismo romantico, l’ultimo grande avvenimento nel destino della nostra cultura. (Che ci possa essere poi anche un pessimismo classico – questo

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presentimento e questa visione appartengono a me, in quanto sono indissolubili da me, sono il mio proprium e ispissimum: [...] il pessimismo dionisiaco.)

Con questa sua «invenzione», Nietzsche-Zarathustra, nel capitolo decisivo intitolato La visione e l’enigma, non uccide soltanto la «sofferenza», la «compassione» e la «vertigine in prossimità degli abissi», ma anche la morte. Nel suo scoramento per il fardello dell’esistenza portato verso l’alto, egli acquista coraggio e, dopo la guarigione dalla malattia mortale, dice

«alla morte»: «Questo fu la vita? Orsù! Daccapo!» e sempre daccapo. La volontà dell’eterno ritorno di ogni esistenza è dunque un «autosuperamento del nichilismo», giacché per suo mezzo l’uomo supera l’idea di ciò che è ultimo: l’autoannientamento, «l’atto del nichilismo».

Questo abisso e questa profondità fanno dell’eterno ritorno l’«idea più abissale», con la quale Zarathustra vince una volta per tutte la volontà di nulla. E dal momento che Zarathustra ha già rovesciato, portandola alla luce, la sua estrema profondità, ora può portare la luce anche nel mondo delle tenebre. Per lo stesso Nietzsche – nella «lingua dell’uomo» – il tramonto di Zarathustra non significa tuttavia un’ascesa verso un nuovo mattino, bensì un «sole al tra- monto sull’ultima catastrofe» e una «testa di Medusa» per la quale tutti i tratti del mondo si irrigidiscono in una «agonia raggelata».

In effetti in questo contesto la morte di Dio, dalla quale scaturisce il nichilismo, è per il profeta del nichilismo «il pericolo più grande» e l’«evento più orrendo», ma per la profezia di Zarathustra è l’evento «più promettente» e la «causa del più grande coraggio»; infatti nel coraggio per il nulla si compie il nichilismo e si supera infine nell’audacia del sovra-uomo, a partire dal quale Nietzsche insegna l’eterno ritorno. Nella Volontà di potenza questo rove- sciamento viene infatti espressamente designato come il movimento peculiare del filosofare nietzscheano.

Una filosofia sperimentale, come quella che io vivo, anticipa a mo’ di prova anche le possibilità del nichilismo sistematico, senza che sia perciò detto che essa si fermi a un «no», a una negazione, a una volontà di «no». Essa vuole anzi giungere, attraverso un tale cammino, al suo opposto – a un’affermazione dionisiaca del mondo così com’è, senza detrarre, eccepire o trascegliere, vuole il circolo eterno: le stesse cose, la stessa logica e illogicità dei nodi. Lo stato più alto che un filosofo possa raggiungere e la posizione dionisiaca verso l’esistenza: la mia formula per ciò è amor fati.

Con questa formula della volontà dell’eterno ritorno Nietzsche designa anche il principio della sua «trasvalutazione di tutti i valori», che a loro volta derivano da quella prima trasva- lutazione che il cristianesimo operò sull’antichità, quando si ammalò la volontà di esistere di quest’ultima. Al «sentimento paralizzante della dissoluzione universale» Nietzsche con- trappose la dottrina dell’eterno ritorno. Insomma: «posizioni estreme», come il nichilismo europeo pensato fino alle sue ultime conseguenze, «non vengono sostituite da posizioni più moderate, bensì da posizioni ancora più estreme, ma rovesciate».

[...] L’idea dell’eterno ritorno insegna un nuovo fine dell’esistenza umana, al di là di se stessa, una volontà di autoeternizzazione; ma insegna anche l’esatto contrario: un ruotare in se stesso, privo di sé e privo di scopo, del mondo naturale, che include anche la vita umana. Il senso cosmico si contrappone a quello antropologico, cosicché l’uno diviene il contro-senso dell’altro.

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M. Heidegger, Nietzsche

[a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 815-816, 818-820]

La metafisica di Nietzsche è nichilistica in quanto è pensiero dei valori e in quanto quest’ulti- mo ha il suo fondamento nella volontà di potenza quale principio di ogni posizione di valori.

Di conseguenza, la metafisica di Nietzsche diventa il compimento del nichilismo autentico perché è la metafisica della volontà di potenza. Se però le cose stanno così, allora la metafi- sica in quanto metafisica della volontà di potenza rimane, sì, il fondamento del compimento del nichilismo autentico, ma non può affatto essere il fondamento del nichilismo autentico in quanto tale. Quest’ultimo deve già regnare, ancorché incompiuto, nell’essenza della metafisi- ca pregressa. Essa non è certo una metafisica della volontà di potenza, ma esperisce nondime- no l’ente in quanto tale nel suo insieme come volontà. Per quanto l’essenza della volontà qui pensata rimanga sotto molti aspetti, e anzi di necessità, oscura – risalendo dalla metafisica di Schelling e Hegel attraverso Kant e Leibniz fino a Descartes – l’ente in quanto tale viene in fondo esperito come volontà.

Ciò non significa, certo, che la soggettiva esperienza vissuta della volontà umana venga proiettata sull’ente nel suo insieme. Indica soltanto che, viceversa, muovendo da una espe- rienza non ancora chiarita dell’ente in quanto tale nel senso della volontà, che va anch’essa pensata, l’uomo può giungere per la prima volta alla consapevolezza di essere soggetto volen- te in un senso essenziale. La cognizione di questi nessi è certo inevitabile per una esperienza storico-essenziale della storia del nichilismo autentico. Non può tuttavia essere esposta qui.

Per il momento questo compito non è nemmeno urgente. Infatti, ciò che viene detto sul nichi- lismo autentico nel caratterizzare la metafisica di Nietzsche come il compimento del nichili- smo deve avere già suscitato in coloro che riflettono un’altra supposizione: né la metafisica della volontà di potenza né la metafisica della volontà sono il fondamento del nichilismo autentico, ma soltanto la metafisica stessa.

La metafisica è in quanto metafisica il nichilismo autentico. L’essenza del nichilismo è storicamente la metafisica; la metafisica di Platone non è meno nichilistica della metafisica di Nietzsche. Solo che, in quella, l’essenza del nichilismo rimane occulta, in questa viene piena- mente alla luce. Ma nell’ottica della metafisica, e al suo interno, non si fa mai riconoscere. [...]

La metafisica pensa l’essere stesso? No, mai. Pensa l’ente rispetto all’essere. L’essere è ciò che risponde, in prima e ultima istanza, alla domanda nella quale rimane sempre l’ente ciò che è investito dalla domanda (das Befragte). L’essere non è, in quanto tale, ciò che è investito dalla domanda. Pertanto, nella metafisica l’essere stesso rimane impensato, e non inciden- talmente, ma in conformità con il domandare proprio della metafisica. Questo domandare e il relativo rispondere, pensando l’ente in quanto tale, pensano, sì, necessariamente partendo dall’essere, ma non pensano a quest’ultimo, e precisamente perché, in conformità con il senso della domanda più proprio della metafisica, l’essere è pensato come l’ente nel suo essere. In quanto la metafisica pensa, partendo dall’essere, l’ente, essa non pensa l’essere in quanto essere. [...]

Certo, la metafisica riconosce che l’ente non è senza l’essere. Ma appena lo ha detto, essa traspone di nuovo l’essere in un ente, sia esso l’ente sommo nel senso della causa suprema, o sia invece l’ente per eccellenza nel senso del soggetto della soggettività quale condizione della possibilità di ogni oggettività, o sia infine, in conseguenza della coappartenenza delle due fondazioni dell’essere nell’ente, la determinazione dell’ente sommo come Assoluto nel senso della soggettività incondizionata.

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Questa fondazione dell’essere, a mala pena rammemorato, su quello che tra gli enti è più ente prende le mosse, in conformità con la domanda metafisica, dall’ente in quanto tale. Essa esperisce che l’ente è (ist). Viene sfiorata, come di passaggio, dal pensiero che l’essere è essenzialmente presente (west). Ma questa esperienza imbocca inavvedutamente il corso del domandare metafisico che si pone la domanda che, nella formulazione posteriore a opera di Leibniz, suona: perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente?

Questa domanda, andando al di là, domanda in direzione della causa suprema e del fonda- mento sommo, che è, dell’ente. È la domanda del θεῖον che sorge già all’inizio della metafi- sica in Platone e Aristotele, che sorge cioè dall’essenza della metafisica. Poiché la metafisica, pensando l’ente in quanto tale, rimane riguardata dall’essere, ma lo pensa partendo dall’ente e andando all’ente, per questo essa deve in quanto tale dire (λέγειν) il θεῖον nel senso del fondamento che sommamente è. La metafisica è in sé teologia. Lo è, in quanto dice l’ente in quanto ente, lo ὂν ᾗ ὄν. L’ontologia è al tempo stesso necessariamente teologia. Per ricono- scere il tratto onto-teologico della metafisica non c’è bisogno di prendere come orientamento il mero concetto di metafisica della scuola leibniziano-wolffiana; esso non è che una forma scolastica derivata dell’essenza della metafisica pensata in termini metafisici.

I nomi qui adoperati di ontologia e teologia non coincidono con ciò che essi nominano nel concetto di metafisica della scuola leibniziano-wolffiana. Piuttosto, l’ontologia è il determi- nare l’ente in quanto tale rispetto alla sua essentia. Essa si trova nella psicologia, cosmologia e teologia. D’altra parte, la teologia rettamente pensata domina nella cosmologia e nella psi- cologia (antropologia) e così pure nella metaphysica generalis.

Anche la metafisica di Nietzsche, in quanto ontologia, benché sia apparentemente lontana dalla metafisica della scuola leibniziano-wolffiana, è al tempo stesso teologia. L’ontologia dell’ente in quanto tale pensa la essentia come volontà di potenza. Questa ontologia pensa la existentia dell’ente in quanto tale nel suo insieme, teologicamente, come l’eterno ritorno dell’uguale. Questa teologia metafisica è tuttavia una teologia negativa di tipo particolare. La sua negatività si manifesta nella sentenza: Dio è morto. Non è la sentenza dell’ateismo, ma la sentenza dell’onto-teologia di quella metafisica nella quale si compie il nichilismo autentico.

G. Vattimo, Il soggetto e la maschera.

Nietzsche e il problema della liberazione

[Bompiani, Milano 1974, pp. 283-287, 289-293, 307-310, 322-324]

Nella sintesi dei tre significati che l’eterno ritorno è venuto fin qui rivelando: rovesciamento della struttura rigida del tempo, liberazione dal passato come autorità e soggezione, liberazio- ne del simbolico, si possono vedere le linee che definiscono anche quello che Nietzsche ha chiamato Übermensch; il quale in tal modo [...] si manifesta come una forma di umanità col- locata totalmente oltre l’uomo così com’è oggi; non è una intensificazione dell’essenza uomo quale finora si è manifestata, e nemmeno, come vuole Heidegger, l’uomo in quanto capace di

“andare oltre”, in una direzione che conferma e potenzia soltanto le strutture della metafisica su cui si fonda il nostro mondo. Questa figura di oltreuomo, come colui che vive in sé i tre fondamentali aspetti dell’eterno ritorno, rappresenta la risposta di Nietzsche al problema che si era posto in conclusione dell’itinerario di autonegazione della metafisica, riassunto nella questione dello spirito libero, della sua eccezionalità e provvisorietà. Tale eccezionalità, prov- visorietà, problematicità sostanziale dello spirito libero e del pensiero genealogico si risolvo- no solo [...] con la scoperta dell’idea del ritorno, la quale, nella sua sostanza, è la scoperta del

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fatto che tutte le strutture metafisico-morali in cui è foggiato e di cui soffre l’uomo attuale si riportano al dominio, all’autorità che ci si impone con l’indiscutibilità del già-presente, del già-stato [...]. Se lo spirito libero e il pensiero genealogico rappresentavano una rinascita del dionisiaco alla fine del processo di sviluppo della metafisica, rinascita connessa essenzialmen- te a questo stesso totale dispiegamento, ora è venuto in chiaro che la rinascita e la liberazione del dionisiaco possono diventare davvero principio di un nuovo modo di esistenza, e non più solo provvisoria liberazione “estetica” di pochi, solo se l’uomo si libera dalla metafisica e da tutte le strutture autoritario-paterne che essa, nel corso della sua storia, ha prodotto e conso- lidato. [...]

Del resto, nella nozione stessa dell’oltre-umanità così come Nietzsche la delinea soprat- tutto nello Zarathustra e negli appunti della Volontà di potenza, l’aspetto della liberazione del simbolico è inscindibilmente legato a quello della liberazione dall’autorità, e in generale dalle strutture del mondo della ratio. L’oltreuomo si presenta anzi, più ancora che come com- mediante e libero creatore di simboli, come caratterizzato da tutta una serie di connotazioni

“violente”, definito nei termini di una hybris che finora ha per lo più sviato gli interpreti, e che è entrata di diritto a costituire quel grosso equivoco che fu la interpretazione fascista e nazista di Nietzsche. La hybris dell’oltreuomo è quella che lo oppone, con disprezzo e atteggiamento di sovranità, all’armento, al gregge e alla sua morale; ma [...] il gregge non è affatto l’umanità nel senso della totalità degli uomini presi in una loro essenza sovrastorica e soggetto di un

“diritto naturale”, bensì l’umanità in quanto deformata e sfigurata dalle strutture del dominio.

L’oltreuomo è una minaccia per l’uomo presente solo in quanto l’uomo presente è gregge, so- cietà della ratio dispiegata, disciplina sociale produttiva interiorizzata attraverso la coscienza, il linguaggio, tutto il sistema della morale-metafisica dominata dallo spirito di vendetta.

In base a questa hybris l’oltreuomo appare dunque anzitutto come quello che si sottrae vio- lentemente alla disciplina del mondo della ratio e alla morale dell’armento. La morale oltreu- mana è, nella sua formulazione più elementare, l’opposto della morale platonico-cristiana del gregge, che implica una permanente separazione dal valore e dal significato; è in base a questa separazione dal significato che il singolo viene funzionalizzato in vista dei fini dell’egoismo superiore della macchina sociale produttiva. La tensione morale verso scopi che sono sempre al di là di ciò che possiamo raggiungere [...] copre soltanto il fatto che l’uomo è incluso in un sistema la cui razionalità rigorosa gli sfugge sempre, e perciò tutto quel che fa qua è sempre necessariamente al di qua del raggiungimento dell’identità tra essenza ed esistenza, essere e valore. Nietzsche intende anzitutto rovesciare questa condizione: la sua morale non concerne il fare, ma l’essere; unico atto morale che ancora si possa assegnare come compito, ma ciò nel quadro di una morale “provvisoria”, “allegorica”, propria della situazione intermedia, è appunto quello di trasformare l’uomo in modo che sia anzitutto capace dell’identità di esi- stenza e valore: ciò [...] implica la liberazione dalla struttura autoritaria della società e della coscienza. [...]

Questo oltreuomo non è più, in nessun senso, un reattivo, e solo dal punto di vista dell’ar- mento egli può apparire malvagio. La sua felicità è piena identificazione con il significato, e quindi anche piena accettazione del proprio corpo, che non appare più come ostacolo nello sforzo ascetico di raggiungere un qualche al di là. La sua sete di dominio e il suo egoismo sono soltanto l’esuberanza della libertà, che respinge da sé ogni sottomissione e servilismo.

[...]

In nome di questo egoismo, che non è amore di noi stessi quali ci troviamo ad essere, formati e sfigurati dalla morale del gregge e dalla logica del dominio, Nietzsche proclamerà che «lo scopo non è l’‘umanità’, ma l’oltreuomo» [...]. In questo stesso senso vanno letti tutti

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i molti testi nietzscheani dove si esalta l’individuo contro la massa, il gregge, cioè l’umanità come insieme degli uomini quali sono oggi [...]. Anche la «rivolta degli schiavi in morale», di cui parla la Genealogia della morale, non è tanto la pretesa che gli uomini meschini, dell’ar- mento, hanno di imporre la propria morale a tutti, quanto, puramente e semplicemente, il fatto storico che nella società di oggi si impone dovunque la ratio dell’organizzazione produttiva e della divisione del lavoro sociale. È contro questo affermarsi dell’armento, che non è voluto dagli schiavi ma è il dispiegamento stesso della ratio, che l’oltreuomo nietzscheano prende posizione, sviluppando le sue malvagità, che sono in realtà le nuove virtù dell’uomo sottratto all’universale funzionalizzazione dell’organizzazione totale. Si tratta, per l’oltreuomo, di sot- trarsi all’estrema e più raffinata forma del dominio che si realizza nel lavoro industriale come riduzione di tutti a strumento dell’egoismo superiore della ratio. [...]

Servitù [...] è l’essere utilizzati dal padrone o in generale dal sistema della ratio, che mo- stra il suo vero volto nell’organizzazione capitalistica del lavoro, ma che si manifesta a ugual titolo nell’imporsi, all’interno del singolo, delle strutture mentali e morali prodotte dal domi- nio, dalla metafisica alla morale platonico-cristiana. È in questo senso più generale che l’uo- mo com’è stato finora, e come ancora è, non è un vero individuo, ma solo un “rappresentante”, e per giunta un cattivo commediante, un “commediante simulato”, che non si identifica con la parte rappresentata, che, cioè, è interiormente scisso proprio secondo la logica messa in luce dalle analisi di Umano troppo umano [...]. Egli non si vuole né è voluto per sé, ma sempre solo in vista di altro. Non solo l’industria e il lavoro di fabbrica, ma anche il commercio e lo scam- bio segnano irrimediabilmente questa universale riduzione dell’uomo all’utilità; un’utilità che appare astratta e inafferrabile, in qualche modo, come astratta e inafferrabile è la razionalità generale del sistema produttivo, che sfugge alla capacità di prensione e comprensione dei singoli, e tutti li asservisce in maniere diverse. [...]

L’esaltazione della malvagità, del disprezzo, del distacco dalla massa meschina dell’u- manità presente, hanno dunque, per la definizione dell’oltreuomo di Nietzsche, il senso di mostrare che la sua condizione preliminare e necessaria è la rottura con il mondo dell’utilizza- zione e con il sistema della ratio. Lo stesso senso ha la predicazione del caso, che Zarathustra pone al centro del suo nuovo atteggiamento benedicente e redentore nei confronti delle cose.

È davvero benedizione, non blasfemia, quando insegno: ‘su tutte quante le cose sta il cielo caso, il cielo innocenza, il cielo accidente, il cielo tracotanza’. ‘Per caso’ – questa è la più antica nobiltà del mondo, che io ho restituito a tutte le cose, io le ho redente dall’asservimento allo scopo (Zarathu- stra, “Prima che il sole ascenda”).

Questa predicazione del caso sembra in contrasto con molte altre affermazioni di Zara- thustra, alcune delle quali già abbiamo avuto modo di commentare, secondo le quali egli è proprio colui che redime l’uomo dalla casualità. In realtà, liberazione del caso e liberazione dal caso appaiono due caratteri ugualmente essenziali del modo di essere dell’oltreuomo, anche se la casualità non ha, ovviamente, lo stesso senso nelle due espressioni. La libera- zione del caso è la rottura dell’unità rigidamente funzionale, ignominiosa (come il lavoro di fabbrica) del mondo della ratio. Questa razionalità implica, come suo carattere costitutivo, l’asservimento dell’individuo a scopi che gli sfuggono, in generale il suo inserimento in una razionalità che lo trascende. Di ciò è testimonianza tutta la metafisica e la morale tradizio- nale. In quanto implica questa trascendenza del senso, la ratio degrada però anche ogni suo strumento a pura inessenzialità, e in questo modo lo fissa in una casualità che è quella da cui Zarathustra lo vuole liberare. Le due liberazioni, dunque, non si contraddicono ma anzi sono strettamente legate l’una all’altra [...]: la liberazione del simbolico come recupero del

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dionisiaco implica come sua condizione la effettiva liberazione dalle catene storico-concrete che legano l’uomo e che sono penetrate fino a sfigurare la sua intimità più profonda. La li- berazione della casualità corrisponde appunto a questo primo momento, ed è condizione di un secondo processo, quello che libera l’uomo e l’esistenza tutta dalla casualità intesa come inessenzialità dell’esistente concreto, scisso dal suo significato che lo trascende come senso totale del sistema della ratio.

Il secondo movimento, quello della liberazione dalla casualità, è [...] un movimento che concerne il campo dei simboli. In particolare, anzi, Nietzsche lo configura come una nuova disciplina del simbolico, un diverso modo di essere dell’uomo nei confronti del simbolo. Que- sta nuova disciplina del simbolico che nasce una volta rinnegata ogni trascendenza, e quindi, inscindibilmente, ogni “utilità” dell’uomo in vista di altro da sé, è abbozzata nel discorso di Zarathustra intitolato “Sulle isole Beate” (nella parte seconda). Qui appare anzitutto che la definizione più generale di simbolo è per Nietzsche quella di essere una rappresentazione che conferisce senso a una situazione vissuta e che, in tal modo, la mette in possesso di chi la vive. Tuttavia non tutti i simboli svolgono davvero questa funzione in modo autentico: ci sono simboli che sono solo supposizioni, in quanto il loro significato non può essere pienamente in possesso di chi li formula e li usa. Così «un tempo, nel guardare verso mari lontani, si diceva Dio»; invece ora bisogna dire: oltreuomo; e ciò perché Dio è qualcosa che non possiamo né creare né pensare a fondo. L’oltreuomo è invece una nostra possibilità effettiva, e per questo va sostituito a Dio come supremo ricettacolo del senso del reale. [...]

Il simbolo è un modo che ha l’uomo di impadronirsi del mondo. La ri-creazione del mon- do che l’oltreuomo deve fare, realizzando così in sé l’eterno ritorno come rovesciamento del passato, è una ri-creazione simbolica, che però, per potersi verificare, esige come preliminare un rovesciamento storico, quello che porta l’uomo fuori dal mondo della ratio. Per creare simboli e dare nuove tavole di valori bisogna essere uno che ha il diritto di farlo [...]. Questo essere non è un qualche radicamento remoto e mitico, è la trasformazione storica dell’uomo, che si rende capace, con la rottura pratico-storica del mondo della ratio, di ri-creare davvero il mondo nella libertà del simbolico. Il simbolico, del resto, non è, come pure dice Zarathustra delle immagini di Dio, dell’Imperituro, del Perfetto ecc., «soltanto simbolo» (“Sulle isole Be- ate”). Attività simbolica è tutta l’attività con cui l’uomo plasma il mondo secondo la propria ragione, la propria volontà, il proprio amore, la propria immagine. Sostituire a Dio, come cul- mine del mondo del simbolo e del senso, l’oltreuomo, significa semplicemente, e fondamen- talmente, liberare l’attività con cui l’uomo si impadronisce del mondo da ogni limite estraneo, derivato dalla condizione di paura e di insicurezza in cui il simbolo è nato come ausilio per dominare la natura, ma si è rivolto poi contro l’uomo stesso e la sua capacità di risolvere in felicità effettivamente vissuta quel controllo della natura che così si andava assicurando. Il mondo dei simboli, cioè il mondo della attività con cui l’uomo si impadronisce delle cose, ha sofferto fino ad ora di questo progressivo accentuarsi della trascendenza del significato e del valore, trascendenza che si è fissata allo scopo di assoggettare i singoli alla organizzazione collettiva del lavoro (vincendo le loro passioni e interessi “immediati”). L’esito nichilistico di questo processo consiste nel fatto che ormai la differenza tra essere, concretezza, esistenza singola, e significato o valore, si è talmente approfondita che questo secondo polo è svanito, distrutto proprio dalla veracità e dall’onestà che esso stesso aveva sempre raccomandato.

L’uomo ha perso ogni punto di riferimento, «rotola via dal centro verso la x» [...].

Contro questo esito nichilistico è destinata ad agire la rivendicazione della immanenza del significato. Questa immanenza implica un nuovo atteggiamento da parte dell’uomo, giacché essendo venuta a mancare la trascendenza, è venuto a mancare anche ogni punto di riferi-

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mento fisso e stabile, ogni «Uno, Pieno, Immoto, Satollo, Imperituro» (“Sulle isole Beate”). I nuovi simboli «devono parlare del tempo e del divenire». [...]

Una delle difficoltà principali che si incontrano nel pensare questo nuovo regime del sim- bolico, che poi coincide con la vita stessa dell’uomo liberato, con la realtà dell’oltreuomo, consiste nello stabilire come si debba concepire il sorgere e il rinnovarsi dell’attività sim- bolica in un mondo dove sia scomparsa l’insicurezza, la paura, e siano cadute anche tutte quelle forme di “repressione addizionale” nelle quali, lungo la storia della metafisica, si è trasformata e riprodotta la condizione dell’insicurezza primitiva. Il divenire e rinnovarsi dei simboli nel mondo liberato non può più essere ricondotto alla ricerca di strumenti per rendersi sopportabile l’esistenza. [...]

Nel mondo liberato dell’oltreuomo, il simbolo non nasce dall’insicurezza originaria o dal- la sublimazione connessa con la repressione sociale e paterna degli impulsi. È vero che la pri- ma origine del simbolico sembra essere questa. Ma il carattere dell’oltreuomo, che si palesa anche in questo particolare problema, non è quello di recuperare o realizzare una condizione originaria, bensì quello di rappresentare una nuova forma, addirittura una nuova specie e raz- za, di umanità, resa possibile da ciò che è stata l’umanità del passato, ma eterogenea e altra rispetto ad essa. Non c’è quindi da porsi il problema di come, nel nuovo mondo della libertà, possa ancora darsi l’origine del simbolo dalla sublimazione. Quella origine non si dà più.

Attraverso la sanguinosa educazione che ha rappresentato la società della ratio e del dominio, con le sue strutture metafisiche e morali repressive, l’uomo è diventato capace di produrre i simboli in maniera nuova, per pura esuberanza interna; non per reattività, ma per una “virtù donante” di cui si sono costruite proprio oggi le condizioni.

A questa origine assolutamente autonoma dei simboli allude la dottrina nietzscheana del carattere interpretativo di ogni divenire, e della riduzione di ogni fatto a interpretazione. Essa, del resto, è una delle conseguenze già poste a partire da Umano troppo umano, in base alle quali i giudizi sui fatti vengono mostrati come scomponibili a loro volta in giudizi sempre più piccoli, finché anche la sensazione nelle sue forme più elementari appare già come una interpretazione e selezione dei “dati”, sicchè non c’è più nulla che si distingua dalla interpre- tazione stessa. [...]

Il «giocare su tutto» con cui si concludeva la Gaia scienza (382), è strettamente legato al riconoscimento del carattere ermeneutico del divenire:

Il mondo è divenuto per noi ancora una volta ‘infinito’: in quanto non possiamo sottrarci alla possi- bilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite (ivi, 374).

La Volontà di potenza, con la riduzione completa dei fatti alle interpretazioni, svolge solo più radicalmente questo pensiero: non si potrebbe dire infatti nemmeno più che “il mondo racchiude” infinite interpretazioni; il mondo non si eccettua dall’universale interpretatività, già il pensarlo come una possibile sede entro cui le interpretazioni accadono è metterlo sotto il segno di una interpretazione fra altre.

Non si può dire che questa generalizzazione della nozione di interpretazione a ogni acca- dere vanifichi il concetto nel suo senso più determinato, che lo vuole legato alla lettura di un testo, alla decifrazione di un segno. Il mondo nel quale ogni nuovo evento è interpretazione è di fatto un mondo costituito esclusivamente di simboli e segni; i “fatti” non sono interpre- tazioni solo nel senso che noi non possiamo prescindere, nel coglierli, dai nostri pregiudizi;

essi si costituiscono, come fatti, solo in un mondo simbolico, sono interpretazione nella loro più radicale essenza; in quanto ordinarsi di elementi atomici, che a loro volta sono già sem-

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pre ordinamenti e sistemi retti da una unità simbolico-interpretativa. Nella esperienza che facciamo del mondo, dunque, veramente noi non facciamo che leggere dei testi. I testi, a loro volta, sono già interpretazione di altri testi, e così via, senza che sia mai possibile arrivare a un referente ultimo, che sia realtà, immediatezza, datità precedente la simbolizzazione. Ciò, [...]

nella critica nietzscheana della nozione di soggetto, non concerne solo l’oggetto, ma anche il soggetto [...]. Se non ha un referente ultimo nei “fatti”, l’interpretazione non ha per Nietzsche nemmeno un fondamento ultimo nel “soggetto”, di cui per esempio il mondo dei simboli po- trebbe essere considerato “espressione” [...].

Ma già questo è una interpretazione. Il ‘soggetto’ non è nulla di dato, ma una finzione aggiunta, qualcosa che noi collochiamo dietro [ai fatti e alle interpretazioni]. In definitiva, è necessario porre ancora l’interprete dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione poetica, ipotesi (La volontà di potenza, 481).

[...] L’equivoco e la difficoltà di ricostruire su questo punto il pensiero di Nietzsche sta nel fatto che quasi tutte, o senz’altro tutte, le sue affermazioni sul soggetto sono riferite al sog- getto della metafisica, e il termine stesso non sembra poter indicare altro che questo. Anche il passo che abbiamo citato dalla Volontà di potenza non dice nulla su come si debba positiva- mente pensare l’interpretazione in rapporto all’oltreuomo, ma piuttosto nega che sia legittimo vedere la dottrina del carattere ermeneutico dell’essere come una dottrina soggettivistica nel senso che il termine soggetto ha avuto e ha ancora nella mentalità metafisica.

Se seguiamo però l’indicazione generale che troviamo nello Zarathustra, dove l’oltreuo- mo è definito in termini di libera creatività, e se ascoltiamo il senso che è implicito nella stessa importanza che Nietzsche conferisce al termine Übermensch, anche al di fuori di tutti gli equivoci che ne fanno una semplice intensificazione dell’essenza uomo come si è finora, ma solo imperfettamente, realizzata, sembra indiscutibile che al centro del mondo dei simboli e della libera inventività ci deve essere ancora un “individuo”, che fa e scioglie gli enigmi, che benedice il divenire e gioisce dei molteplici colori del mondo. Anche se questa dottrina del

“nuovo soggetto” non è organicamente sviluppata, gli elementi che in tal modo Nietzsche ci fornisce sono sufficienti, almeno, a escludere che egli pensi a un mondo dove l’uomo come centro individuale di costituzione e interpretazione di significati sia destinato a sparire. È de- stinato a sparire il soggetto in quanto, come si potrebbe dire con un legittimo gioco di parole, è assoggettato, sottomesso, intimamente segnato dalla malattia delle catene. E, certo, con questa sparizione dell’uomo soggetto-assoggettato sono destinate a prodursi tutta una serie di modificazioni radicali nel modo di essere, ultraumano, dell’uomo, che sono difficili da immaginare, e che per lo più rimangono avvolte nel mistero del linguaggio “allegorico” dello Zarathustra, sottraendosi – per una ben precisa ragione legata al nesso tra pensiero e situazio- ne, teoria e prassi – non solo a noi ma anzitutto a Nietzsche stesso. Già in questi limiti, però, la distruzione del soggetto occidentale nella sua intima costituzione, riproducente la struttura del dominio e la divisione tra servi e padroni; ha una grandissima importanza dal punto di vista di ogni pensiero che si ponga il problema di un rinnovamento radicale del modo di essere dell’uomo nel mondo, nella natura e nella società.

Riferimenti

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