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STORIA DELLA LINGUA ITALIANA

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Academic year: 2022

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Università degli studi di Napoli Federico II CdS triennale in Lettere moderne

corso di

S TORIA DELLA LINGUA ITALIANA

(parte 1)

a.a. 2019/2020

V OCI TRATTE DALL ’Enciclopedia dell’italiano

a cura di Raffaele Simone, , Gaetano Berruto, Paolo D’Achille, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2011

(punto n. 2 del programma indicato nella Guida dello studente)

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2 Elenco delle voci

sull’Italia dialettale:

1. “aree linguistiche” (di Ugo Vignuzzi) 2. “dialetti” (di Francesco Avolio)

3. “dialetto (usi letterari del)” (di Nicola De Blasi) 4. “dialettologia italiana (di Ugo Vignuzzi) 5. “isoglossa” (di Ugo Vignuzzi)

sulle singole aree dialettali:

6. “corsi (dialetti)” (di Annalisa Nesi)

7. “emiliano-romagnoli (dialetti)” (di Fabio Foresti) 8. “friuliani (dialetti)” (di Laura Vanelli)

9. “Italia mediana” (di Ugo Vignuzzi) 10. “laziali (dialetti)” (di Francesco Avolio) 11. “liguri (dialetti)” (di Fiorenzo Toso)

12. “lombardi (dialetti)” (di Giovanni Bonfadini) 13. “meridionali (dialetti)” (di Francesco Avolio) 14. “piemontesi (dialetti)” (di Davide Ricca) 15. “sardi (dialetti)” (di Antonietta Dettori)

16. “siciliani, calabresi e salentini (dialetti)” (di Francesco Avolio) 17. “toscani (dialetti)” (di Silvia Calamai)

18. “umbro-marchigiani (dialetti)” (di Francesco Avolio) 19. “veneti (dialetti)” (di Falvia Ursini)

sulle minoranze linguistiche:

20. “gallo-italica (comunità)” (di Fiorenzo Toso) 21. “minoranze linguistiche” (di Fiorenzo Toso) 22. “zingare (comunità)” (di Giulio Soravia).

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aree linguistiche

di Ugo Vignuzzi - Enciclopedia dell'Italiano (2010)

aree linguistiche

Per area linguistica s’intende un’area geografica caratterizzata dalla presenza di determinati fenomeni linguistici (dal livello fonologico a quello lessicale). La nozione di area linguistica è una delle più dibattute della dialettologia scientifica sin dai suoi esordi.

Per quanto riguarda il dominio linguistico italo-romanzo, come in genere per tutti i domini romanzi confinanti (la cosiddetta «Romània continua»), è particolarmente difficile tracciare netti confini dialettali in mancanza «di un ampio fascio di isoglosse che seguano, riunite e compatte, una data linea» (Pellegrini 1977: 19-20).

E così le più recenti proposte di articolazione areale (o spaziale o geolinguistica) del dominio italo- romanzo, dopo le prime sistemazioni di ➔ Graziadio Isaia Ascoli (1882-1885) e di Merlo (1924), hanno fatto riferimento al più importante confine linguistico della Romània, che divide profondamente anche le varietà linguistiche italiane, la cosiddetta «Linea La Spezia-Rimini», un fascio di isoglosse

(➔ isoglossa) individuato da Walter von Wartburg (1936 [1950]) sulla base dei dati dell’AIS (➔ atlanti linguistici). Un altro importante confine linguistico fu individuato da Gerhard Rohlfs (1937) nel fascio di isoglosse «Roma-Ancona». Su tali confini si basano le proposte di suddivisione del dominio

linguistico italiano di Tagliavini (19695) e di Pellegrini (1977).

Nel riconoscimento delle aree linguistiche italiane bisogna comunque tener conto di alcuni elementi problematici. Il confine linguistico della «La Spezia-Rimini» è nettamente tracciato solo nelle zone scarsamente popolate dell’Appennino tosco-emiliano; ma di fatto un’ampia fenomenologia tipica dei dialetti settentrionali caratterizza a ovest pure i dialetti della Lunigiana, e a est arriva fino alle porte di Ancona (o meglio almeno fino a Senigallia). Il confine linguistico segnato dalla linea Roma-Ancona è assai più incerto, anche per il rarefarsi dei punti d’inchiesta dell’AIS nelle zone in questione.

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4 Di fatto, nella valutazione dei dati, e in particolare nella scelta dei fenomeni da esaminare, altrettanto fondamentale appare il fattore tempo, inteso sia come dato storico all’origine della partizione areale, sia come vettore di processi che possono essere sempre in atto.

Distinguiamo allora nel dominio italo-romanzo le seguenti macroaree (con le loro principali suddivisioni, fig. 1):

Macroarea italiana settentrionale (o alto-italiana):

area gallo-italica

area veneta

area istriana (dialetti istrioti)

[Linea «La Spezia-Rimini»]

Macroarea toscana (o di tipo toscano, o centrale non mediana)

[Linea «Roma-Ancona»]

Macroarea italiana centro-meridionale:

area mediana

area meridionale (o alto-meridionale, o meridionale-intermedia)

Macroarea italiana meridionale estrema

Altre lingue italo-romanze: sardo, friulano, ladino

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5 Procedendo da nord, a settentrione della linea «La Spezia-Rimini» incontriamo la macroarea italiana settentrionale o alto-italiana, a sua volta suddivisa in area gallo-italica e area veneta. L’area dei dialetti gallo-italici comprende la Liguria (con il monegasco nel Principato di Monaco), il Piemonte (tranne le valli alpine provenzali e franco-provenzali al confine con la Francia), la Lombardia e il Canton Ticino, il Trentino occidentale, l’Emilia-Romagna, e inoltre la Lunigiana e le Marche settentrionali con la

provincia di Pesaro e Urbino e parte di quella di Ancona.

L’area veneta comprende non solo il Veneto vero e proprio ma anche il Trentino orientale e la Venezia Giulia col triestino-giuliano; il veneto giuliano arriva lungo la costa sino a Capodistria e Pirano in Slovenia e in Croazia a sud di Parenzo, mentre nella zona da Rovigno a Pola (Croazia) troviamo i dialetti istrioti (Pellegrini 1977: 62-65). Lungo il confine nord-orientale si hanno pure le consistenti penisole linguistiche dei dialetti tedesco-tirolesi dell’Alto Adige / Südtirol, e più a est dei dialetti sloveni in Friuli-Venezia Giulia.

A sud della linea «La Spezia-Rimini» abbiamo i dialetti peninsulari, tradizionalmente distinti in dialetti toscani e dialetti centro-meridionali. Il confine fra queste due macroaree è rappresentato dalla linea

«Roma-Ancona», che lascia a ovest dialetti più o meno profondamente caratterizzati da una

fenomenologia definibile come toscana (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 63). Nella macroarea toscana rientra la regione Toscana, tranne la Lunigiana e il Grossetano meridionale; fenomeni di tipo toscano si incontrano anche più a est e a sud rispetto al confine regionale: per tali varietà nella loro fase antica è stata proposta la denominazione «peri-» o «para-mediane» (Vignuzzi 1994: 358-368; nell’Umbria attuale sono state riconosciute due ‘zone di transizione’: la «Scheggia-Todi» e la «Trasimeno-pievese»).

A sud della «Roma-Ancona» incontriamo la vasta macroarea centro-meridionale, articolata in area mediana e in area alto-meridionale (o, per Pellegrini, «meridionale-intermedia»; per altri, semplicemente,

«meridionale»). Secondo Tagliavini e Pellegrini della macroarea centro-meridionale fa parte anche il gruppo dei dialetti meridionali estremi; classificazioni più recenti considerano invece a sé stante quest’ultimo gruppo (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 70). L’area mediana comprende i dialetti delle Marche centrali e meridionali (con esclusione della Valle del Tronto), dell’Umbria centro-orientale, del Lazio a est del Tevere più o meno sino a Frosinone e a Terracina, e della parte occidentale della provincia dell’Aquila, compresa la città. L’area alto-meridionale comprende la Valle del Tronto nelle

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6 Marche, l’Abruzzo (meno le zone sopra indicate), il Lazio meridionale, la Cam- pania, il Molise, la Basilicata, la Puglia con esclusione del Salento (fino alla «Linea Taranto-Brindisi» o meglio «Grottaglie- Ostuni»: Avolio 1995: 142).

Molto più articolata la situazione in Calabria (cfr. Avolio 1995: 92-3), ove il vocalismo tonico di tipo

‘siciliano’ arriva fino alla «Linea Diamante-Cassano», ma lo scadimento della vocale finale, tipico dei dialetti alto-meridionali, si spinge più a sud, da Cetraro a Cirò Marina: per Pellegrini (1977) la sezione estrema inizia appunto a sud di quest’ultima linea. La macroarea «meridionale estrema» comprende dunque il Salento, la Calabria centro-meridionale e tutta la Sicilia. Formano aree linguistiche a sé quella sarda, quella friulana e quella ladina.

Il tratto che più sistematicamente caratterizza la macroarea a nord della «Linea La Spezia-Rimini» è l’➔indebolimento delle consonanti intervocaliche (spesso anche in fonotassi), che se intense si scempiano (kaval(o) «cavallo», an(o) «anno») e se scempie si leniscono o cadono (tipo ortiga / urtia «ortica», kavéi «capelli», prado / pra «prato»). Nel consonantismo è diffusa l’assibilazione

(sira «cera»). Elementi che distinguono specificamente i dialetti dell’area gallo-italica rispetto a quelli veneti sono la larga presenza di vocali turbate e la caduta delle vocali atone finali diverse da a e in interno di parola.

Il tipo toscano si contraddistingue fra l’altro per l’esito rj > /j/; la macroarea è inoltre caratterizzata da un vocalismo tonico da cui sono assenti vocali turbate (come per la maggior parte dei dialetti centro- meridionali), e un vocalismo atono saldo, che in posizione finale unifica -u e -o latine; diversamente da quasi tutto il resto dell’Italia il tipo toscano non conosce la metafonesi ma il dittongamento delle vocali toniche medio-basse in sillaba libera (da vari secoli [wɔ] si è rimonottongato in [ɔ]). Tutta l’area a sud della «La Spezia-Rimini» presenta l’assimilazione regressiva di nessi consonantici (come ct > /tː/). La sonorizzazione (e lenizione) delle consonanti scempie intervocaliche appare in Toscana di norma solo in parole di influsso settentrionale; e salda risulta l’intensità consonantica. Tipico è il fenomeno della gorgia (➔ gorgia toscana) di diverse consonanti sorde intervocaliche.

Tratto caratteristico della macroarea centro-meridionale è l’assimilazione progressiva di nd > /nː/

e mb > /mː/ (meno diffuso ld > /lː/); i dialetti mediani si caratterizzano soprattutto per la distinzione,

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7 nel vocalismo finale, fra -u e -o latine. Tutta la macroarea centro-meridionale conosce la chiusura metafonetica delle vocali toniche medio-alte (perlopiù sia da -u sia da -i/-es latini); per quanto riguarda gli esiti metafonetici delle vocali toniche medio-basse (nelle stesse condizioni), si ha in genere la chiusura di un grado nell’area mediana, il dittongamento (e suoi succedanei) in quella alto-meridionale.

L’area alto-meridionale si caratterizza in particolare per il conguaglio delle vocali atone nella centrale [ə], più evidente in finale di parola prima di pausa (cfr. abruzzese [na ˈbːεlla ˈfemːənə] ma [na ˈfemːəna ˈbːεllə]. Tipiche anche la sonorizzazione più o meno avanzata delle occlusive dopo nasale (e talora anche dopo r, anche in fonotassi): dente > [ˈdεnde]; e l’affricazione di s > ts dopo n, l, r (quest’ultimo arriva sino alla Toscana meridionale): [konˈʦiʎːi], [ˈborʦa], [ˈsalʦa] (spesso ulteriomente sonorizzati, [konˈʣiʎːi], [ˈborʣa], [ˈsalʣa]).

Peculiare della macroarea meridionale estrema è il vocalismo (detto appunto di tipo ‘siciliano’) con cinque vocali toniche e solo tre (le vocali estreme i, a, u) atone. La presenza di suoni

cosiddetti cacuminali, spesso considerata caratteristica di questa macroarea, si incontra anche in altre varietà dialettali (anche molto distanti, quali i dialetti apuani e della Garfagnana).

Studi

Ascoli, Graziadio I. (1882-1885), L’Italia dialettale, «Archivio glottologico italiano» 8, pp. 98-128.

Avolio, Francesco (1995), Bommèsprə. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale, San Severo, Gerni Editore.

Grassi, Corrado, Sobrero, Alberto A. & Telmon, Tullio (2003), Introduzione alla dialettologia italiana, Roma - Bari, Laterza.

Merlo, Clemente (1924), L’Italia dialettale, «L’Italia dialettale» 1, pp. 12-26.

Pellegrini, Giovan Battista (1977), Carta dei dialetti d’Italia, Pisa, Pacini.

Rohlfs, Gerhard (1937), La struttura linguistica dell’Italia, Leipzig, H. Keller.

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8 Sobrero, Alberto A. & Miglietta, Annarita (2006), Introduzione alla linguistica italiana, Roma-Bari, Laterza.

Tagliavini, Carlo (19695), Le origini delle lingue neolatine. Introduzione alla filologia romanza, Bologna, Pàtron (1a ed. Le origini delle lingue neolatine. Corso introduttivo di filologia romanza, 1949).

Vignuzzi, Ugo (1994), Il volgare nell’Italia mediana, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P.

Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 3° (Le altre lingue), pp. 329-372.

Wartburg, Walter von (1950), Die Ausgliederung der Romanischen Sprachräume, Bern, Francke (trad. it. La frammentazione linguistica della Romània, a cura di A. Varvaro, Roma, Salerno Editrice, 1980).

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dialetti

di Fr ancesco Avolio - Enciclopedia dell'Italiano (2010)

dialetti

1. Le principali classificazioni

L’esigenza di ordinare in base a precisi parametri il panorama delle parlate dialettali d’Italia è stata avvertita fin dagli albori della dialettologia scientifica, anche se i tentativi compiuti in tal senso hanno risposto solo in parte a due cruciali difficoltà: da un lato l’irriducibile arbitrarietà nella scelta dei tratti caratterizzanti i vari gruppi, dall’altro il ricorso a criteri diversi e spesso eterogenei.

1.1 La classificazione di Graziadio Isaia Ascoli

Il primo ad avanzare (1882-1885) una circostanziata proposta di classificazione fu ➔ Graziadio Isaia Ascoli, il quale nella rivista «Archivio glottologico italiano» da lui stesso fondata elaborò una ripartizione in quattro gruppi, di natura tanto tipologica (sincronica) quanto diacronica. Il criterio di base era infatti la maggiore o minore distanza linguistica rispetto al toscano, considerato come il tipo dialettale meno distaccato dalla comune base latina. Abbiamo così:

(a) dialetti appartenenti a sistemi neolatini «non peculiari» all’Italia, perché, in gran parte, allora, fuori dai suoi confini (dialetti provenzali e franco-provenzali, dialetti ladini centrali e ladini orientali o friulani);

(b) dialetti che si distaccano dal sistema italiano vero e proprio, ma non entrano a far parte di alcun

«sistema neolatino estraneo all’Italia» (dialetti gallo-italici – distinti in ligure, ‘pedemontano’, cioè piemontese, lombardo ed emiliano – e dialetti sardi);

(c) dialetti che «si scostano, più o meno, dal tipo schiettamente italiano o toscano, ma pur possono formare col toscano uno speciale sistema di dialetti neo-latini» (veneziano, corso, dialetti dell’Umbria, delle Marche e della provincia romana, dialetti di Sicilia e delle «provincie napolitane»);

(d) il toscano e il «linguaggio letterario degli Italiani».

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10 Lo schizzo ascoliano, per precisione e sintesi, conserva ancora oggi gran parte della sua validità, anche se, inevitabilmente, mancano alcune questioni di dettaglio nonché i risultati che, di lì a qualche

decennio, sarebbero stati raggiunti con l’analisi delle carte degli atlanti linguistici.

1.2 La classificazione di Clemente Merlo

Nel 1924, sul primo numero della sua nuova rivista «L’Italia dialettale», Clemente Merlo propose uno schema classificatorio che, oltre a tener conto delle caratteristiche (soprattutto fonetiche) delle parlate delle varie zone, chiamava in causa il concetto di ➔ sostrato. Secondo Merlo, cioè, il principale fattore alla base dell’odierna ripartizione dialettale era l’influsso esercitato sul latino dalle lingue dell’Italia antica. I gruppi principali definiti dal Merlo sono quindi tre:

(a) dialetti settentrionali (di sostrato celtico), che includono i gallo-italici di Ascoli, più il veneziano;

(b) dialetti toscani (di sostrato etrusco);

(c) dialetti centro-meridionali (di sostrato italico o umbro-sannita).

A parte stanno i dialetti sardi, a sostrato mediterraneo, e quelli della Corsica, che lo stesso sostrato distanzia dai toscani; ai dialetti ladini (che includono i friulani), anch’essi gruppo a sé, Merlo associa il dalmatico dell’isola adriatica di Veglia, che ai tempi di Ascoli non era ancora stato descritto (e che è ormai estinto da oltre un secolo). E sono ancora i sostrati a spiegare le differenze fra il veneziano (a sostrato venetico) e il lombardo, fra il ligure (a sostrato antico ligure) e il piemontese, e fra il siciliano, il calabrese e il pugliese (a sostrato mediterraneo) e il resto del Mezzogiorno.

Questo schema aveva certamente un’impostazione a volte troppo rigida e meccanica e soffriva di alcune ingenuità, ma ha il merito di mettere a fuoco importanti elementi di continuità che nella classificazione ascoliana erano appena accennati. Da esso, inoltre, si ricava che possono essere

fondatamente ricollegati al sostrato non solo singoli tratti fonetici, lessicali, ecc., ma anche fatti di altra natura, come i rapporti di tipo geolinguistico (➔ geografia linguistica) e, più precisamente, il fatto che, sotto forma di area dialettale, sussista un antico ‘spazio storico’.

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11 1.3 La classificazione di Gerhard Rohlfs

E fu proprio la geolinguistica a offrire il criterio applicato da Gerhard Rohlfs, che, nel 1937, sfruttava appieno la sua lunga esperienza di raccoglitore per l’AIS (➔ atlanti linguistici) e l’analisi approfondita delle sue carte. Sulla base dei dati dell’AIS, Rohlfs individuava i due principali ‘spartiacque’ linguistici della penisola: la linea La Spezia-Rimini e la linea Roma-Ancona (➔ isoglossa; ➔ aree linguistiche;

➔ confine linguistico). Il primo di questi confini, la linea La Spezia-Rimini (che ai margini si spinge anche più a Sud), riunisce i limiti meridionali dei principali tratti linguistici dell’Italia del Nord (e del romanzo occidentale), separandola dalla Toscana; mentre nel secondo, la linea Roma-Ancona, confluiscono i limiti settentrionali dei tratti linguistici più tipici del Centro-Sud, che a sua volta viene così distinto dall’area toscana o toscanizzata (cfr. § 2).

Entrambi i confini non hanno solo valore linguistico, ma coincidono con fattori geografici e storici. La linea La Spezia-Rimini corrisponde alla catena dell’Appennino tosco-emiliano, che, essendo impervia nel suo tratto centrale, fu nella storia la frontiera settentrionale dell’Etruria verso i territori di etnia celtica del Nord Italia e, nella tarda antichità, quella fra l’Italia cosiddetta annonaria (con capitale Milano) e l’Italia suburbicaria (con capitale Roma). La stessa linea, nel medioevo, separava i territori bizantini dell’arcidiocesi di Ravenna da quelli dell’arcidiocesi di Roma. La linea Roma-Ancona, corrispondente per buona parte al corso laziale e umbro del Tevere, fu invece, nell’antichità, la frontiera fra Etruschi (a ovest) e Italici (a est) e, nel medioevo, fra il Patrimonium Petri e i territori longobardi.

1.4 La classificazione di G.B. Pellegrini

L’adozione dell’italiano come riferimento, unico possibile criterio di distinzione fra il vasto insieme definito italo-romanzo e gli altri gruppi neolatini, è stato ripresa, nel 1975, da Giovan Battista Pellegrini, come base per la sua proposta di classificazione in cinque sistemi (italiano settentrionale, friulano o ladino-friulano, toscano o centrale, centro-meridionale, sardo), sulla quale oggi converge, pur con qualche differenza, la maggior parte degli studiosi (per approfondimenti e dettagli si rinvia alle voci sulle singole aree linguistiche).

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12 Tutti i dialetti italo-romanzi sono definiti primari (➔ varietà), in quanto formatisi contemporaneamente a quello che poi sarebbe diventato l’➔italiano standard.

2. Le caratteristiche principali

2.1 Sistema settentrionale

Comprende i dialetti parlati in tutto il Nord Italia (Piemonte centro-orientale, con i sette capoluoghi, Liguria, Lombardia, Trentino, Veneto, parte del Friuli e della Venezia Giulia, Emilia-Romagna), nonché nelle zone contigue delle Marche (fin circa a Fano e a Senigallia) e della Toscana (la Lunigiana, in provincia di Massa, parte della Garfagnana, in provincia di Lucca, e l’alta valle del Senio, in provincia di Firenze, tutte a Nord della La Spezia-Rimini) e, all’estero, in Francia (dialetti di tipo ligure di Mentone e del principato di Monaco), Svizzera (nel canton Ticino e in alcune valli grigionesi, linguisticamente lombarde), Slovenia e Croazia (fra le residue comunità italofone, di dialetto veneto-giuliano e istriano).

La più importante distinzione interna è quella fra dialetti del Nord-Ovest (➔ piemontesi, dialetti), chiamati galloitalici fin dall’Ottocento per via del sostrato celtico (cfr. § 2.2: Piemonte, Liguria,

Lombardia e Ticino, Trentino occidentale, Emilia-Romagna, parte settentrionale delle Marche e della Toscana) e dialetti del Nord-Est (veneti e istriani o istrioti: Veneto, Trentino orientale, Venezia Giulia, Istria; ➔ veneti, dialetti; ➔ friulani, dialetti). I dialetti galloitalici delle Marche (Urbino, Pesaro, Fano) sono detti anche gallo-piceni (➔ umbro-marchigiani, dialetti).

I tratti più caratteristici di questo vasto insieme di parlate, che giungono verso Sud fino alla linea La Spezia-Carrara-Rimini-Fano (cfr. § 2.3), sono:

(a) il passaggio, fra vocali, di /-t-/ a /-d-/ (milanese [fraˈdɛl] «fratello», nel Veneto [maˈrido] «marito»), di /-p-/ a /-v-/, attraverso una fase /-b-/ (in Liguria [kaˈvɛli] «capelli», in Emilia [nəˈvoda] «nipote») e di /-k-/ a /-g-/ (in Lombardia [urˈtiga] «ortica», nel Veneto [ˈfigo] «fico»). È la nota sonorizzazione delle consonanti sorde intervocaliche, detta anche lenizione. Non di rado /d/ e /g/ possono poi cadere ([maˈrio], [urˈtia], ecc.);

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13 (b) la semplificazione (o scempiamento) delle consonanti doppie o intense: in Piemonte [ˈfjama] «fiamma», veronese [ˈspala] «spalla», ecc.;

(c) il cosiddetto «avanzamento» di /ʧ/ e /ʤ/, che diventano prima /ʦ/ e /ʣ/ e poi, spesso /s/ e /z/

(in Piemonte [ˈsiŋa] «cena», in Liguria [ˈzena] «Genova», nel Veneto [ˈsenere] «cenere»);

(d) il nesso -cl- diviene spesso /ʧ-/ e il corrispondente gl- passa a /ʤ-/ (palatalizzazione): «chiave» è [ʧaf] in Lombardia, [ʧav] a Torino e in Emilia, [ˈʧave] nel Veneto; a Milano, Torino e Genova [ˈʤaŋda]

«ghianda», ecc.;

(e) l’uso di mi e ti come pronomi personali soggetto, a cui si aggiungono spesso dei pronomi clitici, cioè privi di accento: milanese [mi ˈgwardi] «io guardo», [ti te ˈgwardet] «tu guardi», [ly l ˈgwarda] «lui

guarda», veneziano [mi gɔ ˈdito] «ho detto». La presenza di complessi sistemi di clitici soggetti, obbligatori o facoltativi a seconda della persona verbale, caratterizza gran parte dei dialetti

settentrionali: torinese [a ˈvarda] «(lui) guarda», milanese [i ˈmaŋʤen] e veneziano [i ˈmaɲa] «(loro) mangiano».

Le differenze maggiori fra i dialetti galloitalici e quelli veneti sono le seguenti:

(a) la gran parte dei primi ha vocali di tipo ‘misto’ (anteriori arrotondate), come /y/ (identica

alla u francese di lune «luna»: torinese [fys] «fuso», [myr] «muro») e /ø/ (come nel francese peu «poco»:

milanese [føk] «fuoco», [øʧ] «occhio»), ignote ai secondi (veneziano [ˈmuro], [ˈfɔgo] «fuoco»);

(b) nei primi, tranne che in Liguria, è frequente la caduta delle vocali latine non accentate, finali e non, eccetto che per /-a/, con una vistosa riduzione del numero delle sillabe (in Lombardia [kaˈval]

«cavallo», in Piemonte [dne] «denaro», in Emilia [tlɛr] «telaio», in Romagna [ˈdmeŋga] «domenica», ecc.):

nei secondi, invece, esse resistono in varia misura: in veneziano, ad es., si ha la caduta solo dopo /n/ e /r/ ([kan] «cane», [ndar] «andare»), ma altrimenti [ˈgato] «gatto», [doˈmenega] «domenica»;

(c) elemento discriminante di un certo rilievo è rappresentato dalla palatalizzazione di /a/ tonica, evidente soprattutto in Piemonte (ad es., negli infiniti della coniugazione e in alcuni suffissi: [kanˈte]

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«cantare», [tle] «telaio») e in Emilia-Romagna (a Bologna si ha una netta /ɛ/, come in [sɛl] «sale», [aˈmɛr] «amaro»), ma ignota nel Veneto;

(d) anche il trattamento del nesso latino -ct- individua ulteriori sottodistinzioni: nel Piemonte centro- occidentale esso si sviluppa in /-jt/ ([fajt] «fatto» < factu(m), [lajt] «latte» < lacte(m)), nelle zone più orientali e in Lombardia diventa /ʧ/ ([faʧ], [laʧ]), ma nel Veneto /-tː-/ derivante dall’assimilazione regressiva di -ct- si semplifica, come le altre consonanti doppie, dando /-t-/ ([ˈfato] «fatto», [ˈlate]

«latte»);

(e) i dialetti galloitalici (ma non il ligure) hanno la negazione postverbale: torinese [i ˈvardu nɛŋ] «non guardo», lombardo [el ˈmaŋʤa ˈmia (ˈmiŋga)] «non mangia»), mentre in veneto la particella negativa sta in posizione preverbale ([mi nɔ ˈmaɲo] «io non mangio».

2.2 Sistema centrale

Situato fra la linea La Spezia-Rimini e la linea Roma-Ancona, ne fanno parte i dialetti parlati in quasi tutta la Toscana (tranne che nelle zone linguisticamente settentrionali indicate al § 2.1) e nelle aree confinanti delle regioni vicine: l’Umbria nord-occidentale (Perugia, Gubbio, Orvieto), le Marche centrali (Fabriano, Ancona) e l’alto Lazio (Viterbo).

I dialetti della Toscana sono di solito distinti in quattro gruppi (➔ toscani, dialetti). La vicinanza

strutturale con la lingua italiana è molto forte; molti tratti tipici toscani, ignoti alle altre aree, sono infatti passati all’italiano, e tra questi possiamo ricordare:

(a) il dittongamento di /ɛ/ accentata in /jɛ/ in sillaba libera (o dittongamento toscano): [ˈpjɛde], [ˈvjɛni], ma [ˈsɛtːe]; quello parallelo di /ɔ/ in /wɔ/ è ormai scomparso dall’uso regionale, pur restando ben vivo nella lingua comune (a Firenze, infatti, oggi si dice [ˈbɔno] «buono»);

(b) l’➔anafonesi, originariamente fiorentina, cioè la chiusura di /e/ in /i/ se seguita da /ʎː/ e /ɲː/

derivanti, rispettivamente, da -lj- e -nj- latini: [faˈmiʎːa] < famĭlia(m) (e non *[faˈmeʎːa]), [maˈliɲːa] (e non *[maˈleɲːa], come in altre regioni), ma [ˈleɲːo] «legno» < lĭgnu(m); oppure la chiusura di /e/ in /i/

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15 e di /o/ in /u/, se seguite da nasale + /g/ o (più raramente) /k/ ([ˈliŋgwa] contrapposto a [ˈleŋgwa], e simili, del resto d’Italia);

(c) il passaggio di -rj- a /j/ ([forˈnajo] < fornariu(m)), che oppone la Toscana al resto d’Italia;

(d) il ➔ raddoppiamento sintattico ([a ˈkːasa] «a casa»), che la oppone, invece, ai dialetti settentrionali;

(e) la tripartizione dei dimostrativi e di alcuni avverbi di luogo (questo, codesto e quello; qui, costì e lì), che sconfina in Umbria e nel Lazio, ma è ormai uscito dall’uso nell’italiano anche scritto delle altre regioni.

Esistono, comunque, tratti solo toscani e non italiani, fra cui spiccano:

(f) la cosiddetta ➔ gorgia toscana, cioè la pronuncia spirante di /-k-/, /-t-/ e /-p-/ tra vocali (a Firenze [la ˈχaza] «la casa», [anˈdaθo] «andato», [ilˈluϕo] «il lupo»);

(g) la sostituzione della prima persona plurale del presente indicativo con il costrutto si + terza persona sing. (noi si va a Roma «andiamo a Roma»);

(h) le interrogative introdotte da o (o cche aspettano ad avanzare?).

Il romanesco moderno rappresenta l’originale esito di un processo di toscanizzazione piuttosto intenso, subito a partire dal Cinquecento da una varietà, quella romana medievale, che era molto vicina ai dialetti mediani (cfr. § 2.3), e che è comunque riuscita a trasmettere alcune delle sue caratteristiche di base ignote al toscano, ad es.: la mancata chiusura di /e/ prima dell’accento ([de ˈroma] «di Roma»); lo sviluppo di -rj- a /-r-/ ([karʦoˈlaro] «calzolaio»); le assimilazioni consonantiche progressive ([ˈmonːo]

«mondo»; ➔ assimilazione; ➔ laziali, dialetti); la distinzione fra [kanˈtamo] «cantiamo», [veˈdemo]

«vediamo» e [senˈtimo] «sentiamo».

Pellegrini (1977) non prende in considerazione la linea Roma-Ancona individuata dal Rohlfs e inserisce le parlate del sistema centrale esterne alla Toscana, ma poste a nord della linea stessa, fra i dialetti

«mediani» (che così spazierebbero, nel loro complesso, dall’Umbria settentrionale fino al basso Lazio e

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16 all’Aquilano). A volte queste parlate vengono anche definite «dialetti mediani di transizione» (così in Sabatini 1997: 4), mentre Castellani li indica come «area mediana non metafonetica». Data però la rilevanza della linea in questione e dei fenomeni che la identificano – i quali rendono oggettivamente difficile procedere a un accorpamento fra varietà molto diverse fra loro – sembra più corretto, per evitare equivoci, attribuire la definizione di mediani esclusivamente ai dialetti che si trovano a sud di essa (cfr. § 2.3).

2.3 Sistema centro-meridionale

Si estende dalla linea Roma-Ancona fino alla Sicilia, e si può ripartire in tre aree: l’area mediana, che include il Lazio a est e a sud del corso del Tevere (da Amatrice e Rieti fino ad Anagni, Priverno e Sonnino), l’Umbria sud-orientale (con Foligno, Spoleto, Terni, Norcia), le Marche centro-meridionali (il Maceratese e le sezioni confinanti delle province di Ancona e Ascoli Piceno) e la parte settentrionale dell’Abruzzo aquilano (dall’Aquila ed Avezzano verso ovest e nord); l’area meridionale, detta anche altomeridionale o meridionale intermedia, che include tre regioni per intero (Molise, Campania,

Basilicata), altre cinque in grande o in piccola parte: le Marche meridionali fra l’Aso e il Tronto (inclusa Ascoli Piceno), il Lazio meridionale un tempo campano (con Fondi, Gaeta, Sora, Cassino), quasi tutto l’Abruzzo (tranne le zone mediane dell’Aquilano), la Puglia centro-settentrionale, fino alla linea Taranto-Brindisi, la Calabria più settentrionale, fino alla linea Diamante-Cassano; l’area meridionale estrema, che comprende la Sicilia, gran parte della Calabria e il Salento (la Puglia a sud della linea Taranto-Brindisi) (➔ meridionali, dialetti).

I fenomeni comuni a questi dialetti che si arrestano, verso nord, alla linea Roma-Ancona sono:

(a) la metafonesi, cioè l’innalzamento delle vocali accentate /e/ e /o/, che diventano rispettivamente /i/ e /u/ per influsso delle vocali finali -i e -u latine originarie (a Napoli [aˈʧitə] «aceto», [ˈpilə] «pelo/- i», [ˈmunːə] «mondo», ecc.), e di /ɛ/ e /ɔ/, che invece, nelle stesse condizioni, possono dittongarsi (dittongamento napoletano: [ˈpjetːə] «petto, -i», [ˈdjendə] «denti», [ˈwosːə] «osso»; ➔ dittongo) oppure chiudersi in /e/ e /o/ (a L’Aquila [ˈpetːu], [ˈdendi], [ˈosːu]);

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17 (b) il ➔ betacismo, cioè il doppio esito di /v-/ e /b-/ , che è /v-/ in posizione iniziale e tra vocali, /bː/

dopo consonante o in posizione di raddoppiamento sintattico: a Napoli [na ˈvɔtə] «una volta», ma [tre ˈbːɔtə] «tre volte», [ˈvatːərə] «battere, picchiare», ma [ʒbaˈtːutə] «sbattuto»;

(c) le assimilazioni consonantiche progressive dei nessi originari -nd-, -mb-, e spesso -ld- (nel Molise [ˈtunːə] per «tondo», [ˈɣamːə] per «gamba», [ˈkalːə] per «caldo»), che comunque includono tutto il Lazio settentrionale;

(d) la cosiddetta lenizione postnasale, cioè il passaggio dei suoni /-k-/, /-t-/, /-p-/ rispettivamente a /-g-/, /-b-/, /-d-/ dopo /-n-/ (un po’ ovunque [ˈbːangə] «banco», [ˈmondə] «monte», [ˈkambə] «campo», ecc.);

(e) il possessivo enclitico, cioè posposto e privo d’accento, con i nomi di parentela, soprattutto nelle prime due persone (a Norcia, ad es., si ha [ˈfijːimu] «mio figlio», [ˈfratetu] «tuo fratello»), anch’esso noto nell’alto Lazio e nelle parlate salentine, e, un tempo, anche a Roma e in Toscana;

(f) la conservazione, con ulteriori sviluppi, del ➔ neutro latino, mediante un particolare articolo determinativo usato con gruppi di nomi che non ammettono una forma plurale (e che spesso erano neutri già in latino), e poi con aggettivi e verbi sostantivati: napoletano [o ˈkːasə] «il formaggio»

< caseum, [o ˈfːjerːə] «il ferro (metallo)» < ferrum (ma [o ˈfjerːə] «il ferro da stiro», maschile e

pluralizzabile, senza raddoppiamento), reatino [lo ˈranu] «il grano» < granum, neutro, ma [lu ˈkane] «il cane», maschile, e poi [lo ˈbːelːu] «ciò che è bello», [lo kamˈpa] «il vivere», ecc.;

(g) l’uso di tenere per avere non ausiliare (in Sabina [ˈtɛngo tre ˈfːijːi] «ho tre figli»).

Le principali differenze fra area mediana e meridionale sono:

(a) il trattamento delle vocali finali non accentate; nella gran parte delle parlate meridionali queste passano alla cosiddetta e muta o indistinta /ə/ (napoletano [ˈadːʒə] «ho» < habeo, [ˈnirə] «nero» < nĭgru(m), [ˈsɛtːə] «sette» < septe(m), [ˈunːəʧə] «undici» < undeci(m), [ˈfemːənə] «femmina, donna» < femina(m)), sconosciuta a

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18 quelle mediane, che invece mantengono vocali simili a quelle standard e, spesso, anche la distinzione latina fra -o e -u (ad es., a Foligno [diˈʃɛnːo] «dicendo», ma [kaˈpilːu] «capello», a Rieti [ˈsatːʃo] «so», ma [ˈporku] «maiale», ecc.);

(b)gli sviluppi dei nessi latini pl- e fl-, che in area mediana diventano /pj-/ e /fj-/ come in italiano, ma che, in diversi dialetti meridionali, e anche meridionali estremi, si trasformano, rispettivamente, in /kj-/ e /ʃ-/ (/ʧ-/): a Castel di Sangro (L’Aquila) [ˈkjanə] «piano», [ˈʃatə] «fiato», catanese [ˈkjɔvi] «piove», [n ˈʃuri] «un fiore».

I dialetti meridionali estremi ( siciliani, calabresi e salentini, dialetti), invece, si differenziano, nel loro complesso, dal resto del sistema centro-meridionale per una serie di caratteristiche fra cui:

(a)un sistema vocalico tonico di soli cinque elementi /i/, /ɛ/, /a/, /ɔ/, /u/: [ˈfilu] «filo» < fīlu(m), come [ˈnivi]

«neve» < nĭve(m) e come [ˈstiɖːa] «stella» < stēlla(m), ma [ˈbːɛɖːa] «bella» < bĕlla(m); [ˈluna] «luna» < lūna(m), come [ˈkruʧi] «croce» < crŭce(m) e [ˈsuli] «sole» < sōle(m); ma [ˈmɔrta] «morta» < mŏrtua(m);

(b)la presenza nella maggior parte dei dialetti di tre vocali finali (in Sicilia [ˈkɔri] «cuore», [ˈsatːʃu] «so», [ˈfimːina]

«donna»);

(c) la pronuncia cacuminale (o retroflessa, cioè con la lingua puntata sul retro degli incisivi) di /-dː-/ derivante da -ll-, come in [ˈbːɛɖːu] «bello», [kaˈvaɖːu] «cavallo» (tale pronuncia, secondo alcuni molto antica, è nota anche alle varietà sarde e a parte di quelle corse e lunigianesi), e di nessi consonantici come /-tr-/ e /-str-/, che diventano, spesso, /-ʈɽ-/ e /-sʈɽ-/ ([paʈɽi] «padre», quasi [ˈpaʧi]);

(d) l’assenza della lenizione postnasale ([ˈsantu], [aŋˈkɔra], e non [ˈsandə], [aŋˈgɔrə]);

(e) la mancanza degli infiniti tronchi, assai diffusi, invece, nell’alto Mezzogiorno e fino alla Toscana ([kanˈtari] e non [kanˈta], [ˈdːiʧiri] e non [ˈdiʧe] «dire»);

(f) l’uso del passato remoto in luogo di quello prossimo, ancora più frequente di quanto non si osservi nell’alto Mezzogiorno.

2.4 Sistema sardo

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19 La Sardegna viene suddivisa dagli specialisti in quattro aree linguistiche principali: campidanese, logudorese, gallurese, sassarese (le ultime due sono ritenute di tipo non sardo da molti studiosi; sardi, dialetti).

Sull’intera isola è presente un sistema di vocali accentate di tipo conservativo, in cui non si sono avute fusioni tra suoni vocalici originariamente diversi: [ˈfilu] «filo» < fīlu(m), come [ˈpilu] «pelo» < pĭlu(m); [ˈtɛla] «tela» < tēla(m), come [ˈbːɛɖːa] «bella» < bĕlla(m); [ˈmɔrta] «morta» < mŏrtua(m) come [ˈsɔle] «sole» < sōle(m); [ˈgula] «gola»

< gŭla(m) come [ˈluna] «luna» < lūna(m).

Altri notevoli tratti arcaici – propri, però, soprattutto della Barbagia e del Logudoro – sono:

(a)la conservazione di /k/ e /g/ davanti a vocale anteriore: [ˈkentu] «cento», [ˈnuke] «noce», [ˈlɛgere] «leggere», a Nuoro [ˈpiske] «pesce», ecc.;

(b)lo sviluppo del nesso consonante + /l/ a consonante + /r/, tipico anche del campidanese (ˈ[framːa] «fiamma»);

(c) la conservazione delle consonanti finali, con -s che resta, come in latino, marca del neutro ([ˈtempus] «tempo») e dei plurali ([pɛjs] o [ˈpɛdes] «piedi», [ˈfeminas] «donne»; ma in gallurese e sassarese [ˈpedi], [ˈfemini]).

Sviluppi particolari del sardo sono invece:

(d)il passaggio dei nessi qu- e gu- a /bː/ ([ˈabːa] «acqua», [ˈlimba] «lingua»), che avvicina la Sardegna alla Romania;

(e) l’assimilazione del nesso latino -gn- in /-nː-/: [ˈlinːa] «legna» < ligna(m), [ˈmanːu] «grande» < magnu(m);

(f) gli articoli determinativi derivanti non da illu(m) e illa(m), bensì da ipsu(m) e ipsa(m): a Bitti (Nuoro), [su ˈmastru de ˈlinːa] «il falegname», [sa koberˈtura] «il tetto» (e, al plurale, [sos ˈtempos] «i tempi»; a Cagliari [is ˈtempus] «i tempi»); ecc.

Tra le parole latine che si sono conservate solo in Sardegna si ricordano [ˈakina] «uva», [ˈdɔmu] «casa», [ˈɛbːa]

«cavalla» < equa(m), [ˈinteri] «frattanto» < interim, [ˈmanːu] «grande», [kojuˈare] «sposarsi» < coniugare,

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20 [imˈbɛnːere] «trovare» < invenire. Concordanze con la penisola iberica e anche con la Romania sono individuate da [ˈɛdu] «capretto» < haedus, [iˈskire] «sapere» < scire, [pregonˈtare] «domandare» < percontare.

2.5 Sistema ladino-friulano

Associato da alcuni studiosi – ma su ciò non c’è accordo – al romancio del cantone svizzero dei Grigioni, sotto l’etichetta comune di retoromanzo, esso si distingue per la conservazione di tratti che un tempo erano tipici anche di aree più o meno estese della restante Italia settentrionale, con cui, del resto, condivide tuttora alcuni fenomeni di rilievo (quali la

sonorizzazione delle consonanti sorde fra vocali, la semplificazione delle consonanti doppie, la caduta delle vocali finali diverse da /-a/).

Le varietà ladine sono parlate in quattro valli dolomitiche intorno al gruppo del Sella ( ladina, comunità), anche se le loro caratteristiche sfumano all’interno di un territorio che include una parte del Trentino orientale e la regione veneta del Cadore. I dialetti friulani sono parlati in buona parte della regione Friuli ( friulani, dialetti).

La maggior parte delle varietà del sistema è oggi caratterizzata da:

(a)palatalizzazione dei nessi /ka-/ e /ga-/, che diventano (in accordo col francese antico, ma anche col veneto) /ʧa-/ e /ʤa-/] ([ˈʧar] «caro» e «carne», [ˈʤal] «gallo»);

(b) mantenimento di -s nella formazione dei plurali maschili (di nuovo come il francese e il veneto antichi: [ˈʧans] «cani», [ˈmurs] «muri»);

(c) conservazione del nesso di consonante + /l/ ([ˈblank] «bianco», [ˈklama] «chiama»), semplificato in /-l-/ all’interno di parola ([oˈrɛla] «orecchio» < auric(u)la(m), ecc.).

Le varietà friulane si caratterizzano anche per:

(d)la sopravvivenza della distinzione fra vocali lunghe e brevi, che produce un certo numero di coppie minime ( coppia minima) (come [lāt] «andato» e [lat] «latte», [pās] «pace» e [pas] «passo»)

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21 (e) la dittongazione delle vocali accentate, in particolare di /ɛ/ e /ɔ/, con esiti vari (per es. [ˈbjel] «bello» e [ˈkwarp]

«corpo»);

(f) i diminutivi in /-ut/ ([arbuˈlut] «alberello», [taˈjut] «taglietto» e anche «bicchiere di vino»);

(g) il passato prossimo bicomposto ([o aj vut vjoˈdut] letteralm. «io ho avuto visto», cioè «ho visto»).

Tipi lessicali caratteristici del Friuli sono, fra gli altri, [kaj] «lumaca», [frut] «bambino», [soˈreli] «sole» (derivato da soliculu(m), come il franc. soleil), [feveˈla] «parlare», [kuˈmɔ] «adesso».

La legge 482 del 1999 ha riconosciuto al sardo e al friulano lo status di lingue di minoranza, equiparandoli, cioè, alle

minoranze linguistiche storiche.

3. Vitalità dei dialetti

Dal 1974 due istituti di indagine statistico-demoscopica, la Doxa e l’Istat, hanno condotto con una certa periodicità rilevamenti di interesse dialettologico, per valutare le percentuali di coloro che, in Italia, usano l’italiano e i vari dialetti (sia in ognuna delle venti regioni sia a livello nazionale, distinguendo poi gli usi fra le diverse fasce sociali e d’età e nelle situazioni più comuni: in famiglia, con amici, con estranei).

La percentuale di coloro che si dichiarano dialettofoni, cioè che affermano di usare il dialetto locale nelle diverse situazioni indicate, risulta in continuo calo: per quanto riguarda l’ambito d’uso domestico (certo quello più favorevole al

mantenimento della dialettofonia), nel 1974 coloro che parlavano con tutti in familiari in dialetto erano, secondo la Doxa, il 51,3% (dunque la maggioranza assoluta), ma sono passati al 46,7% nel 1982, al 39,6% nel 1988, al 35,9% nel 1991 e al 33,9% nel 1996. Nello stesso arco di tempo, la percentuale di coloro che parlavano con tutti i familiari solo in italiano è cresciuta, ma in misura minore, dal 25% del 1974 al 33,7% del 1996, come, del resto, quella di coloro che parlavano con alcuni familiari in dialetto, con altri in italiano, aumentati dal 23,7% del 1974 al 32,4% del 1996. Un andamento simile mostrano le percentuali relative agli usi fuori casa: coloro che parlavano sempre o più spesso in dialetto erano il 42,3% nel 1974, ridotti al 28,2% nel 1996; la percentuale degli italofoni più o meno esclusivi o quasi è invece cresciuta dal 35,6 al 49,6%.

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22 Tale contrazione generale della dialettofonia, però, quasi inaspettatamente, si attenua già a partire dal 1991, nello stesso periodo in cui si vede sempre più chiaramente che «al decremento della dialettofonia non corrisponde […] un incremento dell’italofonia altrettanto marcato» (Grassi, Sobrero & Telmon 2003: 30). Infatti c’è stato un contemporaneo, speculare incremento non dell’italofonia pura e semplice, ma soprattutto

dei casi di uso alternato […] e di parlato mistilingue italiano/dialetto. In effetti, usi di questo tipo possono essere attribuiti a pieno titolo a coloro che “parlano sia in dialetto che in italiano” (secondo la terminologia dell’istituto Doxa), categoria che ha avuto un incremento, appunto, del 10% circa (ivi).

Secondo l’Istat, poi, a livello nazionale, fra il 2000 e il 2006 vi sono stati soltanto assestamenti minimi: l’italofonia esclusiva in famiglia è passata dal 44,1% al 45,5%, con amici dal 48% al 48,9%, con estranei si è ormai stabilizzata (72,7% nel 2000, 72,8% nel 2006); la dialettofonia più o meno esclusiva risulta scesa, in famiglia, dal 19,1% al 16%, con amici dal 16% al 13,2%, con gli estranei dal 6,8% al 5,4%, ma l’uso alternato di italiano e dialetto si è mantenuto in famiglia sostanzialmente stabile (dal 32,9% al 32,5%) ed è anzi lievemente cresciuto per quanto riguarda le

conversazioni con amici (dal 32,7% al 32,8%) e addirittura con gli estranei (dal 18,6 al 19%). Roccaforti della dialettofonia sono, sul piano geografico, le regioni del Nord-Est (in particolare il Veneto), seguite da quelle del Sud (soprattutto Calabria e Basilicata), mentre, relativamente alla condizione sociale e professionale, lo sono i pensionati, le casalinghe e gli operai rispetto a dirigenti, professionisti e lavoratori in proprio ( sociolinguistica).

La notevole ambiguità di formule come «sia italiano che dialetto» – assai comuni, come si è visto, nei rilevamenti statistici – è stata chiarita da Berruto (1995: 242-250), che ha proposto il termine dilalia per cogliere una precisazione importante rispetto al concetto, ampiamente usato, di diglossia ( bilinguismo e diglossia). La dilalia si differenzia dalla diglossia per l’estrema facilità con cui avviene il passaggio dall’uno all’altro idioma, sia all’interno della stessa interazione verbale, sia all’interno della stessa frase ( commutazione di codice), e tanto in contesti informali, quanto in quelli di media formalità. Non è difficile accorgersi che, nell’Italia di oggi, queste sono situazioni comuni, nelle quali si riconosce la maggior parte dei parlanti, e che emergono perfino in rete ( Internet, lingua di), anche e soprattutto nei siti e nei blog frequentati dai più giovani. Tutto ciò contribuisce a spiegare il sensibile rallentamento nell’abbandono dei dialetti registrato un po’ ovunque a partire dagli anni ’90 del Novecento.

Ad ogni modo, per cercare di capire meglio le motivazioni profonde per cui – contrariamente a quanto ancora si crede – molti dialetti non sono stati e non sono oggi in pericolo di estinzione, si può osservare che, come essi hanno potuto ‘farsi le

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23 ossa’ proprio grazie a una lunga, plurisecolare convivenza con almeno alcuni livelli di italiano (cfr. Avolio 2003: 43), così questi ultimi, più di recente, hanno paradossalmente difeso anche il dialetto. Anzi,

sono proprio coloro a cui il possesso della lingua ufficiale ha dato sicurezza, che […] gli hanno impedito di fare una brutta fine. […]. E oggi il dialetto non fa più paura a nessuno, o quasi. Anzi, in qualche modo affascina i giovani per la sua eccentricità. Certo, dall’avventura dello scontro con l’italiano è uscito un po’ ammaccato, un po’ (o forse troppo?) cambiato. Ma vivo (Marcato 2005: 41).

Fonti

Ascoli, Graziadio Isaia (1882-1885), L’Italia dialettale, «Archivio glottologico italiano» 8, pp. 98-128.

Studi

Avolio, Francesco (2003), A quarant’anni dalla “Storia linguistica” di De Mauro. L’Italia del Novecento e il problema dell’italofonia, in Italiano. Strana lingua? Atti del convegno Sappada - Plodn (Belluno, 3-7 luglio 2002), a cura di G.

Marcato, Padova, Unipress, pp. 37-44.

Berruto, Gaetano (1995), Fondamenti di sociolinguistica, Roma - Bari, Laterza.

Grassi, Corrado, Sobrero, Alberto A. & Telmon, Tullio (2003), Introduzione alla dialettologia italiana, Roma - Bari, Laterza.

Marcato, Gianna (2005), Fu così che tentammo di suicidare il dialetto. Confessioni di parlanti del Novecento veneto, in Ead. (a cura di), Lingue e dialetti nel Veneto. 3, Padova, Unipress, pp. 3-41.

Merlo, Clemente (1924), L’Italia dialettale, «L’Italia dialettale» 1, pp. 12-26.

Pellegrini, Giovanni Battista (1975), I cinque sistemi dell’italo-romanzo, in Id., Saggi di linguistica italiana. Storia, struttura, società, Torino, Boringhieri, pp. 55-87.

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24 Pellegrini, Giovanni Battista (1977), Carta dei dialetti d’Italia, Pisa, Pacini.

Rohlfs, Gerhard (1937), La struttura linguistica dell’Italia, Leipzig, Keller (poi in Id., Studi e ricerche su lingua e dialetti d’Italia, Firenze, Sansoni, 19902, pp. 6-25).

Sabatini, Francesco (1997), L’italiano: dalla letteratura alla nazione. Linee di storia linguistica italiana, Firenze, Accademia della Crusca.

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dialetto, usi letterari del

di Nicola De Blasi - Enciclopedia dell'Italiano (2010)

dialetto, usi letterari del

1. Introduzione

L’uso letterario del dialetto va considerato in rapporto alla scrittura nella lingua letteraria comune, così come la stessa nozione di dialetto è complementare a quella di lingua. Nella storia linguistica italiana, che si muove tra unità e molteplicità, la tendenza a una lingua come bene comune e la vitalità di variegate tradizioni locali (per i rinvii bibliografici relativi alle diverse aree, vedi i capitoli regionali di Cortelazzo et al. 2002) rientrano in un medesimo orizzonte e non comportano contrapposizione esplicita, poiché «l’italiana è sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio» (Contini 19842: 611). Le letterature in dialetto (Beccaria 1975; Haller 2002) pertanto non sono espressione di un’altra Italia, né tanto meno di gruppi etnici perdenti rispetto a un’altra dominante popolazione di lingua diversa.

Il nesso con la letteratura in italiano risalta nella stessa nozione di «letteratura dialettale riflessa», fissata in un saggio di Croce, punto di riferimento non rinunciabile, in cui si criticava un precedente intervento di Ferrari (1839-1840), che prospettava una valenza oppositiva delle letterature in dialetto (in sé ritenute anche popolari) rispetto alla letteratura in italiano, tanto che ad esse era attribuito un «ascoso rancore», laddove la letteratura in dialetto implica la condivisone di una norma letteraria vista «non come un nemico, ma come un modello» (Croce 1952: 358).

2. Linee storiche

Un problema di fondo riguarda l’avvio dell’uso riflesso del dialetto, che Croce colloca dopo l’avvenuta codificazione bembesca (➔ Bembo, Pietro); invece, secondo Contini (19842: 367) «la polarizzazione di poesia dialettale spontanea e riflessa» risalirebbe addirittura alle origini, tanto che per Castellani (1973:

28) anche l’Indovinello veronese (VIII sec.), fondato sul «confronto tra lo scrittore e il contadino», tra la penna e l’aratro, con consapevole inserimento di volgarismi, «potrebbe quasi essere considerato un testo di letteratura dialettale riflessa», come scelta espressiva rispetto al latino. Nel

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26 duecentesco Contrasto di Cielo d’Alcamo sono accostate due diverse soluzioni di stile (Monteverdi 1954:

106-121; Stussi 1993: 9), l’una di tono elevato (per es., nei primi due versi), l’altra con tratti linguistici locali, come nel terzo verso («Tràgemi d’este focora se t’este a bolontate»), citato nel De vulgari eloquentia come esempio di differenza tra lo stile elevato e quello poetico parodico o medio. L’autore del Contrasto metterebbe in parodia un personaggio che non controlla l’interferenza tra due diverse modalità comunicative e di stile. In altro luogo, la parodia si configura «in improperium» di altri e del loro modo di parlare (dei marchigiani, nel caso del Castra nominato sempre nel De vulgari eloquentia).

Nel Trecento il ricorso al dialetto come genere parodico o realistico coincide spesso con la

differenziazione diatopica rispetto a un volgare più diffuso e collaudato in letteratura. Ciò presuppone una diversa valutazione delle lingue volgari, esplicita nella celebre dichiarazione (1332) del retore padovano Antonio da Tempo: Lingua tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et ideo magis est communis et intelligibilis; non tamen propter hoc negatur quin et aliis linguis sive idiomatibus aut prolationibus uti possimus (cap. LXXV). Nell’accostamento tra lingua propria e altrui un ruolo centrale è svolto dai toscani, che per primi osservarono altre varietà da un punto di vista letterario. Esemplare è l’Epistola napoletana di ➔ Giovanni Boccaccio (Sabatini 1996: II, 425-466), preceduta da una motivazione in toscano, rispetto alla quale l’occasionale ricorso al napoletano è funzionale alla rappresentazione di fatti, persone e parole di uno spazio geograficamente delimitato. La stessa cosa vale per Francesco

Vannozzo, padovano di origine aretina, che, tra veneziano, padovano rustico o pavano, e toscano, si muove nella prospettiva di un uso riflesso (Paccagnella 1994: 514).

Dal momento che la connotazione dialettale dipende dalla percezione e dalla competenza dell’autore, il ricorso a un medesimo volgare per alcuni acquista il contrassegno della dialettalità (di genere), mentre è non marcato e in senso stretto non dialettale per chi adotta l’unico volgare che conosce. La prima soluzione ricorre nello sperimentalismo delle corti quattrocentesche in cui vige un repertorio che comprende latino letterario, latino documentario, volgare locale, volgare letterario diversamente dosato con il toscano, volgari di altra provenienza, anche non italiani (➔ Castiglione, Baldassarre; ➔ koinè).

La curiosità verso forme diverse suggerisce tra l’altro le parodie di Luigi Pulci o Benedetto Dei (Folena 1991), o la ripresa del bergamasco, imitato dal veronese Giorgio Sommariva o citato a Genova

negli Strambotti a la bergamasca (Paccagnella 1994: 516). La dialettica tra volgare di prestigio e volgare

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27 rustico si concretizza nella Nencia da Barberino di Lorenzo de’ Medici, mentre gli gliommeri napoletani, monologhi recitativi, alludono alla ➔ variazione diastratica tra letterati di corte e popolo cittadino.

Tra le Prose di Bembo (1525) e il Vocabolario della Crusca (1612), si definisce la codificazione di una lingua letteraria rispetto alla quale si configurano la nozione di dialetto e uno scarto linguistico dialettale

‘riflesso’, a partire dal padovano Ruzzante, «il più antico dialettale raggiunto dal canone» (Contini 19842: 612). Dal Seicento in poi la letteratura dialettale riflessa conosce una consacrazione definitiva, per cui la periodizzazione proposta da Croce non perde del tutto validità. Infatti «non si intende il senso della dialettalità barocca se non si coglie il rapporto che unisce la deviazione dialettale alla ricerca del peregrino, dell’inusitato, del meraviglioso» (Brevini 1999: 678). Al maggiore prosatore in dialetto, il napoletano Giovan Battista Basile, si deve infatti Lo cunto de li cunti, per Croce (1974: XXXIX) «il più bel libro italiano barocco». A partire da quest’epoca l’opzione dialettale permette di raccogliere la sfida di una scelta letteraria scaltrita, anche se apparentemente negata, come negli autori napoletani che indulgono al topos delle parole chiantute «solide, ben piantate» per la loro corposità popolare.

Si pone quindi il (falso) problema dell’autenticità del dialetto letterario: l’autore dialettale, in ogni epoca, non usa, pena l’incomunicabilità, una lingua inventata, ma persegue per iscritto scelte di genere e di stile, a partire da morfologia, fonetica, lessico e sintassi di una varietà reale, usata in genere solo nella comunicazione parlata. Per questa via, anche se con un certo distacco, non sempre parodico, e pur con il filtro di ogni scrittura letteraria, il mondo popolare entra in letteratura, come nel caso di Giulio Cesare Cortese, che osserva la plebe di Napoli con simpatia e «con un’attenzione quasi etnografica, ma anche con una vivacità mimetico-scenica» (Brevini 1999: 688).

La più evidente implicazione letteraria dell’uso riflesso dei dialetti è nel costituirsi di due monolinguismi complementari e distinti, per cui il ricorso al dialetto prescinde dalla lingua italiana, evitando gli

accostamenti e le interferenze della lingua corrente. Al processo di occultamento di una lingua (quella italiana) si abbina talvolta lo stesso sdoppiamento con pseudonimo degli autori o perfino una doppia vita, visto per esempio che l’attività di Giulio Cesare Cortese si colloca in parte dopo la data della sua presunta morte (Fulco 1997: 844-850): per l’autore dunque il dialetto non è più lingua di altri, ma può diventare lingua di un altro sé stesso. Il plurilinguismo permane invece nella commedia cinquecentesca, in cui ai personaggi è conferita una tipizzazione linguistica funzionale al genere comico (Folena 1991) o

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28 in alcuni generi in cui si alternano lingue diverse ed è in seguito manifestazione ricorrente

dell’espressionismo letterario (Segre 1974: 369-426).

L’affermazione della letteratura dialettale dipende anche dall’editoria (➔ editoria e lingua), che favorisce la circolazione delle opere al di fuori del contesto di origine: ne derivano linee comuni alle diverse letterature dialettali italiane, come la traduzione in dialetto di autori italiani o classici (Tasso, Omero), il petrarchismo dialettale, la ripresa di generi alti con abbassamento comico, l’esaltazione dei diversi dialetti (milanese, bolognese, napoletano) condotta, per paradosso o per celia (Croce 1952: 358), da autori che sembrano «farsi beffe dell’ormai più che secolare questione della lingua» (Brevini 1999: 1741;

cfr. anche Vitale 1988: 307-326); in qualche caso (come nel Prissiàn de Milan: Lepschy 1978: 177-215) si nota una prima attenzione verso le caratteristiche grammaticali dei dialetti, frequente, anche per il lessico, dal Settecento in poi (Bruni & Marcato 2006).

Grazie al contatto con la letteratura italiana, Giovanni Meli, trasponendo la poetica dell’Arcadia in siciliano, in una lirica non marcata in senso comico, dà luogo a quadretti idilliaci segnati da una nuova e

«suggestiva nota di humilitas» (Brevini 1999: 1523). Ancora nel Settecento, l’illuminista napoletano Ferdinando Galiani, storico del dialetto e promotore di una collana editoriale e di un vocabolario, rifiuta un uso comico del dialetto, auspicando il ricorso al napoletano in pluralità di usi scritti anche non letterari e non marcati. In alternativa a queste tendenze si costituiscono in varie forme, in Sicilia, a Napoli e in Veneto, rivendicazioni di usi dialettali fortemente connotati come popolari o plebei.

Nel Settecento il dialetto acquista un ruolo centrale nella scrittura per il teatro grazie a ➔ Carlo

Goldoni, che invece di affermare una polarizzazione tra italiano e dialetto porta in scena (e nella pagina)

«le infinite sfumature e varianti» della «viva realtà del veneziano parlato, capace di trapassare senza soluzione di continuità dal dialetto ‘sporco’ al dialetto ‘pulito’ alla lingua, di oscillare secondo i momenti espressivi e anche l’età dei parlanti» (Folena 1983: 98).

La soluzione goldoniana si espande ad altri generi letterari, quando in epoca romantica si avverte l’esigenza di dare voce a personaggi e storie della realtà popolare. Il milanese Carlo Porta, dopo aver sondato le potenzialità del dialetto in una traduzione parziale della Divina Commedia, fa parlare in prima

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29 persona personaggi umili come La Nineta del Verzee o Giovannin Bongee, «non per farci divertire alle loro spalle, ma per far emergere tutta la loro profonda umanità» (Chiesa & Tesio 1978: 29).

Dalla lettura di Porta sembra sia nata in Giuseppe Gioachino Belli l’idea di edificare «il monumento»

della plebe di Roma. Per lui il romanesco, osservato e descritto con grande acume, è (diversamente dal milanese di Porta) «favella non di Roma ma del rozzo e spropositato suo volgo» (Belli 1961: 441-442). Il distacco rispetto al popolo che parla nei sonetti conduce peraltro a un ritratto credibile, sia per la

visione del mondo veicolata dai «popolari discorsi svolti» nella poesia, sia per la lingua (Serianni 1989:

314; Bertini Malgarini & Vignuzzi 2002: 1014).

Dopo l’Unità, mentre si temeva la crisi dei dialetti, un definitivo salto di qualità si determina grazie al napoletano Salvatore Di Giacomo, che conferisce alla poesia in dialetto temi e prospettive della letteratura europea. Con lui il poeta parla in prima persona e sente empaticamente la realtà osservata.

Secondo Contini (1968: 414) la voce di Di Giacomo «è in assoluto una delle più poetiche del suo tempo, forse la maggiore del periodo chiuso tra i Canti di Castelvecchio e Alcyone e i poeti nuovi». Con il suo coinvolgimento individuale diretto, che risalta perfino nel particolare realismo impersonale della raccolta ’O Funneco Verde (Di Giacomo 2009), egli dà avvio alla poesia novecentesca in dialetto, se si accetta la distinzione (Pancrazi 1942: 263) tra poesia dialettale (che si qualifica per la scelta linguistica di genere) e poesia in dialetto (che si qualifica per dignità della poesia in sé). Grazie alla canzone molti versi digiacomiani hanno raggiunto un pubblico ampio e anche popolare, cosa davvero insolita per le opere dialettali, che, al di là di enunciazioni di principio, incontrano per lo più i favori di un (limitato) pubblico colto.

In linea con una poetica verista, il dialetto favorisce a fine Ottocento l’osservazione della sofferta realtà degli emarginati, come gli scugnizzi napoletani (Ferdinando Russo), o delle misere condizioni dei migranti, come nel veronese Berto Barbarani (De Blasi 1999).

3. Il Novecento

Nel Novecento è stato percepito (e forse enfatizzato) il declino dei dialetti in rapporto al nuovo contesto sociale. Ne è derivata un’imprevista fortuna letteraria dei dialetti, che, in quanto lingue di un

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30 mondo scomparso (Brevini 1990), sono sembrati strumenti adeguati all’espressione di un disagio

esistenziale vissuto come dramma personale e collettivo. Topos novecentesco è quindi il recupero delle parole perdute nell’esperienza personale degli autori più che nella realtà, visto che tuttora più della metà dei parlanti dichiara di usare i dialetti (dati tratti da ISTAT 2007), mentre la fortuna dei dialetti si avverte attraverso altri canali (canzone, televisione, cinema, Internet). Il senso di perdita ha indotto i poeti a riscoprire i dialetti nativi, spesso di centri piccoli o piccolissimi (Mengaldo 1994): una costante

novecentesca è appunto l’approdo alla letteratura di idiomi estranei alle tradizioni letterarie dei dialetti più collaudati.

Per molti il dialetto diventa voce privilegiata della poesia, anche in alternativa (secondo un altro topos) a un italiano ritenuto ormai logoro. Altri autori si muovono tra adesione mimetica alla realtà, tono

moraleggiante tradizionale e soluzioni sperimentali. Come in passato alcuni autori scrivono anche in italiano; pochi ricorrono anche al latino: il padovano Fernando Bandini vede ugualmente distanti, come lingue morte, sia il dialetto, sia il latino classicheggiante e metastorico dei suoi poemetti (Cucchi &

Giovanardi 1996: 616), mentre per Michele Sovente (Reina & Ravesi 2000: 1234 e 1335) sono lingue palpitanti sia l’italiano, sia il dialetto di Cappella, frazione di Monte di Procida (usato significativamente in luogo del napoletano della tradizione), sia il latino, percepito come vivente nei paesaggi archeologici e vulcanici dei Campi Flegrei.

Più che in passato il dialetto entra anche nella prosa, con l’inserimento di voci dialettali tanto nella narrazione quanto nei dialoghi, come segno di un’adesione letteraria alla realtà o come manifestazione di espressionismo, dagli inserti plurilingui di ➔ Carlo Emilio Gadda fino all’interferenza letteraria di italiano e siciliano in Andrea Camilleri. Come già in Goldoni, infine, ma in un contesto ormai mutato e con diffusione in passato impensabile (si pensi alla televisione), il teatro novecentesco si apre al dialetto nelle sue varie combinazioni con l’italiano per dar luogo a rappresentazioni verosimili (nei napoletani Raffaele Viviani e Eduardo De Filippo), oppure a uno sperimentalismo variamente orientato in senso espressionistico (dai milanesi Dario Fo e Giovanni Testori alla siciliana Emma Dante).

Tra dialetto proprio e altrui, con intento parodico o mimetico, per ricerca di verosimiglianza, attenzione al popolo, o per testimonianza etnografica, con un’adesione lirica individuale o per dar voce ai diversi aspetti di una realtà plurilingue, o anche per sofisticato sperimentalismo, l’uso letterario del dialetto si

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31 articola nei secoli in una serie di opzioni diversamente combinate in rapporto ai contesti storici e grazie all’incontro con grandi personalità, che, senza proporre l’angusta esaltazione di una piccola patria, hanno perseguito strade nuove nella cultura letteraria italiana. In ogni caso si è sempre rivelata valida la formulazione di Carlo Porta, il quale osservava che le parole di una lingua

hin ona tavolozza de color,

che ponn fà el quader brutt, e el ponn fà bell

segond la maestria del pittor

(Carlo Porta 1975: sonetto VI, vv. 2-4).

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