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1 – INTRODUZIONE LA RESPONSABILITÀ DELL’ODONTOIATRA Dr. Giacomo Travaglino

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TAGETE 1-2007 Anno XIII

LA RESPONSABILITÀ DELL’ODONTOIATRA Dr. Giacomo Travaglino *

1 – INTRODUZIONE

Qualsiasi indagine volta ad esplorare lo stato della giurisprudenza (e, più in generale, del pensiero giuridico corrente) in relazione ad uno specifico sottosettore dell’ars medica (oggi, l’odontoiatria) non può in alcun modo prescindere da una più compiuta e generale analisi del pianeta “responsabilità medica”, da alcuni autori definito non a torto come vero e proprio sottosistema autonomo della responsabilità civile italiana.

Da almeno un trentennio si registra, difatti, in Italia una notevole accentuazione dei giudizi di responsabilità professionale, segnatamente in campo medico, sia sotto il profilo del quantum dei processi civili e penali instaurati, sia sotto quello del quomodo, e cioè delle nuove tecniche interpretative da adottare nella lettura di norme antiche, onde

* Consigliere della III Sezione Civile della Corte di Cassazione, Roma ABSTRACT

The following presentation is characterized by a general introductive analyses on the evolution of italian liability over the last 30 years, with a particular emphasis on medical responsibility and focus on both fault and causal connection (nexus). The second part of the presentation is on dentist liability in detail and on the arguments that are shared with plastic surgeon’s liability.

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pervenire al risultato finale di una più articolata e complessa distribuzione dei rischi comunque e sempre collegati a tale attività - tendenza, questa, peraltro, comune a tutti i paesi tanto di common law quanto di civil law -.1 Tale accentuazione segue, non a caso, la parallela evoluzione delle fondamenta e della natura stessa della responsabilità civile che, pensata, all’epoca della codificazione del 1942, secondo regole di sinergia tra una Generalklausel e successive norme esemplificative, a fini di tutela dei (soli) diritti soggettivi assoluti, viene via via “ripensata” come storia (anche e soprattutto intellettuale) sempre più raffinata,2 come un problema di diritto vivente da rielaborare incessantemente secondo modelli dettati da sempre più complesse istanze “esterne”, alla ricerca di criteri di attribuzione di un determinato costo sociale, da allocarsi presso il danneggiato, ovvero da trasferire ad altri soggetti (sempre più spesso, non il diretto danneggiante). Il sistema della responsabilità civile diventa, così, un satellite sperimentale di ingegneria sociale, demandata, quanto a genesi e funzioni, quasi interamente agli interpreti,3 il cui compito diviene, allora, lo studio dei criteri di traslazione del danno. Primo, inevitabile, step di analisi, l’individuazione di nuovi standard di condotta alla luce dei quali l'intera teoria della colpa, del nesso causale e del danno, sotto il profilo sostanziale e probatorio, subisce, in realtà, una sorta di mutazione genetica rispetto agli archetipi tradizionali. L’attività sanitaria, in particolare,

1 De Matteis, La responsabilità medica tra prospettive comunitarie e nuove tendenza giurisprudenziali, in Contr. e impresa 1990.

2 Così, tra gli altri, Schlesinger, Sacco, Trimarchi, Rodotà, Busnelli, Galgano.

3 Monateri, La responsabilità civile, UTET 1998.

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funge da terreno di coltura e sperimentazione dei nuovi modelli di analisi giuridica, coinvolgendo non più soltanto i medici, ma anche tutto quanto (persone o cose) concorra, con diversificate funzionalità, al completamento dell’iter diagnostico/terapeutico del paziente (infermieri, assistenti sanitari, tecnici, macchinari, farmaci, strutture ospedaliere, cliniche ecc.), di talché il regime della responsabilità volge verso approdi necessariamente unitari, senza distinzione in ordine allo status del soggetto responsabile (libero professionista, medico condotto, medico provinciale, dipendente ASL, docente universitario).

Una primo, sommario avvicinamento al pianeta della colpa medica, consente oggi la (sia pur non esaustiva) individuazione delle fasi:

1) Del primo contatto e informazione4;

2) Dei contatti successivi e della diagnostica;

3) Dell’intervento “acconsentito” dal paziente;

4) Dei controlli e della terapia successiva con impiego di macchinari e medicinali;

5) Della responsabilità (eventuale) della struttura sanitaria.

4 La cura nella raccolta delle prime informazioni andrà riservata non solo al controllo della loro esattezza e completezza, ma anche al controllo sulla loro segretezza: si registrano in giurisprudenza casi in cui il medico è stato ritenuto responsabile per aver rivelato circostanze inerenti allo stato di salute mentale del proprio paziente alla moglie e dia aver quindi contribuito (se non determinato) a provocare la separazione coniugale promossa dalla moglie sulla base delle pregresse condizioni di mente del marito. La raccolta dei dati mediante computer e utilizzati dalla struttura sanitaria andrebbe affidata ad istituti specializzati (le notizie di natura sanitaria essendo considerate

“dati super sensibili), con il consenso dell’interessato e rivelate solo se richieste da altro professionista (normalmente il medico di famiglia), mentre se ne impedisce la rivelazione allo stesso paziente se questi non sia in grado di affrontare la realtà.

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2 – LA COLPA

Quello di colpevolezza è giudizio di tipo non assoluto ma relazionale5 che deve tener conto di quanto i vari “tipi” di soggetti coinvolti hanno fatto o potevano fare per prevenire o evitare un danno, in base ad un modello, inevitabilmente giudiziale, di apprezzamento della loro condotta. Una definizione legislativa della colpa è esplicita, difatti, soltanto nell’art. 43 commaterzo del codice penale (“il delitto è colposo o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente, e si verifica a causa di negligenza, imprudenza imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”). Di talché:

- la negligenza è oggi violazione di regole sociali (e non più o non solo la disattenzione consistente nello scarso uso dei poteri attivi dell’individuo);

- l’imprudenza è violazione di modalità imposte dalle regole sociali per l’espletamento di certe attività (e non più o non solo la mancata adozione delle necessarie cautele suggerite dall’esperienza);

- l’imperizia è violazione di regole tecniche di settori determinati della vita di relazione (e non più o non solo l’incapacità intesa come insufficiente attitudine all’esercizio di arti o professioni, concetto in cui suole farsi rientrare anche la temerarietà professionale).

Colpa soggettiva è la dimensione psicologica dell’agente riferita al suo comportamento.

5 Monateri, cit. p. 73.

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Colpa oggettiva è, viceversa, lo scarto (e la relativa valutazione) della condotta rispetto ad un

modello ideale di riferimento, la deviazione, cioè, da uno standard di comportamento diligente, inteso come insieme storicizzato di doveri che incombono su di un soggetto, (criterio, peraltro, non univoco per l’imputazione del danno in un sistema policentrico della responsabilità civile).

La graduazione della colpa ne postula un livello lievissimo, uno lieve ed uno grave: in

quest’ultima orbita si iscrivono le particolari fattispecie della colpa cosciente e del dolo eventuale; scopo di tale graduazione è quello di valutare lo scarto di comportamento rispetto al modello astratto di volta in volta richiesto ai fini di un’affermazione di responsabilità, con particolare riferimento a quelle fattispecie in cui la responsabilità stessa scatta (ormai solo apparentemente) soltanto in presenza della colpa grave (art. 2236).

La concezione unitaria della colpa, civile e penale, adottato ormai dagli interpreti in via quasi

esclusiva il criterio della colpa oggettiva, si avvia inevitabilmente al tramonto: nel sistema civile si affermano decisamente modelli differenziali di valutazione della condotta, secondo le forme, oltre che della responsabilità per colpa, della responsabilità oggettiva e della responsabilità prima facie (quando, cioè, l’attore è tenuto a provare il solo danno ed il nesso causale, mentre

il convenuto può andare esente da responsabilità provando di aver soddisfatto certe condizioni di prevenzione del danno). E la stessa operazione di graduazione della colpa nell’ordinamento civile ne conferma ulteriormente la disomogeneità rispetto al sistema penale: l’intensità di essa, difatti, non può giammai fungere da discrimine tra responsabilità e non responsabilità penale, limitandosi a determinare, per converso, la minore o maggiore entità della pena6.

6 A soluzione opposta era invece pervenuta la giurisprudenza più risalente (CP 124/1968, secondo la quale anche sul piano penale la colpa del professionista-imputato non poteva che configurarsi come colpa grave: il principio

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Sul piano probatorio, infine, regola generale del torto aquiliano è (o meglio, sarebbe!) quella

per cui l’attore deve fornire la prova della colpa del convenuto, mercé dimostrazione di specifiche omissioni o specifiche insufficienze della attività da questi prestata: il principio è variamente temperato dalla possibilità che il giudice utilizzi prove presuntive ed indiziarie, essendo la colpa non un insieme di fatti, ma la qualificazione giuridica di tale insieme (con le relative conseguenze in tema di sindacabilità delle pronunce di merito da parte della Cassazione sulla predetta qualificazione giuridica, intangibile essendo soltanto la ricostruzione dei fatti storici).7 In concreto, il principio probatorio generale viene sostanzialmente capovolto tutte le volte che il giudice faccia ricorso a quello (del tutto opposto) della “res quae ipsa loquitur” (sul quale amplius infra)8. Nel campo dell’inadempimento contrattuale, invece, normalmente spetta al debitore la prova dell’assenza di colpa nell’inadempimento9 (dovendo il creditore provare, per converso, il solo fatto del mancato adempimento: Cass. ss. uu.

13533/2001), salvo, secondo la dottrina tradizionale, le fattispecie di inadempimento delle obbligazioni “di mezzi”, con riferimento alle quali spetterebbe (in un’ottica, peraltro, ormai del tutto obsoleta) al creditore provare anche la colpa del debitore.10

venne capovolto a partire da CP 2734/1984: per la chiara affermazione del nuovo criterio di colpa

“indifferenziata”, CC 4515/1987)

7 Stesso principio è affermato nell’ordinamento francese.

8 Il criterio nasce anticamente nella giurisprudenza di Common law, e fu adottato dal barone Pollock in un giudizio della Court of Exchequerer nel 1863, per essere ripreso in America nel 1906: da sempre si è discusso se, con essa, si sia introdotta una forma di responsabilità oggettiva (Monateri) ovvero trasformato l’obbligazione medica di mezzi in obbligazione di risultato (Cattaneo).

9 Altre differenze tra contratto e torto aquiliano si rinvengono, come noto, in tema di costituzione in mora, prescrizione, risarcibilità dei danni imprevedibili, imputabilità del fatto dannoso.

10 La distinzione, formulata per la prima volta in un progetto di codice civile tedesco, venne sviluppata poi dal Demogue ed accolta incondizionatamente in Francia. Anche in Italia, per effetto dello studio del Mengoni (Riv. Dir.

Comm. 1954, 185 ss.), la distinzione si affermò, sia pur con qualche riserva, ma oggi, pur nella sua ripetizione tralaticia contenuta in quasi tutte le pronunce giurisprudenziali, può dirsi ampiamente superata proprio nel campo della responsabilità professionale, con l’introduzione delle categorie dell’obbligo di informazione e dell’obbligo di

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Superate le iniziali tendenze interpretative volte ad assicurare un’area di sostanziale immunità ai liberi professionisti, di cui si è avvertita ancora l’eco in pronunce neanche troppo risalenti (CC 2439/1975), la norma di cui all’art. 2236 è divenuta una sorta di cartina di tornasole dell’evoluzione interpretativa che ha condotto sino alle barriere originariamente poste a presidio di una oculata e parsimoniosa affermazione di responsabilità sanitaria, così che essa, specie a seguito dell’intervento del giudice delle leggi, è divenuta null’altro che una norma di limitazione della responsabilità non estensibile alla imprudenza o negligenza e circoscritta alla sola imperizia.11 Così, parte della dottrina afferma oggi che essa non prevederebbe, in realtà, un criterio di responsabilità diverso da quello ex art. 1176 comma 2, una colpa, allora, non

“grave”, bensì “circostanziata”.12 (Particolarmente tranchant la pronuncia della Corte di legittimità 977/1991 (Osp. SM degli Angeli/Chiandussi), secondo la quale la colpa del medico non deve essere necessariamente grave, e normalmente in favore del soggetto leso si applica il criterio della res ipsa loquitur). Si giunge, lungo questo sentiero interpretativo, al principio

secondo cui l’attenuazione di responsabilità ex art. 2236 non si applica a tutti gli atti del medico, ma solo ai casi di particolare complessità o perché non ancora sperimentati o studiati a sufficienza, o perché non ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire (capostipite di tale tendenza, Cass. 6141/1978, Rainone/Osp. S. Gennaro, e, successivamente, 1441/1979, 8845/1995, Onesto/Min. difesa) L’attenuazione di responsabilità è, peraltro, ulteriormente limitata dalla richiesta, in capo al professionista, di una scrupolosa attenzione, pretendendosi dallo specialista uno standard di diligenza superiore al

protezione (i Nebenpflichten e gli Schutszpflichten della giurisprudenza tedesca), mentre la ripartizione degli oneri della prova sono oggi tracciati dal dictum di Cass. ss.uu. 11533/2001.

11 Corte costituzionale 166/1973.

12 Cattaneo, Princigalli

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normale: così, il richiamo, ormai poco più che formale e declamatorio, al concetto di colpa grave non vale come criterio di grossolana divergenza dalla diligenza media, ma come scarto di diligenza esigibile da uno specialista (dal quale, appunto, pretendere una preparazione ed un dispendio di attività superiore al normale: Cass. 4437/1982, Di Biagio/Cassa maritt.

meridion.); né si consente al non specialista il trattamento di un caso altamente specialistico (Cass. 2428/1990, che ritenne responsabile un ortopedico il quale, senza esperienza nel campo, affrontò un intervento di alta chirurgia neoplastica, mentre App. Milano 30.6.1987 giudicherà responsabile un medico ostetrico per non aver chiesto l’intervento di un pediatra in caso di nascita di una bambina asfittica;)13. Nell’ambito degli atti ordinari della professione, pertanto, il danneggiato deve provare soltanto il nesso causale, e la facilità di esecuzione dell’intervento (intervento cd. routinario), mentre la colpa, anche lieve, si presume sussistente ogni volta che venga accertato un risultato peggiorativo delle condizioni del paziente (Cass.

8470/1994, Arcuti/Pascarelli): la colpa medica arriva dunque, capovolgendo la situazione originaria di protezione “speciale” del professionista, a sfiorare la dimensione oggettiva della responsabilità (assumendone una forma paraoggettiva, o comunque “aggravata”), salva prova di avere eseguito la propria prestazione con la dovuta diligenza (Cass. 3023/1994, Landi/Traldi). In definitiva, il quadro che complessivamente emerge dallo screening giurisprudenziale di legittimità e di merito nel ventennio 1980-2000 (e, conseguentemente, i parametri di riferimento cui un’eventuale consulenza disposta dal giudice dovrà attenersi) è quello che indaga:

13 Si osserva, in proposito che, su problemi molto delicati, il sanitario debba essere giudicato in base ai criteri della scuola cui appartiene, se rispettabile ed accreditata, e non di un’altra cui appartenga il CTU, sicché, in tal caso, il giudice dovrebbe compiutamente motivare sul perché di tale scelta (Monateri),

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1) sulla natura, facile o non facile, dell’intervento del professionista;

2) sul peggioramento o meno delle condizioni del paziente (o sul mancato miglioramento);

3) sul nesso causale e sulla sussistenza della colpa (lieve nonché presunta, se in presenza di operazioni di routine o ben codificate, grave, nel senso sinora specificato, se relativa ad operazione che trascende la preparazione media ovvero non sufficientemente studiata o sperimentata, con l’ulteriore limite della particolare diligenza richiesta in questo caso, e dell’elevato tasso di specializzazione nel ramo imposto al sanitario), da valutarsi secondo il parametro attuale della diligenza-perizia (il difetto di diligenza che si sostanzia nell’inosservanza di regole tecniche, oggi codificate nei cd. PDT, percorsi diagnostico- terapeutici);

4) sul corretto adempimento dell’onere di informazione e sull’esistenza del conseguente consenso del paziente (su cui, amplius, infra)14.

Così, in quei pochi casi in cui l’art. 2236 è stato realmente applicato, la valutazione della non gravità della colpa risulta implicitamente contenuta nel giudizio espresso sulla natura dell’intervento, mentre la regola inversa (elaborata per la prima volta, come poc’anzi ricordato, da Cass. 6141/1978) della facilità dell’intervento e del risulta peggiorativo come presunzione di colpa tout court, è risultato il primo passo verso la tendenziale trasformazione

14 Una rilevanza “contrattuale” del dovere di corretta informazione si rinviene già nel tessuto codicistico, in tema di contratto di assicurazione, dove le dichiarazioni inesatte e reticenti dell’assicurato, anche se non dovute al dolo di quest’ultimo, danno all’assicuratore (art. 1893) la possibilità di recedere dal contratto e, comunque, limitano l’indennizzo: anche nel contratto d’opera professionale, il dovere di informazione diretto ad ottenere un consapevole consenso del cliente interviene dopo che, con il compimento della diagnosi e della prognosi, è già iniziata l’esecuzione del contratto d’opera professionale, così che il consenso del paziente non è assenso alla conclusione di un nuovo e diverso contratto, bensì assenso alla cura prospettata dal medico nell’ambito del contratto già concluso.

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dell’obbligazione del professionista da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato,15 e verso l’approdo ad un sistema intermedio di responsabilità che si atteggia come tertium genus tra la dimensione della responsabilità soggettiva e quella della responsabilità oggettiva, sistema fondato sul principio cardine della vicinanza e della disponibilità della prova conseguente allo status professionale del medico rispetto a quello del paziente16. Nel suo ineluttabile declino, la norma poc’anzi ricordata, che il legislatore del 1942 aveva viceversa modulato per "non mortificare l'operato dei professionisti", trascina con sé anche la rilevanza civilistica della distinzione tra i diversi gradi di colpa, quantomeno nel settore della malpractice medica17. Nell’ottica di una prima, approssimativa sintesi dell’attuale realtà composita che abbraccia la responsabilità medica, va pertanto tracciato una sorta di quadro sinottico secondo il quale la relativa indagine è oggi attestata sul triplice fronte:

15 Si parla, in Francia, di obligations des resultat attenues, produttive di una inversione dell’onere della prova fondata sulla colpa presunta, e di obligations de securitè de resultat, che escludono una prova liberatoria per la struttura sanitaria).

16 Scrive, in proposito, Cass. 4394/1985 nel celebre caso della ballerina spogliarellista che, nel caso di interventi routinari, i principi affermati in tema di colpa “non valgono a trasformare l’obbligazione del professionista da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato, quasi che egli debba garantire il buon esito dell’operazione, …..

ma certo la sperimentata tecnica comporta una notevole sicurezza del raggiungimento dell’obbiettivo, sicché, mancato quest’ultimo, può quantomeno presumersi, fino alla prova contraria di uno sviluppo imprevedibile, la colpa del chirurgo”.

D’altronde, sul piano della teoria generale, il dissenso manifestato all’accoglimento della distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato faceva leva, tra l’altro, sulla considerazione che il professionista spudoratamente negligente che, purtuttavia, avesse suo malgrado conseguito il risultato auspicato dal cliente, avrebbe, a rigore, dovuto rispondere di inadempimento della sua obbligazione di mezzi, il che, ovviamente, era assurdo.

La “revisione” del regime probatorio funzionale ad agevolare, sul piano processuale, la posizione del paziente, è una tendenza comune a molti paesi europei: la Francia ha introdotto un sistema legale di controllo a monte dei rischi sanitari (la Loi Kouchner del 2002) ed un sistema misto di risarcibilità, sia pur fondato almeno nominalmente, sulla faute; in Germania sono graduate le agevolazioni probatorie disposte per il paziente, a seconda che l’errore terapeutico risulti grossolano (Gro§e Behandlungsfehler), nel qual caso chi agisce in giudizio è dispensato dalla prova piena a fronte della mera allegazione delle circostanze da cui emerge l’errore, grave, in violazione di regole mediche sperimentate ovvero di nozioni elementari di medicina, nel qual caso il giudice può valutare l’opportunità di arrivare all’inversione dell’onere probatorio, ovvero tipico (garza dimenticata nell’addome), caso in cui si ricorre alla prova prima facie (Anscheinbeweis).

17 Ferrari, la responsabilità civile in odontoiatria, in danno e resp. 2/2004, 125.

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1) della responsabilità del professionista per condotta commissiva o omissiva generante

“danno” da negligenza imperita;

2) della responsabilità del professionista per omessa o incompleta informazione diagnostico-terapeutica;

3) della responsabilità della struttura sanitaria.

I criteri generali in tema di colpa/responsabilità medica, a loro volta, sino ad un recente passato, sono stati quelli improntati alle seguenti “categorie” giuridiche:

1) Obbligazioni di mezzi (art.1218-1176) – onere della prova dell’inadempimento: sul creditore/paziente; rischio dell’incertezza processuale relativa alla mancata diligenza nell’adempimento: sul creditore/paziente;

2) Speciale difficoltà (art.2236) – limitata all’imperizia – onere di dimostrazione gravante sul medico – onere della prova della gravità della colpa gravante sul paziente,

3) Interventi routinari – res ipsa loquitur – peso dell’incertezza processuale gravante sul medico/debitore.

Su tale “sottosistema” di responsabilità a carattere sostanzialmente “chiuso”, si innestano, a partire dagli anni 2000, una serie di decisioni (anche “esterne” rispetto allo stretto ambito sistemico della responsabilità medica)18 che possono così sintetizzarsi:

a) La prova dell’inadempimento: Cass. ss.uu. 13533/2001 stabilisce che il debitore è esonerato da qualsiasi onere diverso da quello di allegare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore (sulla scia di Cass. 7027/01, affermativa degli stessi principi in tema di obblighi di informazione del chirurgo plastico, e

18 E tali da far ritenere “al tramonto” il sottosistema della responsabilità medica: Izzo, in Corr. Giur. 2/2005, 130 ss.

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ripresa poi da Cass. 10297/04, con specifico riguardo alla responsabilità medica);

b) La prova della colpa grave: Cass. 11488/2004: questa viene addossata al medico/debitore (non del tutto in linea con una precedente giurisprudenza di legittimità), anche se, a rigore, l’iter probatorio in materia dovrebbe evolvere (trattandosi non di quantum probatorio, ma di vera e propria “soglia di ingresso”

della responsabilità) secondo la scansione: domanda risarcitoria (attore/paziente) – eccezione di prestazione di particolare complessità (medico/convenuto) – controeccezione di colpa grave (attore/paziente). Incide, inevitabilmente, su

questa soluzione la sentenza delle sezioni unite in tema di riparto dell’onere probatorio da inadempimento;

c) Il danno da perdita di chance: Cass. 4400/2004: è la acritica trasposizione di un principio riconosciuto in tema di lavoro (mancata ammissione ad un concorso) da Cass. 11522/97, 11340/98, 11322/03: la perdita di chance di guarigione o sopravvivenza viene così ricostruita come bene attuale percentualmente risarcibile, nonostante evidenti differenze “ontologiche” con le fattispecie tipiche, in quanto è proprio l’omissione, nel caso di responsabilità medica, che fa sorgere la chance (di guarigione), mentre l’omissione del datore di lavoro la distrugge (perché, senza l’intervento medico, la chance di guarigione non esiste). Si elimina, così, sostanzialmente, la prova del nesso causale: se manca la diligenza, il danno da perdita di chance è in re ipsa;

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d) I rapporti contrattuali di fatto: Cass. 589/1999: nati in Germania negli anni ’40, per regolare altre vicende di responsabilità senza contratto, essi risultano funzionali alla definitiva “contrattualizzazione a tappe forzate” della responsabilità medica;

e) Il contratto ad effetti “protettivi” per il terzo: Cass.11503/1993 e Cass.

14488/2004: il contratto di spedalità ed il rapporto contrattuale di fatto con il medico spiega effetto anche nei confronti di un soggetto non ancora esistente, e la responsabilità è, ancora una volta, ritenuta contrattuale, esplicitamente, dalla prima sentenza, mentre la seconda, non affrontando il problema, si limita a ribadire l’esistenza di un “diritto a nascere sano” (ma perde l’occasione di puntualizzare gli errori della pronuncia precedente), confermando implicitamente l’esistenza di un diritto autonomo del minore al risarcimento e la natura contrattuale della responsabilità in caso di comportamento negligente del medico (commissivo o omissivo), ma escludendo tale autonomo diritto (riconosciuto, per converso, ai genitori) solo con riferimento al versante dell’omessa informazione, causa della mancata possibilità di abortire pur riconosciuta alla donna;19

19 Anche tale actio finium regundorum dell’estensione illimitata della responsabilità medica è stata sottoposta a severa critica dai primi commentatori della sentenza: (Feola, in Danno e resp. 4/2005, 391 ss.), secondo la quale la sentenza, discostandosi dal noto Arret Perruche delle sezioni unite della Cassazione francese (17 nov. 2000, che fu causa prossima della legge 203/2002, c.detta “anti/verruche”), affermativa invece della responsabilità diretta del medico nei confronti del neonato per omessa diagnosi di malformazione fetale. Si osserva che “la Corte non spiega in maniera convincente perché debba essere protetto dal contratto il marito e non il feto” e che “la responsabilità del medico è di natura contrattuale sia nei confronti della parte creditrice degli effetti di prestazione, sia nei confronti dei terzi (coniuge e neonato) destinatari degli effetti di protezione” (la Cassazione francese aveva invece qualificato come delictuelle la responsabilità verso quest’ultimo, anche per la nota insofferenza del diritto francese nel ravvisare eccezioni al principio della relatività del contratto). Così al minore andrebbero riconosciuti tutti i danni (diversamente da quanto ritenuto dal Consiglio di Stato francese e dalla Corte federale dell’Alabama, che li ha liquidati ai genitori, salvo a rapportarli, con nobile sotterfugio, alla vita del minore handicappato), mentre ai genitori andrebbe liquidato il solo danno esistenziale.

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f) La responsabilità della struttura ospedaliera: Cass. 13066/2004 (sulla scia di Cass. ss.uu. 9556/2002) – sempre sussistente, anche se il medico non è dipendente della struttura ed a prescindere dalla sua eventuale colpa, sulla base del contratto innominato (ma ormai tipico) di spedalità. L’organizzazione diviene così un vero e proprio obbligo giuridico, pur in assenza di indici normativi (previsti soltanto in alcuni sottosettori, quale quello in tema di trasfusioni);20

g) Il contenuto dei moduli di consenso informato: App. Bologna 1998 – Trib.

Venezia 2004: il modulo può essere dichiarato inefficace, “non potendo ridursi all’espletamento di formalità meramente burocratiche, se assolutamente generico”.

Il regime di responsabilità che ne consegue, in definitiva, si va sempre più delineando, specie sotto il profilo dell’inesatto adempimento, secondo canoni affatto speculari rispetto a quelli tradizionali, (specie dopo l’arret di cui a Cass. 13533/2001 in tema di ripartizione dell’onere della prova tra creditore e debitore), di talché quello che era stato sempre considerato onere del creditore (la dimostrazione dell’inesattezza della prestazione che, in quanto fatto lesivo del credito, si iscriveva tout court nell’orbita della causa petendi) è oggi riversato sul debitore cui spetta di provare di non aver violato il diritto alla conformità del suo comportamento al programma negoziale, sia sotto il profilo del comportamento (commissivo o omissivo) sia del grado della colpa (se grave), sia dell’informazione “acconsentita”. Riscritto appare altresì il ruolo da assegnare alla prova liberatoria relativa al fortuito che, nelle più recenti sentenza,

20 In Francia, i parametri dell’obbligo di organizzazione sono: 1) mettere a disposizione del clienti personale qualificato in numero sufficiente; 2) sorvegliare il coordinamento dei servizi; 3) garantire locali salubri e idonei; 4) disporre di apparecchiature appropriate e in buono stato; 5) fornire prodotti sicuri e sani, specie con riguardo ai farmaci.

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grava ancora una volta sul medico (così Cass. 10297/04 e 11488/04, mentre più cauta appare in argomento Cass. 9471/04, che mostra di non aver del tutto abbandonato il solco della responsabilità per colpa). In altri termini: se la regola di diritto vivente che preesisteva alla diversa distribuzione dei carichi probatori introdotta dalle sezioni unite civili in tema di inadempimento (con una sentenza, peraltro, afferente a tutt’altra fattispecie che non quella della colpa medica) sanciva che, quando l’intervento poteva essere ricondotto alla categoria delle operazioni cd. routinare la dimostrazione del non miglioramento da parte del paziente era

idonea a fondare una presunzione semplice di inadempimento da inadeguatezza o negligenza della prestazione professionale, gravando viceversa sul medico-debitore la dimostrazione che la prestazione era stata diligentemente eseguita e che l’esito non soddisfacente era stato determinato da evento imprevisto o imprevedibile, mentre in caso di intervento di difficile esecuzione, spettava al professionista la sola dimostrazione della speciale difficoltà, mentre il

paziente era gravato dell’onere di provare quali fossero state in concreto le modalità di esecuzione inidonee secondo il disposto dell’art. 2236 c.c.21, tale distinzione sembra non spiegare più alcun effetto sul piano del riparto dei carichi di prova tra medico e paziente:

l’onere relativo finisce, comunque, difficoltà “speciale” o meno, per gravare sul professionista, alla luce del nuovo criterio di “vicinanza della prova”, sicché ogni distinzione tra prestazione routinaria o difficile non rileva più come criterio strutturale di riparto dell’onere dimostrativo, ma quale parametro di valutazione del livello di diligenza di volta in volta richiesto (e, dunque, del corrispondente “grado” di colpa).22

21 Leading case di tale impostazione, Cass. 6141/1978, divenuta poi un punto fermo nella giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità medica sino agli anni 2000 (ex multis, Cass. 2044/2000; 12359/2001.

22 Cass. 10297/2004, predicativa, con particolare vis argomentativi, del criterio di vicinanza della prova.

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3 IL NESSO CAUSALE

Anche in tema di nesso causale, secondo un percorso parallelo a quello seguito in tema di colpa, da una posizione originariamente attestata su postulati di necessaria certezza della correlazione condotta-evento, la posizione della giurisprudenza si è evoluta verso le sponde del giudizio probabilistico, in ordine alla prognosi, alla terapia ed all’intervento, così che, quando il rapporto della malattia con l’agente patogeno si presenta in termini di assoluta o estrema probabilità, la prova del nesso causale si è talvolta ritenuta in re ipsa (Cass. 2684/1990), laddove il concetto di probabilità viene inteso, a lungo, non secondo la cd. teoria frequenzialista, ma secondo la definizione aristotelica per cui il probabile è quanto avviene nella maggior parte dei casi: si è osservato in dottrina come fosse preferibile adottare, in tema di nesso causale, il concetto epistemologico-logicista di probabilità, secondo cui quest’ultima consiste nel grado di credenza razionale nel verificarsi di un evento, atteso che la statistica mal si attaglia all’analisi di accadimenti individuali, che postulano un apprezzamento logico di tutte le circostanze del caso concreto, con particolare riferimento alle “circostanze differenziali”

rispetto alla situazione astratta cui si riferisce in dato statistico (principio, questo, accolto di recente dalle ss.uu. penali della Corte di cassazione a composizione del contrasto relativo al concetto di “alto grado di probabilità” nel reato omissivo improprio)23. La specificazione concreta del concetto di probabilità rilevante ha incontrato varie formulazioni: “serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica"”(Cass. 30.4.1993), “adozione dei criteri oggettivi di prevedibilità ed evitabilità, assenza di fattori eccezionali non dominabili dal soggetto agente”

(Pret. Verona 9.6.1994, Ferrari) che risulta, in realtà, una moderna applicazione della teoria

23 Cass. ss. uu. 30328/2002.

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condizionalistica aggiornata secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche.

Particolare scalpore suscitò il criterio adottato nel cd. caso Silvestri (Cass. 371/1992), secondo cui sussiste il rapporto di causalità tra condotta ed evento lesivo quando il sanitario ometta di intervenire o intervenga scorrettamente, qualora il corretto e tempestivo intervento avrebbe avuto una scarsa probabilità di successo (nella specie, si trattava di morte del paziente evitabile con probabilità non superiore al 30%: sul caso, amplius, infra)24. Dottrina e giurisprudenza distinguono, peraltro, tra condotta colposa commissiva, in cui il nesso causale va provato con certezza, e condotta colposa omissiva, che postula pur sempre il ricorso ad un giudizio probabilistico ex ante.

Una compiuta indagine sul tema del nesso causale conduce, peraltro, ad una prima, significativa (ed inquietante) rilevazione ermeneutica, quella per cui nulla di realmente definito emerge dalle fonti legislative, penali e civili, sul tema della causalità in sé considerata (l’art.40 del codice penale fissa l’equivalenza fra il non fare ed il cagionare; il successivo art 41 si occupa, con apparente salto logico, “dell’interruzione del nesso causale” senza punto definirne la portata concettuale, gli articoli 1227 e 2043 del codice civile descrivono, rispettivamente, il rapporto tra fatto doloso o colposo e danno in termini di “cagionare”, senza ulteriori specificazioni, mentre l’art. 1223 fa riferimento, più specificamente, ai danni/conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento o del ritardo). Così, la dottrina, nel tempo, elabora un numero imprecisato di teorie sull’argomento, complessivamente riducibili ad una restricted area costituita da cinque “macrogruppi” (conditio sine qua non; causalità adeguata; prevedibilità dell’evento; scopo della norma violata; signoria dell’uomo sul fatto, quest’ultima di derivazione

24 Osserva Monateri come, in realtà, si tratti di un criterio picwikiano, da assumersi cum grano salis.

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germanica). La giurisprudenza civile, a sua volta, pur non senza oscillazioni (dettate non di rado dagli “umori” dei periodi storici attraversati), si attesterà in prevalenza sulla linea di confine ove tutti gli antecedenti causali in mancanza dei quali non si sarebbe verificato l’evento lesivo assumono rilievo eziologico, abbiano essi agito in via diretta o soltanto mediata, salvo il temperamento normativo della “causa prossima da sola sufficiente a produrre l’evento”. Non mancano pronunce che, con lo sguardo rivolto al concetto di giudizio probabilistico ex ante, sposeranno tout court la teoria della causalità adeguata, aggiungendovi il consueto limite del caso fortuito inteso come vis maior (ovvero, meno esattamente, come mancanza di riprovevolezza del comportamento) ed esteso anche al fatto del terzo o della vittima dell’illecito, a condizione che il responsabile stesso non avesse l’obbligo di impedire l’evento (in questi sensi registrandosi, nella sostanza, un considerevole avvicinamento alla dottrina tedesca della signoria del fatto).

In realtà, quello del nesso causale, problema ermeneutico pressoché insolubile sul piano della dogmatica giuridica pura, pare destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più pragmatici) confini di una dimensione “storica”, o, se si vuole, di politica del diritto, che, come si è da più parti osservato, di volta in volta individuerà i termini dell’astratta prevedibilità delle conseguenze dannose delle proprie azioni in capo all’agente secondo un principio guida che potrebbe essere formulato, all’incirca, in termini di rispondenza, da parte dell’autore del fatto illecito, delle conseguenze che “normalmente” discendono dal suo atto, a meno che non sia intervenuto un nuovo fatto rispetto al quale egli non ha il dovere o la possibilità di agire (la cd. teoria della regolarità causale e del novus actus interveniens). Così, osserva la più attenta e recente dottrina, il nesso causale diviene la misura del dovere posto a carico dell’agente da ricostruirsi

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sulla base dello scopo della norma violata, di quel dovere di avvedutezza comportamentale (o, se si vuole, di previsione e prevenzione, attesa la funzione -anche- preventiva della responsabilità civile) che si estende sino alla previsione delle conseguenze a loro volta normalmente ipotizzabili in mancanza di tale avvedutezza. L’assunto, apparentemente meritevole di incondizionata condivisione, postula, peraltro, una ineludibile quanto fondamentale precisazione: troppo spesso l’evoluzione del concetto di colpa, segnatamente in tema di responsabilità professionale, e l’enucleazione via via più frequente di una concezione

“oggettiva” della colpa medesima, segnata sempre più dall’individuazione di cd. “standards”

generali di comportamento, ha finito per ingenerare una (forse) inconsapevole (ma non per questo più accettabile) confusione da “sovrapposizione” dell’indagine sul nesso causale con quella in ordine all’elemento soggettivo dell’illecito (la colpa, appunto), dovendo, per converso, le due categorie giuridiche attestarsi su piani cronologicamente e morfologicamente distinti, poiché la colpa, anche intesa come giudizio relazionale “oggettivato”, è pur sempre misura dell’avvedutezza dell’agente nel porre in essere il comportamento in ipotesi illecito, è pur sempre “valutazione” di un “comportamento”, valutazione, dunque, inscritta tout court all’interno della relativa dimensione soggettiva, mentre il nesso causale, al di là e prima di qualsivoglia analisi di prevedibilità/evitabilità soggettiva, è, puramente e semplicemente, la relazione esterna intercorrente tra comportamento ed evento, svincolata da qualsivoglia giudizio di prevedibilità soggettiva: la rigorosa oggettivazione del concetto di eziologia dell’evento consente di tenere irrinunciabilmente distinti i due piani di analisi strutturale dell’illecito, fungendo la colpa come limite subbiettivo della oggettiva predicabilità di una responsabilità che veda accertata la relazione causale tra la condotta e l’evento. Specie nella giurisprudenza

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penale dell’ultimo ventennio si è assistito, invece, ad un inquietante avvicinamento dei due concetti (particolarmente significativa in tal senso, la pronuncia di cui a Cass. pen. 371/1992 – il celebre caso Silvestri -, secondo cui sussisterebbe il rapporto di causalità tra condotta ed evento lesivo, ove il sanitario ometta di intervenire o intervenga scorrettamente, qualora il corretto e tempestivo intervento avrebbe avuto una anche scarsa probabilità di successo: nella specie, si trattava di morte del paziente evitabile con probabilità non superiore al 30%: traspare in tutta la sua pericolosità il - moralmente lodevole, ma giuridicamente inaccettabile - tentativo di procedere ad una sorta di compensatio culpae cum causae, mentre, con la sentenza 6.11.1990, la stessa cassazione penale aveva già inaugurato il filone causalistico secondo cui, adottato in limine il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica — la cosiddetta legge generale di copertura — portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto).

Anche in tema di nesso causale, e lungo un sentiero speculare a quello tracciato in tema di colpa, si assiste, dunque, al tendenziale approdo, da una posizione originariamente attestata su postulati di necessaria certezza della correlazione condotta-evento, verso le meno solide (ma non per questo meno necessarie) sponde del giudizio probabilistico, in campo medico specie in ordine alla prognosi, alla terapia ed all’intervento, così che, quando il rapporto della malattia con l’agente patogeno si presenta in termini di assoluta o estrema probabilità, la prova del nesso causale si ritiene addirittura in re ipsa. Il concetto di probabilità viene ancora inteso, peraltro, dalla maggioritaria giurisprudenza giuspenalistica, non secondo la cd. teoria

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frequenzialista, ma in ossequio alla regola aristotelica per cui “probabile” è quanto avviene

“nella maggior parte dei casi”, mentre già da tempo si andava osservando, in dottrina (si è già avuto modo di accennarlo in precedenza), come fosse preferibile adottare, in tema di nesso causale, il concetto epistemologico-logicista di probabilità, secondo cui quest’ultima consiste nel grado di credenza razionale nel verificarsi di un evento, - atteso che la statistica mal si attaglia all’analisi di accadimenti individuali, che postulano un apprezzamento logico di tutte le circostanze del caso concreto, con particolare riferimento alle “circostanze differenziali” rispetto alla situazione astratta cui si riferisce in dato statistico . La sentenza 30328/2002 delle SSUU penali, come noto, ha riportato, quanto alla fattispecie del cd. “reato colposo omissivo improprio” il nesso causale al concetto di “alta probabilità logica”, non ritenendo ulteriormente appagante il criterio del coefficiente di probabilità statistica, ma postulando l’indefettibile concorso di un “elevato grado di credibilità razionale”, di talché “l’insufficienza, la contraddittorietà, l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, cioé il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio”: le sezioni unite, risolvendo con tale pronuncia l’ormai radicato contrasto giurisprudenziale in subiecta materia, privilegiano, così, la scelta di un percorso cognitivo articolato in due fasi onde verificare il rapporto causale tra omissione ed evento, sicché il giudice è chiamato, da un canto, ad accertare il coefficiente di probabilità statistica di verificazione dell’evento secondo lo schema logico del giudizio controfattuale, dall’altro a predicare l’esistenza del nesso eziologico sulla base sì di tale risultato (espresso dalla legge statistica), ma ricorrendo poi (anche) ai criteri (mai obsoleti) della logica aristotelica, poiché il

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nesso di condizionamento “dovrà invero sussistere nel caso concreto, in base alle circostanze del fatto ed alle risultanze probatorie, con ulteriore valutazione dell’eventuale incidenza di fattori alternativi interferenti”.

La giurisprudenza civile della Corte di cassazione ha, a sua volta, seguito un percorso ermeneutico (forse non sempre omogeneo) funzionale alla ricostruzione dei caratteri essenziali del nesso causale che si è, il più delle volte, dipanato secondo modelli apparentemente ispirati alla teoria della causalità adeguata (“con riguardo alla sussistenza del nesso di causalità fra lesione personale ed un intervento chirurgico, al fine dell'accertamento di eventuali responsabilità risarcitorie dell'autore dell'intervento, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti”), per giungere non di rado a sostenere (predicando principi non lontani da quelli cardine della teoria della conditio sine qua non), che, “in tema di nesso di causalita' ex art.

1223 cod.civ., tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota, salvo il temperamento di cui all'art. 41, secondo comma, cod. pen., secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l'evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni; di guisa che, per escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in mancanza di quel fatto, ma

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occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe ugualmente verificato senza quell'antecedente” (così, in particolare, Cass. 12103 del 2000, sulla scia di Cass. 3609 e 7467 del 1984), ovvero ancora che “l'individuazione del rapporto di causalita' tra evento e l'ultimo fattore di una serie causale non esclude la rilevanza di quelli anteriori, che abbiano avuto come effetto di determinare la situazione su cui il successivo e' venuto ad innestarsi, il limite alla configurazione del rapporto di causalita' tra antecedente ed evento essendo rappresentato solo dalla idoneita' della causa successiva ad essere valutata, per la sua eccezionalita' rispetto al decorso causale innescato dal fattore remoto, come causa sufficiente ed unica del danno. (Nella specie, la S.C. ha riconosciuto immune da censure la valutazione di sussistenza del nesso di causalita' tra l'evento epatite da trasfusioni e un incidente stradale nel quale le lesioni prodotte avevano richiesto di eseguire sull'infortunato un intervento chirurgico, nel quale si era appunto fatto ricorso alle trasfusioni), di talché “in virtu' del principio di regolarita' causale, tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un determinato evento dannoso non si sarebbe verificato debbono ritenersi causa del medesimo, salvo che non si accerti, ai sensi dell'art. 41, secondo comma, cod. pen., applicabile anche nel giudizio civile, che la causa prossima sia stata da sola idonea a produrla; accertato il concorso delle cause nella produzione dell'evento, la graduazione delle responsabilita' ai fini del risarcimento dei danni deve essere effettuata avendo esclusivamente riguardo al loro grado di incidenza eziologia ed alla gravita' della colpa di ciascuno dei concorrenti.

Di recente, la III sezione della S.C., con la sentenza n.4400 del 2004, ha ricostruito funditus gli stessi aspetti strutturali della responsabilità medica riaffermando, in premessa, come, secondo la propria, costante giurisprudenza, le relative obbligazioni siano, di regola, obbligazioni di mezzi

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e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non al suo conseguimento (sicchè “il danno derivante da eventuali sue omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe stato conseguito secondo un'indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici: Cass. 26/02/2002, n. 2836; Cass. 10/09/1999, n. 9617; Cass. 10/09/1999, n.

9617)”, e rilevando ancora come, al criterio della certezza degli effetti della condotta, si possa senz’altro sostituire, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta del professionista e l'evento dannoso, quello della probabilità di tali effetti e dell'idoneità della condotta a produrli.

“Il rapporto causale sussiste, dunque, anche quando l'opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo (Cass. 6 febbraio 1998, n. 1286)”.

La sentenza evidenzia, nelle linee portanti dell’iter motivazionale adottato, come l'evoluzione giurisprudenziale in tema d'individuazione del nesso di causalità tra inadempimento della prestazione dedotta in contratto e danno - pur con qualche non condivisibile ritorno alla

"certezza morale" (Cass. 28.4.94 n. 4044), o qualche esitazione tra "ragionevole certezza" e

"ragionevole previsione" (Cass. 27.1.99 n. 722) - postuli l'esigenza di superamento della concezione tradizionale, onde trasferire il baricentro dell’indagine dal criterio della certezza degli effetti della condotta omessa a quello della probabilità di essi e dell'idoneità della stessa a produrli ove posta in essere; criterio per il quale il rapporto causale può e deve essere riconosciuto anche quando si possa fondatamente ritenere che l'adempimento

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dell'obbligazione, correttamente e tempestivamente intervenuto, avrebbe influito sulla situazione, connessa al rapporto, del creditore della prestazione in guisa che la realizzazione dell'interesse perseguito con il contratto si sarebbe presentata in termini non necessariamente d'assoluta certezza ma anche solo di ragionevole probabilità, non essendo dato esprimere, in relazione ad un evento esterno già verificatosi, oppure ormai non più suscettibile di verificarsi, "certezze" di sorta, nemmeno di segno "morale", ma solo semplici probabilità d'un eventuale diversa evoluzione della situazione stessa (criterio desumibile, con gli adattamenti logici resi necessari dalle diverse situazioni di fatto considerate, dalle pronunce di cui a Cass. 21.1.2000 n. 632, Cass. 6.2.1998 n. 1286, Cass. 18.4.1997 n. 3362, Cass. 5.6.1996 n. 5264, Cass.

11.11.1993 n. 11287).

*

La ricognizione (necessariamente parziale ed incompleta) del complessivo panorama normativo, dottrinario e giurisprudenziale in tema di nesso causale conduce ora al non più procrastinabile approdo di alcune premesse di principio (con tutti i limiti che tale operazione comporta), secondo le quali:

- il nesso di causalità è elemento strutturale dell’illecito, che corre – su di un piano strettamente oggettivo, e secondo una ricostruzione di tipo sillogistico - tra un comportamento (dell’autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora

qualificabile come damnum iniuria datum), e l’evento dannoso;

- nell’individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto “oggettivata”, da parte dell’autore del fatto, essendo il concetto di previsione insito nella fattispecie della

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colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell’illecito, motivo di analisi collocato in un momento successivo della ricostruzione della fattispecie);

- il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche soltanto contribuito a generare, tale obbiettiva relazione col fatto, deve considerarsi “causa” dell’evento stesso;

- il nesso di causalità giuridica è quello per cui i fatti sopravvenuti, idonei di per sé soli a determinare l’evento, interrompono il nesso col fatto di tutti gli antecedenti causali precedenti;

- la valutazione del nesso di causalità giuridica, tanto sotto il profilo della dipendenza dell’evento dai suoi antecedenti fattuali, sia sotto quello della individuazione del “novus factus interveniens”, si compie secondo criteri: a) di probabilità scientifica, se esaustivi, b)

di logica aristotelica, se appare non praticabile o insufficiente il ricorso a leggi scientifiche di copertura, con l’ulteriore precisazione che, nell’illecito omissivo, l’analisi morfologica della fattispecie segue un percorso “speculare”, quanto al profilo probabilistico, rispetto a quello commissivo, dovendosi, in altri termini, accertare il collegamento evento-comportamento omissivo in termini di probabilità inversa, per inferire che l’incidenza del comportamento omesso è in relazione non/probabilistica con l’evento stesso (che si sarebbe probabilmente avverato anche se il comportamento fosse stato attuato), a prescindere, ancora una volta, da ogni profilo di colpa intesa nel senso di mancata previsione dell’evento e di inosservanza di precauzioni doverose da parte dell’agente. Così, a titolo soltanto esemplificativo: 1) la morte caratterizzata da

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sintomatologia da avvelenamento e l’ingestione di diossina da parte del defunto sono vicende legate da un nesso causale predicabile sulla (sola) base di leggi di tipo chimico- scientifico; 2) la morte da infezione tetanica del paziente operato per discopatia sarà, viceversa, causalmente collegata all’erronea diagnosi dell’infezione stessa e all’omesso intervento terapeutico-farmacologico nella misura in cui, al momento dell’insorgere dell’infezione, risulti probabile, ancora secondo regole scientifiche, che diagnosi e cura avrebbero potuto scongiurare l’esito letale se tempestivamente realizzate (risulti, cioé, specularmente improbabile, anche se possibile, che l’omissione sia stata causa dell’evento), sicché la risposta negativa a tale, primo quesito (scarse possibilità di elidere la conseguenza dannosa del fatto/probabilità che esso si sarebbe ugualmente verificato) si pone come ostativa ad ogni ulteriore valutazione degli aspetti soggettivi del comportamento, quantunque predicabili in termini di gravissima negligenza (ostativa, dunque, come già si è avuto modo di osservare in precedenza, ad una impredicabile compensatio inter culpam et causam); 3) la mancata, opportuna sorveglianza di un

paziente ricoverato per un night-hospital perché soggetto a crisi di epilessia (ricovero ovviamente funzionale allo scopo di prevenire tali crisi, o di impedirne più gravi conseguenze) è, secondo un criterio logico-aristotelico (mancando, in questo caso, una

“legge scientifica di copertura”), causa probabile di eventuali lesioni che quegli si procuri se assalito da una crisi improvvisa;

- il positivo accertamento del nesso di causalità, che deve formare oggetto di prova da parte del danneggiato, consente la traslazione, logicamente e cronologicamente conseguente sul piano dimostrativo, verso la dimensione dell’illecito costituito dal suo

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elemento soggettivo, e cioè verso l’analisi della sussistenza o meno della colpa

dell’agente (a tacere, ovviamente, del dolo), elemento che, pur in presenza di un nesso causale accertato, ben potrebbe essere escluso secondi i criteri (storicamente “elastici”) di prevedibilità ed evitabilità del danno: criteri, si ripete, che restano tutt’affatto iscritti nell’orbita dell’elemento soggettivo del fatto dannoso, e che postulano il positivo, oggettivo accertamento del preesistente nesso causale, elemento strutturale del torto al quale non è consentito di collegare alcuna inferenza fondata sulla dicotomia colpevolezza/incolpevolezza, attenendo tale aspetto al successivo momento di valutazione della colpa: se, in altri termini, il comportamento del sanitario è astrattamente configurabile in termini di gravissima negligenza, ma il paziente muore (illico et immediate, e prima che la negligenza possa spiegare i suoi effetti causali sull’evoluzione del male) per altra patologia, del tutto (o anche solo “probabilmente”) indipendente dal comportamento del sanitario, l’indagine sulla colpevolezza di questi è preclusa dalla interruzione del nesso causale tra il suo comportamento (omissivo o erroneamente commissivo) e l’evento;

- l’interruzione del nesso causale, oltre che conseguente alla cause tradizionali, va, infine, riconosciuto anche per effetto dell’avocazione del caso da parte del primario (Cass.

2.5.1989, Argelli).

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4 LA RESPONSABILITA’ ODONTOIATRICA

A) Generalità

Quello della responsabilità odontoiatrica è un settore che ha ricevuto relativamente poca attenzione da parte della dottrina (e delle riviste di giurisprudenza), sebbene il contenzioso scaturente da questo ramo della medicina sia in continua espansione. E' vero che tale forma di responsabilità non è altro che una species del più vasto genus della responsabilità medica, ma l'odontoiatria si caratterizza, rispetto ad altre branche della medicina, per aspetti tecnici e problematiche giuridiche sicuramente peculiari. Determinati settori dell'odontoiatria sono, difatti, oggetto di una litigiosità, per così dire, “speciale”: protesi e implantologia riguardano, difatti, prestazioni che darebbero causa, secondo recenti rilevazioni statistiche, a circa il 75% dell'intero contenzioso. Sull'entità del contenzioso in odontoiatria manca, peraltro, un dato di rilevazione generale, poiché quelli disponibili attengono a periodi di tempo o ad aree geografiche limitate.

La percentuale di casi in cui, rispetto a tali analisi parziali, viene accertata la responsabilità del professionista è, comunque, molto alta, al punto da attestarsi attorno al 75% dei casi riportati (questa la percentuale emersa dal monitoraggio della giurisprudenza della provincia autonoma di Trento negli anni 1980 – 2002)25 anche se per valori risarcitori piuttosto ridotti rispetto a quelli che si incontrano in altri settori della responsabilità medica.26 Le ragioni del recente, cospicuo aumento del contenzioso in odontoiatria sono molteplici, alcune di carattere generico e comuni all’intero sottosistema della responsabilità medica (l’acquisizione, da parte del paziente, negli ultimi anni, di una sempre maggior consapevolezza dei propri diritti, e le sempre

25 Izzo – Pascucci, La responsabilità medica nella provincia autonoma di Trento, Trento, 2003, pp. 101 – 140, citato in Ferrari, la responsabilità civile in odontoiatria, Danno e resp. 2/2004, 121 ss.

26 Nel 70-80% dei casi, la liquidazione non supera i trenta milioni di vecchie lire.

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maggiori potenzialità di eventi avversi che il progresso scientifico e tecnologico nella medicina inevitabilmente comporta), altri del tutto specifici del settore, e cioé l'impegno economico, spesso notevole, sostenuto in proprio dal paziente, e la natura spesso elettiva ed estetica degli interventi odontoiatrici (in molti casi non urgenti e non indispensabili), ciò che induce nel paziente il convincimento che il mancato conseguimento del risultato sperato sia la necessaria conseguenza di una qualche “colpa” addebitabile al sanitario. L'insieme di questi fattori ha indubbiamente portato il paziente a pretendere con maggior frequenza il risultato sperato dall'intervento praticatogli, generando un minor grado di tolleranza verso eventuali errori o negligenze del professionista.

B) Gli elementi strutturali della responsabilità odontoiatrica

Nella maggior parte delle sentenze in tema di responsabilità professionale odontoiatrica la colpa assume un ruolo del tutto centrale nel motivare la decisione di condanna. Le stesse

decisioni che sembrano discorrere di responsabilità oggettiva27, in realtà finiscono poi col fondare la portata condannatoria del proprio decisum sul profilo della colpa, concludendo con il qualificare come “non diligente” la condotta del professionista. La nozione di colpa

“odontoiatrica”, nella sua tripartizione tradizionale, non sembra discostarsi, in linea generale, dai concetti di imperizia, imprudenza e negligenza impiegati in tutti gli altri casi di responsabilità del medico, premessa la considerazione per cui l'odontoiatra va pur sempre considerato in termini di “professionista specializzato”: non rileva quindi la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176 comma 1 c.c.), perché la diligenza va valutata con riguardo alla natura

27 E’ tuttora celebre la sentenza di cui a Pret. Modena 16.9.1993, in Giur. It. 1994, I, 1032; Giust. Civ. 1994, I, 539. La sentenza si ricollega a quella corrente di pensiero che configura una obbligazione di risultato in tutti i casi in cui il dentista applichi un opus protesico.

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dell'attività esercitata, vertendosi in materia di adempimento di obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale (art. 1176 comma 2 stesso codice). Ciò significa che il termine di riferimento cui rapportare la condotta del medico dentista è quello del professionista medio espresso dalla categoria professionale cui appartiene il convenuto, il che, per i guardiani del tempio ove riposano le obbligazioni di mezzo, significa che la diligenza “qualificata” del comma 2, oltre che parametro di imputazione del mancato adempimento (nel senso che la violazione delle leges artis fa sì che il danno sia imputato a chi abbia violato tali regole) funga altresì da criterio di determinazione del contenuto dell'obbligazione (nel senso che la quantità e qualità di condotta esigibile dal professionista è individuato, appunto, sulla scorta dell'art.

1176, comma 2)28. D'altro canto, nel settore odontoiatrico ancor più che in altre specializzazioni mediche, il profilo della diligenza incrocia i territori ove è accertata la perizia, tanto che sovente si discorre di binomio inscindibile della diligenza/perizia,29 secondo una valutazione che porta sovente a considerare, peraltro, unicamente i livelli superiori di capacità professionale,30sicché l’errore viene valutato con severità ancor maggiore che nella dimensione specialistica “generica” (e con severità ancora maggiore viene valutata la condotta dei medici dentisti che vantano anni di esperienza e/o che sono considerati luminari in branche specifiche dell'odontoiatria)31 giacché il professionista, pur specialista, consapevole di avere un bagaglio di esperienza limitato, deve astenersi dall'affrontare quei casi che, per la loro complessità, si profilino troppo difficili in relazione alle proprie capacità. Così, se da un lato (ed in astratto) si

28 Così, oltre agli autori che continuano a discorrere di obbligazioni di mezzi e di risultato, Cass. 4852/1999. In senso fortemente critico, Fortino, La responsabilità civile del professionista, Milano 1984, 90-95.

29 Cattaneo,Lla responsabilità del professionista, Milano 1958, 57; il giurisprudenza, cfr. la sentenza citata alla nota che precede.

30 Ferrari, cit., 123.

31 Ferrari, op. loco ult. cit.

Riferimenti

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