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Sulla incostituzionalità del nuovo art. 342 c.p.c. - Judicium

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GIULIANO SCARSELLI

Sulla incostituzionalità del nuovo art. 342 c.p.c. *

“L’inammissibilità si realizza quando manca un presupposto anteriore ed esterno all’atto di appello.

Essa è sempre rilevabile d’ufficio e non conosce sanatoria……..Da ciò si evince l’importanza a livello di conseguenze pratiche di classificare un vizio come inammissibilità o come nullità: la nullità è infatti suscettibile di sanatoria, l’inammissibilità è una sanzione molto più rigida che, una volta pronunciata, lascia spazio solo alla proposizione di altri mezzi di impugnazione”

PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2012, 498

1. La riforma del d.l. 83/2012 convertito con l. 134/2012 ha, come noto, creato due nuove ipotesi di inammissibilità dell’appello: l’una inserendo nel codice di rito le disposizioni di cui agli artt. 348 bis e ter c.c.p.c.; l’altra riscrivendo l’art. 342 c.p.c.

All’uscita di queste novità (anch’io, direi come molti) ho ritenuto di prima importanza l’introduzione della inammissibilità dell’appello per carenza della ragionevole probabilità di essere accolto ex art. 348 bis c.p.c. mentre non ho dato particolare significato alla riforma dell’art. 342 c.p.c.1

Ad una prima lettura, infatti, mi sono chiesto cosa vi fosse di nuovo nel nuovo testo rispetto al vecchio per come era stato reso diritto vivente dagli orientamenti della giurisprudenza, e avevo concluso che, nella sostanza, il nuovo art. 342 c.p.c. semplicemente, e come già avvenuto con l’art. 345 c.p.c., era solo la trasformazione in legge di un indirizzo giurisprudenziale2.

Solo successivamente, dopo aver percepito in più di un incontro di studio quanto questa norma preoccupasse l’intera classe forense3, e solo dopo aver letto alcune prime applicazioni giurisprudenziali di questo nuovo testo4, ho compreso la gravità della riforma e il suo vero scopo.

Non si è trattato di indicare alle parti il contenuto dell’atto introduttivo, avvisandole che esso deve necessariamente avere la causa petendi e il petitum dell’impugnazione, ma si è trattato, viceversa, di                                                                                                                          

* Intervento tenuto a Firenze il 12 aprile 2013 in seno all’incontro di studio organizzato dall’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile su Le novità in materia di impugnazioni.

1 V. infatti SCARSELLI, Sul nuovo filtro per proporre appello, Foro it., 2012, V, 287, tutto interamente dedicato alla riforma di cui agli artt. 348 bis e ter c.p.c..

2 In questo senso v. ora, in modo assai chiaro e direi ineccepibile, BALENA, Le novità relative all’appello, in corso di stampa su Giusto proc., 2013.

3 V. per tutti il sito www.associazionenazionaleforense.it

4 Per tutte v. Corte App. Roma, 15-19 gennaio 2013 n. 377, Guida al diritto, 2013, 9, 16.

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assegnare al giudice dell’impugnazione uno strumento assolutamente discrezionale con il quale liberarsi dall’onere di provvedere nel merito.

E ho capito, in ritardo, quanto questa riforma sia più pericolosa e più subdola di quella di cui ai nuovi artt. 348 bis e ter c.p.c., poiché mentre la dichiarazione di quest’ultima inammissibilità necessita comunque lo studio nel merito del fascicolo, e quindi non è in grado di ridurre in modo rilevante il lavoro del giudice dell’appello, l’inammissibilità di cui all’art. 342 c.p.c. può darsi senza lo studio del fascicolo, e da ciò discendere la sua estrema pericolosità.

Basta osservare con la lente d’ingrandimento l’atto d’appello, scovare qualcosa che non va, e liberarsi così di tutta la causa.

Se si pensa, poi, che “la cosa che non va” è la più vaga ed incerta che possa esservi (ed anch’io, infatti, di nuovo, e direi come molti, non sarei in grado di assicurare quando un atto di appello presenti tutti gli elementi di cui al nuovo art. 342 c.p.c.), va da sé che siamo di fronte ad una riforma che possiamo tranquillamente considerare inquietante.

Ad essa, pertanto, è dedicato questo mio intervento, volto a sottolineare non solo che non è questo il modo di risolvere il carico di lavoro delle Corti di appello, ma anche che la nostra civiltà giuridica non può tollerare norme processuali quali il nuovo art. 342 c.p.c., scritte in modo subdolo e per finalità non meritevoli di tutela.

2. Andiamo per ordine.

Intanto il nuovo art. 342 c.p.c. non ha fissato il contenuto dell’atto dell’appello, secondo la regola della forma-contenuto degli atti processuali5, bensì ha regolato le modalità che questo contenuto deve avere.

Ed infatti, l’art. 342 c.p.c. nella parte in cui recita che “l’appello deve essere motivato”, si limita ad individuare il contenuto dell’atto, e pretendere che l’atto di appello, appunto, contenga la motivazione, ovvero le ragioni dell’impugnazione; ma nella parte in cui prosegue affermando che “La motivazione deve contenere a pena di inammissibilità”, ecc………, lì non fa più riferimento al contenuto dell’atto, che è già individuato nella motivazione, ma proprio alle modalità che questo contenuto deve avere.

In sostanza la legge passa dall’indicare alla parte cosa deve inserire nell’atto processuale a come deve predisporre la cosa che deve inserire nell’atto processuale6.

Questo passaggio merita di essere evidenziato, perché passare dal cosa al come, significa altresì passare da un dato oggettivo ad uno indeterminato, in quanto è evidente che, mentre se io legislatore ti indico cosa voglio posso sanzionare l’assenza della cosa che volevo, se io legislatore ti indico invece come voglio una certa cosa, sanzionarti per la presunta assenza di un come è un abuso, perché il come non è mai assente o presente, è solo, appunto, una modalità con la quale una cosa viene inserita nell’atto.

E, si comprende, sanzionare una modalità attribuisce al giudice un potere discrezionale forte, poiché di ogni atto può dirsi che un come manca di un qualche cosa, o presenta carenze, o andava sviluppato in altro modo, ecc………

                                                                                                                         

5 V. per tutti infatti CARNELUTTI, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1942, I, 296; e poi FURNO, Nullità e rinnovazione degli atti processuali, in Studi in onore di E. Redenti, Milano, 1951, I, 405 e ss.; e ORIANI, Nullità degli atti processuali, voce dell’Enc. giur, Treccani, Roma, 1990, XXI.

6 E’ quanto anche si evince dalle pronunce già esistenti sul nuovo art. 342 c.p.c. v. ancora la Corte App. Roma, 15-19 gennaio 2013 n. 377; e Corte App. Salerno, 1 febbraio 2013 n. 139, inedita.

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Questo è quello, pertanto, che ha il legislatore in primo luogo ha fatto: ha attribuito al giudice ogni più ampio potere di dichiarare l’inammissibilità di ogni atto di appello senza criteri oggetti e predeterminati ai quali una parte possa far affidamento.

Si tratta di un fatto grave, che non può esser sottaciuto.

3. La critica principale che investe il nuovo art. 342 c.p.c., però, non è questa.

Ammesso e non concesso che si possa sanzionare l’assenza di una modalità, detta carenza andava però allora sanzionata con la nullità dell’atto, così come si sanzionano, ai sensi degli artt. 156 e ss. c.p.c., tutte le inosservanze di forme di un atto processuale.

La domanda allora è la seguente: perché la carenza di motivazione dell’atto di appello è sanzionata dal nuovo art. 342 c.p.c. dalla inammissibilità e non dalla nullità se i presunti vizi di cui al nuovo art. 342 c.p.c. sono riconducibili alla forma-contenuto dell’atto?

Ovvero perché, contro ogni regola, un aspetto intrinseco e formale quale quello del nuovo art. 342 c.p.c. è stato reso invece circostanza di inammissibilità come fosse un aspetto estrinseco ed extraformale?7

La risposta è semplice: perché se si seguivano le regole, e il legislatore prescriveva i punti 1 e 2 del nuovo art. 342 c.p.c. a pena di nullità, questo avrebbe consentito all’atto viziato di potersi sanare per il raggiungimento dello scopo ex art. 156, 3° comma c.p.c.; e questo era proprio quello che il legislatore non voleva.

Le parti, avverso l’eccezione di atto di appello non sufficientemente motivato, avrebbero potuto contro- eccepire che l’atto è comunque in grado di mettere il giudice in condizioni di decidere e la controparte in condizioni di difendersi, e quindi è valido ed efficace per il raggiungimento dello scopo.

E si sarebbe potuto sostenere che, al di là della stesura formale dell’atto, se tu giudice hai capito cosa la parte vuole, e sei in grado di decidere nel merito, non ci sono ragioni per chiudere l’impugnazione con un provvedimento di rito, ma sussiste al contrario il dovere, nell’interesse della giustizia, di decidere il gravame nel merito.

Il legislatore, però, non ha voluto proprio questo.

Il legislatore non ha voluto che le parti potessero chiedere giustizia quando questa giustizia poteva essere data; ha voluto al contrario solo introdurre una sanzione, qual è quella dell’inammissibilità, anche in ipotesi in cui non v’è niente da sanzionare.

Per raggiungere questo obiettivo il legislatore, come detto, ha dilatato la forma-contenuto degli atti estendendola dal cosa al come, e successivamente ha sostituito a detto presunto difetto la conseguenza                                                                                                                          

7 Non possono, evidentemente, essere trattate in questa sede le differenze tra nullità e inammissibilità, ma appare evidente che mentre il fenomeno della nullità attiene agli aspetti formali ed intrinseci degli atti processuali, e si ha quando si realizza

“una divergenza dell’atto dal modello legale” (così ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 543), l’inammissibilità, al contrario, non è un fenomeno che attiene alla forma-contenuto degli atti, ma anzi, tutto al contrario, ha ad oggetto aspetti extraformali e sempre estrinseci rispetto all’atto(v. PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, ), che normalmente hanno in sé la “loro permanente inidoneità al raggiungimento dello scopo” (così REDENTI, Atti processuali civili, voce dell’Enc. del diritto, Milano, 1959, IV, 125).

Ed infatti, ancora ANDRIOLI, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, 823, ci ricorda che “Tra l’inammissibilità e l’improcedibilità s’inserisce la nullità dell’atto di appello, la quale, a differenza delle due altre sanzioni, riguarda elementi intrinseci dell’appello. Se si vuole già VELLANI (Id., Appello, voce dell’Enc. del diritto, Milano, 1958, II, 741), in un vecchio scritto, elencava le ipotesi di appello inammissibile, scrivendo: “L’appello è inammissibile quando sia proposto contro un provvedimento inappellabile, ovvero quando sia proposto da una parte che non sia legittimata o non abbia interesse ad appellare. E’ inammissibile anche l’appello proposto dopo la scadenza del termine per appellare o quando si sia fatta acquiescenza alla sentenza”.

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della nullità, sua naturale, con quella più grave, e legittimata da circostanze diverse, della inammissibilità.

4. Si dirà: ma la giurisprudenza, seppur dopo forti contrasti, non era già arrivata a ritenere inammissibile l’appello senza i motivi specifici di cui al vecchio testo dell’art. 342 c.p.c.?

Di cosa dobbiamo allora scandalizzarsi se già in precedenza una carenza di forma-contenuto era considerata dalla giurisprudenza una causa di inammissibilità dell’impugnazione?

Si tratta di osservazione legittima, ma non in grado di scalfire quanto qui sostenuto.

Il vecchio art. 342 c.p.c. si limitava infatti a recitare che l’appello doveva contenere “l’esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell’impugnazione”: da notare che l’esposizione dei fatti poteva essere anche solo sommaria, e che la legge non traeva conseguenze per l’atto di appello senza motivi specifici di impugnazione.

La dottrina, muovendo dal principio dell’effetto devolutivo dell’appello, riteneva pressoché irrilevante la presenza o meno nell’atto di appello dei motivi di impugnazione8, mentre la giurisprudenza, soprattutto dopo la riforma del ’90, che aveva segnato il passaggio da un sistema di appello aperto ad altro chiuso con la nota riforma dell’art. 345 c.p.c., si interrogava sulle conseguenze che avrebbe dovuto avere un atto di appello senza i motivi specifici richiesti dall’art. 342 c.p.c.

E così, mentre parte della giurisprudenza riteneva che la conseguenza dovesse essere quella della nullità9, altra riteneva dovesse essere quella della inammissibilità10.

Il contrasto fu risolto dalla nota sentenza delle sezioni unite del 200011, cui poi le successive si sono adagiate.

In quella pronuncia fu detto che l’atto di appello carente dei motivi specifici di impugnazione è atto nullo, e tuttavia tale nullità deve comportare la pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione12. Sotto quest’ultimo profilo le sezioni unite osservavano che l’appello carente dei motivi non poteva sanarsi ex art. 164 c.p.c. con la costituzione in giudizio dell’appellato, poiché se la costituzione dell’appellato era idonea a raggiungere lo scopo della costituzione del rapporto giuridico processuale, era parimenti inidonea ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, “che si consegue solo con il comportamento dell’appellante conforme alle previsioni di cui all’art. 342 c.p.c.”.

                                                                                                                         

8 V. per tutti ATTARDI, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, Giur. It., 1961, IV, 160; CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, 590. Ampiamente v. anche RASCIO, L’oggetto dell’appello civile, Napoli, 1996, 220 e ss.

9 V. ad esempio Cass., sez. un. 6 giugno 1987 n. 4991, Foro it., 1987, I, 3037, con nota di BALENA, Le sezioni unite intervengono sulla specificità dei motivi di appello, e in Giur. It., 1988, I, 1, 1819, con nota di MONTELEONE, La funzione dei motivi ed i limiti dell’effetto devolutivo nell’appello civile secondo le sezioni unite della Corte di cassazione; più recentemente Cass. 27 febbraio 1998 n. 2149, Foro it., Rep. 1998, voce Appello civile, n. 74, e Cass. 15 gennaio 1997 n.

355, id., 1997, voce cit., n. 90.

10 V. Cass. 21 aprile 1994 n. 3809, Foro it., Rep. 1994, voce Appello civile n. 56, e Cass. 2 febbraio 1995 n. 2012, id., Rep.

1995, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 224.

11 V. Cass., sez. un. 29 gennaio 2000 n. 16, Foro it., 2000, I, 1606, con nota di BALENA, Nuova pronuncia delle sezioni unite sulla specificità dei motivi di appello: punti fermi e dubbi residui, e di BARONE, Omessa specificazione dei motivi e inammissibilità dell’appello: intervento chiarificatore delle sezioni unite, e in Riv. dir. proc., 2000, 511, con nota di SASSANI, Le sezioni unite della cassazione e l’inammissibilità dell’atto di appello carente di motivi specifici.

12 Si legge in Cass., sez. un. 29 gennaio 2000 n. 16: “Concludendo, si deve quindi ritenere che, attesa l’inapplicabilità all’atto di citazione di appello dell’art. 164 c.p.c., incompatibile con il disposto dell’art. 359c.p.c., l’inosservanza dell’onere di specificazione dei motivi, imposto dall’art. 342 c.p.c., integra una nullità che determina l’inammissibilità dell’impugnazione”.

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Ma quand’è che, in quel contesto, l’atto di appello poteva considerarsi nullo e destinato a provocare una pronuncia di inammissibilità dell’impugnazione?

Solo quando, statuivano le sezioni unite, le difformità dell’atto di appello dal modello disegnato dall’art. 342 c.p.c. “non consentono al giudice di accedere all’esame, nel merito, della revisio prioris instantiae richiesta” e “qualora questi vizi non possano venire meno ne’ attraverso la cooperazione dell’appellato ne’ attraverso il comportamento dell’appellante”13.

Da altra parte della medesima sentenza le sezioni unite infatti scrivevano: “Dalla rilevata qualificazione del vizio di cui all’art. 342 c.p.c. come nullità discende che allo stesso debbano applicarsi i principi generali in argomento ed enunciati nei commi 2 e 3 dell’art. 156 c.p.c., secondo cui la nullità, anche se non espressamente comminata dalla legge, può essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo, ma non anche quando l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato”14.

Quanto, pertanto, il nuovo art. 342 c.p.c. si distanzi dal tracciato che le sezioni unite avevano dato sul vecchio testo di legge, o quanto questo precedente dibattito giurisprudenziale sia irrilevante ai fini della grave, e per certi versi perversa, riforma che è stata fatta dell’art. 342 c.p.c., appare evidente:

a) in primo luogo nel vecchio sistema l’atto era nullo se mancava dei motivi, mentre oggi è inammissibile se manca di qualcosa che con esattezza non è dato capire.

Che possa considerarsi nullo un atto d’appello privo dei motivi dell’impugnazione è cosa che ha un senso; che possa invece esser inammissibile un appello che motivi in un certo modo piuttosto che in altro è cosa difficilmente accettabile.

E torna qui la distinzione tra cosa un atto deve contenere rispetto all’altra di come un atto deve essere scritto. Nel vecchio sistema si sanzionava qualcosa che non c’era; nel nuovo si vuol arrivare a sanzionare anche qualcosa che c’è, se il modo nel quale c’è non appare idoneo, o sufficiente, o chiaro, o razionalizzato rispetto all’intero contesto dell’atto, ecc……..

b) Soprattutto, nel vecchio sistema l’inammissibilità seguiva un giudizio di nullità dell’atto, e l’atto era nullo quando non in grado di indicare al giudice le ragioni dell’impugnazione (causa petendi) e le modifiche richieste (petitum). E dunque, nel vecchio sistema, trovavano spazio i comma 2 e 3 dell’art.

156 c.p.c., o comunque il giudice era tenuto a dare un giudizio sostanziale della situazione, verificando se era in grado o meno di provvedere nel merito.

Nel nuovo sistema, al contrario, tutto questo non esiste più, perché l’inammissibilità non passa attraverso un giudizio di nullità, e il giudice dell’appello non è più tenuto a chiedersi se è o meno in grado di provvedere nel merito e/o se ha capito o meno cosa l’appellante vuole e per quali ragioni. Nel nuovo sistema basta un giudizio meramente formale, legato solo alle modalità estrinseche dell’atto: se manca un “qualcosa” che nemmeno con precisione si riesce a predeterminare, l’atto di appello è inammissibile, a prescindere da una sua valutazione di nullità, e il giudice chiude in rito il processo, anche nelle ipotesi in cui sarebbe stato in grado di provvedere nel merito.

Il passaggio, pertanto, dal richiedere qualcosa di concreto o oggettivo (come i motivi di impugnazione) a qualcosa di incerto (come le modalità di stesura dell’atto di impugnazione con conseguente attribuzione al giudice di un potere discrezionale ampissimo) e il passaggio da un previo giudizio di nullità dell’atto per poter giungere alla pronuncia di inammissibilità (nullità che si aveva solo quando non era dato comprendere, anche ai sensi dell’art. 156 c.p.c., le ragioni dell’impugnazione e le parti impugnate) ad uno meramente formale di inammissibilità, pongano quel salto, quel passaggio, da un                                                                                                                          

13 V. di nuovo Cass., sez. un. 29 gennaio 2000 n. 16.

14 Così ancora espressamente Cass., sez. un. 29 gennaio 2000 n. 16.

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sistema processuale ancor accettabile (ancorché, se si vuole criticabile in alcuni momenti) ad altro non più tollerabile.

5. Addirittura, a mio parere, il passaggio sopra illustrato è incostituzionale ai sensi degli artt. 3, 24 e 111 Cost.

Ed infatti, l’inammissibilità non può essere usata per ipotesi che, tutto al più, sono di nullità, e non può essere usata in luogo della nullità se la ragione del suo utilizzo è proprio quella di impedire al processo l’utilizzazione del principio di sanatoria dovuta al raggiungimento dello scopo.

Le ipotesi di inammissibilità sono normalmente quelle estrinseche ed extraformali; al contrario, tutto quello che attiene alle forme degli atti, ovvero tutto ciò che è intrinseco e formale, non può esser sottratto al regime dell’art. 156, 3° comma c.p.c., perché una simile sottrazione contrae il diritto all’azione, e snatura la funzione del processo, che è quella, quando è possibile, di rendere un provvedimento di merito, ovvero di decidere sulla fondatezza o meno dei diritti che i cittadini portano all’attenzione dell’autorità giudiziaria.

E’ scorretto attribuire a fatti di nullità la sanzione di inammissibilità per consentire al giudice la chiusura in rito del processo anche in ipotesi nelle quali il giudice, avendo ben compreso l’oggetto del giudizio, potrebbe e sarebbe in grado di provvedere nel merito.

Ancor più scorretto è prevedere l’inammissibilità di fronte a fatti addirittura inidonei anche solo alla più lieve sanzione di nullità, se solo ancora, e di nuovo, si riflette sul fatto che le condizioni di cui al nuovo art. 342 c.p.c. non attengono nemmeno alla forma-contenuto dell’atto, ma solo alle modalità con le quali detta forma-contenuto deve realizzarsi.

In sostanza, rendere incerto il contenuto sufficiente ai fini della validità dell’atto di appello passando dal cosa al come e sanzionare detta invalidità anziché con la nullità con l’inammissibilità, al preciso fine di impedire ogni possibile sanatoria del presunto atto nullo, e quindi anteporre ogni sostanziale ragione di giustizia a cavilli formali di incerta portare interamente rimessi alla discrezionalità del giudice, è un modo così scorretto e subdolo, direi financo inedito, di legiferare, che non può non comportare l’incostituzionalità della norma per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.

Perché, par evidente, un processo che si fonda su queste tecniche, non può dirsi giusto (art. 111 Cost.), rompe il trattamento paritario di tutti i cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.), e limita senza sufficienti giustificazioni e in modo del tutto arbitrario il diritto di ognuno di accedere al giudice per la tutela dei propri diritti soggettivi (art. 24 Cost.).

Siamo, nella sostanza, in presenza di una norma trabocchetto, e le norme trabocchetto non devono avere ingresso nel nostro ordinamento.

 

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