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Il predatore dell antico

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Academic year: 2022

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L’EREDITÀ DELL’ANTICO Passato e Presente

Comitato direttivo L. Braccesi, A. Giardina V. De Caprio, P. S. Salvatori

1. L. Braccesi, L’antichità aggredita (Memoria dell’antico e poesia del nazionalismo)

2. M. GuGlielminetti, Saul e Mirra

3. L. Braccesi, A. coppola, G. cresci marrone, C. Franco, L’Alessandro di Giustino (dagli an- tichi ai moderni)

4. L. Braccesi, poesia e memoria (seconde proie- zioni dell’antico)

5. M. caGnetta, La pace dei vinti con un saggio di Luigi Loreto

6. L. loreto, Guerra e libertà nella repubblica romana (John R. Seeley, e le radici intellettuali della Roman revolution di Ronald Syme) 7. F. coarelli, Belli e l’Antico (con 50 sonetti di

G.G. Belli)

8. A. olivieri, Erodoto nel Rinascimento. L’uma- no e la storia

9. L. Braccesi, L’Alessandra di Litcofrone

10. G. camassa, Atene. La costruzione della democrazia 11. L. Braccesi, Archeologia e Poesia 1861-1911.

Carducci, Pascoli, D’Annunzio

12. S. puGGioni (a cura di), Saffo nella tradizione poetica italiana dal Sei all’Ottocento

13. F. Favaro, Anacreonte, Leopardi e gli altri 14. L. Braccesi, Voci del passato. Schegge di poesia

da Erodoto a Pausania

15. S. puGGioni, Lettere di eroi e di eroine. Il codice ovidiano da Boccaccio all’Ottocento

16. L. Braccesi, Il predatore dell’antico. Incursioni dannunziane

LORENZO BRACCESI

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

Il predatore dell’antico

Incursioni dannunziane

«L’ERMA»L. Braccesi

IL PREDA TORE DELL ’ANTICO 16

In copertina:

Fotografia dell’artista fiorentino Mario Nunes Vais, dalla collezione di Franco Di Tizio (Francavilla).

Lorenzo Braccesi, storico dell’antichità e della tra- dizione classica; per “L’Erma” dirige o condirige numerose collane.

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BRACCESI - IL PREDATORE DELL’ANTICO ISBN 978-88-913-2005-6

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L’EREDITÀ DELL’ANTICO Passato e Presente

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comitato direttivo L. Braccesi, A. Giardina V. De Caprio, P. S. Salvatori

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LORENZO BRACCESI

Il predatore dell’antico

incursioni dannunziane

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

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Lorenzo Braccesi

Il predatore dell’antico incursioni dannunziane

© Copyright 2020 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione di testi e illustrazioni senza il permesso scritto dell’Editore

Sistemi di garanzia della qualità UNI EN ISO 9001:2015 Sistemi di gestione ambientale

ISO 14001:2015 Via Marianna Dionigi, 57

00193 Roma – Italia www.lerma.it

70 Enterprise Drive, Suite 2 Bristol, CT 06010 – USA lerma@isdistribution.com

Lorenzo Braccesi

Il predatore dell’antico. Escursioni dannnunziane / Lorenzo Braccesi. Roma «L’Erma» di Bretschneider, 2020. - 138 p. : 19 cm. (L’eredità dell’antico. Passato Presente ; 16) ISBN 978-88-913-2005-6 (Brossura)

ISBN 978-88-913-2007-0 (PDF) CDD 851.8

1. Poesia italiana - I. d’Annunzio, Gabriele

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Ricordino queste pagine tre amici torinesi:

Giorgio Bàrberi Squarotti Eugenio Corsini Marziano Guglielminetti

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SOMMARIO

Premessa . . . . Capitolo I

Memoria dell’antico e poesia del nazionalismo (da alalà a giovinezza) . . . . Capitolo II

Nel passato l’ideologia del presente (divagazioni sul libro di Elettra) . . . . Capitolo III

‘Te redimito’, il saluto al maestro (Carducci e D’Annunzio) . . . . Capitolo IV

Il Galileo di rosse chiome (da Manzoni a Carduc- ci, da D’Annunzio a Gozzano) . . . . Capitolo V

L’Adriatico, culla delle memorie e mare di guerra (per una voce di enciclopedia) . . . . Capitolo VI

Ormai solo fantasie erotiche (il Carmen votivum). . . Capitolo VII

L’altra faccia del vate (il ‘cerretano’ di Gozzano) . . . Note . . . . Indici . . . . Indice dei luoghi dannunziani . . . . Indice dei toponimi. . . .

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PREMESSA

D’Annunzio fu un inimitabile versificatore, e talora anche un grande poeta. Il nostro libro è sul versificato- re, ed è volto a riscoprire luoghi poco noti, soprattut- to delle Laudi, che rivelano come il suo connubio con

‘l’antico’ non sia solo un fatto esornativo ed epidermi- co, ma il più delle volte un espediente per indirizzare al presente messaggi di aggressiva riscossa. Rivolti all’at- tualità sociale di un’Italia in varia maniera frustrata, ma prossima a celebrare il cinquantenario della sua unità.

Il libro ripubblica cose già dette o già scritte, ma che, viste nel loro insieme, illuminandosi a vicenda, ci offrono un quadro sostanzialmente unitario delle forme di sfruttamento della memoria dell’antico da parte di D’Annunzio, dei suoi orientamenti ideolo- gici ed estetici, che ne determinano lo stile di vita, e - almeno in un caso - del suo senescente privato.

Siamo, con i primi libri delle Laudi, nel decennio che precede l’avventura libica, nel quindicennio che prelude alla grande guerra e nel ventennio che, dopo il sangue delle trincee, e dopo la conseguen- te crisi economica del paese, porta all’avvento del fascismo. Dei primi due eventi, nei secondi e più tardivi libri delle Laudi, sarà il cantore. Al terzo

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evento offrirà proprio dalla memoria dell’antico un supporto di parole di motti e di immagini che sarà declinato in forma grossolana e volgare, con stilemi dimentichi della loro prima radice, colta e raffinata.

La produzione delle Laudi, in effetti ‘inesausta’, si consuma per gran parte in forme versificatorie di oratoria patriottica e civile. Con l’eccezione di Alcyo- ne, e di qualche scheggia di Maia, è un produzione che ha il sopravvento sulla poesia e che riflette il tra- vaglio di una nazione ancora in cerca di sé stessa, ancora in movimento. Alla quale il poeta-vate offre in forma quasi salvifica il conforto della memoria del passato, sempre orgogliosamente evocato con affon- di sia innovativi sia riproposti attraverso il filtro car- ducciano e risorgimentale. Confidiamo che un tale processo di cattura dell’immaginario collettivo - che l’induce alla diretta predazione dell’antico, o alla sua indiretta rimanipolazione - traspaia con evidenza al lettore dai ‘materiali’ che ora offriamo alla sua lettu- ra, emendati e rivisitati, seppure non sempre affran- cati da inevitabili ripetizioni.

L. B.

Montegrotto Terme, marzo (della reclusione) 2020

L’autore ringrazia Serena Evelina Peruch per la correzione delle bozze e Cristina Rocchi per la stesura degli indici.

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Capitolo I

Memoria dell’antico e poesia del nazionalismo (da alalá a giovinezza)

1.

Scrive D’Annunzio nel 1903, in apertura di Maia, nella prima terzina dell’inno Alle Pleiadi e ai Fati1, concepito come proemiale a tutti i libri delle Laudi:

Gloria al latin che disse: “Navigare è necessario; non è necessario

vivere”. A lui sia gloria in tutto il Mare!

Dunque navigare necesse est, vivere non est ne- cesse; ovvero, come ci riferisce Plutarco2 che in gre- co suggerisce al D’Annunzio il detto latino: πλεῖν ἀνάγκη, ζῆν οὐκ ἀνάγκη. Ma cosa significa per il poeta navigare? Per lui, con molto realismo, e sen- za falsi pudori, navigare significa semplicemente combattere per mare; è il rombo del cannone ri-

1 Maia, Alle Pleiadi e ai Fati, 1-3.

2 Moralia, 204g.

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echeggiarne sulla distesa delle acque che, sempre in Maia, l’induce a questa sconcertante equipara- zione3:

L’odono i popoli forti:

cantando l’inno dei Padri spingon rivali nel flutto ruggente le navi di ferro;

ché necessario è navigare, vivere non è necessario.

Polèna a ogni prora novella è il cuore vermiglio dell’uomo innalzato sopra la Morte.

La voce, qui riudita da uomini forti, è quella del cannone; le navi di ferro sono moderne corazzate;

l’immagine preannunzia un combattimento per mare. Sprone all’azione è l’esempio emulativo dei padri: ovviamente, nell’ottica del poeta, i progeni- tori latini. La necessità di navigare ispira la volontà di combattere e vincere; ma, al contempo, la ne- cessità di combattere e vincere è determinata dalla volontà di navigare: cioè di imporre la sovranità su un mare, che è, romanamente, il mare nostrum.

Scrive ancora D’Annunzio nel 1901, due anni prima, all’alba del secolo, suggellando con una stro- fe profetica il Canto augurale per la nazione eletta4:

3 Maia, Il Bacchophoro, 285-294.

4 Elettra, Canto augurale per la nazione eletta, 64-71.

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Così veda tu un giorno il mare latino coprirsi di strage alla tua guerra

e per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti, o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi, aroma di tutta la terra,

Italia, Italia,

sacra alla nuova Aurora con l’aratro e la prora!

Nel Canto augurale per la nazione eletta, come in tutte le grandi odi civili raccolte nel libro di Elet- tra, dominano le note dell’auspicio e del riscatto.

Qui la celebrazione dell’aurora della patria si con- fonde con quella dell’alba del secolo, e con quel- la ancora dell’alba del regno del Re Giovine, sal- dandosi visceralmente all’istanza nazionalista del riscatto dall’onta delle sconfitte coloniali. Le quali devono essere cancellate dalla memoria collettiva con imprese degne dei progenitori latini, e innanzi- tutto con imprese eroiche che ridonino alla peniso- la l’antico suo posto al sole in terra d’oltremare. È - per citare un’altra ode di Elettra - il clima glorioso dei Canti della ricordanza e dell’aspettazione, che, respinta la memoria ingloriosa di Dogali e Adua, e addirittura di Lissa, che, fugate le nubi torbide del regicidio, contraddistingue per il poeta le aspettati- ve del nuovo secolo e con esse, morto Garibaldi, le attese di un nuovo eroe5:

5 Elettra, ibid., 25-28.

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È figlia al silenzio la più bella sorte.

Verrà dal silenzio, vincendo la morte, l’Eroe necessario. Tu veglia alle porte, ricordati e aspetta.

Clima di ansia e di vigilia che, scorrendo il can- zoniere di D’Annunzio, è a sua volta contraddistin- to da due ossessive parole d’ordine: guerra latina e mare latino. La memoria romana non è ancora svilita a propagandare le nefandezze di una guerra aggressiva, né è dissociata dalla consueta dimensio- ne aulica e luminosa, ma già è segnata la via per ogni sua degenerazione futura.

Basta aspettare dieci anni. Nel 1911 D’Annun- zio si riappropria del suo vaticinio, e trascrive la medesima strofe profetica del Canto augurale per la nazione eletta in epigrafe al libro di Merope; di fatto ripubblicandola come manifesto programma- tico per un volume poetico che è di propaganda e di guerra.

2.

Siamo nell’anno della guerra di Libia, che signifi- cativamente - fatidicamente ? - coincide anche con quello della celebrazione del cinquantenario dell’u- nità d’Italia. I due eventi segnano insieme un ‘revi- val’ molto confuso dei temi più appariscenti connes- si alla riappropriazione della memoria dell’antico in funzione dell’ideologia del nazionalismo; temi forse anche di remota matrice tardo-risorgimentale, ma

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per lo più di arrogante appannaggio dell’Italietta post-umbertina. In particolare, al primo evento, alla guerra di Libia, D’Annunzio, seppure emigrato in Francia, offre il suo appassionato contributo ver- sificatorio dalle colonne del Corriere della sera, che, seppure di ispirazione moderata, sono tutte con- centrate a propagandare la necessità dell’avventura coloniale, e con essa a offrire sostegno ideologico al governo Giolitti e alle sue scelte di politica estera.

Nasce così il libro quarto delle Laudi dannun- ziane, quello di Merope, che raccoglie le Canzoni delle gesta d’oltremare, edite sul quotidiano milane- se tra il 1911 e il 1912. Il libro si apre con la Canzone d’oltremare, che suggerisce il sottotitolo dell’intero canzoniere, rivelandosi senza dubbio per il nostro assunto la composizione decisamente più parlante:

sia per la sua ossessiva evocazione della memoria latina, sia per la sua datazione - 8 ottobre del 1911 - anteriore di poco più di un mese all’entrata in guer- ra dell’Italia per la riconquista della quarta sponda.

Il poeta, per propagandare la guerra coloniale, abbandona il verso sciolto di Maia, delle liriche più belle di Alcyone e delle odi maggiori di Elettra, per riappropriarsi della terzina dantesca dell’inno Alle Pleiadi e ai Fati, che ora svilisce a strofetta goliar- dica. Le movenze, tra i due componimenti in ter- zine, sono identiche, come identico è l’ingombro erudito o il preziosismo di un involucro del tutto privo di contenuto, ma nella Canzone d’oltremare predomina una nota di rapacità prima sconosciuta

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con totale esteriorizzazione di sentimenti aggressi- vi. Alla parola del passato ora non è riservato al- tro spazio se non quello di una brutalizzazione, di marca decisamente prefascista, dei messaggi o dei segnali, del tutto stereotipi, evocati dalla consueta dimensione aulica della romanità. Ma per noi pro- prio questa brutalizzazione è tanto più significativa per testimoniarci l’estremo approdo, più squallido, ma anche più massificato, del deleterio connubio tra memoria dell’antico e poesia del nazionalismo.

Un luogo della Canzone d’oltremare vale l’altro per esemplificarne i contenuti. Una presunta sta- tua della Vittoria è evocata in apertura del carme;

quella di Ostia dissepolta l’anno innanzi nei pressi di Porta Marina. È una Nike ritratta senza ali, ma questa sua peculiare connotazione iconografica vie- ne subito piegata a simboleggiare il tema della vit- toria mutila per un’Italia ancora priva delle provin- ce giulie e trentine e ancora priva, soprattutto, della sua quarta sponda. Per la dea ritornante è però scoccata l’ora fatale ed ella si appresta finalmente a predare in terra d’oltremare, emula dei fasti di Duilio, e quindi anelante a riaffermare sul mare no- strum il dominio rapace dell’aquila romana6:

I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi, o Vittoria senz’ali. È giunta l’ora.

6 Merope, La canzone d’oltremare, 1-15.

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Tu sorridi alla terra che tu predi.

[… ]

Odo nel grido della procellaria L’aquila marzia, e fiuto il Mare Nostro nel vento della landa solitaria.

Con tutte le tue prue navigo a ostro, sognando la colonna di Duilio che rostrata farai di un nuovo rostro.

Il poeta, esule per debiti, è ad Arcachon, nella landa solitaria, ma qui ode, portato dalla tempesta, il grido dell’aquila marzia, da qui fiuta nel vento l’odore della guerra latina. E questa estasi uditiva e olfattiva l’induce ad acclamare alla Vittoria non soltanto suonando sulla tromba virgiliana, ma ad- dirittura pizzicando le corde dell’arpa medicea per contrapporre la struggevole grazia del madrigale fiorentino alla passione amorosa, voluttuosa, del rombo del cannone7:

E nel cuore, oh potenza dell’esilio il nome tuo m’è giovine e selvaggio come nel grido delle navi di Ilio.

Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio, nella città del Fiore e del Leone quando ogni fiato era d’amor messaggio,

7 Merope, La canzone d’oltremare, 16-24.

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sì novo come questa tua stagione maravigliosa in cui per te si canta con la bocca rotonda del cannone.

Oggi la Vittoria, purificata e tornata a incorona- re le aquile delle legioni, deve librarsi sopra l’oblio dell’onta, restare cioè dimentica della disfatte co- loniali, sicché la memoria dei giorni ingloriosi, dei giorni “senz’alba”, si disperda d’incanto, tra il rullo del tamburo, innanzi a un’aurora rossa di sangue e di rifrangenza esotica8:

Oggi nova tu sei per ogni vena sopra l’oblìo dell’onta; e nelle Sirti ucciderai l’ultima tua sirena.

[…]

Giorni senz’alba, il rullo del tamburo, lo squillo della tromba, e questa sorte che turbina alle soglie del futuro, vi disperdono. Tuonano sì forte le volontà, che nella rossa aurora non s’ode il crollo delle cose morte.

Le aspettative del poeta non saranno deluse; la Vittoria stessa gli risponde, rassicurandolo del futu- ro. Ella anela a posarsi sulla quarta sponda, ricca di memorie latine; per ristorarsi presso il fons Rumiae, nell’oasi dove cresce l’olivo, o per onorare in Leptis

8 Merope, ibid., 28-50.

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Magna la memoria di Settimio Severo, che qui ebbe i natali e che, in Egitto, ad Alessandria, fu l’ultimo a inchinarsi innanzi alle spoglie mortali di Alessan- dro. Ovvero per divagare in molti altri siti ancora sempre accomunati da un’evocazione preziosa tra- mite reminiscenze classiche. Ella troppo ha vegliato tra i ruderi di Ostia, presso la foce del Tevere, su un limitare terribile per carico ossessivo di memorie storiche; ora vuole trasmigrare in Tripoli, sotto l’ar- co di Marco Aurelio, sgombro dalle barbarie arabe e ottomane, restituito al trionfo latino, e qui sogna- re, con Pindaro9, del mito della ninfa Cirene amata da un dio e quindi divenuta dea della fertilità10:

“Ch’io mi discalzi” dice la Vittoria, […]

“ch’io mi discalzi presso la fiumana di Rumia bella, dove il suo meandro nutre l’ulivo a Pallade romana.

Ch’io pieghi e chiuda un ramo d’oleandro in Lebda, nella cuna di colui

che suggellò la tomba d’Alessandro.

[…]

Troppo vegliai, avverso la minaccia del sonno e della febbre, in Ostia morta, volta al limo del Tevere la faccia, […].

9 Pitiche, 9, 1-75.

10 Maia, La canzone d’oltremare, 66-114.

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