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1.1 Vitamina D: metabolismo e fisiologia 1. Introduzione

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1. Introduzione

1.1 Vitamina D: metabolismo e fisiologia

1.1.1 Fonti di vitamina D

La vitamina D (o calciferolo) è un pro-ormone secosteroideo presente in natura in diverse forme, principalmente vitamina D2 (o ergocalciferolo) e

vitamina D3 (o colecalciferolo) [1]. Questi due composti differiscono solo

per la struttura di una catena laterale ed entrambi entrano a far parte del pool di vitamina D disponibile per la formazione dell’ormone attivo nell’organismo umano. La vitamina D2 è contenuta in vegetali e funghi,

viene introdotta con l’alimentazione, assorbita a livello intestinale e trasportata a livello epatico con chilomicroni e lipoproteine [2]. Anche la vitamina D3 può essere acquisita come tale attraverso la dieta, benché essa

sia presente in concentrazioni elevate solo in pochi alimenti, in particolare in pesci come lo sgombro, l’aringa e il merluzzo, oppure in cibi fortificati [3]. In generale, la dieta contribuisce solo per circa un 10% al pool di vitamina D dell’organismo. La maggior parte di vitamina D disponibile è infatti sintetizzata de novo a livello cutaneo in seguito ad irraggiamento solare. L’esposizione a raggi UVB della lunghezza d’onda di 280-315 nm determina la conversione del 7-deidro-colesterolo presente nel derma a

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pre-7 vitamina D3, che si trasforma nel suo isomero vitamina D3 [4–6]. Questa

viene poi trasportata al fegato attraverso il torrente circolatorio legata alla proteina legante la vitamina D (DBP, vitamin D binding protein). È interessante notare come la particolare doppia origine endogena ed esogena renda inesatto il termine di “vitamina”, solitamente riservato a composti che non possono essere sintetizzati dall’organismo [7].

1.1.2 Metabolismo della vitamina D

Indipendentemente dall’origine endogena o esogena, a livello epatico vitamina D2 e D3 vengono idrossilate dagli enzimi del sistema citocromo

CYP2R1[8]. Questa reazione determina la produzione di 25-idrossivitamina D (25-OH-D) ed è scarsamente regolata mediante feedback. Per questo motivo il livello ematico di 25-OH-D riflette il pool di vitamina D disponibile ed è quindi considerato un buon indicatore dello stato vitaminico [1]. La 25-OH-D viene poi trasportata dal sangue al rene, dove viene idrossilata nuovamente in posizione 1 dalle 1-alfa-idrossilasi per formare la 1,25-diidrossivitamina D (1,25-OH2-D o calcitriolo) [5].

Contrariamente alla reazione precedente, questa è strettamente regolata da numerosi fattori, primo fra tutti dalla disponibilità della stessa 1,25-OH2-D

a feedback negativo. Inoltre, questa reazione è regolata anche dai livelli di calcio e fosforo e da altri fattori che regolano il metabolismo di questi

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8 elettroliti, come l’ormone paratiroideo (PTH) e il fattore di crescita fibroblastico 23 (FGF23) [7].

Di recente acquisizione è la presenza di alfa-idrossilasi anche in siti extra-renali come il pancreas, il tessuto muscolare, la prostata, l’encefalo e la placenta, che permette l’attivazione locale della vitamina D e quindi una sua azione autocrina e paracrina a questo livello [4].

Un caso particolare di attivazione della 25-OH-D è quello che avviene a livello del feto durante la gravidanza. L’unica fonte di vitamina D per il feto è il sangue materno, ma solo la 25-OH-D riesce ad oltrepassare la placenta, a differenza della 1,25-OH2-D e del calciferolo [9]. La 25-OH-D

viene dunque attivata a livello fetale.

Concludendo, la 1,25-OH2-D viene infine inattivata da un altro enzima del

sistema citocromo P450, la 24-idrossilasi o CYP24, massimamente rappresentata a livello renale [10]. Anche la 25-OH-D può essere idrolizzato da questo enzima, che tuttavia mostra una maggiore affinità per il calcitriolo. Si forma così 24,25-OH2-D, metabolita inattivo che viene

ulteriormente catabolizzato e in seguito eliminato nella bile [4].

Il metabolismo della vitamina D e dei suoi metaboliti è riassunto in Figura 1.

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10 1.1.1 Meccanismo d’azione della 1,25-diidrossi-vitamina D

Figura 2. Diagramma del recettore della vitamina D (VDR). Zn = Zinco (dominio Zinc Finger); DNA binding = dominio di legame del DNA; NLS = Segnale di localizzazione nucleare; RxR binding = dominio di legame del Recettore X dei Retinoidi; Ligand binding = dominio di legame del ligando; AF3 = dominio di legame dei coattivatori [12]

La 1,25- OH2-D agisce legandosi al Recettore della Vitamina D (VDR), un

recettore localizzato a livello nucleare la cui struttura è rappresentata in Figura 2. In sintesi, la regione C-terminale del VDR costituisce il sito di legame della 1,25-OH2-D e di un altro recettore nucleare degli steroidi, il

Recettore X dei Retinoidi (RXR), con cui forma un eterodimero. Questa conformazione è necessaria per la localizzazione del VDR nel nucleo e quindi per il legame con il DNA, che avviene a livello di due domini Zinc-Finger della regione N-terminale del recettore. Il VDR infatti è capace di legarsi alle sequenza di DNA dette Elementi Responsivi alla vitamina D (VDRE) [12]. Considerate un “marchio” dell’azione vitaminica, i VDRE sono sequenze geniche la cui espressione viene quindi regolata dall’1,25-OH2-D e si traduce nelle azioni classiche scheletriche ma anche

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11 extrascheletriche [1], che verranno prese in considerazione nel dettaglio nella prossima sezione.

1.2 Vitamina D: azioni scheletriche ed extrascheletriche in età

pediatrica

1.2.1 Vitamina D e metabolismo calcio-fosforo

La vitamina D gioca un ruolo fondamentale nella regolazione del metabolismo del calcio e del fosforo. Classicamente sono infatti descritte tre azioni cardine della 1,25-OH2-D:

a) la facilitazione dell’assorbimento intestinale di calcio e fosforo;

b) la facilitazione del riassorbimento di calcio e fosforo dall’ultrafiltrato a livello renale;

c) l’attivazione dei pre-osteoclasti in osteoclasti attivi.

Inoltre la 1,25-OH2-D regola il PTH con feedback negativo [4, 13].

1.2.2 Azioni scheletriche in età pediatrica

La vitamina D è fondamentale per la salute dell’osso in età pediatrica. Infatti, il deficit grave di vitamina D (livelli 25-OH-D < 10 ng/ml) è alla base della condizione definita rachitismo carenziale, una patologia largamente diffusa in Europa fino agli inizi del ventesimo secolo [14] e oggi tornata ad essere un problema sanitario importante [15]. Il rachitismo è una patologia che, se non trattata precocemente, può portare a gravi

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12 deformità scheletriche, ritardi di crescita e di sviluppo motorio [16]. Vi sono tipiche alterazioni ossee come il craniotabe, il braccialetto o la caviglia rachitica, il ginocchio varo o valgo e il solco di Harrison a livello toracico [17]. Nella patogenesi del rachitismo sarebbero cruciali la carenza di calcio e fosforo, secondaria ai bassi livelli di 25-OH-D e quindi al ridotto assorbimento intestinale e riassorbimento renale di questi elettroliti, che porterebbe a un alterato ricambio di condrociti a livello della cartilagine di accrescimento dell’osso [18]. Questo sfocerebbe in una disorganizzazione e in una mancata ossificazione ma contemporaneamente in una espansione del piatto di crescita, responsabile delle deformità ossee [19].

Alla nascita, il quadro di rachitismo può manifestarsi in conseguenza di livelli di 25-OH-D materni molto bassi, insufficienti a garantire un apporto sufficiente al feto. Questa condizione è rara e si può manifestare con deformità ossee tipiche, diastasi delle suture craniche e anche convulsioni ipocalcemiche [20–22].

In secondo luogo, livelli di 25-OH-D più elevati di quelli associati al deficit clinicamente evidente ma pur sempre subottimali potrebbero compromettere l’adeguata acquisizione di massa ossea durante l’età evolutiva. Questa condizione meno eclatante dal punto di vista clinico rispetto al rachitismo sarebbe stata però associata al mancato raggiungimento del picco di massa ossea durante l’adolescenza ed alla facilitazione di fenomeni osteoporotici in età adulta [23]. Inoltre, il

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13 mancato accumulo minerale osseo porterebbe già durante l’infanzia ad una maggiore fragilità ossea, evidenziabile con un aumentato rischio di fratture [24]. A questo proposito, livelli adeguati di 25-OH-D sarebbero auspicabili per la salute dell’osso nei periodi di massima velocità di crescita, in particolare nella prima infanzia e nell’adolescenza. Secondo alcuni Autori, anche durante la gravidanza la vitamina D sarebbe indispensabile per l’acquisizione del contenuto minerale osseo, sia nel breve che nel lungo termine. Una serie di recenti studi ha infatti correlato bassi livelli materni di 25-OH-D con la presenza di alterazioni dei marker ossei fetali osservati allo studio ecografico prenatale [25, 26]. Tuttavia, è sugli effetti a lungo termine che il dibattito in letteratura si è maggiormente acceso: uno studio di Javaid e colleghi pubblicato nel 2006 sosteneva che lo stato vitaminico D materno alla nascita influenzasse l’acquisizione della massa ossea nel bambino fino ad avere degli effetti sul contenuto minerale osseo, misura della massa ossea, a 9 anni di vita [27]. Uno studio del 2013 pubblicato sulla stessa rivista ha però smentito questi risultati, sostenendo che non vi è nessuna associazione tra le due variabili, pur ribadendo come livelli ottimali di 25-OH-D siano un fattore fondamentale per la salute ossea [28].

1.2.3 Azioni extrascheletriche in età pediatrica

Negli ultimi anni sono state riconosciute alla vitamina D numerose funzioni fisiologiche, al di là di quelle classicamente descritte a livello osseo. A

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14 partire dalle prime osservazioni registrate negli anni ’80 sulla presenza di VDR in cellule di diversi tipi di tumori [29], ad oggi è stata scoperta la presenza di questo recettore in 37 diversi tipi di tessuti [4]. Si ritiene inoltre che più di 220 geni siano regolati dalla 1,25-OH2-D [30], e che anzi

addirittura lo 0.5 – 5% del genoma umano sia direttamente o indirettamente influenzato da questo ormone [31]. Questi dati rendono conto delle azioni multidistrettuali ascritte alla vitamina D. In generale, le più recenti acquisizioni indicano che la vitamina D giochi un ruolo a livello muscolare e del sistema immunitario e che a livello cellulare promuova la differenziazione e la proliferazione. La sua carenza sarebbe quindi implicata nell’insorgenza di patologie infettive, autoimmuni e tumorali. In età pediatrica sono di particolare interesse gli effetti della vitamina D a carico del sistema immune. Benché empiriche associazioni tra l’esposizione solare e l’assunzione di olio di fegato di merluzzo e miglioramento di quadri infettivi come quello della tubercolosi fossero state osservate da tempo [29], gli studi molecolari hanno recentemente confermato un ruolo per la vitamina D nell’immunomodulazione. Oltre all’espressione del VDR nelle cellule dell’immunità innata ed adattativa, appare rilevante la presenza a livello dei macrofagi e delle cellule dendritiche dell’enzima 1-alfa-idrossilasi, responsabile dell’idrossilazione ed attivazione della 25-OH-D [11]. Questo meccanismo autocrino di stimolazione ormonale delle cellule dell’immunità innata, raffigurato in

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15 Figura 3, indurrebbe l’aumento di produzione di catelicidina e altre proteine antibatteriche da parte degli stessi macrofagi e cellule dendritiche.

Figura 3. Effetti immunomodulatori della vitamina D. L’attivazione da parte di un agente infettivo di un recettore TLR (Toll Like Receptor) macrofagico determina l’aumento dell’espressione di recettore della vitamina D (VDR) e dell’1-alfa-idrossilasi. La 25-OH-D viene attivata localmente a dare 1,25-OH-D, che trasloca nel nucleo, aumentando l’espressione della catelicidina, e allo stesso tempo viene rilasciata nel circolo ematico per permettere la regolazione dell’attività dei linfociti T e B [11].

Inoltre, la 1,25-OH2-D così prodotta stimolerebbe la presentazione

dell’antigene da parte dei macrofagi ai linfociti T dell’immunità adattativa [32]. L’immunità adattativa viene invece in generale regolata in senso tollerogenico dalla vitamina D: le cellule dendritiche attivate dalla produzione autocrina di 1,25-OH2-D infatti attivano linfociti T regolatori ed inattivano linfociti della linea helper 1 (Th1). Infine, anche la produzione di immunoglobuline da parte dei linfociti B sarebbe ridotta dall’azione della vitamina D [4]. Queste osservazioni rendono conto delle recenti acquisizioni sul ruolo della carenza di vitamina D in età pediatrica nella patogenesi di malattie infettive, specialmente a carico delle vie

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16 respiratorie, e nella patogenesi di malattie autoimmuni, tra cui ad esempio il diabete mellito di tipo 1. Ai fini della presente tesi sono qui riassunte le attuali conoscenze riguardo il primo gruppo di patologie.

Ad oggi sono stati pubblicati numerosi studi osservazionali riguardanti il rapporto tra livelli sierici di 25-OH-D in età pediatrica e l’incidenza di episodi infettivi delle vie respiratorie. In generale essi concludono che bassi livelli di vitamina D nei bambini siano un fattore di rischio importante episodi infettivi acuto del tratto respiratorio [33]. Addirittura alcuni studi di associazione hanno trovato una correlazione tra gravità dell’episodio infettivo respiratorio e livelli di 25-OH-D: ad esempio, il recente studio di Inamo e colleghi indica una relazione tra deficienza severa di vitamina D (n = 28, livelli 25-OH-D < 15 ng/ml) e la necessità di ossigeno e ventilazione per episodi acuti di infezioni del tratto respiratorio inferiore [34]. Questi risultati sono stati confermati anche dai risultati di una recente casistica di bambini da un mese ad 8 anni di età con diagnosi di polmonite (n = 42) e bronchiolite (n = 30), ricoverati presso la Clinica Pediatrica di Pisa [dati non pubblicati]. Anche alcuni studi controllati randomizzati (RCTs, randomized controlled trials) hanno valutato l’effetto della supplementazione con vitamina D sull’incidenza degli episodi infettivi in età pediatrica. Ad esempio, lo studio di Urashima e colleghi ha valutato 334 bambini (età 6 – 15 anni) supplementati con 1200 IU/die oppure placebo (n = 167) per 4 mesi, concludendo che la supplementazione con

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17 vitamina D durante la stagione invernale riduce l’incidenza di influenza A [35]. Lo studio di Camargo e colleghi (n = 247, età media 10 anni) ha riscontrato che la supplementazione con 300 IU/die per 7 settimane dimezzava l’incidenza di episodi infettivi acuti delle vie respiratorie in 241 bambini rispetto al gruppo di bambini non in profilassi (n = 103) [36]. Alcuni trials sono stati indirizzati verso la prima infanzia, con risultati contrastanti. Un primo studio di Manaseki-Holland e colleghi su 453 bambini (età 1 – 36 mesi, 167 assegnati a ricevere placebo) con diagnosi di polmonite ha dimostrato che un singolo bolo di 100000 UI di vitamina D era efficace nel ridurre il rischio di un successivo episodio infettivo del tratto respiratorio inferiore nei successivi 90 giorni [37]. Un secondo studio degli stessi autori, arruolando 3046 bambini di età compresa tra 1 e 11 mesi ha però dimostrato che i bambini (n = 1524) che ricevevano supplementazione con vitamina D (bolo trimestrale 100000 UI) non presentavano un minor rischio di andare incontro ad un primo o isolato episodio di polmonite rispetto al gruppo di controllo (n = 1522), benché nei primi fosse effettivamente minore il rischio di un episodio successivo [38]. Anche uno studio di Kumar e colleghi su 2079 bambini di basso peso alla nascita (supplementazione con 1400 UI/settimana per 6 mesi, n = 1039 bambini; placebo, n = 1040) non ha riscontrato effetti della supplementazione con vitamina D sull’incidenza di polmonite.

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18 Per quanto riguarda le azioni extrascheletriche, il periodo perinatale costituisce un capitolo a parte per la sua peculiarità. Numerosi sono gli studi in letteratura che riguardano gli effetti della carenza di vitamina D sugli aspetti più prettamente ginecologici della gravidanza. La carenza di vitamina D sarebbe infatti stata correlata con un maggior rischio di insorgenza di preeclampsia [39, 40], diabete mellito gestazionale [41, 42] e aborto [43]. Anche la modalità del parto è stata messa in relazione con lo stato vitaminico D materno durante la gravidanza: molteplici studi osservazionali hanno individuato un aumentato rischio di parto cesareo per livelli di 25-OH-D nel range della deficienza (< 20 ng/ml) [44, 45]. Tuttavia, numerosi sono anche gli studi che riferiscono un effetto della carenza vitaminica D materna e quindi fetale su outcomes fetali, neonatali e anche a lungo termine. In particolare, la vitamina D sembrerebbe influenzare i parametri auxologici alla nascita: bassi livelli di 25-OH-D materni correlerebbero con un minore peso neonatale alla nascita. Il lavoro di Scholl e colleghi condotto su 2251 donne canadesi ha infatti dimostrato come donne che assumevano meno di 200 UI/die di vitamina D dessero luce a neonati di peso minore, rispetto a madri con intake vitaminico più alto nel terzo trimestre di gravidanza [46]. Anche lo studio di Leffelaar e colleghi ha riportato una correlazione tra carenza vitaminica materna e minor peso alla nascita. Addirittura, le donne con livelli di 25-OH-D inferiori a 12 ng/ml sono risultate doppiamente a rischio per la nascita di un

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19 figlio di basso peso per l’età gestazionale (SGA, small for gestational age) [47]. Secondo lo studio di Burris e colleghi condotto su 1300 donne, tale rischio sarebbe aumentato di quattro volte per livelli sierici di 25-OH-D inferiori a 10 ng/ml [48]. In secondo luogo, anche nel primo periodo della vita la vitamina D sembra giocare un ruolo nella regolazione del sistema immune. Per quanto riguarda effetti a breve termine sul sistema immune, secondo recenti studi osservazionali bassi livelli cordonali di 25-OH-D sarebbero associati ad un aumentato rischio di infezioni del tratto respiratorio nel primo anno di vita. Ad esempio, in uno studio di Belerbos e colleghi del 2011, bassi livelli cordonali di 25-OH-D (< 20 ng/ml) di 156 soggetti sono stati correlati ad un maggior rischio di infezioni delle vie respiratorie da Virus Respiratorio Sinciziale nel primo anno di vita [49]. Il gruppo di Camargo e colleghi ha confermato nello stesso anno che bassi livelli di 25-OH-D cordonali alla nascita correlavano con una maggiore incidenza di infezioni respiratorie nei primi tre mesi di vita, e che i soggetti con livelli inferiori a 10 ng/ml si trovavano doppiamente a rischio di tali episodi infettivi rispetto ai soggetti con livelli ≥ 30 ng/ml [50]. Anche uno studio del 2012 di Morales e colleghi ha trovato una correlazione tra stato vitaminico D materno in gravidanza ed incidenza di infezioni del bambino nel primo anno di vita [51]. Per quanto riguarda la regolazione del sistema immune a più lungo termine, i livelli di 25-OH-D alla nascita sono stati anche messi in relazione all’insorgenza di dermatite atopica, allergie e

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20 diabete mellito di tipo 1 nel bambino anche a distanza di anni [43, 52]. La trattazione di queste ultime associazioni esula dagli scopi della presente tesi.

1.2.4 Uno sguardo in prospettiva

L’entusiasmo scaturito dalle recenti acquisizioni sul ruolo extra-osseo della vitamina D ha portato negli ultimi anni ad un notevole incremento delle pubblicazioni a questo proposito e, sul versante clinico, ad un aumento delle analisi di laboratorio per lo screening o la diagnosi di deficienza vitaminica D [53] e ad un aumento vertiginoso delle vendite di prodotti a base di vitamina D [54]. Tuttavia, appare opportuno sottolineare come in letteratura vi siano dati ancora contrastanti riguardo l’associazione tra livelli di 25-OH-D ed outcomes extrascheletrici, anche per quanto riguarda le infezioni delle vie respiratorie [55]. Inoltre, la maggior parte dei lavori ad oggi disponibili sulle funzioni extra-scheletriche della vitamina D sono studi di tipo osservazionale. Questo tipo di lavori offre quindi solo un nesso associativo tra livelli di 25-OH-D ed outcomes extrascheletrici, senza assicurare un legame di tipo causa-effetto tra le variabili. Questo può essere ottenuto solamente con studi di tipo randomizzato controllato, che sono ad oggi ancora in numero limitato [56], come ribadito anche dalle più recenti metanalisi ad oggi disponibili in età pediatrica sul ruolo della vitamina D nelle infezioni respiratorie [57] e nel periodo perinatale [58, 59]. Molti

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21 Autori invitano quindi alla cautela e all’attesa di risultati più consistenti ottenuti dal confronto di studi randomizzati controllati [60] effettuati secondo regimi di supplementazione standardizzati [33].

1.3 Stato vitaminico D: definizione

La definizione dello stato vitaminico D ottimale è un argomento ampiamente dibattuto in letteratura. La maggior parte degli studi a questo proposito riguarda soggetti di età adulta e non concorda su un cutoff univoco. Le raccomandazioni internazionali a questo proposito sono quindi contraddittorie: secondo l’Institute Of Medicine (IOM), il valore soglia per la definizione di stato vitaminico sufficiente dovrebbe essere un livello di 25-OH-D di 20 ng/ml [1], a differenza di quanto sostenuto dall’Endocrine Society, che propone un cutoff di 30 ng/ml, definendo l’intervallo 20-29 ng/ml come insufficiente [61]. In età pediatrica gli studi sono in numero più limitato e prendono in considerazione diversi indicatori di stato vitaminico per stimare la soglia di stato vitaminico ottimale, tra cui la presenza di rachitismo, l’assorbimento intestinale di Calcio, l’incidenza di fratture e i livelli di PTH. Benché non vi sia accordo in letteratura [62, 63], il livello di vitamina D al quale corrisponde un plateau dei valori di PTH costituirebbe secondo diversi autori un buon indice di sufficienza di vitamina D [64]. Questa mancanza di uniformità metodologica ha contribuito alla attuale mancanza di consenso in letteratura sui cut-off da utilizzare in età

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22 pediatrica per la valutazione dello stato vitaminico. Da un lato, la maggior parte delle Società Pediatriche internazionali propone l’utilizzo del valore 20 ng/ml come soglia di sufficienza vitaminica [65, 66], anche in considerazione delle ancora limitate certezze riguardo le azioni extrascheletriche della vitamina D e quindi della reale necessità di valori più alti di 25-OH-D. D’altra parte, numerosi Autori applicano in età pediatrica i cut-off indicati dall’Endocrine Society, dando quindi peso alle recenti acquisizioni sui potenziali benefici della vitamina D per la salute globale del bambino. E’ interessante tuttavia notare come secondo l’esperienza maturata presso la Clinica Pediatrica di Pisa, il cut-off di 20 ng/ml potrebbe in realtà non essere considerato sufficiente neanche per la salute ossea, in quanto sono stati registrati casi di iperparatiroidismo in bambini e adolescenti con livelli di 25-OH-D superiori a 20 ng/ml ma inferiori a 30 ng/ml [67]. Questi risultati sono in accordo con quanto dimostrato in precedenza da altri Autori [68] e giustificano l’utilizzo dei cutoff proposti dall’Endocrine Society (deficienza < 20 ng/ml, insufficienza 20 – 29 ng/ml, ipovitaminosi < 30 ng/ml, sufficienza ≥ 30 ng/ml) nella presente tesi. Inoltre, il valore di 10 ng/ml è utilizzato per definire la soglia della deficienza severa, in quanto livelli di 25-OH-D inferiore a questo potrebbero essere compatibili con quadri di rachitismo.

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1.4 Ipovitaminosi D: fattori di rischio e dati epidemiologici

1.4.1 Fattori di rischio di ipovitaminosi D nella prima infanzia e nel periodo perinatale

In linea generale, la trattazione dei fattori di rischio di ipovitaminosi D prevede la distinzione tra fattori fisiologici, relativi alla insufficiente o inefficace esposizione solare, e fattori patologici, ovvero situazioni patologiche che interferiscano con il metabolismo della vitamina D [11, 69]. Questi fattori di rischio accomunano l’età adulta e l’età pediatrica e sono riassunti in Tabella 1.

Esposizione solare insufficiente o inefficace

Fattori patologici  Latitudine

 Stagione

 Stile di vita (attività indoor)  Abitudini legate alla cultura

(abbigliamento, velo)

 Utilizzo di protezione solare  Etnia non caucasica

(pigmentazione cutanea)

 Insufficienza epatica

 Insufficienza renale cronica  Terapie croniche (antiepilettici, corticosteroidi)  Obesità  Malassorbimento (Malattie infiammatorie intestinali croniche)

Tabella 1. Fattori di rischio di ipovitaminosi D.

La latitudine e la stagione sono sicuramente fattori cruciali nel determinare l’attivazione della vitamina D a livello cutaneo da parte dei raggi solari [70]. Entrambe infatti determinano un maggiore o minore assorbimento dei raggi UVB da parte dell’ozono, seconda l’angolatura con cui questi raggiungono la Terra [71]. Uno studio condotto presso la Clinica Pediatrica

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24 di Pisa ha stimato che alla nostra latitudine (43°43’N) questa sia possibile solo nei mesi compresi tra maggio e settembre [72]. Durante questi mesi, sarebbe raccomandata un’esposizione solare ragionevole, ovvero che permetta l’attivazione e l’accumulo a livello del tessuto adiposo di vitamina D in quantità sufficiente anche per i periodi di inefficace attivazione cutanea, senza essere dannosa per la pelle. E’ stato calcolato che potrebbe essere adeguata a questo proposito l’esposizione di gambe e braccia per un lasso di tempo compreso tra 5 e 15 minuti (a seconda della stagione, latitudine e pigmentazione cutanea), nella fascia oraria tra le 10 e le 15, almeno due volte a settimana [11]. Anche l’utilizzo di creme con filtri di protezione solare impedisce l’efficace attivazione di vitamina D a livello cutaneo: poiché la protezione solare assorbe i raggi UVB, l’attivazione di vitamina D è ridotta del 92.5% per l’utilizzo di filtri solari con fattore 8 e del 99% per filtri con fattore 15 [11]. Infine, l’etnia è un determinante dello stato vitaminico in quanto la pigmentazione melaninica della pelle funge da “protezione solare naturale”. Soggetti con la pelle di fototipo più scuro richiedono una esposizione solare più prolungata per determinare l’attivazione della stessa quantità di vitamina D di un soggetto a fototipo chiaro [71].

Altri fattori che interferiscono con il metabolismo della vitamina D sono legati a patologie, come l’insufficienza epatica e quella renale, che impediscono le idrossilazioni dei pre-ormoni a 25-OH-D o 1,25-OH2-D.

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25 Anche le terapie croniche con farmaci che interferiscono con il funzionamento delle idrossilasi possono essere responsabili di ipovitaminosi. Un discorso a parte merita l’obesità: poiché la D è una vitamina liposolubile, essa si ridistribuisce nel soggetto con maggiore massa grassa a livello adiposo e quindi risulta in definitiva in concentrazione inferiore, rendendo i bambini obesi soggetti a rischio di ipovitaminosi D.

Nella prima infanzia tuttavia, a differenza delle età successive, i principali predittori dello stato vitaminico D sono la supplementazione vitaminica e la tipologia di allattamento. Alcuni studi hanno infatti rilevato che nei primi anni di vita i livelli di 25-OH-D sarebbero meno legati alla stagione o pigmentazione cutanea per via della scarsa esposizione solare a cui i bambini di questa età generalmente vanno incontro [73, 74], anche in ottemperanza alle raccomandazioni dell’American Academy of Pediatrics (AAP) [75]. L’evitamento del sole renderebbe quindi indispensabile l’apporto di vitamina D con la dieta. Si osserva però che il contenuto totale di vitamina D e 25-OH-D del latte materno è di soli 50 UI/L [76], mentre il latte in formula è artificialmente fortificato con 400 UI/L, secondo indicazioni delle direttive europee [77]. Per quanto riguarda il latte materno, per il bambino che assuma un litro di latte al giorno tale dose è pari ad un ottavo dell’apporto adeguato di vitamina D giornaliero. Il latte artificiale garantisce invece l’apporto raccomandato al bambino che ne

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26 assuma un litro al giorno, tuttavia, quando il lattante arriva ad assumere questa quantità di latte viene solitamente divezzato. Ne consegue che soprattutto il bambino allattato esclusivamente al seno e non supplementato con vitamina D sia a rischio di ipovitaminosi, ma anche il lattante che assume latte in formula potrebbe mostrare livelli subottimali di vitamina D se non adeguatamente supplementato. L’ aspetto della supplementazione è approfondito nella sezione seguente (1.5).

Infine, nel neonato il deficit di vitamina D è legato anche a fattori di rischio materni. Come già descritto, i livelli di 25-OH-D fetali dipendono interamente da quelli materni, e lo stato vitaminico nei primi giorni di vita continua a dipendere almeno in parte dalle scorte vitaminiche accumulate durante la gravidanza [78]. I fattori di rischio di ipovitaminosi D per la donna in gravidanza rientrano all’interno delle categorie esposte in Tabella 1.

1.4.2 Dati epidemiologici a livello mondiale, europeo e italiano

I dati epidemiologici più recenti riguardanti l’età pediatrica riportano una diffusa prevalenza di ipovitaminosi e deficit vitaminico a livello globale [79]. I risultati di alcuni dei principali studi diretti alla valutazione dello stato vitaminico nei primi anni di vita sono riassunti in Tabella 2.

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27 Paese n Età Mediana livelli 25-OH-D (ng/ml) < 20 ng/ml (%) 20-29 ng/ml (%) ≥ 30 ng/ml (%) Rif. Cadario et al. 2013 Italia 62 Campioni cordonali 21.4 ± 11 55.5 [80] Tre giorni 14.9 ± 9 75.6 Camargo et al. 2010 Nuova Zelanda 929 Campioni cordonali 17.6 (IQR = 11.6 -31.2) 57 27 [81] Gordon et

al. 2008 USA 380 8-24 mesi

Infants: 34.3 (7-72) Toddlers: 35.2 (7-96) 12 28 60 [74] Houghton et al. 2010 Nuova Zelanda 193 12-22 mesi 20.9 (5.8-67.1) 78 [82] Lander et

al. 2008 Mongolia 79 1-3 anni 9.8 [83]

Maguire et al. 2013 Canada 1898 1-5 anni 35 (4.86-35.66) 6 29 65 [73] Streym et al. 2013 Dani-marca 107 Campioni cordonali 17.32 61 [84] Strand et

al. 2009 Cina 250 12-24 mesi

Estate: 16.9 Inverno: 10.2 [85] Wall et al.2012 Nuova Zelanda 94 2-3 mesi 21.2 (IQR 5.6-40) [86] Zhu et al. 2012 Cina 2116 0-1.9 anni 39.5 ± 18.8 5.4 28.2 66.4 [87]

Tabella 2. Stato vitaminico D nella prima infanzia: dati recenti dalla letteratura internazionale. IQR = Interquartile range. Rif = riferimento bibliografico.

In generale, appare anche evidente la carenza di studi a livello europeo ed italiano di rilevanza internazionale volti alla valutazione specifica della prima infanzia. L’unico studio italiano a questo proposito è quello di Cadario e colleghi, che analizza lo stato vitaminico di 62 neonati, concentrandosi sul ruolo della supplementazione e dell’etnia [80]. Al

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28 contrario ad esempio il lavoro di Lippi [88] include bambini a partire da una settimana di età, analizzando però i dati della prima infanzia insieme a quelli di soggetti fino a 17 anni.

Anche i più recenti dati epidemiologici sulla prevalenza di ipovitaminosi e deficit vitaminico D nelle donne in gravidanza dimostrano una diffusa carenza vitaminica [89]. Alcuni dei più recenti lavori su casistiche di donne in gravidanza sono riportati in Tabella 3.

Paese n Momento del prelievo Livelli di 25-OH-D (mediana, ng/ml) < 20 ng/ml (%) 20-29 ng/ml (%) ≥ 30 ng/ml (%) Rif. Aly et al. 2013 Arabia Saudita 92 Fine terzo trimestre Madri con fattori di rischio: 16.6 Madri senza fattori di rischio: 23.28 64.2 [90] McAree et al. 2013 Regno Unito 346 36 45 18 [91] Streym et al. 2013 Danimarca 107 2 sett. post-partum 29.4 23 [84] Vande-vijvere et al. 2012 Belgio 1311 Primo trimestre 20.4 44.6 29.5 25.1 [92] Terzo trimestre 22.7 Weisse et al. 2013 Germania 378 34° sett. 22.19 [93]

Tabella 3. Stato vitaminico D di donne in gravidanza: dati recenti dalla letteratura internazionale. n = numerosità campione. Rif = riferimento bibliografico.

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1.5 Supplementazione

Alla luce dei dati epidemiologici sullo stato vitaminico a livello globale e della variabilità della sintesi endogena di vitamina D a seconda della latitudine e dell’esposizione solare individuale, rammentando la scarsa diffusione di vitamina D negli alimenti, le principali Società internazionali hanno cercato negli anni di individuare un apporto dietetico consigliabile di vitamina D, che potesse eventualmente essere raggiunto mediante supplementazione [1]. Tuttavia, alla stregua di quanto descritto per la scelta dei cut-off di sufficienza vitaminica, non vi è accordo in letteratura sul fabbisogno di vitamina D giornaliero. Le più recenti linee guida internazionali dell’IOM sostengono che l’introito adeguato (AI, adequate intake) per i bambini fino ad un anno di età sia 400 UI/die, mentre 600 UI/die sarebbe la razione giornaliera consigliata (RDA, recommended dietary allowance) per tutte le età successive, in condizioni di minima esposizione solare. Anche le donne in gravidanza dovrebbero assumere 600 IU/die [1]. Queste stesse indicazioni sono state adottate anche dall’American Academy of Pediatrics (AAP) [65] e riaffermate nei LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia) italiani [94]. La Endocrine Society viceversa propone dosaggi più elevati per le categorie a rischio di deficit vitaminico [61]. Alcuni Autori inoltre suggeriscono che queste indicazioni non siano adeguate a garantire livelli

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30 di vitamina D sufficienti per il raggiungimento di outcomes extrascheletrici [95]. Al momento attuale tuttavia questa indicazione non è secondo altri Autori adeguatamente supportata dai dati disponibili in letteratura, come controversa è secondo una recente metanalisi l’utilizzo della supplementazione per l’aumento della densità ossea in bambini con livelli di 15-OH-D sufficienti [66, 96]. In linea generale comunque è ormai accettata in letteratura l’utilizzo della supplementazione in età pediatrica, almeno per la prevenzione del rachitismo [66]. Diversi studi recenti infatti prendono in considerazione la prima infanzia, mettendo in luce la disparità di livelli sierici di 25-OH-D tra bambini che assumono supplementazione e bambini non supplementati. Ad esempio, il lavoro di Merewood e colleghi ha individuato un rischio di deficienza vitaminica (25-OH-D < 20 ng/ml) quasi 20 volte maggiore nel gruppo di lattanti di 4 mesi non supplementati, rispetto a quello dei lattanti supplementati [97]. Lo studio di Halicioglu e colleghi dimostra tuttavia come la dose di 400 UI/die non sia comunque sufficiente a raggiungere livelli di 25-OH-D sufficienti in 95 lattanti di 4 mesi allattati esclusivamente al seno [98]. Un altro punto dibattuto è la durata della supplementazione: mentre le raccomandazioni internazionali suggeriscono di iniziarla nei primi giorni di vita, non vi sono linee guida chiare sul termine, poiché andrebbe continuata in tutti i quei casi di inadeguatezza dei livelli di 25-OH-D, anche a seconda dei fattori di rischio locali ed individuali. Secondo l’ESPGHAN (Società Europea di Pediatria,

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31 Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione) sarebbe raccomandata almeno nella prima infanzia, anche se non vi sarebbero le basi né per suggerire né per ritenere controindicata la continuazione al di là di questo gruppo di età [66]. In effetti, la supplementazione continuativa è ragionevole almeno nei primi due anni, poiché in questo gruppo di età la velocità di crescita è alta e la prevalenza del rachitismo carenziale è massima [99]. Come anticipato nella sezione precedente (1.4.1), la tipologia di allattamento non dovrebbe influire sulla supplementazione del lattante [100].

Anche per quanto riguarda la supplementazione vitaminica D in gravidanza vi sono dei punti controversi e ampiamente dibattuti in letteratura. Come anticipato, la dose suggerita dalle principali raccomandazioni internazionali è 600 UI/die [1]. Questa dose è stata messa in discussione da diversi studi pubblicati negli ultimi anni, che hanno dimostrato come dosi di 2000 e 4000 UI/die siano sicure ed efficaci nell’ottenere livelli di 25-OH-D nelle madri al parto almeno superiori a 20 ng/ml [101, 102]. Altri due recenti studi randomizzati controllati hanno somministrato alte dosi di vitamina D a donne all’ultimo trimestre di gravidanza (n = 160; 50000 UI/settimana per 8 settimane e n = 160; 35000 UI/settimana per 3 mesi, rispettivamente), ottenendo livelli di 25-OH-D ≥ 30 ng/ml e ≥ 20 ng/ml nel 100% delle donne supplementare, rispettivamente [103, 104]. Anche lo scopo della supplementazione in gravidanza costituisce argomento di dibattito: due recenti metanalisi hanno evidenziato come ad oggi vi sia evidenza

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32 dimostrata che essa sia efficace nel determinare un aumento dei livelli di 25-OH-D materni al parto, e quindi possa costituire una profilassi del deficit vitaminico neonatale. Tuttavia, a parte la riduzione del rischio di basso peso alla nascita, sono disponibili risultati troppo limitati per concludere che la supplementazione vitaminica abbia un effetto su outcomes neonatali del bambino a distanza [58, 59].

Figura

Figura 1. Diagramma del metabolismo della vitamina D e dei suoi metaboliti. [11]
Figura 2. Diagramma del recettore della vitamina D (VDR). Zn = Zinco (dominio Zinc Finger); DNA binding
Figura  3.  Effetti  immunomodulatori  della  vitamina  D.  L’attivazione  da  parte  di  un  agente  infettivo  di  un  recettore  TLR  (Toll  Like  Receptor)  macrofagico  determina  l’aumento  dell’espressione  di  recettore  della  vitamina  D  (VDR)
Tabella 1. Fattori di rischio di ipovitaminosi D.
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