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CAPITOLO SECONDO Critica della poesia e della mentalità doxastica

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CAPITOLO SECONDO

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1. Un nuovo concetto di insegnamento?

Nella prima sezione di questa tesi ho cercato di individuare e analizzare quel significato profondo che un dialogo come il Fedro può contenere. Il risultato al quale sono giunta è che in questo dialogo lo scopo di Platone non sia quello di opporre, come si potrebbe ritenere a una prima e superficiale lettura, la scrittura e l’oralità in sé, bensì quello di separare e opporre in maniera netta due tipologie di sapere: un sapere vero, interno, dell’anima, ed un sapere illusorio, esterno e meccanico. Ora, la comunicazione orale si rivela la situazione più idonea per la trasmissione e l’acquisizione del sapere, inteso come qualcosa di vivo e di “scritto nell’anima”, ma questo vale solo in generale e ciò significa che non tutte le situazioni di oralità sono identiche tra loro e, quindi, capaci in se stesse di trasmettere un sapere vero. Un ragionamento analogo vale anche per la comunicazione scritta: quest’ultima, in se stessa, è caratterizzata da forti limitazioni, tali da impedirle di essere quello strumento privilegiato per la trasmissione e l’acquisizione del sapere, ma questo non implica che tutte le opere scritte debbano essere poste sullo stesso piano. Ciò che può veramente fare la differenza è la dialettica e dialettica può essere sia la struttura di un discorso scritto sia quella di un discorso orale.

Un’opera come il Fedro, benché soffra di tutte quelle limitazioni tipiche di un testo scritto, è comunque preferibile a un’opera come il discorso di Lisia, indipendentemente dal fatto che questo sia scritto o orale.

Possiamo pensare a Platone come ad un educatore il cui scopo, quindi, è quello di analizzare e mostrare quale sia la condizione migliore per l’apprendimento. Tale condizione è il dialogo orale tra il maestro e l’allievo, ma

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un dialogo dominato essenzialmente dalla dialettica in quanto non solo la struttura del dialogo deve rispettare i principi della dialettica, ma la conoscenza ivi trasmessa deve essere acquisita grazie a tali principi.

A questo punto, però, dobbiamo chiederci quale fosse il rapporto tra l’idea di insegnamento promossa da Platone e la realtà storica circostante. In altre parole: se, come afferma Kühn, il Fedro può essere considerato un esercizio di innovazione in materia di teoria di discorsi e, per la precisione, un esercizio finalizzato a mostrare l’esistenza di un altro tipo di discorso, quello istruttivo, allora, più in generale, possiamo ritenere che uno degli scopi primari di Platone fosse introdurre una nuova idea di insegnamento? E quale sarebbe, allora, quell’idea corrente di insegnamento e trasmissione del sapere alla quale Platone si oppone?

Per rispondere a queste domande è necessario un breve inquadramento storico.

1. Oralità e scrittura.

Dopo la distruzione dei palazzi micenei il mondo greco entra in un periodo generalmente conosciuto come Medioevo ellenico. Il termine, per la storiografia tradizionale, dovrebbe evocare un periodo caratterizzato da una sorta di involuzione, sia materiale che intellettuale, che separa lo splendore dell’Età micenea da quello della Grecia classica. Senza entrare nel merito della questione, è comunque necessario sottolineare che con la caduta dei palazzi micenei scompare anche quel sistema scrittorio oggi conosciuto come Lineare B: un sistema di scrittura greca, sillabica, usata da una ristretta classe di

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specialisti per tenere la contabilità dei vari palazzi. Il Medioevo ellenico dura circa 4 secoli, dal XII all’ VIII, e una delle caratteristiche di tale arco di tempo è proprio l’assenza di un qualsiasi sistema scrittorio. Non a caso, proprio per l’assenza della scrittura e, quindi, di una qualsiasi fonte scritta, tale epoca è anche denominata Età Oscura. “Lo scarso materiale rimasto”, spiega però Harvey Yunis, “mostra che dalla metà dell’ottavo secolo diverse versioni dell’alfabeto greco, con piccole variazioni locali, iniziano ad essere usate per scopi mondani, come dediche, epitaffi e graffiti su coppe e vasi. Questi caratteri erano stati adattati a rappresentare i suoni della lingua greca a partire dai caratteri di quella lingua semitica parlata e scritta dai Fenici (…) E’impossibile affermare quando e dove fu creato l’alfabeto greco. Forse a Cipro, dove i Greci e i Fenici vennero in contatto (…) Non è impossibile che l’alfabeto greco venne inventato durante l’Età Oscura ad usato su materiale deperibile.”1

A partire dall’ottavo secolo, quindi, o forse prima, nel mondo greco riappare la scrittura, ma il nuovo sistema scrittorio è diverso dal precedente, non più sillabico bensì fonetico. Inoltre non abbiamo più a che fare con una scrittura utilizzata essenzialmente da una ristretta cerchia di funzionari per motivazioni di carattere politico-economico, bensì una scrittura finalizzata anche e soprattutto per altri scopo e che, quindi, si presenta fin dall’inizio come una scrittura che può essere appresa ed utilizzata da un pubblico molto più vasto.

Ora, spesso si è ritenuto che la grande potenzialità di un tale sistema scrittorio fosse legata al fatto di essere un sistema fonetico anziché ideografico o sillabico; in un tale sistema esistono circa una ventina di simboli, ognuno dei quali corrispondente a un fonema, ovvero un suono, quindi il numero di simboli

1Introduction: Why Written Texts?, Harvey Yunis, p. 3, in Written Texts and the Rise of Literature Culture in Ancient Greece, edited by Harvey Yunis, Cambridge University Press, 2003.

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da memorizzare ed utilizzare è sicuramente inferiore a quello di un sistema basato sulle sillabe o su segni grafici rappresentanti un’idea o un oggetto. In altre parole, la grande potenzialità di diffusione della scrittura fonetica, o alfabetica, può essere legata proprio alla sua maggiore semplicità rispetto ad altre scritture, non a caso conosciute solo da una ristretta cerchia di funzionari, nobili o religiosi. Esempi di tali sistemi scrittori sono sicuramente il Lineare B e la scrittura geroglifica.

In ogni caso non è mia intenzione addentrarmi nelle motivazioni che hanno portato la scrittura alfabetica a diffondersi in maniera più o meno orizzontale tra la popolazione greca, ma ciò che mi preme sottolineare è che tale processo di diffusione sia stato, tutto sommato, piuttosto lento.

Non si deve credere, infatti, che a partire dalla seconda metà dell’ottavo secolo la scrittura si sia diffusa in maniera rapida e orizzontale in tutto il mondo greco; la diffusione e l’appropriazione da parte del vasto pubblico sono state lente e solo a partire dal III secolo possiamo affermare di avere a che fare con un livello di alfabetizzazione più o meno alto e con un pubblico di lettori.

Ora, tra il dodicesimo e l’ottavo secolo quella greca è una cultura essenzialmente orale; ma se la scrittura impiega circa cinque secoli per diffondersi, come dobbiamo classificare il periodo compreso tra l’ottavo e la fine del quarto secolo? Sicuramente può essere considerato come un momento chiave, in quanto momento di passaggio tra due tipologie molto diverse di cultura e di trasmissione del sapere.

Quella che la storiografia indica come Età classica del mondo greco corrispondente approssimativamente al V ed al IV secolo a.C, quindi rientra perfettamente all’interno di quel periodo di transizione sopracitato. Ma in tale

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periodo, del resto, si colloca anche l’attività di Platone che, vissuto tra il 428 ed il 347 a.C non solo è un pensatore ed un autore dell’Età classica, ma anche un testimone importante di quella fase finale del passaggio da una cultura orale ed una scritta. Ed è proprio in tale contesto che si colloca la critica di Platone all’educazione tradizionale.

Yunis sottolinea che “molti studiosi hanno considerato la transizione dall’oralità all’alfabetizzazione come la causa di quel particolare sviluppo culturale che investe la Grecia antica, come la scoperta della logica, lo sviluppo della legge e della democrazia, lo sviluppo della tirannide e l’invenzione del dramma. Eric Havelock ha proposto il più comprensibile e influente argomento a tal proposito. Per prima cosa, Havelock afferma che tra la fine del quinto secolo e gli inizi del quarto si verificò uno spostamento dalla cultura orale, ereditata, rappresentata da Omero e incentrata sulla memorizzazione, a una nuova cultura, letteraria, rappresentata da Platone e caratterizzata dal pensiero astratto. In seguito, Havelock afferma che in realtà tale cambiamento è iniziato quando i Greci hanno inventato il primo alfabeto fonetico, che non è solo un mero adattamento della scrittura fenicia, ma qualcosa di completamente nuovo. L’alfabeto greco, che rappresenta dei suoni astratti, promuove esso stesso il pensiero astratto di chi lo utilizza.”2

Considerare i decenni compresi tra la fine del quinto secolo e gli inizi del quarto come una sorta di cerniera tra un’epoca dominata e caratterizzata da una cultura orale ed un’epoca contraddistinta da una cultura letteraria è una delle idee centrali espresse da Eric Havelock nell’opera pubblicata nel 1963, Preface

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to Plato; l’ipotesi, invece, di poter collegare tale cambiamento alla comparsa dell’alfabeto fonetico è posteriore e la troviamo in un’opera pubblicata nel 1982, The Literate Revolution and Its Cultural Consequences.

Per la stesura dei prossimi capitoli mi sono basata prevalentemente sull’opera di Havelock del 1963, Preface to Plato, che è stata tradotta in italiano con il titolo Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone3. A mio parere, però, il titolo originale si adatta molto meglio non solo all’opera in sé, ma anche a quello scopo in base al quale mi sono dedicata alla lettura dell’opera: capire quel retroscena culturale capace di dare origine alla critica platonica dell’istruzione tradizionale.

2. La mentalità orale: caratteristiche e limiti.

Nel capitolo precedente ho soffermato la mia attenzione sul fatto che, nonostante l’apparizione della scrittura alfabetica sia collocabile intorno alla seconda metà dell’ottavo secolo, il passaggio da una cultura orale ad una cultura scritta avviene molto lentamente, tanto che nell’età classica tale passaggio non è ancora giunto a compimento.

La nostra analisi dovrà concentrasi proprio sulle caratteristiche di questo periodo di transizione, nel quale si colloca anche la vita e l’attività di Platone, ma ciò è impensabile senza qualche riferimento alla cultura orale. Parlare di cultura orale, però, significa entrare in quell’ambito particolare e così lontano da

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noi che è quello della mentalità orale e per entrare nel cuore della questione mi pare opportuno riportare un importante passo dell’opera di Havelock:

La “tradizione” richiede sempre di venire incorporata in qualche archetipo verbale. Essa esige una qualche formulazione linguistica, una dichiarazione operativa su vasta scala, che descriva e prescriva lo schema generale delle consuetudini pubbliche e private del pubblico. Questo schema fornisce al gruppo la sua connessione. Deve ottenere il valore di norma costante per consentire al gruppo di funzionare in quanto tale, e di fruire di ciò che chiameremmo una comune consapevolezza e un sistema collettivo di valori. Per ottenere e conservare il valore di norma costante, il modello deve raggiungere uno stato di conservazione che lo porga al riparo dal capriccio quotidiano degli uomini. E tale conservazione suole assumere forma linguistica; comprenderà esempi ricorrenti di procedure corrette, come pure definizioni approssimative di pratiche tecniche normative che sono eseguite dal gruppo in questione, ad esempio il metodo di costruire una casa o di governare una nave o di cuocere il cibo. Inoltre, noi pensiamo, questo enunciato o paradigma linguistico, che ci dice quel che siamo e in che modo comportarci, non viene elaborato per fortunata casualità, ma come enunciazione formulata per essere inculcata alle successive generazioni via via che crescono nell’ambito del sistema familiare o del clan. Esso fornisce il contenuto dell’apparato educativo del gruppo (…) In una società pre-letteraria, questa enunciazione come viene conservata? L’inevitabile risposta è: nella memoria di successive persone viventi (…) Ma la memoria vivente come può ritenere una enunciazione linguistica così complessa, senza far sì che si trasformi nel passaggio da uomo

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a uomo e da generazione a generazione, perdendo così ogni fissità e autorevolezza? La conservazione in prosa era impossibile. L’unica possibile tecnologia verbale disponibile per garantire la conservazione e la stabilità della tradizione era quella del discorso ritmico, organizzato sapientemente in moduli verbali e metrici tanto unici da conservare la loro forma. Questa è la genesi storica, fons et origo, la causa motrice di quel fenomeno che ancora oggi chiamiamo “poesia”4.

La poesia, quindi, è individuata da Havelock come quell’unica formulazione linguistica che, all’interno di una società priva di scrittura, può presentarsi come mezzo di conservazione e trasmissione di quell’insieme di norme che costituisce l’apparato conoscitivo ed educativo di un gruppo. Ma perché proprio la poesia? In assenza della possibilità di mettere le norme del gruppo per iscritto e in assenza della possibilità di consultare tali norme su un supporto materiale e durevole, l’unico modo affinché gli usi e i costumi del gruppo non vadano perduti è quello di ripeterli, ripeterli continuamente. In quest’ottica la poesia, con il suo andamento ritmico, si presenta come un validissimo aiuto per la memoria. In altre parole, se vogliamo conservare oralmente delle norme l’unica maniera per farlo è recitarle e trasmetterle in metro, ovvero in forma poetica.

La poesia, quindi, nell’età pre-letteraria più che avere una valenza estetica può essere pensata “come una vasta enciclopedia contenente nozioni e regole per la guida della vita civile e privata del singolo”5; e Omero, che possiamo

4 Havelock, op. cit., pp. 40 – 41. 5 Ivi, p. 35.

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considerare il punto culminante di tutta una lunga fase illetterata, “era il manuale educativo della Grecia per eccellenza.”6

“Per comodità”, spiega Havelock, “Omero può venir considerato come l’ultimo rappresentante della composizione puramente orale (…) E’ certo che tutti i poeti che gli succedettero composero le loro opere per iscritto. Ma è altrettanto certo che scrissero per la recitazione e per essere ascoltati (…) In breve, i successori di Omero partivano ancora dal presupposto che le loro opere sarebbero state ripetute e mandate a memoria: da questo dipendeva la loro fama e la loro speranza di immortalità.”7

Questo significa che dopo l’ottavo secolo, ovvero dopo l’invenzione della scrittura, quest’ultima era sì utilizzata dai poeti, tanto che Havelock suggerisce di poter parlare di “alfabetismo di corporazione”8, ma essenzialmente in vista

dell’oralità; il testo veniva redatto con l’aiuto della scrittura, ma affinché potesse ottenere quelle caratteristiche essenziali per essere non solo recitato dal poeta in persona davanti a un pubblico di ascoltatori, ma anche per poter essere imparato facilmente a memoria dagli ascoltatori stessi. E la motivazione è chiara: anche dopo l’ottavo secolo la mentalità greca rimane orale, quindi le norme comportamentali che reggono la comunità vengono ancora viste come qualcosa da tramandare oralmente, attraverso la memoria e la parola viva. La scrittura, quindi, viene utilizzata solo in funzione dell’oralità, come supporto per poter imparare a memoria le norme del gruppo.

Se questo è il quadro, risulta evidente l’importanza di ripetere, per non dimenticare, tali norme. Di conseguenza “la viva memoria deve essere consolidata ad ogni passo dalla pressione sociale. Questa viene messa in

6 Havelock, op. cit., p. 30. 7 Ibidem.

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opera nel mondo degli adulti quando, nell’esecuzione privata, la tradizione poetica viene ripetuta durante la mensa o il banchetto o il rituale familiare, e in quella pubblica nel teatro o sulla piazza del mercato. Alle recitazioni professionali ad opera di poeti, rapsodi ed attori, si aggiungono le recitazioni degli adulti e degli anziani e la ripetizione dei bambini e degli adolescenti.”9

Abbiamo affermato che i poemi omerici costituiscono per secoli una sorta di manuale, di enciclopedia per l’uomo greco. A tal proposito Havelock suggerisce di pensare il racconto omerico “come una specie di contenitore, impiegato a mo’ di cassapanca letteraria, destinata a raccogliere un assortimento di usanze, convenzioni, prescrizioni e procedure”10

, tale da poter essere tramandato in quanto fonte di nozioni fondamentali di etica, politica, storia e tecnologia. In questo senso “l’aedo (…) è nello stesso tempo un narratore e un enciclopedico tribale.”11

Per rafforzare il concetto Havelock propone un’altra immagine, questa volta relativa all’aedo. Quest’ultimo deve essere pensato “come un uomo che vive in una grande casa, stipata di mobili necessari e complessi. Suo compito è di farsi strada attraverso questa casa, toccando e tastando l’arredamento lungo il cammino e riferendone la forma e la struttura. Egli sceglie un itinerario (…) La strada scelta ha un suo proprio disegno: questo diventa la sua trama, e costituisce il massimo di invenzione pura cui egli può attingere.”12

In altre parole, l’aedo crea dei personaggi, un’ambientazione e una trama di fondo, ma le azioni e il modo di pensare dei personaggi fanno appello a quelle tradizioni che si devono tramandare. In questo senso, richiamandoci all’immagine

9 Havelock, op. cit., p. 42. 10 Ivi, p. 54.

11 Ivi, p. 70. 12 Ivi, p. 74.

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proposta da Havelock, ogni aedo più scegliere di muoversi all’interno della casa secondo un itinerario diverso, ma nessun aedo più creare nuovi mobili da toccare. Questi, infatti, rappresentano proprio quei nomoi e quegli ethe che si devono tramandare in maniera invariata. L’aedo, quindi, “riferisce e nello stesso tempo salvaguarda l’apparato sociale e morale di una civiltà orale.”13 Ma non si

può descrivere in maniera fedele un apparato sociale senza aderirvi ed accettarlo: “la visione enciclopedica si accompagna alla totale accettazione dei costumi della società.” L’aedo “accetta questa società con tutto se stesso, non per una scelta personale, ma in virtù della sua funzione di cronista che la tramanda. Perciò è imparziale, non persegue finalità personali, né una sua visione privata.”14

In proposito può essere interessante far riferimento all’Inno alle Muse, quel poemetto esiodeo di 103 versi che costituisce una sorta di prefazione alla Teogonia. Il poemetto è concepito sulla falsariga degli Inno omerici, volti a celebrare la nascita, le imprese e le caratteristiche di una divinità. Nel caso di Esiodo le divinità in questione sono le Muse stesse. “Il suo scopo”, afferma Havelock, “è quello di tentare una definizione della propria professione. Ecco perché il suo Inno alle Muse diventa il primo documento in nostro possesso della concezione che l’aedo greco aveva di sé e della propria funzione nella società; del tipo di cose che ci si aspettava di udire da lui, e del tipo di esecuzione in cui doveva dirle.”15 Ma cosa significa, per l’aedo, avere coscienza

di se stesso e della propria funzione?

“Esiodo, nel cantare l’inno alle Muse, celebra la loro nascita e le identifica come figlie di Mnemosyne (…) La parola greca significa qualcosa di più della

13 Havelock, op. cit., p. 75. 14 Ibidem.

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semplice memoria. Essa comprende o implica le idee di reminiscenza e di documento e di apprendimento mnemonico. Grazie a questa progenitura allegorica, Esiodo identifica le ragioni tecnologiche che giustificano l’esistenza della poesia: essa descrive la funzione delle Muse. Queste non sono le figlie dell’ispirazione, bensì soprattutto dell’apprendimento mnemonico. Il loro ruolo più importante non è creare, ma conservare.”16 In quest’ottica il poema può

essere letto come una sorta di investitura del poeta da parte delle Muse, al fine di celebrare “le cose che sono e che saranno e che furono.”17

In altre parole, Esiodo è consapevole del proprio ruolo, che è quello di dover conservare e tramandare quei nomoi e quegli ethe che costituiscono la base della società greca.

Ma se la conservazione e la trasmissione dei poemi avvenivano oralmente, come potevano i poeti riuscire a mandare a memoria così tanti versi?

Abbiamo già anticipato che un testo poetico è strutturato secondo un metro ben preciso e che ciò costituisce un grande aiuto per la memoria in quanto i versi, che devono essere recitati o prodotti, sono espressi in modo da adattarsi acusticamente allo schema metrico, che rimane costante per tutta la durata del poema. In questo modo l’aedo è impegnato nell’esecuzione di una serie di movimenti degli organi vocali che, essendo costante, mira a diventare automatica. Per raggiungere questo scopo, al movimento degli organi vocali se ne aggiunge un altro, quello parallelo delle dita sulla cetra: il toccare le corde secondo uno schema costante, che produce una melodia costante, crea un

16 Havelock, op.cit., p. 84.

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ritmo che fornisce un ausilio mnemonico per rispettare il metro. Da questo punto di vista possiamo affermare, quindi, che “la musica greca esiste soltanto per rendere le parole più ricordabili, o piuttosto per rendere le ondulazioni e le increspature del metro ricordabili automaticamente, al fine di liberare energia psichica per ricordare le parole stesse.”18

Spiegato in breve, è come se l’aedo lasciasse ai movimenti meccanici delle proprie dita il compito di ricordare il metro da seguire durante tutta l’esecuzione del poema. In questo modo, esonerato da tale sforzo psichico e mnemonico, l’aedo può concentrare la propria attenzione sulle parole e sul senso che egli deve dare ai propri enunciati.

Una volta che il testo poetico è stato creato, però, deve essere tramandato in modo più o meno inalterato, dato che inalterati sono quegli usi e quei costumi che il poema stesso ha il fine di tramandare. In quest’ottica, l’aedo non ha neanche più il compito di pensare al senso della parole del poema, in quanto il suo scopo è solo ripetere ciò che lui stesso o un aedo più illustre ha creato. Risulta chiaro che, a questo punto, l’intero atto di riproduzione si presenta come qualcosa di essenzialmente automatico: il metro viene ripetuto in maniera costante e il suo automatismo viene aiutato e incrementato dai movimenti delle dita sulla lira, ma anche quest’ultimo movimento diventa automatico, proprio in quanto ripetitivo. Le parole da recitare seguono il metro e la melodia, quindi anche la loro enunciazione diventa, in breve tempo, automatica. In altre parole, l’aedo non fa altro che ripetere gli stessi schemi comportamentali sempre con parole più o meno identiche e seguendo sempre gli stessi schemi metrici e

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melodici. Havelock esprime molto bene tale realtà attraverso l’espressione “automatismo dell’esecuzione”19

.

“Ma il risultato più evidente è diretto non già a se stesso – ovvero all’aedo - ma al suo uditorio. I timpani degli ascoltatori sono bombardati simultaneamente da due serie distinte di suoni organizzati in ritmo concorde: il discorso metrico e la melodia strumentale (…) Infine, rimane un’altra parte del corpo ed un’altra specie di riflessi fisici che possono essere messi in moto anch’essi parallelamente al movimento degli organi vocali. Si tratta delle gambe e dei piedi e dei lori movimenti, organizzati nella danza. Ancora una volta, come nell’impiego della lira, ci troviamo di fronte a uno schema di azioni organizzate, la cui funzione è mnemonica (…) La recitazione coreutica diventa un’esecuzione corporea che contribuisce a “rappresentare” la recitazione (…) L’ausilio mnemonico viene mediato agli spettatori tramite gli occhi, quando osservano il ritmo della danza.”20

Nella fase pre-letteraria, quindi, anche la danza non viene praticata né per se stessa né per motivazioni estetiche, ma solo come parte integrante di quell’apparato mnemonico volto all’apprendimento ed alla conservazione, nella memoria, degli enunciati del poeta.

Ma se per l’aedo l’atto recitativo finisce per caratterizzarsi essenzialmente come un grande insieme di atti automatici, una condizione tutto sommato simile riguarda anche l’ascoltatore. “La regolarità dell’esecuzione”, spiega infatti Havelock, “aveva un certo effetto di ipnosi che rilassava le tensioni fisiche del corpo e così pure quelle mentali (…) L’uditorio trovava godimento e distensione mentre veniva in parte ipnotizzato dalla propria reazione a una serie di moduli

19 Havelock, op. cit., p. 127. 20 Ivi, p. 124.

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ritmici, verbali, vocali, strumentali e fisici, messi in moto tutti insieme e tutti concordi nel loro effetto.”21 La conclusione è che “la recitazione

dell’enciclopedia tribale, data la tecnologia della recitazione stessa, era anche un divertimento tribale. In termini più familiari, la Musa, la voce dell’istruzione, era anche la voce del piacere.”22

Il potere ipnotico della poesia, realizzato attraverso l’automatismo dell’esecuzione e della ricezione, è uno dei concetti chiave della riflessione di Havelock, ma per completare il quadro è necessario aggiungere un altro elemento, questa volta riguardante la narrazione stessa.

Lo scopo della narrazione poetica, come abbiamo già detto, è quello di permettere la trasmissione inalterata di quei modelli culturali sui quali si basa la tradizione e l’organizzazione della società. Affinché tali schemi comportamentali possano essere tramandati non basta ripetere e ascoltare un poema, ma è necessario interiorizzare quegli schemi di cui il poeta e il poema sono dei portavoce. Ma l’interiorizzazione di una norma non solo è impossibile senza la memorizzazione di tale norma, ma risulta impossibile anche senza un minimo di immedesimazione in quella vicenda narrata dal poeta in cui si esplica tale norma. A tale scopo, “il contenuto dell’epos doveva consistere preferibilmente in un’intera serie di azioni”23 e preferibilmente espresse in forma paratattica. In

questo modo l’intero contenuto della vicenda narrata si riduce in un serie di episodi, in azioni compiute da un agente, nel quale è possibile identificarsi. Di

21 Havelock, op. cit., p. 126. 22 Ibidem.

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conseguenza “l’epos può aver a che fare solo con persone, non con fenomeni impersonali.”24

Anche se a prima vista può sfuggire, in realtà tale necessità della narrazione epica implica una forte limitazione, ovvero l’impossibilità di far riferimento a tutti quei fenomeni non immediatamente riconducibili ad un’azione diretta e collocata in uno spazio ed in un tempo ben determinati. Prendendo come esempio l’Iliade, come descrivere un sentimento come l’ira di Achille o come spiegare la causa della pestilenza che si abbatte sull’accampamento acheo? “L’ira di Achille diventa un demone divino”25, osserva Havelock; “la pestilenza

nell’esercito”, invece, “fu un fenomeno naturale, e il poeta ne è ben conscio, quando descrive il modo in cui le misure sanitarie le posero fine. Ma l’unico modo di descriverne l’insorgere è attribuirla ancora ad un agente, o piuttosto alle azioni successive di più agenti, e questo tipo di spiegazione è fornito quando Calcante narra che Agamennone ha commesso sacrilegio contro Apollo impadronendosi di Criseide, figlia del sacerdote del dio. La pestilenza è un’espressione della collera divina.”26

In altre parole, tutte quelle causa non umane che per essere spiegate dovrebbero far entrare in gioco delle complesse concatenazioni di cause e d effetti, difficilmente memorizzabili, vengono tradotte in atti, in singole azioni, prevalentemente compiute da agenti particolarmente in vista come, per l’appunto, gli dei. “Questo modo di narrare fornisce un agente in luogo di una causa storica (…) e gli dei, nell’epopea orale, forniscono un apparato costante grazie al quale i rapporti causali possono essere riprodotti in una norma verbale

24 Havelock, op. cit., p. 137. 25 Ivi, p. 138.

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con la quale l’ascoltatore può identificarsi. Essi diventano imitabili e quindi apprendibili mnemonicamente. La complessità della concatenazione casuale è semplificata; i fattori astratti sono tutti cristallizzati in forma di intervento di personaggi potenti.”27 Nell’ottica epica, quindi, gli dei più che essere oggetti di

culto si presentano essenzialmente “nei termini della psicologia dell’apprendimento mnemonico orale.”28

In realtà, un ragionamento analogo vale per tutte le concatenazioni di causa ed effetto. Ai fini della memorizzazione, ripetiamolo, “prima di tutto i dati o i paragrafi senza alcuna eccezione vanno enunciati come avvenimenti nel tempo; tutti senza eccezione devono essere espressi nel linguaggio dell’agire o dell’accadere specifico. In secondo luogo, essi sono ricordati e congelati nella registrazione come episodi separati e disgiunti, ciascuno completo e soddisfacente in sé, in una serie che viene legata paratatticamente.”29

Ma disporre gli enunciati in maniera paratattica, presentando gli episodi come separati e disgiunti tra loro, non significa altro se non annullare qualsiasi relazione di causalità, così che “la tradizione appresa mnemonicamente consiste in una vasta pluralità di atti e di eventi, non integrati in gruppi concatenati di causa ed effetto, ma piuttosto collegati associativamente in serie infinite.”30

A tal proposito mi pare significativo un esempio riportato da Havelock relativo all’episodio in cui il sacerdote Crise si reca all’accampamento acheo per liberare la figlia Criseide.

27 Havelock, op. cit., pp. 139 – 140. 28 Ivi, p. 140.

29 Ivi, p. 149. 30 Ivi, p. 151.

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“E’ interessante notare”, afferma Havelock sull’episodio, “che l’ordine dell’enunciato è paratattico, nel senso che le due “azioni”, ovvero la decisione più l’azione, sono narrate nell’ordine del loro verificarsi “in natura”:

Egli voleva liberarla e portava il riscatto

laddove una logica più raffinata, ma post-omerica, potrebbe adottare l’ordine inverso:

Egli portava un riscatto al fine di liberarla.”31

Come si può notare, un enunciato così espresso cancella il nesso di causa ed effetto delle due azioni.

Lo scopo di Havelock non è solo quello di mostrare che un tipo di discorso così organizzato è l’unico che può essere espresso all’interno di una cultura orale, ma anche che “proprio perché – tale tipo di discorso - è l’unico che goda di vita propria in una cultura orale, rappresenta il limite entro il quale la mente dei membri di tale cultura può esprimersi, il grado di complessità cui possono giungere. Quindi ogni “conoscenza” in una cultura orale è condizionata temporalmente.”32 Ma affermare che la conoscenza è condizionata

temporalmente significa affermare l’impossibilità, per una tale cultura, di esprimere informazioni tecniche e giudizi morali nel linguaggio degli universali, ovvero esprimere informazioni e giudizi validi sempre e comunque, e la cui formulazione implica il raggruppamento di una pluralità di eventi singoli in unità.

31 Havelock, op. cit., p. 59. 32 Ivi, p. 151.

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“Ciò che una tale cultura non può fare”, spiega Havelock, “è usare il verbo con valore di un copula senza tempo, in una frase del tipo “gli esseri umani sono responsabili delle loro azioni”. Ancor meno può affermare “Gli angoli di un triangolo sono equivalenti a due angoli retti”. Gli imperativi kantiani, le relazioni matematiche e gli enunciati analitici di ogni genere sono inesprimibili e anche impensabili. Egualmente impossibile è anche un’epistemologia che possa scegliere tra il logicamente (e quindi eternamente) vero e il logicamente (e quindi eternamente) falso.”33

In altre parole, se la mentalità orale non riesce a rappresentare dei nessi di causa ed effetto che vadano al di là del semplice ordine “naturale” degli eventi e se non riesce a raggruppare la molteplicità in unità così da formulare un enunciato valido al di là di una determinata condizione spaziale e temporale, allora significa che la mentalità orale è lontana dall’astrazione.

Tutta questa ricostruzione ed analisi della mentalità orale e della trasmissione orale del sapere, in realtà, serve per ricollegarsi alla concezione platonica di doxa. “Per ricapitolare”, spiega infatti Havelock, “abbiamo distinto tre aspetti della comunicazione conservata oralmente, che corrispondono dalla definizione platonica dell’ “opinione” come mentalità che tratta il divenire piuttosto che l’essere e i molti piuttosto che l’uno, il visibile piuttosto che l’invisibile e il pensabile.”34Inoltre Havelock, sottolineando l’aspetto automatico della

ripetizione e della ricezione di contenuti che devono essere tramandati intatti da una generazione all’altra, può affermare che l’esperienza dell’epos “diventa una specie di sogno in cui l’immagine segue all’immagine automaticamente, senza controllo cosciente da parte nostra, senza una pausa per riflettere, per

33 Havelock, op. cit., p. 150. 34 Ivi, p. 157.

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riordinare o generalizzare, senza la possibilità di fare una domanda o di formulare un dubbio, perché questo interromperebbe di colpo e metterebbe in pericolo la catena delle associazioni”35 e, quindi, la possibilità stessa di una

conservazione inalterata. La conclusione è che “se le caratteristiche della comunicazione conservata erano quali abbiamo descritto, allora essa era davvero in contrasto col linguaggio della riflessione e della meditazione, una forma di ipnosi in cui l’automatismo emotivo svolgeva una funzione notevole, con l’azione che porta ad un’altra azione e l’immagine che precipitare un’altra immagine. Questa è sicuramente la ragione per cui Platone descrive così spesso la mentalità non filosofica come una specie di sonnambulismo.”36

Prima di tirare le somme di tutto questo ragionamento, è essenziale ricordare il nostro punto di partenza; la nostra domanda iniziale, infatti, riguarda il sistema educativo al quale Platone, tra la fine del quinto e l’inizio del quarto secolo, si oppone. Per rispondere è stato necessario tracciare un breve schizzo relativo alla diffusione della scrittura nel mondo greco. Questa, come già ricordato, benché sia stata inventata nell’ottavo secolo, impiega quasi cinque secoli per diffondersi in maniera veramente capillare tra la popolazione greca e ciò implica una considerazione importante: ancora nel periodo classico la mentalità dell’uomo greco è una mentalità essenzialmente orale. La trasmissione del sapere, o meglio, della tradizione, avviene ancora attraverso quella figura centrale rappresentata dall’aedo e i poemi omerici sono ancora il manuale educativo per eccellenza.

“Ancora nella prima metà del quinto secolo”, osserva Havelock, “le testimonianze tendono a dimostrare che gli ateniesi imparavano a leggere,

35 Havelock, op. cit., p. 158. 36 Ibidem.

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quando imparavano, nell’adolescenza. Il saper leggere e scrivere veniva a sovrapporsi a una precedente educazione orale, e forse ciò che si imparava a scrivere era poco più della propria firma.”37

Per completare il quadro mi pare interessante riportare ciò che, a tal proposito, si può ricavare dalle Nuvole di Aristofane e dal Protagora platonico.

“Un brano delle Nuvole, risalente al 423 a.C, o più tardo, descrive la scuola dei fanciulli, presieduta dal citarista. Vi manca ogni allusione alla scrittura, ed è accentuata l’importanza della recitazione orale. E’ un brano scritto in vena nostalgica, e, paragonato con l’affermazione del Protagora, secondo cui i bambini imparavano a scrivere a scuola, rende lecita l’illazione che nelle scuole dell’Attica l’introduzione della scrittura a livello primario cominciasse come pratica universale all’inizio dell’ultimo terzo del quinto secolo.”38

Ma riportiamo il passo del Protagora:

In seguito, mandando i figli a scuola, i genitori suggeriscono ai maestri di prendersi cura della loro buona educazione più che dell'apprendimento della grammatica e della cetra. I maestri (grammatistai) si occupano di loro: no n appena i ragazzi hanno imparato l’alfabeto e cominciano a comprendere le parole scritte, come prima comprendevano la lingua parlata, danno loro da leggere, sui banchi, le composizioni poetiche dei grandi autori e li costringono a impararle a memoria. In quelle composizioni ci sono molti insegnamenti, molte descrizioni, lodi ed encomi di antichi uomini valorosi: il ragazzo, ammirandoli, li imiterà e desidererà diventare come loro. I maestri di cetra (kitharistai), in modo analogo per ciò che loro compete, si prendono cura anche del buon equilibrio dei giovani e si preoccupano che stiano sulla retta via. E poi, quando i ragazzi hanno imparato a suonare la cetra, insegnano loro le poesie di altri bravi poeti melici, intonandole sulla cetra, e piegano i ritmi e le armonie perché diventino familiari alle anime dei ragazzi. (325a – b)

Il passo ci permette di ricavare due informazioni importanti:

37 Havelock, op. cit., p. 38. 38 Ivi, p. 38 – 39.

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 Nell’ultimo terzo del quinto secolo, almeno ad Atene, l’apprendimento della scrittura è stato ormai introdotto a livello elementare, tanto che alla figura del citarista se ne aggiunge un'altra, quella del maestro di lettere;  Tale apprendimento, però, è comunque finalizzato alla memorizzazione

delle composizioni poetiche dei grandi autori e, presumibilmente, in prima linea non possono che trovarsi i poemi omerici.

La conclusione è quella che abbiamo già anticipato: anche se la scrittura è stata inventata ormai da più di trecento anni, ancora nel quinto secolo la mentalità dominante del mondo greco è quella orale. Il lento passaggio da una cultura orale ad una scritta, con relative mentalità, sembra implicare un singolare momento di passaggio in cui la scrittura viene pensata essenzialmente come strumento finalizzato alla memorizzazione del materiale da recitare oralmente. In altre parole, “la mentalità orale tradiva uno sfasamento nel tempo, così da continuare anche in una nuova epoca, in cui era mutata la tecnologia della comunicazione.”39

Ma ciò che a noi interessa è che un’educazione come quella descritta nel Protagora è molto diversa da quella platonica emersa dall’ analisi del Fedro. Certo, Platone predilige un insegnamento in cui il maestro e gli allievi siano uno di fronte all’altro e sicuramente questa è anche la situazione degli allievi insieme al citarista o al maestro di lettere, ma oltre a questo non c’è nessun altro punto in comune tra l’insegnamento platonico e quello tradizionale. Quest’ultimo, infatti, non fa altro che conservare e propagare una mentalità orale che, come abbiamo già analizzato, è una mentalità che non permette né l’astrazione né la riflessione, condannando il pensiero in una sorta di

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dormiveglia. In una parola, quella orale è una mentalità non filosofica. Se questo è il quadro, allora risulta piuttosto ovvia l’opposizione platonica all’educazione ed alla mentalità correnti.

“La tradizione semi-orale e la mentalità poetica o orale”, sintetizza Havelock, “rappresentavano il principale ostacolo al razionalismo scientifico, all’uso dell’analisi, alla classificazione dell’esperienza e al suo riordinamento in sequenze di causa ed effetto (…) Platone scende in lizza contro secoli di assuefazione alla pratica di mandare a memoria l’esperienza in forma ritmica. Egli chiede agli uomini, invece, di esaminare questa esperienza e di riordinarla, di riflettere su quel che dicono invece di dirlo semplicemente. E invece di identificarsi con ciò che dicono, essi debbono distaccarsene, diventare il “soggetto” che si stacca dall’ “oggetto” e lo riconsidera e lo analizza e lo valuta, invece di limitarsi ad “imitarlo”.”40

4. Educazione e critica della poesia nella Repubblica: un’introduzione.

L’opera nella quale il tema dell’educazione e la critica alla poesia si intrecciano è sicuramente la Repubblica.

“Se non fosse per il titolo”, sottolinea Havelock, “essa potrebbe essere letta per quello che è, piuttosto che come un saggio di teoria politica utopistica. In realtà, soltanto un terzo circa del’opera tratta dell’arte di governo in quanto tale. Spesso il testo si occupa esaurientemente di una grande quantità di

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argomenti che riguardano la condizione umana, ma questi argomenti no n troverebbero sicuramente posto in un moderno trattato di politica.”41

Di cosa tratta, quindi, la Repubblica? E in che termini deve essere letta la critica alla poesia qui elaborata?

Nell’opera, scrive Havelock, “vi troviamo un forte sentore di teoria non già politica, ma educativa.”42 “Qui”, infatti, “si mette in stato d’accusa la

tradizione ellenica e il sistema educativo della Grecia. I principali testimoni citati a sostegno di questo tipo di moralità crepuscolare sono i poeti. Omero ed Esiodo vengono nominati e citati, insieme con altri. Sembrerebbe così che la Repubblica si ponga un problema che non è filosofico nel senso specifico del termine, bensì piuttosto sociale e culturale. Essa mette in dubbio la tradizione ellenica in quanto tale e i fondamenti sui quali questa poggia (…) Al centro del problema platonico sta quel processo, qualunque esso sia, mediante il quale vengono formate la mente e le opinioni dei giovani. E al centro di questo processo sta a sua volta in qualche modo la presenza dei poeti.”43 In breve, per Havelock la Repubblica deve essere

letta “come un attacco contro l’apparato educativo esistente in Grecia”44 e,

quindi, un attacco contro la tradizione poetica e i poeti, in quanto essenziali all’interno di tale apparato educativo.

41 Havelock, op. cit., p. 11. 42 Ivi, p. 15.

43 Ivi, p. 20. 44 Ibidem.

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5. Mimetai e phylakes.

Nel primo libro della Repubblica la discussione è volta a rispondere alla domanda su che cosa sia la giustizia. Alla fine, però, dopo gli interventi di Cefalo, Polemarco, Trasimaco e Socrate stesso, non si giunge ad una conclusione. Certo, Socrate descrive la giustizia come sapienza e virtù dell’anima45

, ma la soluzione del problema non è così semplice; dato c he non è stata definita la giustizia in sé, allora non si può affermare se questa sia virtù o vizio, sapienza o ignoranza.

Socrate: (…) Così, a mio parere, prima ancora di aver trovato la soluzione al problema di quello che è la giustizia (to dikaion hoti pot’estin), l’ho lasciato cadere e mi sono messo anch’io a esaminare se è vizio o virtù (…) E così, dopo tutto il nostro grande discorrere, mi succede ora di non saperne nulla; e se non so quello che è la giustizia ( to dikaion ho estin), ancor meno saprò se è o non è una virtù, e se chi l’ha in sé è o non è felice. (354 b4 – c3)

Nel secondo libro la domanda su che cosa sia la giustizia viene riformulata. Qui, infatti, Glaucone, dopo aver dichiarato di essere insoddisfatto sia del discorso di Trasimaco, sia di quello di Socrate, afferma di voler sentire “che cosa sono giusto e ingiusto, e che potere hanno per sé quando sono dentro nell’anima.” (358 b4 – 6) A tale richiesta si affianca anche Adimanto, le cui parole costituiscono un imprescindibile punto di partenza per la nostra riflessione.

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Adimanto: (…) Ma nessuno mai, né in poesia né in prosa, ha indagato abbastanza qual è l’effetto della giustizia e dell’ingiustizia, ciascuna considerata per sé e per il suo potere, dentro l’anima di chi la possiede, nascosta agli dei e agli uomini; né ha mai mostrato con il suo discorso che l’ingiustizia è il maggiore di tutti i mali dell’anima, la giustizia invece il massimo bene. (366 e5 – 9)

Con gli interventi di Glaucone e Adimanto la questione si precisa: non si tratta più solo di chiedersi cosa sia in sé la giustizia, ma ci si chiede che cosa significhi essere giusti o ingiusti e, in altre parole, quali siano gli effetti della giustizia e dell’ingiustizia nell’anima dei singoli uomini. Dalle parole di Adimanto, inoltre, si deduce che nessuno, prima di allora, ha mai realmente affrontato il problema. Il riferimento alla poesia ed alla prosa è innegabile: nessuno degli illustri rappresentanti della cultura e della tradizione ha mai veramente indagato la questione. Da ciò deduciamo il disinteresse dell’apparato educativo tradizionale per l’anima dei singoli individui che pretende di educare.

Ma indagare gli effetti della giustizia nell’anima significa anche chiedersi come nasca la giustizia nell’individuo. Il compito non è semplice e Socrate propone un percorso più lungo: così come esiste una giustizia del singolo individuo, esiste una giustizia di uno stato intero. Ora, dato che uno stato è molto più esteso di un individuo, sarà più facile esaminarvi la giustizia e l’ingiustizia e come queste vi si formino. Solo dopo una tale analisi, “in

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grande”, possiamo rispondere che cosa significhi, per un singolo individuo, essere giusto e ingiusto, e quali siano gli effetti, nell’anima, della giustizia e dell’ingiustizia.

Ma come nasce uno stato?

“Uno stato nasce”, afferma Socrate, “perché ciascuno di noi non basta a se stesso, ma ha molti bisogni (…) Il gran numero di questi bisogni fa riunire in un’unica sede molte persone che si assomigliano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di stato.” (369 b5 – c4)

A questo punto Socrate descrive la probabile formazione di una polis semplice, primitiva, in cui lo scopo dei membri è essenzialme nte quello di rispondere a necessità primarie come procurarsi il cibo, costruire abitazioni e tessere abiti. Questo viene definito come uno stato vero e sano, ma in realtà al suo interno non vi è ancora né giustizia né ingiustizia. Per analizzare come nascano la giustizia e l’ingiustizia è necessario analizzare non tanto la nascita di uno stato, ma la nascita di uno stato gonfio di lusso (372 e2 – 7). A questo punto fanno la loro comparsa categorie professionali le cui occupazioni vanno al di là della soddisfazione di quei bisogni primari sopracitati, ed è a questo punto che appaiono, tra le altre, due particolari categorie, quella degli imitatori, oi mimetai, e quella dei guardiani, oi phylakes.

Tra gli imitatori rientrano tutti colori “che si occupano di figure e di colori o di musica” quindi, oltre ai pittori, “i poeti con i loro valletti, rapsodi, attori, coreuti” (373 b5 – 7). Questa è la seconda volta che vengono nominati i poeti e adesso, per la precisione, vengono definiti come imitatori. Ma perché

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tale definizione? Momentaneamente dobbiamo lasciare la questione in sospeso, per spostarci sui guardiani.

6. L’educazione dei guardiani.

La funzione dei phylakes, almeno così come Socrate ce la delinea all’inizio, è essenzialmente di difesa, di guardia, e al fine di poter portare a termine tale compito è necessario che i guardiani “siano miti con i loro compagni, e duri con i nemici” (375 c – 2). In altre parole, la natura del guardiano dello stato deve essere simile a quella di un cane da guardia: “il carattere naturale dei cani di nobile razza consiste nella massima mansuetudine verso le persone di famiglia e conosciute, ma in un comportamento opposto con gli sconosciuti” (375 e – 4). Fin qui potremmo anche non fare obiezioni, nel senso che paragonare il guardiano di uno stato ad un cane da guardia può anche risultare un accostamento calzante, ma il paragone successivo è sicuramente bizzarro.

Per Socrate “al futuro guardiano è indispensabile poi di essere naturalmente filosofo oltre che animoso” (375 e9 – 11). Ma come può una natura paragonata a quella di un cane da guardia essere naturalmente filosofa?

Socrate: Nel senso, dissi io, che non ha altro criterio per distinguere volto amico da nemico che quello di conoscere l’uno e di non conoscere l’altro. Eppure, come non potrà avere amore d’apprendere un essere che per definire il familiare e l’estraneo ricorre alla conoscenza e all’ignoranza? (…) Non sono identici amore d’apprendere e filosofia? (…) Se uno dovrà essere

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mite con i familiari e conoscenti, deve essere naturalmente filosofo e amante d’apprendere. (376 b3 – c2)

In queste battute Socrate identifica l’amore per l’apprendimento con il semplice fatto di distinguere il familiare e amico dal nemico in base al criterio della conoscenza e dell’ignoranza. Questo, in altre parole, è come affermare che il guardiano definisce “amico” e “familiare” solo ciò che già conosce, ma un tale atteggiamento non ha niente a che fare con l’amore d’apprendere. L’apprendimento, infatti, riguarda qualcosa di nuovo, non qualcosa che si conosce già, e se per conoscere qualcosa di nuovo è necessario staccarsi da ciò che è per noi familiare ed amico, allora un atteggiamento come quello del guardiano-cane da guardia non ha niente a che fare con la filosofia. Perché, allora, Socrate afferma che il guardiano è naturalmente filosofo? Prima di rispondere alla domanda è necessario proseguire la lettura di questo secondo capitolo della Repubblica; adesso l’interesse socratico si sposta sulla tipologia di educazione che deve essere rivolta proprio ai guardiani.

Socrate: Quale sarà l’educazione? Non è forse difficile trovarne una migliore di quella ritrovata da grande tempo? Essa consiste in certo modo per i corpi nella ginnastica (gymnastike), per l’anima nella musica (mousike). (376 e2 - 4)

Ora, il termine mousike, oltre alla musica in senso stretto, comprende tutte le arti cui presiedono le Muse, quindi comprende anche la storia,

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l’astronomia e la filosofia stessa. Nel passo citato, però, Socrate fa riferimento ad una tipologia di educazione ben precisa, ovvero quella tradizionale, “ritrovata da grande tempo”, quindi è indubbio che nel passo il termine mousike si riferisca più che altro all’ambito della poesia, che ancora nel quinto secolo costituisce il bagaglio culturale dell’uomo greco. In altre parole, quindi, per descrivere l’educazione del guardiano Socrate fa riferimento all’educazione tradizionale, basata sulla ginnastica e sulla poesia. Ma andiamo avanti nella lettura.

Socrate: Non comprendi, feci io, che ai bambini raccontiamo anzitutto favole (mythous)? E questo è in genere un falso, non scevro però di cose vere. Per educare i bambini ci serviamo di favole prima che di palestre (…) Perciò, come sembra, dobbiamo anzitutto sorvegliare i favoleggiatori (tois mythopoiois) e se le loro favole sono belle, accoglierle, se brutte respingerle (…) Però dobbiamo ripudiare la maggior parte delle favole che si raccontano oggidì. (377 a4 – c5)

La ginnastica, quindi, benché importante, sopraggiunge per i fanciulli sono in un secondo momento. La loro educazione, sin dalla tenere età, avviene attraverso quel mezzo particolare che è il mythos, ovvero la favola, il racconto. In genere il mythos narra le gesta di dei o eroi, quindi il suo ambito non è quello del reale, semmai del verosimile se non del falso. In ogni caso, però, al di là della semplice vicenda narrata, un racconto contiene un messaggio, in teoria dotato di un grande carattere educativo, ma in realtà non è detto che tale messaggio sia necessariamente “positivo”. Da qui

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l’esigenza di controllare i mitologi e i poeti, affinché questi narrino ai giovani solo mythoi realmente educativi. Addirittura, per Socrate, dovrebbero essere respinti la maggior parte dei mythoi; ma quali sono queste favole che no n dovrebbero essere narrate?

Socrate: Quelle che ci hanno raccontato Omero, Esiodo e gli altri poeti. Hanno composto per gli uomini favole false, le hanno raccontate e le raccontano ancora. (377 d4 – 6)

Come si può capire, l’educazione dei guardiani è sì progettata sulla falsa riga di quella greca tradizionale, ma non deve esserne una semplice replica. Se Omero, ed anche Esiodo, ancora nel quinto secolo sono considerati l’enciclopedia dell’uomo greco e se l’educazione dei fanciulli si basa essenzialmente sull’imparare a memoria i loro illustri versi, il giudizio che Socrate dà a tali racconti è essenzialmente negativo. L’educazione dei suoi guardiani, quindi, deve sì basarsi sulla mousike, ma non su quella tradizionale, o meglio, non su quella che la tradizione considera illustre e degna di essere tramandata.

Ma perché i versi di Omero, di Esiodo e degli altri poeti vengono criticati? Nei paragrafi precedenti abbiamo sottolineato come lo scopo di tali opere fosse essenzialmente quello di tramandare quelle norme comportamentali essenziali per la conservazione ed il buon funzionamento della società; gli dei di Omero, però, sono essenzialmente occupati a combattere tra di loro ed a tendersi insidie di ogni genere, quindi un giovane, abituato fin dall’infanzia ad ascoltare e a ripetere tali racconti, potrebbe essere portato a

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considerare legittimi tale azioni, in realtà empie. Inoltre i poeti, descrivendo uno spaventoso mondo di Ade, generano nei giovani e nei futuri combattenti il timore della morte, quando invece i fanciulli e gli uomini liberi dovrebbero avere più timore della schiavitù che della morte (387 b4 – 6). Infine un’altra abitudine dei poeti è quella di rappresentare dei o personaggi illustri in atteggiamenti smodati, come il pianto o il riso eccessivi, quando invece il loro compito dovrebbe essere quello di fornire ai giovani modelli di coraggio e di temperanza.

Una tale attenzione verso i poeti ed i loro racconti è motivata, come già sottolineato, dal fatto che i poeti, nel mondo greco, hanno un grandissimo controllo culturale. Sorvegliare i loro racconti o addirittura eliminarne una parte, quindi, può essere letto, almeno in linea teorica, come un tentativo non solo di modificare il sistema educativo in sé, ma anche di plasmare in modo diverso le anime dei fanciulli. Sì, perché l’educazione, come sappiamo, inizia fin dalla tenera età e proprio attraverso il mythos.

Socrate: Tutte le impressioni che il giovane riceve a tale età divengono in genere incancellabili e immutabili. Ecco perché è assai importante che le prime cose udite dai giovani siano favole narrate nel miglior modo possibile con l’intento di incitare alla virtù. (378 d7 – e3)

Questo passo esprime assai bene un’idea centrale della paideia platonica, ovvero la convinzione seconda la quale l’anima deve essere plasmata fin dall’infanzia, anzi, soprattutto durante l’infanzia, perché le prime impressioni ricevute sono indelebili. Di conseguenza, se i fanciulli ascolteranno fin dalla

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tenera età mythoi di uomini o dei coraggiosi e temperanti, è assai probabile che tali racconti lascino un’impronta indelebile nella loro anima, così che anch’essi saranno portati ad agire secondo quei modelli.

Riassumendo brevemente, per rispondere alle domande di Glaucone e Adimanto, ovvero che cosa significhi essere giusti e ingiusti e quali siano gli effetti della giustizia e dell’ingiustizia nell’anima, Socrate decide di analizzare la questione “in grande”, interrogandosi cioè su come nascano giustizia e ingiustizia all’interno dello stato. Per tale motivo, inizia un racconto ipotetico sulla nascita e lo sviluppo di una polis. Il primo stadio descritto è quello di una città formata da categorie professionali la cui attività è volta al soddisfacimento dei bisogni primari, come procurarsi il cibo e costruire delle abitazioni. Questa prima società umana, molto semplice e a contatto diretto con la natura, è una società sana, ma ancora priva, al suo interno, sia della giustizia che dell’ingiustizia. Con l’aumentare dei bisogni della popolazione la situazione cambia: da uno stato semplice e sano ci sia avvia verso uno stato gonfio di lusso, caratterizzato dalla presenza di categorie professionali nuove, le cui attività sono volte a soddisfare necessità “superflue”, in quanto non strettamente legate al soddisfacimento di quei bisogni primari sopracitati. Tra le nuove esigenze, senza entrare troppo nel merito, vi è la necessità di amministrare lo stato e di difenderlo da possibili attacchi. Da qui la necessità di una nuova classe, quella dei guardiani.

Questa, ovviamente, non è una classe come le altre, quindi si presenta subito il problema circa la possibile educazione di coloro che dovranno diventare i guardiani dell’intero stato. Per tale compito risulta essenziale lo

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sviluppo di due virtù principali, il coraggio e la temperanza, ottenibili attraverso un’educazione basata sulla ginnastica e sulla mousike.

Abbiamo potuto osservare, però, che se da un lato l’educazione dei guardiani può dirsi simile al modello tradizionale, basato per l’appunto sulla musica e sulla ginnastica, dall’altro lato Socrate non accetta in toto la tradizione poetica, anzi la sua critica ha di mira proprio i maggiori esponenti della tradizione poetica greca, Omero ed Esiodo.

Se nel secondo libro e all’inizio del terzo la critica può essere definita di livello contenutistico, nella seconda parte del terzo libro si passa ad una analisi formale del materiale letterario.

Socrate: (…) Tutto quello che raccontano mitologi o poeti, non è narrazione di cose passate o presenti o future? (…) Non svolgono il loro racconto con una narrazione o semplice o imitativa o in ambedue le forme? (392 d2 – 6)

Più avanti Socrate precisa la sua divisione.

Socrate: (…) Esistono tre forme di poesia e mitologia: una che si fonda tutta quanta sull’imitazione (dia mimeseos), ossia, come tu dici, la tragedia e la commedia (tragodia te kai komodia); una seconda quando è lo stesso poeta che racconta (di’apaggelias), e la potrai trovare specialmente nei ditirambi (en dithyrambois); una terza poi che è un misto delle due precedenti, usata nella poesia epica (en te ton epon poiesei) e in parecchi altri generi, se mi comprendi. (394 b8 – c5)

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Come si può capire, Socrate divide la poesia e la mitologia in tre forme: una basata sull’imitazione, una caratterizzata dalla narrazione diretta del poeta ed una terza mista, comprendente narrazione e imitazione e rintracciabile nei poemi epici.

Nel passo citato torna in ballo il concetto di mimesis, cioè di imitazione, ma ancora non ci viene spiegato perché i poeti, parlando in termini generali, vengono definiti mimetai, cioè imitatori. La questione sarà ripresa solo nel dedico libro; per adesso, invece, l’attenzione socratica è rivolta ancora ai guardiani e sul fatto se essi debbano essere o no abili nell’imitazione (394 e – 2).

Socrate: (…) i nostri guardiani devono essere scrupolosissimi artefici della libertà dello stato e non attendere a nessun altro scopo, essi non dovranno allora né fare né imitare altra cosa. E se imitano, dovranno imitare fin da fanciulli i modelli che a loro d’addicono: persone coraggiose, temperanti, pie, liberali, e ogni modello consimile, ma non dovranno né compiere né essere bravi a imitare atti illiberali, e così pure nessun’altra bruttura, a evitare che l’imitazione li porti al bel guadagno di essere ciò che imitano. Non hai notato che le impressioni, se principiano fin dalla giovinezza e si protraggono a lungo, si consolidano in abitudini e costituiscono una seconda natura? E che il fenomeno ha luogo per il corpo e per la voce come per il pensiero? (395 b8 – d3)

In altre parole, dato che le impressioni si consolidano in abitudini, i futuri guardiani dovranno imitare fin da giovani modelli positivi. Solo così, infatti, le azioni e i pensieri di tali modelli diventeranno anche le loro azioni e i loro pensieri. Ma un’educazione così impostata non differisce, tutto sommato, da

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quella tradizionale. Certo, Socrate esclude il grosso della tradizione poetica, così da assicurarsi che i giovani possano prendere a modello solo le gesta di uomini coraggiosi e temperanti, ma il meccanismo di fondo resta lo stesso: identificarsi con il materiale narrato, ripeterlo e imitarlo.

Ora, siamo davvero sicuri che un tale metodo educativo sia realmente efficiente? E soprattutto, siamo davvero sicuri che in questo modo i guardiani saranno anche naturalmente filosofi?

La questione sembra complicarsi sempre di più.

7. L’acquisizione dell’opinione giusta.

Verso la fine del terzo libro emerge la necessità di una divisione all’interno del gruppo dei phylakes, così da distinguere i guerrieri, cioè coloro che devono difendere lo stato dagli attacchi esterni o interni, dai governanti propriamente detti, cioè coloro che devono amministrare lo stato. L’educazione dei futuri guerrieri e governanti è la stessa, basata sulla ginnastica e la mousike, ma soltanto i migliori possono diventare, dopo aver superato varie prove, dei governanti.

Socrate: Tra i guardiani si debbono dunque scegliere uomini tali c he al nostro esame risultino estremamente decisi a fare per tutta la vita, e con ogni entusiasmo, quello che ritengano utile allo stato, evitando assolutamente di compiere quello che non giudicano utile. (412 d9 – e3)

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Socrate: (…) e osservare se in ogni circostanza uno si dimostra resistente alla malia e si comporta bene, facendo buona guardia alla propria persona e alla musica che ha appresa; se si dimostra sempre ossequiente alle leggi del ritmo e dell’armonia; con tali doti potrebbe essere molto utile a sé e allo stato. E a chi superi le successive prove, nell’infanzia, nell’adolescenza e nella maturità, e risulti integro, si devono affidare il governo e la guardia dello stato e conferire onori da vivo e da morto. (413 e2 – 414 a4)

In questi due passi dovrebbero essere espressi i criteri in base ai quali scegliere, all’interno del gruppo dei phylakes, i futuri governanti. A mio parere, però, la questione non è poi così chiara; come può, infatti, un’educazione basata sulla ginnastica e sulla musica sviluppare nei giovani l’amore per lo stato e la capacità di decidere e fare, in ogni circostanza, ciò che risulta utile per lo stato intero?

Nel libro quarto la questione diviene più chiara solo apparentemente. Qui si precisa che all’interno dello stato giusto esistono tre classi e che ogni classe deve esplicare il proprio compito.

Le prime due classi sono il risultato della scissione del gruppo dei phylakes; da questo gruppo, infatti, i cui membri ricevono un’educazione basata sulla ginnastica e sulla musica, si distinguono da un lato gli archontes, ovvero i governanti propriamente detti, e dall’altro gli epikouroi, ovvero i soldati. Gli archontes devono compiere ciò che è più utile per lo stato e tale capacità può essere esplicata solo se si è in possesso di una scienza particolare, definita sophia phylakike (428 d6 – 7; 429 a2 – 3). E uno stato, nel complesso, può essere sapiente solo se sapienti si dimostrano coloro che

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devono governarlo (428 e7 – 9). Secondo un ragionamento analogo, lo stato può essere coraggioso soltanto se coraggiosi si dimostrano coloro che devono difenderlo, ovvero gli epikouroi. Ma in cosa consiste tale coraggio?

Socrate: Allora anche uno stato è coraggioso in grazia di una sola sua parte: ché v’è in essa tale potere che salvaguarderà costantemente l’opinione (doxa) a proposito delle cose da temere, che esse siano esattamente le medesime che il legislatore aveva ordinato di considerare temibili nel campo educativo (…) Il coraggio è una sorta di salvaguardia (…) E’ un salvaguardare la propria opinione sulle cose temibili e sulla loro natura, opinione che in noi ha instaurata la legge mediante l’educazione. E per salvaguardia costante di essa ha inteso il fatto di saperla salvaguardare pur se ci si trova tra dolori, piaceri, voglie, paure, senza mai respingerla. (250 b8 – d)

In questo passo viene precisato che il coraggio proprio degli epikouroi non è un coraggio di tipo militare, relativo al combattimento, bensì un coraggio che potremmo definire politico o civile, che si esplica nel saper salvaguardare in ogni circostanza la propria opinione su ciò che, in base all’educazione ricevuta, è da considerare temibile o meno. In altre parole, la virtù degli epokouroi è saper attenersi a quei modelli comportamentali, ritenuti positivi, proposti attraverso la paideia. Per esprimere tale concetto Socrate utilizza la metafora delle stoffe tinte.

Socrate: Tu sai, dissi, che i tintori, quando desiderano tingere lane per farle diventare purpuree, prima scelgono dalla massa dei colori un’unica specie, i colori bianchi; poi le sottopongono a un lavoro preparatorio trattandole accuratamente, per far loro ricevere il colore più vivo possibile; e solo allora le tingono. E quale sia l’oggetto tinto così, la stoffa tinta non potrà più

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