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Introduzione: la democrazia deliberativa, dalle teorie alla pratica

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Introduzione: la democrazia deliberativa, dalle teorie alla pratica

Nel corso degli ultimi anni le pratiche di democrazia deliberativa si sono sempre più diffuse, molte volte come risposta alla crisi di legittimità di un intero sistema politico fortemente messo in dubbio anche dalle conseguenze della crisi economica. In un periodo di incertezza riguardo il futuro, infatti, sempre più voci si sono unite per chiedere un policy-making che passasse anche attraverso la partecipazione attiva dei cittadini. Nuove forme di partecipazione sono state dunque ideate e progettate, e spesso dalla semplice pulsione per una diffusione del potere dall'alto abbiamo assistito a un'evoluzione verso forme più strutturate e meno tradizionali di partecipazione, capaci in molti casi di trovare soluzioni innovative e condivise tra tutti i partecipanti. Modificare il rapporto intercorrente tra amministrazione e cittadini diventa in questo momento una priorità per affrontare i cambiamenti che sempre più velocemente stanno influendo sul futuro degli Stati nazionali e di tutte le loro istituzioni decentrate. La crisi che la democrazia sta affrontando in diverse parti del mondo e le istanze di diretto coinvolgimento dei cittadini nel processo di decision-making sono già state ampiamente previste e discusse dalla teoria: già Barber (1984) ipotizzava un sistema di governo detto strong democracy che includesse i cittadini negli ambiti normalmente riservati all'amministrazione. Seguendo gli stimoli di Habermas (1982) sulla razionalità del discorso, e sulla qualità della discussione pubblica, anche Dryzek (1990, 2000) ha posto l'accento sulla capacità di un sistema deliberativo come soluzione ai problemi di legittimità e rappresentatività che le moderne democrazie devono affrontare. Sintetizzando, Allegretti (2010) parla di democratizzazione della democrazia per indicare quelle pratiche di discussione pubblica che, attraverso l'uso di argomenti razionali, portano all'individuazione di soluzioni condivise e più democratiche.

La democrazia deliberativa si sta così imponendo come argomento di ricerca nella letteratura italiana e internazionale. Al seguito di numerose esperienze pratiche, gli studi in questo campo si sono sviluppati affrontando vari aspetti che danno forma alla democrazia deliberativa. I lavori più interessanti si sono concentrati sulla pratica, e dunque sulla capacità della democrazia deliberativa di influenzare le politiche pubbliche, fino ad arrivare ai manuali a uso della pubblica amministrazione redatti a cura di Bobbio (2004). Sono stati presi in considerazione gli aspetti teorici della

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disciplina: la democrazia deliberativa è stata scomposta in unità di analisi specifiche che hanno riguardato gli elementi deliberativi già presenti nelle amministrazioni (Steiner et al. 2003, Spörndli 2003), le virtù della discussione pubblica (Dryzek 2000), la qualità delle discussioni pubbliche (Steiner et al. 2003), le opportunità di sviluppo della pratica in campi diversi da quelli su cui è nata e si è formata. Partendo dall'ambito dei bilanci partecipativi e dall'urbanistica, dunque, la letteratura si è spinta a immaginare sistemi internazionali basati sulla democrazia deliberativa (Held 2006). Infine, l'applicazione degli stessi principi della democrazia deliberativa è stata utilizzata per valutare come le preferenze politiche possono cambiare (per qualsiasi argomento) in seguito alla discussione pubblica (Fishkin 1995). Questa tesi tratterà dunque il tema della democrazia deliberativa, affrontando non solo le teorie che sono alla base di questa forma di democrazia, ma anche alcuni esperimenti rilevanti che permettono di farsi un'idea di come la teoria si faccia pratica, diventando prova concreta delle proprietà e delle opportunità che possono scaturire dall'idea spesso astratta e confusa di partecipazione dei cittadini.

Il caso scelto riguarda il processo di definizione del Regolamento Urbanistico messo in atto dal Comune di Piombino. Questa amministrazione ha deciso di intraprendere, negli ultimi anni, una serie di esperimenti di partecipazione dei cittadini che dal semplice si sono mossi verso il complesso. Dai progetti di riqualificazione di alcune zone della città, piazza dei Grani e piazza Bovio, alcuni dirigenti del Comune hanno provato a estendere la responsabilità dei cittadini mettendoli alla prova con progetti di più ampio respiro, come la variante del piano strutturale per Baratti, una frazione di Piombino nota in pari misura per i reperti archeologici di origine etrusca e per le spiagge affollate di turisti provenienti da tutto il mondo, e per la definizione del Regolamento Urbanistico che è stata direttamente seguita per la redazione di questa tesi. L'oggetto del processo è risultato essere un argomento delicato, molto tecnico, che ha messo a dura prova le capacità dei cittadini, ma che ha permesso una riflessione a tutto tondo non solo sul presente, ma soprattutto sul futuro della città: grazie ai lavori sul Regolamento Urbanistico, infatti, i cittadini di Piombino hanno iniziato a riflettere su come la città si dovrà sviluppare se e quando la crisi economica ridurrà i posti di lavoro garantiti finora dalle acciaierie, il nucleo intorno al quale la città stessa si è sviluppata fino ad oggi. Si è parlato di turismo, di cultura, di

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riqualificazione e di storia. Ho scelto di seguire questo processo anche perché mi è stato possibile seguirlo in tutto il suo svolgimento, dalla prima fase di outreach fino all'incontro tecnico con gli stakeholders. Sarebbe stato previsto un incontro finale di restituzione che, come si vedrà nel terzo capitolo, non ha ancora avuto luogo per diverse ragioni. Inoltre, la scelta del processo è dovuta anche alla possibilità di interagire in tutta tranquillità con le organizzatrici del percorso: l'istituto di ricerca sociale Sociolab, infatti, dopo avermi conosciuto come stagista (esperienza nel corso della quale ho imparato molto sui metodi di ricerca, sulle pratiche di democrazia deliberativa e sull'interazione tra soggetti diversi) ha accolto di buon grado l'idea che mi inserissi nei laboratori da loro organizzati, che facessi domande ai partecipanti e intervistassi attori fondamentali del processo. La fiducia di Sociolab è stata fondamentale, poiché la messa in opera di un processo partecipativo è un percorso molto delicato che coinvolge attori diversi e sensibilità spesso confliggenti, interessi politici e sensibilità molto facilmente irritabili. La scelta del percorso è caduta dunque su Piombino anche per la tranquillità di trovare un ambiente già amichevole nei miei confronti, in cui lavorare e ficcare il naso senza paura di rompere un equilibrio delicato. Inoltre, Piombino si sta mostrando negli ultimi anni come un'amministrazione che, insieme a altre realtà come Arezzo e Livorno, sta scegliendo la via della partecipazione proposta e incoraggiata dalla legge regionale 69/2007 sulla partecipazione. Il processo analizzato in questa tesi è iniziato a giugno 2011, con l'attività di informazione e ascolto in giro per la città, ed è in via di conclusione proprio nel periodo in cui si consegna questa tesi. Nel frattempo sono stati realizzati quattro laboratori con i cittadini in varie zone sensibili del Comune, e sono stati ascoltati i cosiddetti stakeholder, portatori di interessi settoriali che spaziavano dai rappresentanti sindacali della fabbrica ai rappresentanti delle associazioni dei commercianti, passando per consumatori, disabili, volontari, industriali, settore del turismo e della piccola e media impresa.

La metodologia usata è stata dunque l'osservazione partecipante: ho cercato di raccogliere più informazioni possibili sull'intero processo, su come sia stato possibile realizzarlo e su quali presupposti, sia da parte di Sociolab che da parte dell'amministrazione. Ho utilizzato internet per informarmi sul territorio, sulla storia e sugli attori più rilevanti nella vita politica della città, per formare un quadro in cui

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inserire il processo nel suo svolgimento effettivo. In particolare il lavoro di osservazione si è concentrato sui quattro laboratori svolti nel mese di Luglio 2011: questi laboratori hanno offerto la miglior rappresentazione delle aspettative dei cittadini, del loro rapporto con l'amministrazione, delle loro capacità effettive di immaginare il futuro della loro città. Nel corso delle due ore previste, in questi laboratori i partecipanti discutevano divisi per tavoli, affrontando le tematiche proposte dall'amministrazione sotto forma di domande, cui i cittadini hanno dato risposte sempre interessanti e, molto spesso, coerenti e omogenee tra loro. D'accordo con Sociolab, dunque, a ogni appuntamento arrivavo leggermente prima per ascoltare gli umori generali dei partecipanti e individuare i soggetti più interessanti da seguire nel percorso di partecipazione: seduto al tavolo come un partecipante, registravo la sessione prendendo appunti secondo lo schema riportato in appendice, da me costruito. Lo schema della sessione è stato fondamentale per rendere omogenee le sessioni osservate e per ricondurle a un modello unitario che è stato poi l'oggetto dell'analisi specifica. In seguito, grazie agli appunti presi e alle registrazioni effettuate ho potuto ricostruire le serate e individuare i momenti topici di ogni sessione. Questo ha consentito l'oggettività che deve essere la base per ogni ricerca, soprattutto nel campo delle interazioni tra persone. Inserirsi in un contesto in cui i problemi e le questioni più rilevanti sono già note a tutti non è stato facile: per questo all'osservazione partecipante è stato affiancato un lavoro di ricerca degli spunti che di volta in volta emergevano nelle discussioni: domande dirette ai partecipanti (a lavori finiti), a Sociolab, ma anche la ricerca su internet delle parole-chiave.

Questa tesi si compone di tre capitoli: il primo è destinato alla ricognizione della letteratura fondamentale per capire di cosa si parli quando si usa il termine democrazia deliberativa. Si affrontano alcune questioni cruciali relative ad alcuni aspetti della democrazia deliberativa, in particolare quelli relativi a inclusione, partecipazione e deliberazione. Dalla teoria si cerca di ricavare anche quali siano gli elementi fondamentali di cui si deve tenere conto quando si affronta l'analisi di un esperimento pratico: sono stati dunque estrapolati alcuni di questi elementi che, in linea generale, compongono un processo di partecipazione. Le domande fondamentali del giornalismo classico (chi, come, dove, quando, perché) sono state rielaborate in chiave di analisi degli studi fatti finora sulla democrazia deliberativa,

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cercando per ogni elemento non solo una ricognizione delal letteratura, ma anche le possibili proposte per uno sviluppo pratico della teoria. Il secondo capitolo è dedicato al racconto di diverse esperienze sviluppate in Italia e nel mondo, cercando di rappresentare il più possibile la varietà di declinazioni che possono originarsi dal comune denominatore della democrazia deliberativa. Sono state riportate dunque esperienze a livello locale ma anche esperienze regionali, nazionali e transnazionali. Questo ha permesso di inquadrare il processo di Piombino, rendendo conto non solo delle esperienze simili o più vicine geograficamente, ma di tutte le possibilità che, in giro per il mondo, sono state sperimentate. Ogni resoconto di queste esperienze si conclude con una breve riflessione su alcuni aspetti caratteristici, di volta in volta diversi, che permettono di astrarre dal contesto (transnazionale, nazionale, locale) e dall'oggetto di discussione per isolare elementi rilevanti della pratica deliberativa. Questo permette di arrivare al terzo capitolo con una solida base di riflessione e di conoscenza sulle teorie e sulle pratiche di democrazia deliberativa. L'analisi del processo di definizione del Regolamento Urbanistico tuttavia non può non passare attraverso la ricognizione della storia della città. L'ultimo capitolo, dunque, si divide in due sezioni: la prima, dedicata proprio alla storia della partecipazione a Piombino, che mette in risalto le esperienze intraprese in passato e il processo amministrativo e politico che ha permesso a Sociolab di gestire l'esperimento deliberativo. La seconda sezione è dedicata invece al processo nel suo insieme: dopo una nota metodologica approfondita sui mezzi a disposizione e sul tipo di analisi efettuata, il capitolo presenta una breve descrizione di quanto osservato, in seguito alla quale è possibile fare delle osservazioni precise sugli elementi di valore e sulle criticità incontrate nello svolgimento del processo. Da questo processo dunque ci si attendono risultati significativi nell'ambito dei temi più ricorrenti nella letteratura . Questi temi sono riferiti in particolare alla conclusione del processo, che deve avere ricadute effettive sul capitale sociale (Della Porta 2008), registrare dei risultati innovativi rispetto alle premesse (Bobbio 2006) e il mutamento delle opinioni dei partecipanti, orientate verso il bene comune (Pellizzoni 2006). Tutto questo insieme di teorie e pratiche serve per raggiungere una piena effettività delle decisioni prese tramite metodo deliberativo, inserite coerentemente nel processo di policy-making al fine di giungere a soluzioni condivise e più efficaci per l'intera comunità.

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Capitolo 1: La deliberazione pubblica e la partecipazione dei cittadini

Questo primo capitolo affronta la definizione generale delle problematiche che saranno discusse nel resto della tesi: a una breve introduzione della letteratura di riferimento sul tema della deliberazione pubblica e dell'inclusione dei cittadini nei processi decisionali segue una parte di descrizione dei principali aspetti relativi a questi temi. Grazie al riferimento costante agli autori che hanno studiato queste pratiche, sono presentati i principali nodi tematici da cui questa disciplina trae origine, affrontando le questioni terminologiche utili per meglio comprendere il contenuto dei successivi capitoli. Vengono presentati anche gli strumenti necessari per inquadrare il tema trattato e le ragioni che hanno portato amministratori di tutto il mondo ad aprirsi verso una democrazia in senso partecipativo. Infine, sono esposte le questioni metodologiche che hanno prodotto i risultati dell'analisi presentata nel terzo capitolo.

1. Pubblica amministrazione e arene deliberative

L'amministrazione pubblica può essere definita come il “procedimento di messa in esecuzione di norme, ovvero quel procedimento grazie al quale determinate regole sono tradotte in decisioni specifiche, per casi singoli” (Peters, 1991, 15). Questo procedimento tradizionalmente è posto in essere da strutture dello stato, la pubblica amministrazione, che sono gli apparati di cui il governo si avvale per esercitare la propria funzione primaria di amministrazione. Da tempo, tuttavia, nuove forme di amministrazione pubblica sono state introdotte, e nuovi soggetti hanno fatto il loro ingresso nel processo di definizione delle politiche pubbliche. La partecipazione dei cittadini al procedimento amministrativo può essere divisa in due categorie: la rappresentanza degli interessi e il diritto di difesa. Se quest'ultimo è un elemento di diritto naturale, che deriva dal principio (in particolare in sede di giustizia amministrativa) di audi et alteram partem, la rappresentanza di interessi trasforma il ruolo della pubblica amministrazione, che talvolta si trova ad arbitrare tra interessi contrapposti. Nell'esperienza giuridica europea la partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo si è sviluppata ampliando i soggetti a cui è accordato il diritto a partecipare. Ma questo ampliamento ha comportato uno spostamento del

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baricentro della disciplina, perché la partecipazione tende a allontanarsi dal diritto di difesa e avvicinarsi ai meccanismi di rappresentanza di interessi. Lo confermano le recenti evoluzioni del diritto dell'Unione Europea, che prevede meccanismi di consultazione anche per l'emanazione di atti generali: in base al principio di sussidiarietà, che prevede la partecipazione dei parlamenti nazionali e degli enti locali alle attività dell'Unione europea, ma anche secondo una serie di pratiche di rappresentanza di interessi. L'Unione Europea incoraggia l'intervento nel processo decisionale per ottenere che gli atti o disposizioni adottate tengano conto dei punti di vista di settori, professioni o imprese, servendosi di una lobby delle idee, che interviene a monte della decisione con l’obiettivo di apportare ai decisori informazioni e punti di vista che non sarebbero stati presi in conto in assenza di un’azione specifica. Il libro verde della Commissione europea sulla trasparenza intende dunque per lobbismo “[...] tutte le attività svolte al fine di influenzare l’elaborazione delle politiche e il processo decisionale delle istituzioni europee”. In tutto il mondo, poi, hanno preso piede esperienze in cui la rappresentanza di interessi è portata ad un livello più ampio, e più stringente. Bobbio (2002, 3) definisce “arene deliberative” le esperienze “nelle quali tutti i diretti interessati prendono parte, in modo strutturato, a un processo collettivo di decisione fondato sull’uso di argomenti”. Pellizzoni specifica ulteriormente questo particolare carattere della deliberazione pubblica come “forma di indagine sociale, collettiva, la cui qualità non può essere di conseguenza misurata in modo quantitativo, aggregando manifestazioni di opinione isolate, ma in modo qualitativo, verificando cosa effettivamente succede nel corso del processo” (Pellizzoni 2006, 4).

Innovando rispetto le tradizionali esperienze di partecipazione o di consultazione (come per esempio le public inquiries britanniche o le enquêtes publiques francesi) dove si mantiene una netta distinzione tra le istituzioni che propongono e i cittadini che sono ascoltati, nelle arene deliberative il compito di decidere è affidato all’interazione, paritaria e organizzata, fra tutti i soggetti coinvolti: cittadini comuni, organizzazioni o poteri pubblici (Bobbio 2002, 3). Le forme emergenti di partecipazione, che sono riconducibili sotto la definizione di democrazia deliberativa, pongono alcuni interrogativi fondamentali da cui non si può prescindere: è importante, per chi scrive come per il cittadino e soprattutto per l'amministrazione,

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capire chi prende parte a questi processi, quali siano gli oggetti su cui possono essere attivati procedimenti di questi tipo, e quali le forme di partecipazione che più auspicabilmente permettono di giungere a soluzioni condivise. Prima di tutto, però è necessaria una ricognizione nella letteratura per chiarire cosa si intende per inclusione, partecipazione e deliberazione; si vedrà come questi siano concetti strettamente legati tra loro, che insieme consentono di inquadrare e dunque comprendere pienamente le esperienze di cui tratta questa tesi. In conclusione al capitolo si tratterà brevemente delle ragioni che possono condurre all'attivazione di processi deliberativi, ragionando infine sulla stretta interconnessione tra cause e effetti della democrazia deliberativa. I problemi di questa nuova forma di partecipazione politica, più strutturata e più bisognosa di attenzione da parte di cittadini e amministratori, sono immediatamente evidenti: le materie trattate, innanzitutto, possono essere troppo “sensibili” per essere lasciate alla deliberazione pubblica; inoltre, un processo aperto può essere oggetto di strumentalizzazioni da parte di gruppi organizzati; infine, la forma che si dà al processo può strutturare in anticipo le preferenze e giungere automaticamente a decisioni previste.

2. QUESTIONI TERMINOLOGICHE: inclusione | partecipazione | deliberazione Se la democrazia deliberativa è una “forma di democrazia partecipativa basata sulla discussione pubblica tra individui liberi ed eguali” (Pellizzoni, 2005), si tratta dunque di capire cosa porti un processo di “interazione, entro procedure pubbliche – soprattutto amministrative, ma anche normative – fra società e istituzioni, [...]” (questa la definizione di democrazia partecipativa data da Allegretti 2010, 7) alla messa in atto di un processo che, a partire dall'inclusione dei cittadini nei processi decisionali, realizzi un sistema di partecipazione a sua volta dotato di quelle forme di discussione pubblica alla base dei processi di deliberazione. Per analizzare questa procedura è necessario identificare quindi i suoi componenti fondamentali, analizzando questi aspetti uno alla volta. Partiremo dal concetto fondamentale, quello di inclusione dei cittadini nel processo di interazione, per poi sviluppare approfonditamente l'idea di partecipazione che porta, infine, alle pratiche di democrazia deliberativa.

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2.1 Inclusione

Nell'ambito della pubblica amministrazione i processi decisionali inclusivi sono “le scelte pubbliche che vengono compiute mediante il coinvolgimento di altre amministrazioni, associazioni, soggetti privati o comuni cittadini” (Bobbio 2004, 9). Includere significa quindi coinvolgere nei processi decisionali dei soggetti nuovi, che mai hanno preso parte alle scelte politiche di un'amministrazione: dunque anche partecipazione degli interessati, se si suppone una realtà in cui sono rappresentati una pluralità di valori e una pluralità di interessi. Inclusione e partecipazione possono essere visti come due facce della stessa medaglia, o due versioni dello stesso processo: da un lato, l'apertura di un'amministrazione alle opinioni dei cittadini può essere considerata come processo inclusivo. Dall'altro, partecipare è un'attività posta in essere direttamente dai cittadini, che scelgono volontariamente di prendere parte in quanto direttamente interessati. La deliberazione è un passo ulteriore e molto sensibile di inclusione e partecipazione. Si tratta infatti di tradurre efficacemente le varie preferenze in una posizione condivisa da tutti, superando la strategia e la negoziazione in virtù di una produzione comune. La questione di fondo diviene dunque: “chi partecipa?”: più avanti si analizzerà la composizione di un processo inclusivo, ma questo non esaurisce il tema. L'inclusione presenta un paradosso:

“Chi, dunque, deve partecipare alla democrazia partecipativa? Tutti o qualcuno? Il principale paradosso della democrazia partecipativa sta proprio qui. Ambisce a includere tutti, ma –di fatto– riesce a concretamente a coinvolgere solo qualcuno, ossia una piccola (spesso piccolissima) frazione della popolazione interessata. Come risolvere questa contraddizione e evitare le distorsioni che ne possono conseguire? Se non è possibile mettere in pratica compiutamente il principio di inclusività, sono tuttavia disponibili alcuni metodi che permettono –sia pure imperfettamente– di approssimarsi ad esso. I metodi principali sono tre: qualsiasi progetto di democrazia partecipativa dovrebbe fare i conti con i pregi e i difetti di queste tre concrete possibilità.” (Bobbio 2007, 5)

L'inclusione delle persone può altresì prescindere dalle idee che vengono rappresentate in un'arena. In altre parole, non basta assicurarsi solo che siano inclusi i gruppi sociali normalmente sotto-rappresentati e i cosiddetti “soggetti più deboli”. Tra i vari esempi di autori che hanno elaborato questo problema, mi fa piacere citare l'elaborazione più recente fatta da Marianella Sclavi e Lawrence Susskind (2011). Questi due autori propongono un metodo di inclusione invero pragmatico, basato su

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una valutazione etnografica1 che si espande secondo un sistema di cerchi

concentrici:

“la prima preoccupazione […] è riuscire a formare un nucleo trainante di soggetti interessati […]. la riuscita della fase di convocazione dipende poi in larga parte da come questo primo nucleo affronta due tipi di sfide: 1) ridefinire il tema del CC2 nel modo al tempo stesso più accurato di quello iniziale e aperto a un più vasto arco di posizioni e 2) espandere le proprie file per farvi entrare tutti gli altri soggetti necessari per l'efficacia del CC. […] Il primo cerchio è tendenzialmente composto da […] i principali portatori di interesse e in particolare coloro che, se tagliati fuori, avrebbero il potere di impedire la realizzazione delle decisioni. […] Nel rivolgersi a questo primo gruppo, una delle domande […] è la seguente: “mi può suggerire delle persone e/o posizioni finora non considerate che secondo lei dovrebbero essere parte del tavolo […]?” (ivi, 115-122)

Si tratta dunque di rappresentare non solo le persone, i gruppi, le categorie, ma soprattutto le idee. Pellizzoni (2006, 4) ricorda la differenza tra rappresentatività sociologica3 e rappresentazione di un ventaglio esauriente di opinioni, interessi, valori4.

Un sistema che privilegia la rappresentanza delle opinioni e delle idee può dirsi più inclusivo, e utilizzando i metodi corretti può fornire un ampio spettro di idee da confrontare. La soluzione innovativa, infatti, non emerge solo dalla mera analisi dei fatti in sede di amministrazione: viceversa, agli amministratori serve la partecipazione dei cittadini per condividere visioni da cui emergono soluzioni condivise. Includere significa di conseguenza aumentare la capacità dell'amministrazione stessa, rimediando a quella “mancanza di informazioni [che] rende l'organo decisionale cieco” (Bobbio 2004, 24).

2.2. Partecipazione

Non basta tuttavia includere: la partecipazione di stampo assembleare, in cui la gestione della partecipazione è affidata a figure non professionali e spesso fortemente

1 “Il termine “etnografico” deriva dall'antropologia ed è importante, in questo contesto, proprio perché indica la raccolta di tutti i punti di vista con un atteggiamento sia di equidistanza sia di equivicinanza” (Sclavi e Susskind 2011, 117).

2 CC sta per Confronto Creativo, il metodo proposto dai due autori.

3 Pellizzoni usa la categoria sviluppata da Sartori: chi è scelto, tramite procedimenti statistici, possiede “talune caratteristiche del gruppo, classe o professione dalla quale proviene e alla quale appartiene” (Sartori, 1990, p. 217).

4 Sempre Pellizzoni ricorda, tra parentesi, che la rappresentazione di questo ventaglio “spesso significa numeri più piccoli e costi ridotti: la selezione spesso si avvale di tramite inserzioni sui giornali o telefonate a soggetti individuati in base allo screening di un conflitto” (ibidem).

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influenzanti la discussione, non è adatta a processi che, come vedremo più avanti, hanno una forte spinta verso l'empowerment dei cittadini. Dato il presupposto fondamentale, ovvero la realizzazione di forme di deliberazione pubblica che si avvalgono del contributo effettivo della cittadinanza, e comunque di soggetti esterni all'amministrazione, è necessario usare forme di partecipazione più strutturate e meglio definite. Una più larga partecipazione porta ad un cambiamento nel linguaggio utilizzato: a quello dell'interesse si sostituisce quello della ragione (Elster 1998, 97-122) che tende al consensus building attraverso una ricerca di presupposti e obiettivi comuni. Le virtù della partecipazione migliorano la democrazia in tre aspetti fondamentali. Innanzitutto accrescono la legittimità delle decisioni politiche5: se l'esercizio democratico del potere politico è legittimato solo quando è il prodotto della volontà del popolo, allora la partecipazione dei cittadini sembra accordarsi perfettamente con la richiesta di maggior legittimità. Prendere parte in modo produttivo, rendendo forte l'aspetto procedurale della partecipazione, significa essere influenti sul processo in essere. La partecipazione piena, secondo Pateman (1970, 70), si distingue dalla pseudopartecipazione e dalla partecipazione parziale in base al grado di influenza dei partecipanti sull'esito dell'eventi al quale hanno preso parte. Questo aspetto sarà più chiaro quando verranno analizzati gli effetti di un processo deliberativo. In questo paragrafo ci basta porre l'accento su come la decisione ottenuta tramite metodo partecipativo sia condivisa, e così le sue ricadute: la legittimità di una decisione passa necessariamente dall'analisi della legittimità della procedura tramite cui la stessa è stata presa; di conseguenza, prendere parte alla decisione significa fornire non solo le proprie opinioni, ma anche la testimonianza della correttezza di un processo. Il secondo aspetto in cui la democrazia trae beneficio dalla partecipazione è la più ampia qualità delle decisioni prese, data l'incrementata collaborazione tra partecipanti e la maggior quantità di informazione in gioco. Il dibattito pubblico, in determinate condizioni, può consentire una più larga cooperazione tra coloro che sono coinvolti (della Porta 2005). In questo modo, attraverso lo scambio di argomenti, opinioni e idee, la quantità di informazioni cresce in due sensi: possono apparire nuove alternative non considerate in precedenza e in più è possibile analizzare le conseguenze di ogni proposta. Dunque, migliora la

5 Manin (1987) è probabilmente l'autore che meglio di altri ha connesso le idee di deliberazione e legittimità politica.

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qualità delle decisioni in quanto proprio i cittadini hanno acquisito e rielaborato una maggior quantità di informazioni. Il terzo beneficio è la prevalenza del bene comune sull'interesse particolare, che viene rafforzata ulteriormente dal processo partecipativo. Se l'obiettivo è prendere decisioni collettive che portino un beneficio alla comunità, ogni opinione deve essere espressa in termini accettabili da tutti, rendendo necessario trasformare quelli che in origine sono interessi personali in principi difendibili pubblicamente. In un dibattito pubblico nessuno può convincere gli altri del proprio punto di vista senza argomentare le ragioni per cui è buono, giusto o opportuno, e del perché dovrebbe essere considerato tale dagli altri. In questo senso, la partecipazione rende difficile che le ragioni espresse per sostenere ogni proposta siano esclusivamente basate su interessi personali, sebbene sia vero che la possibilità di inganni persiste, ma diventa più difficile. Ad esempio Elster parla di un terzo atto linguistico, oltre a argomentazione e negoziato, che fa un uso strategico del negoziato: si tratta delle dichiarazioni retoriche miranti alla persuasione. In ogni caso, “la presenza di un pubblico rende particolarmente difficile apparire motivati semplicemente dall'interesse individuale. “[…] In generale, questa forza dell'ipocrisia che rende civili è un effetto desiderabile della pubblicità” (Elster 1998, 111); il discorso pubblico è dunque un filtro agli argomenti, e al contempo un

salto nel buio che può risolversi in un nulla di fatto. Da un lato, infattti, le preferenze

vengono selezionate e elaborate nel corso delle interazioni, facendo emergere le posizioni meno estreme e radicali. Dall'altro, un discorso pubblico lasciato al caso, o condotto secondo criteri che non garantiscono eguaglianza tra partecipanti e trasparenza delle affermazioni, rischia di generare asimmetrie informative e ricorso a argomenti fallaci o strategici che fanno fallire il discorso.

Dunque la scommessa della partecipazione è che l'interlocuzione tra cittadini e istituzioni generi un mutamento in direzione di uno sviluppo di “reti civiche e forme di autogoverno responsabile delle comunità locali” (Magnaghi 2006, 143. cit. in Bobbio 2007, 2). Tuttavia non sempre questo accade: anzi, spesso l'inclusione dei cittadini e l'apertura alla partecipazione sono causa di malumori nella popolazione, che non sempre accetta processi tardivi o troppo generici. Un esempio abbastanza recente sono i mugugni genovesi sul dibattito pubblico istituito dopo anni di progettazione del raccordo autostradale detto “Gronda”.

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“Perché, è il dubbio sollevato dai comitati del Ponente, gli inconti del cosiddetto débat publique alla francese sarebbero solo un momento di celevrazione della capacità di Autostrade, senza informare realmente i cittadini sui richi che correranno territori e quartieri.” (La Repubblica, ed. Genova, 2 febbraio 2009)

Anche a Piombino si è presentato un problema simile, e i cittadini hanno opposto resistenza all'avvio del processo per la mancanza di dati certi e garanzie istituzionali dalle quali partire. Riporto solo un esempio degli interventi fatti sui giornali, sulla rete e direttamente agli organizzatori del processo da parte della cittadinanza.

Fig. 2 Fonte: La Nazione, 08 giugno 2011

Questi problemi derivano spesso da una mancata informazione sul processo, ma anche da presupposti sbagliati: un processo inclusivo autentico deve sorgere in previsione dei conflitti, per “non aspettare che il pubblico si muova contro e dare al pubblico la possibilità di muoversi per” (Bobbio 2004, 35). Agire in presenza di conflitti già ben strutturati, come nel caso di Genova, può portare direttamente alla contestazione dello strumento di partecipazione, visto come metodo per far passare la linea dell'amministrazione contro il volere dei cittadini. Nel caso di Piombino, invece, la mancata comunicazione sullo scopo del processo ha influito negativamente sull'avvio dei laboratori, nel corso dei quali è stato necessario ripercorrere e spiegare i motivi per cui veniva attivato il processo e gli obiettivi specifici della deliberazione

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pubblica.

2.3. Deliberazione

Il termine democrazia deliberativa appare per la prima volta nell'articolo di J.M. Bessette (1980), Deliberative Democracy: the majority principle in republican

government, e si riferisce a “ogni sistema di decisione politica basata sul

bilanciamento tra decision-making consensuale e democrazia rappresentativa”. Della Porta rende operativa questa definizione, insistendo sugli aspetti procedurali e sulle condizioni di realizzazione di una democrazia in senso deliberativo. Definisce quindi democrazia deliberativa “il processo comunicativo basato sulla ragione che trasforma le preferenze individuali portando a decisioni orientate al bene pubblico in condizioni di inclusività, eguaglianza e trasparenza” (della Porta e Diani 2005, 241). La concezione deliberativa della democrazia è espressamente costruita contro un modo di intendere la democrazia che può essere definito come prospettiva strategica, ovvero il modello liberal-rappresentativo. Dal momento che una delle caratteristiche distintive delle società contemporanee è la coesistenza di vari interessi e valori, di opinioni differenti su cosa fare e come farlo, dobbiamo domandarci quale sia il modo più appropriato per prendere decisioni politiche in questo contesto, e come sia possibile conciliare tutte queste differenze e, al contempo, assicurare la libertà e l'eguaglianza dei cittadini. Secondo la prospettiva strategica, ci sono due meccanismi che rendono possibile la risposta a queste domande. La prima è l'aggregazione delle preferenze, ovvero la somma degli interessi particolari, così che l'interesse maggioritario prevalga sugli altri. È la procedura standard delle elezioni e di tutte le pratiche di voto tradizionali: questo insieme di regole democratiche, che forma la base della conoscenza comune riguardo la gestione delle assemblee e in particolare delle procedure di voto, a cui facciamo riferimento ogni volta che abbiamo una decisione da prendere, può essere raccolta sotto il nome di Robert's Rules6. Le direttive fondamentali sono due: ognuno ha diritto di parola e di replica (dibattito); la decisione viene presa con voto di maggioranza e la minoranza sconfitta si adegua pacificamente. Questa è la soluzione che sublima il conflitto in una sua risoluzione

6 Il Pocket Manual of Rules of Order for Deliberative Assemblies è un libro pubblicato nel 1876 dal generale Henry Martin Robert (da cui il nome Robert's Rules) per “fornire [i metodi di organizzazione e conduzione degli incontri pubblici e privati] in forma sistematica e condensata, […] così che ogni non addetto ai lavori possa far riferimento a ogni materia specifica in sicurezza” (dall'Introduzione, mia traduzione).

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accettata da tutti in assenza di metodi migliori7. La seconda è la negoziazione tra interessi in conflitto. Il risultato finale dipenderà dal potere e dalle risorse di ogni parte. Quando si prende una decisione politica, e quando non ci sono preferenze configgenti, le parti negoziano finché non raggiungono un accordo. Da questa visione strategica, l'obiettivo della democrazia è di generare decisioni collettive che rispettano le preferenze individuali. Cohen (1989, 17–34) descrive i principi della democrazia deliberativa come segue: “i cittadini devono decidere che la deliberazione è la base su cui tutte le decisioni sono prese; solo le decisioni prese secondo questa procedura possono essere riconosciute come legittime e perseguibili; il processo e la procedura devono essere trasparenti e le decisioni devono essere facilmente riconducibili al processo deliberativo; ci deve essere l'impegno a rispettare la pluralità di valori e obiettivi espressi da tutti; a ogni membro e a tutti i partecipanti devono essere accordate opportunità eguali di partecipare liberamente nel processo”.

La deliberazione ha altresì luogo in quanto si partecipa: il rapporto tra le due pratiche può essere descritto quindi come continuazione e compimento della teoria partecipativa nella deliberazione (Gbikpi 2005, 97-130). Una partecipazione piena8 all'interno di un'arena nella quale i cittadini hanno uguale potere sulla decisione da prendere è non solo auspicabile, ma in qualche misura necessaria. Infatti “si può pensare che la partecipazione sia stata di qualità maggiore quando ha portato a un consenso e non ha necessitato un voto. Inoltre, si trova rafforzata la legittimità del sistema politico che organizza tale procedura decisionale” (ivi, 115). Il modello liberale e rappresentativo rende l'attività politica un lavoro da specialisti e esperti, il cui carattere distintivo, tuttavia, è semplicemente l'impegno in tale attività. La democrazia partecipativa invece può essere definita come “l'attività politica dei dilettanti” (the politics of amateurs - Barber 1984, 152). La cittadinanza si trova direttamente inserita in un processo che incoraggia a pensare il comune in modo condiviso: questo sforzo significa modificare la propria percezione degli interessi e dei fini, e la percezione di interessi e fini della comunità stessa. Baccaro e Papadakis (2004) definiscono “amministrazione pubblica partecipativa-deliberativa (PDPA)

7 Famoso è l'aforisma di W. Churchill su questo tono “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora.” (dal discorso alla Camera dei Comuni del novembre 1947).

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l'amministrazione il cui principale obiettivo sia riformare delle istituzioni democratiche e delle politiche progressiste favorendo il coinvolgimento diretto della società civile nel policy-making pubblico.” Per questo la democrazia deliberativa in atto è un processo che offre eguali opportunità di essere coinvolti a tutti i gruppi potenzialmente interessati, e uguali opportunità per proporre argomenti e formulare soluzioni. Allegretti (2009) propone un confronto sintetico tra le due pratiche, ricordando che “molte sono le differenze tra la democrazia deliberativa e la democrazia partecipativa. La prima di esse è data dalla diversità delle origini, in senso sia temporale che geografico: la democrazia deliberativa, almeno come pratica, nasce nell’originario ambiente anglo-americano – l’America dei padri fondatori –, dunque prettamente occidentale, sia pure per essere teorizzata solo nella seconda metà del novecento, dai teorici nordamericani agli sviluppi habermasiani della Scuola di Francoforte; la partecipativa si sviluppa sulla fine di quello stesso secolo in ambiente latino-americano. La seconda differenza, che dà a entrambe toni assai marcati, sta nel rapporto teoria-pratica: sebbene entrambe queste declinazioni della democrazia ospitino entrambe le dimensioni, la teorica e la pratica, nella democrazia deliberativa la dimensione teorica riflette una pratica anche vivace realizzata in un ambiente relativamente stabile e la innalza a una tensione di teoria molto forte (teoria del discorso e dell’agire comunicativo in Habermas, idea della giustificazione politica e della ragion pubblica in Rawls, contrapposizione tra l’argomentare e il negoziare in Elster); la democrazia partecipativa concettualizza in maniera semplice le pratiche partecipative inventate da una realtà in subitaneo movimento. Diversa è anche la dimensione sociale: ambiente economicamente evoluto quello della democrazia deliberativa, legata alla società dei poveri (quanto meno nel continente d’origine) la partecipativa. La prevalenza dello spirito della tradizione illuministica si respira nella democrazia deliberativa, e dunque l’obiettivo è portare la società alla maturità della ragione, nella partecipativa è la prassi di liberazione dei poveri che importa, almeno nell’humus originario. Tuttavia netti sono gli elementi di comunanza. La reazione alle deficienze della democrazia rappresentativa costituisce la spinta decisiva di entrambe e ciò che ne delinea l’orizzonte di movimento. Entrambe hanno bisogno di andare oltre il puro conflitto e la pura affermazione degli interessi, condividono una dimensione morale forte, intendono superare la

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democrazia puramente aggregativa della tradizione rappresentativa ed elettorale; all’individuazione pur nel pluralismo di un terreno comune all’intera società nella prima, corrisponde la costruzione in avanti dell’uguaglianza nella diversità nella seconda”

3. Di cosa si parla?

Oltre agli altri fattori che saranno analizzati nei prossimi paragrafi (in particolare chi e come si prende parte ai processi di democrazia deliberativa), l'oggetto di discussione dà forma alla deliberazione e pertanto merita un paragrafo a sé.

L'oggetto di discussione è il primo elemento analizzato proprio per la sua funzione, che influenza in maniera significativa la realizzazione, la conduzione e gli esiti del processo. Un oggetto chiaramente definito più probabilmente porterà a processi chiari, con soluzioni ed esiti condivisi. Altrettanto, un oggetto di discussione controverso diviene la sfida davanti alla quale si trovano molti processi deliberativi. La deliberazione pubblica ha molteplici possibilità, e ha la capacità di adattare i propri strumenti agli argomenti trattati. I settori tradizionalmente oggetto di pratiche inclusive sono due: il bilancio partecipativo e l'urbanistica partecipata. Ciò deriva molto probabilmente dalle evidenti relazioni di prossimità che caratterizzano questi interventi e dunque dall'opportunità di coinvolgere i residenti in scelte che li riguardano da vicino. Negli ultimi anni tuttavia l'esclusività di questi temi si sta affievolendo. Le esperienze partecipative tendono infatti a sconfinare al di là dell’ambito originario del bilancio partecipativo e dell’urbanistica partecipata (settori in cui rimangono comunque ben assestate) ma sempre più di frequente vengono ritenute utili per affrontare altre questioni che probabilmente, fino a pochi anni fa, sarebbero state gestite con processi più tradizionali. A favore dell'urbanistica

partecipata sono intervenute anche prescrizioni normative (come i progetti Urban

dell’Unione europea o i bandi per i contratti di quartiere, o la legge regionale toscana sull'urbanistica). Il caso storico di deliberazione pubblica è il famosissimo orçamento

participativo di Porto Alegre9, città simbolo del rinnovamento democratico che ha attraversato i continenti e si è diffuso non solo in America Latina ma anche in Europa. Il bilancio partecipativo è una pratica democratica in cui i membri della comunità decidono direttamente come spendere una parte del bilancio pubblico. La

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maggior parte degli esempi coinvolge le amministrazioni cittadine che hanno decisioni aperte sui bilanci municipali, come le priorità generali e la scelta di nuovi investimenti, fino alle assemblee di cittadini. In altri casi stati, distretti, scuole, università e coalizioni di gruppi hanno usato il bilancio partecipativo per aprire le decisioni di spesa alla partecipazione democratica10. In Italia, il Comune di Grottammare ha attuato un processo partecipativo che dal bilancio partecipativo, importato dall'esperienza brasiliana, ha poi intrapreso un percorso verso l'estensione delle pratiche inclusive in tutti i settori dell'amministrazione. Secondo quanto riportato sul sito del Comune, infatti, “rendere la partecipazione popolare più efficace significa inevitabilmente passare per meccanismi partecipativi applicati anche ad altri settori strategicamente determinanti per il governo di un territorio”11. Per questo il Comune ha promosso un Piano Regolatore Generale su base partecipativa, così come molte altre amministrazioni hanno intrapreso percorsi inclusivi su temi spiccatamente urbanistici. In particolare, tra le esperienze italiane possiamo citare il Comune di Montaione che, dopo l'esperienza di Castelfalfi12, ha recentemente affrontato la definizione di un Regolamento Urbanistico con l'apporto della partecipazione pubblica e il caso di Piombino, analizzato nel dettaglio nel terzo capitolo di questa tesi.

In Francia i consigli di quartiere sono stati creati come strutture associative per gli abitanti delle grandi città a gestione municipale. Creati nel 2002, sono obbligatori nei comuni di più di 80000 abitanti, e facoltativi per i comuni minori. Non sono organi puramente deliberativi, ma il sindaco e i suoi assessori possono consultarli sulle decisioni che riguardano il quartiere o la città: si tratta dunque di un corpo intermedio tra amministrazione e cittadini, che si configura come luogo di informazione, di dibattito e di riflessione su argomenti che spaziano dalla vita del quartiere ai progetti urbanistici e di ristrutturazione.

In Germania sono state sperimentate giurie di cittadini con scopo espressamente deliberativo (Röcke e Sintomer 2006, 87-100). Questi processi, proposti da Ned Crosby negli anni '70 (Smith and Wales 2000; Crosby e Nethercut 2005), si ispirano

10 Dal sito http://www.participatorybudgeting.org/ URL consultato il 27 luglio 2011

11 Dal sito http://www.comune.grottammare.ap.it/contents/Non+solo+bilancio/351 UTL consultato il 27 luglio 2011

12 Dal sito http://www.regione.toscana.it è scaricabile il paper di Antonio Floridia sul “caso Castelfalfi”[http://bit.ly/pWwfGf URL consultato il 27 luglio 2011]

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al funzionamento delle giurie popolari nel processo americano. Un piccolo numero di cittadini, da 15 a 25, estratti a sorte, discute per un numero variabile di giorni su un tema controverso: ascolta il punto di vista degli esperti, li interroga e alla fine delibera una posizione comune che viene trasmessa ai decisori politici sotto forma di raccomandazione. I cittadini sono selezionati in modo tale da risultare rappresentativi dell'intera popolazione in termini socio demografici. In Italia ci sono state numerose esperienze di questo tipo di processo, con argomenti che variano dalle misure riguardanti il traffico urbano (Carson 2006) all’analisi della proposta di un pirogassificatore e alle alternative per smaltire per i rifiuti industriali a Castelfranco (PI).

Se l'oggetto è di volta in volta differente, comunque, si possono identificare alcune categorie ricorrenti. Non è ancora stata fatta una ricerca esaustiva al riguardo, ma con un buon margine di approssimazione posso affermare che l'oggetto di discussione deve essere di interesse pubblico, altrimenti non solo non si avrebbe partecipazione, ma non avrebbe senso il processo stesso. Progetti locali, dunque, sono in grado di ottenere maggior attenzione e partecipazione dei cittadini rispetto a progetti di larga scala. Altrettanto vale per i processi concentrati su un solo argomento, piuttosto che quelli di maggior respiro, i quali richiedono un intenso lavoro di aggiornamento e comprensione da parte dei partecipanti. Di conseguenza, si può dedurre (in mancanza di statistiche dedicate) che gli oggetti più ricorrenti siano urbanistica e bilancio partecipato, ma dentro i confini appena costruiti ci sono anche percorsi riferiti a traffico e mobilità, gestione dei rifiuti, servizi pubblici, e anche progetti specifici riguardanti localizzazioni di impianti di depurazione, di rigassificazione, la tratta dei Treni ad Alta Velocità, e moltissimi altri. Esiste dunque una pluralità di argomenti, applicabili a popolazioni più o meno ampie: il collegamento tra chi partecipa e su cosa si partecipa sarà fatto più avanti. In ogni caso l'argomento può influenzare il numero di partecipanti che intervengono, e viceversa. Nell'analisi dei modi tenterò di sintetizzare questo rapporto, vedendo come le due dimensioni danno forma alle tecniche utilizzate.

4. Chi partecipa?

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processi deliberativi. Uno degli aspetti più sensibili, quando si parla di arene deliberative, è proprio il metodo di selezione dei partecipanti e di conseguenza la loro composizione secondo criteri socio-demografici, culturali, ideologici. Più avanti si analizzeranno le forme di partecipazione e i contesti in cui si attivano i processi deliberativi. In questo paragrafo mi propongo di identificare le caratteristiche cruciali dei partecipanti, e come queste possano influenzare il tipo e la qualità della partecipazione in atto. In base alle responsabilità che vengono date ai partecipanti, essi possono divenire soggetti più o meno evoluti rispetto alla concezione tradizionale di cittadinanza:

“La democrazia partecipativa si configura come governo dei cittadini, e non governo del popolo o delle masse: il popolo, infatti, non è ancora cittadinanza, e le masse sono solo insiemi nominali di persone libere. La partecipazione ha bisogno di un'idea normativa che le dia forma. Le masse fanno rumore e i cittadini deliberano; le masse hanno comportamenti e i cittadini agiscono; le masse collidono e si intersecano, i cittadini si impegnano, condividono e contribuiscono. Le masse divengono cittadinanza quando iniziano a deliberare, agire, condividere e contribuire” (Barber 1984, 154)

Capire chi dovrebbe prender parte ci porta una serie di interrogativi: innanzitutto il numero dei partecipanti, e il rapporto statistico con la popolazione di riferimento. Inoltre l'identità dei partecipanti, se sono semplici cittadini o portatori di interessi riconosciuti (associazioni, comitati etc.). Entrambi gli interrogativi si condensano e portano alla domanda fondamentale: “può un processo inclusivo essere

rappresentativo?” che può essere ulteriormente estremizzata: “un processo inclusivo deve essere per forza rappresentativo?”. Quanto al numero dei partecipanti, verrebbe

da dire: “il più possibile”. Ovviamente ci sono ragioni di ordine pratico e organizzativo che rendono difficile la partecipazione di un numero eccessivo di persone. Per questo molti processi prevedono una iscrizione, anche se non obbligatoria, in modo da modulare gli incontri preventivamente. La gestione dipende anche dai metodi utilizzati, e dalle tecnologie disponibili: i town meeting sono esperienze deliberative che possono coinvolgere anche tutta la popolazione di una città, prevedendo discussioni pubbliche e meccanismi di voto che durano anche un giorno intero. Altrettanto, e in maniera più approfondita, i sondaggi deliberativi di J. Fishkin (1991; 1995) possono coinvolgere un grande numero di persone. Viceversa, processi come il focus group e i laboratori partecipati hanno limitano il numero per garantire una buona partecipazione di tutti gli intervenuti. La risposta alla domanda

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“chi partecipa” è dunque “dipende”: se una molteplicità di opinioni, come abbiamo visto, permette di giungere a decisioni migliori, vanno trovate le soluzioni per ascoltarle tutte. Quanto all'identità dei partecipanti, il modello ideale è un campione rappresentativo delle caratteristiche socio-demografiche della popolazione di riferimento. Questo è possibile costruendo artificialmente un modello a priori (come nel caso delle giurie di cittadini, selezionate con metodi statistici), ma anche concentrando la fase di outreach13 verso i settori della società meno inclini a partecipare. I processi inclusivi infatti scontano un problema originario della partecipazione politica, l'auto-selezione degli interessati. Secondo Milbrath e Goel (1977) i livelli più alti di partecipazione riguardano, a parità di condizioni:

-coloro che hanno livelli più elevati di istruzione

-chi proviene da ceti medi rispetto a chi fa parte della classe operaia -gli uomini rispetto alle donne

-le persone in coorti intermedie di età (né troppo vecchi né troppo giovani)

-gli sposati rispetto agli scapoli

-coloro che risiedono in città rispetto a chi vive in aree rurali

-chi vive da lungo tempo in un luogo rispetto a chi ci si è appena trasferito

coloro che appartengono a maggioranze etniche

-coloro che sono impegnati in associazioni di volontariato o organizzazioni di vario tipo

Questa analisi, pur con le dovute modifiche dettate dall'evoluzione dei sistemi sociali, offre tuttavia una rassegna delle categorie deboli da coinvolgere nei processi decisionali. Tanto più se trattandosi proprio di quelle categorie che non hanno rappresentanza nelle sedi decisionali. Generalizzando, queste categorie sono le donne, gli stranieri, i giovani e i più anziani. Contro il rischio di autoselezione sono state ideate numerose tecniche, che vanno dall'outreach generico (per esempio la

13 La descrizione del processo di outreach che mi sembra meglio rappresentare questa importante componente degli esperimenti di democrazia deliberativa è data da Bobbio (2004, 66): “Gli operatori sociali sanno benissimo che le persone con i problemi più gravi difficilmente si presentano spontaneamente presso di loro per ricevere i servizi di cui avrebbero un grandissimo bisogno; occorre andarle a cercare. Questa pratica dell’andare a cercare è stata chiamata outreach (letteralmente: raggiungere fuori). Lo stesso termine è impiegato nella progettazione partecipata e può essere definita come andare a consultare le persone piuttosto che aspettare che esse vengano da noi. Le amministrazioni sono tradizionalmente abituate ad aspettare che gli utenti arrivino da loro, presentando domande, istanze, dichiarazioni, certificati. Qui bisogna procedere nel modo opposto: non è più il cittadino che si muove verso lo sportello, ma è lo sportello (l’istituzione) che si muove verso il cittadino. Le amministrazioni non possono conoscere veramente quali sono i problemi e chi sono i loro possibili interlocutori finché non riescono a scovarli sul territorio.”

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telefonata a campione) a metodi più sofisticati come l'animazione territoriale o l'ascolto attivo14. Migliori sono le tecniche di outreach maggiore sarà la parte di popolazione che partecipa al processo. Secondo Bobbio (2004, 66) “l’outreach è... la montagna che va da Maometto”. L'autore riporta diversi esempi, non esaustivi, di outreach (ivi):

1. distribuzione di materiale informativo nelle case oppure direttamente alle persone in situazioni di aggregazione (mercati, assem blee, negozi, ecc.); 2. articoli su giornali locali, spot informativi su radio e tv;

3. interventi informativi e di scambio mirati nell’ambito di riunioni di specifici gruppi (ad esempio, una bocciofila, un centro sportivo, un’associazione ricreativa);

4. strutture mobili (caravan, camper, container) possono essere utilizzate come uffici mobili per restituire anche a livello simbolico la presenza sul campo e garantire la possibilità di una consultazione iniziale;

5. svolgimento di camminate di quartiere; 6. attivazione di punti di riferimento in loco.

Le telefonate a campione e le lettere di invito inviate direttamente a casa dei residenti sono altri esempi di outreach, una pratica che spesso può risultare determinante. Nel caso di Piombino, per esempio, si nota una differenza notevole tra i laboratori che hanno avuto un outreach sul territorio e quello in cui hanno partecipato i diretti interessati15. Talvolta, invece, è più opportuno coinvolgere attori particolari della società, i cosiddetti stakeholders:

“Gli stakeholders possono essere suddivisi in tre macro-categorie:

-istituzioni pubbliche: enti locali territoriali (comuni, province, regioni, comunità montane, ecc.), agenzie funzionali (consorzi, camere di commercio, aziende sanitarie, agenzie ambientali, università, ecc.), aziende controllate e partecipate;

-gruppi organizzati: gruppi di pressione (sindacati, associazioni di categoria, partiti e movimenti politici, mass media), associazioni del territorio

14 Sclavi (2003) individua delle regole fondamentali per l'ascolto attivo. Questa pratica si esercita in maniera informale, concentrando gli sforzi su una mutazione del proprio punto di vista con l'obiettivo di comprendere i punti di vista altrui anche grazie a linguaggi non razionali come quello delle emozioni; la partecipazione va non solo proposta, né solo incoraggiata, bensì ricercata attivamente: ciò significa raggiungere le persone, secondo diverse modalità, piuttosto che aspettare che si muovano spontaneamente.

15 Il laboratorio di Populonia è stato l'unico caso in cui i partecipanti hanno mostrato segni di indolenza sin da prima dell'incontro, aumentando il grado di conflittualità dell'incontro ma giungendo comunque alla risoluzione delle controversie.

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(associazioni culturali, ambientali, di consumatori, sociali, gruppi sportivi o ricreativi, ecc.);

-gruppi non organizzati: cittadini e collettività (l'insieme dei cittadini componenti la comunità locale).

Gli stakeholder rappresentano quindi una molteplicità complessa e variegata di "soggetti portatori di interesse della comunità". Per rilevare le categorie degli stakeholder è necessario analizzare il contesto e la collettività di riferimento che l'Amministrazione si trova a governare”16.

Dunque, un processo inclusivo deve essere per forza rappresentativo?

Per rispondere a questa domanda parto con l'analisi del rapporto tra i due soggetti in gioco: i rappresentanti e i rappresentati. Nel caso dei processi inclusivi dall'oggetto di discussione dipendono il numero e la tipologia dei soggetti da rappresentare, mentre i rappresentanti sono, in via eccezionale, i partecipanti al processo. Come interpretare il rapporto tra rappresentanti e rappresentati, che si mostra più che mai imprevedibile? Pitkin (1967) individua cinque varianti del significato di rappresentanza:

1. rappresentanza come conferimento di autorità

2. rappresentanza come azione nell'interesse di qualcuno che non può o non vuole agire personalmente

3. rappresentanza come responsabilità 4. rappresentanza come rappresentatività 5. rappresentanza come evocazione simbolica

Questo elenco di varianti aiuta a comprendere come i processi deliberativi portino un importante fattore di innovazione nel rapporto tra cittadini e amministrazioni. Innanzitutto il conferimento di autorità non deriva da elezioni o procedure formali, ma è frutto di un'adesione volontaria. Temporaneamente, e in merito a un oggetto specifico, i cittadini sono effettivamente artefici delle scelte che coinvolgeranno la comunità. La responsabilità dei partecipanti, poi, si determina proprio in relazione al contenuto delle decisioni: se si rappresenta in virtù dell'interesse dei rappresentati, chi meglio dei cittadini può dare forma alle decisioni? Inoltre, le virtù del discorso pubblico migliorano la qualità delle decisioni, rendendo superfluo il ricorso a legittimità di tipo numerico. La responsabilità nei confronti del resto della popolazione è ancor più chiara di quanto accada nei processi decisionali classici: non solo il prodotto della decisione è pubblico, ma anche tutto il processo che ne forma i contenuti lo è. La rappresentatività dei partecipanti è già stata analizzata, dunque

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rimane l'evocazione simbolica della rappresentanza: come le istituzioni, anche i processi inclusivi riescono ad emanare un'aura simbolica, più per le aspettative che per i risultati. Non di rado infatti capita di trovare elogi della partecipazione in bocca a chi non ha la minima intenzione di far partecipare i cittadini. Dunque un processo inclusivo non deve essere rappresentativo: i partecipanti non sono amministratori eletti e non devono sottostare ai vincoli di cui sopra. Il ruolo dei partecipanti è diverso da quello dei normali cittadini che intervengono in assemblee pubbliche e va ben più in profondità, richiedendo un impegno che va al di là delle competenze dei singoli. Come già detto, i processi possono essere promossi dalla cittadinanza (bottom-up) o dall'amministrazione, per coinvolgere gli interessati (top-down). Come è facile immaginare, i processi top-down sono quelli che più facilmente ottengono una sostanziale apertura dell'amministratore alle opinioni dei cittadini: viceversa, le pur ricorrenti e significative esperienze bottom-up scontano la conflittualità che facilmente scaturisce da una contrapposizione diretta con l'amministrazione, e dunque non riescono a scalfire (se non in qualche caso eccezionale, come le esperienze di auto-organizzazione e i contromunicipi testimoniati nel sito della Rete del Nuovo Municipio17) l'impenetrabilità delle politiche pubbliche.

5. Come si partecipa?

Mettendo in relazione i due elementi appena analizzati, ovvero “chi partecipa” e “di cosa di parla” possiamo individuare le forme di partecipazione e deliberazione attive nelle istituzioni. Su questo tema della Porta e Gbikpi (2008) offrono un'ottima riflessione, mettendo in risalto tre aspetti fondamentali per valutare e rapportare alle loro caratteristiche ambientali e istituzionali le qualità democratiche dei nuovi modelli di processi decisionali. Gli aspetti evidenziati da questi autori sono dunque disegno istituzionale, qualità democratiche dell’arena e caratteristiche processuali. Ognuno di questi aspetti è in realtà un insieme di variabili:

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Fig. 3 Fonte: della Porta Gbikpi 2008

Non dovendo in questo paragrafo introduttivo fare delle valutazioni, mi servo delle osservazioni in merito al primo gruppo di variabili per allargare e rendere più solida la base del percorso che sto seguendo. Riguardo i diversi disegni istituzionali, i due autori partono dalle considerazioni di Cohen e Rogers (2003, 250-260) sulle differenze tra progetti finalizzati a migliorare l’efficienza di specifici servizi pubblici attraverso il coinvolgimento dei loro utenti e quelli che affrontano problemi di policy più ampi e quindi coinvolgono potenzialmente tutti i cittadini. I progetti del primo tipo “mirano a risolvere sfide di policy limitate”, dunque “sono formati in relazione a un contesto in cui gli squilibri di potere non sono di ovvia rilevanza per il decision-making” (ivi, 260) e in cui lo scopo principale è quello di raggiungere il coordinamento per il beneficio reciproco. I processi che affrontano problemi più ampi, invece, “mirano a trasformare gli equilibri fondamentali del potere sociale”: in questo caso gli assetti di problem-solving deliberativi sono “parte di progetti politici più ampi, finalizzati a un più sostanziale cambiamento dell’equilibrio di potere tra ampie forze nella società” (ibidem). Questa prima osservazione su “tipo e gamma di issue” corrisponde al cosa. Rispetto a quanto già detto su criteri di selezione e numero di partecipanti, è bene aggiungere anche l'attenzione verso l'informazione dei

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partecipanti che, come si vedrà più avanti, diventa nodo cruciale per l'istituzione e la conduzione di un processo inclusivo. Questa variabile ha due direzioni: l'informazione che viene data ai cittadini e quella che viene richiesta in conclusione del processo. Le due direzioni sono complementari, e si influenzano a vicenda: l'informazione data può essere più o meno completa, dando così una forte impostazione al processo. In mancanza di informazioni, saranno i cittadini a farsi carico della ricerca delle stesse. L'aiuto di esperti e le informazioni proposte possono invece da un lato facilitare il lavoro dei cittadini, dall'altro indirizzarlo decisamente nella direzione pre-strutturata. È comunque difficile influenzare un processo inclusivo, dato l'altro aspetto del ciclo dell'informazione nel processo: il processo può essere creativo o confermativo/abrogativo, ma in ogni caso crea capitale sociale e interesse specifico nei cittadini, che si trovano a mutare il proprio ruolo migliorando le proprie capacità di raccogliere e elaborare informazioni. Questo non è solo conseguenza della discussione pubblica (Elster 1998, Dryzek 2000) ma anche della volontà di prendere decisioni importanti per sé e per la comunità (Abers 2003, 206). Il concetto di deliberazione è ormai entrato stabilmente nell’analisi della politica, dell’amministrazione, delle politiche pubbliche e dei movimenti collettivi. Dovunque si realizzi un processo decisionale a più voci è possibile osservare qualche traccia di deliberazione (Bobbio 2006, 2). Le ricerche mostrano che l'ambito di applicazione della deliberazione è esteso dai parlamenti (Steiner et al. 2005)18 ai movimenti sociali (della Porta e Diani, 2005). Parkinson (2006, 166-173) mostra che differenti attori e istituzioni possono essere combinati per generare una legittimazione deliberativa nello sviluppo delle politiche pubbliche. Si tratta di interazioni che variano di volta in volta, ottenendo un livello costante di capacità deliberativa del sistema. Si può supporre che il principio deliberativo sia diffuso in diversi ambiti dell'apparato statale come una sequenza di momenti deliberativi, con varie forme di “virtù deliberative” che si completano a vicenda (Goodin 2005, 182-196): ancora una volta la deliberazione pubblica nelle amministrazioni si presta come efficace metodo di empowerment per i cittadini e come prassi per giungere a decisioni migliori. Queste prassi assumono svariate forme, di volta in volta adeguandosi alle istituzioni, ai

18 Secondo questi autori, la qualità del lavoro parlamentare sia migliorata dalle componenti presidenziale, consensuale e bicamerale che ispirino tale lavoro. I contributi di tali componenti alla capacità deliberativa variano in proporzione al sistema in cui sono inseriti.

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numeri e all'oggetto del dibattere. Si possono però individuare alcuni metodi ricorrenti che possono essere anche visti come strumenti in mano alla pubblica amministrazione (Bobbio 2007, 203):

Deliberative polling (Fishkin 1991), sondaggio deliberativo progettato allo scopo di

vedere come cittadini comuni, sorteggiati casualmente, modificano le loro opinioni dopo aver ricevuto informazioni su un problema di carattere pubblico ed averne discusso con esperti.

Focus group, discussione tra un gruppo di persone finalizzata allo studio di un

fenomeno o all'indagine di uno specifico argomento in profondità, utilizzando come base per la rilevazione l’interazione che si realizza tra i componenti del gruppo di esperti o di persone interessate all’argomento oggetto dell’indagine .

Gruppi di lavoro/workshop, i luoghi in cui soggetti locali che svolgono attività legate

al tema specifico di discussione si incontrano per individuare interventi realizzabili ed efficaci a partire dalla disponibilità e dall’interesse dei soggetti coinvolti. Si tratta dunque di momenti prevalentemente di lavoro e non solo di discussione.

Forum/tavoli sociali/consulte, strumenti che prevedono il coinvolgimento degli attori

locali in momenti di approfondimento funzionali a progettare, monitorare, valutare e integrare il processo nel suo complesso e le singole azioni individuate.

Giurie dei cittadini (Crosby e Nethercut 2005), in cui un piccolo numero di cittadini,

estratti a sorte e selezionati in modo tale da risultare rappresentativi dell’intera popolazione in termini socio–demografici, discute per un numero variabile di giorni su un tema controverso, ascolta il punto di vista degli esperti, li interroga e alla fine delibera una posizione comune che viene trasmessa ai decisori politici.

Open space technology (OST), strumento di apprendimento informale che agevola la

circolazione di informazioni, conoscenze, esperienze all’interno di organizzazioni e permette di affrontare processi di cambiamento quando è necessario un confronto su questioni complesse e dove non esiste una soluzione univoca.

Town meeting, inventato dall’associazione America speaks (Gastil e Levine 2005),

che permette di svolgere una discussione e di prendere decisioni a un vasto gruppo di persone (alcune centinaia o alcune migliaia). I partecipanti vengono riuniti in un’unica sede e si riuniscono in piccoli gruppi assistiti da un facilitatore. Ogni gruppo ha a disposizione un computer collegato in rete che trasmette i contenuti della

Figura

Fig. 3               Fonte: della Porta Gbikpi 2008
Tab. 1             Fonte: mia elaborazione
Tab. 2   Fonte: Bobbio 2006
Figure 1. Typology of  “power” over/in communication
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