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CAPITOLO 3: LE RSA: LA DIATRIBA TRA FIAT E FIOM

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CAPITOLO 3: LE RSA: LA DIATRIBA TRA FIAT E

FIOM

Sommario: 3.1 L’origine della diatriba; 3.2 Gli accordi separati del Gruppo Fiat e la conseguente estromissione della Fiom dal godimento dei diritti sindacali previsti dal Titolo III dello Statuto dei Lavoratori; 3.3 La dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori da parte della Corte Costituzionale; 3.4 Il processo di “aziendalizzazione” della contrattazione collettiva; 3.5 Il godimento dei diritti sindacali, la Corte Costituzionale, il Testo Unico sulla rappresentanza e il futuro legislatore.

3.1 L’origine della diatriba

I dubbi di incostituzionalità dell’art. 19 St. Lav. e la conferma della crisi dell’unità sindacale sono tornati di attualità con la recente vicenda Fiat-Fiom. Quest’ultima è caratterizzata dal disconoscimento della rappresentanza sindacale aziendale da parte di una delle maggiori imprese industriali italiane in capo ad un sindacato (Fiom) in quanto non firmatario di alcun contratto collettivo applicato nelle aziende del gruppo Fiat, pur essendo “maggioritario” in termini di consensi tra i lavoratori sindacalizzati.

Antefatti non irrilevanti in cui si manifestano incongruenze di vedute tra le tre principali confederazioni sindacale sono costituiti dagli accordi interconfederali del 2009, cosiddetti “separati” in quanto conclusi nel dissenso della Cgil: l’accordo quadro del 22 gennaio di revisione delle regole del sistema contrattuale e il successivo accordo di attuazione interconfederale del settore industriale del 15 aprile. In questi contratti già era visibile la tendenza, affermata poi in maniera

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eclatante nel caso Fiat, verso un maggiore decentramento della contrattazione collettiva, con più intensa valorizzazione del livello aziendale. E ciò anche in vista dell’inserimento, a livello decentrato, di trattamenti derogatori in peius rispetto a quelli previsti dal contratto nazionale di categoria122. Con questi accordi si apre quindi la cosiddetta contrattazione decentrata in deroga123.

L’accordo interconfederale prevedeva infatti un meccanismo di legittimazione delle deroghe al contratto collettivo nazionale di tipo centralizzato. Tali clausole, dette “clausole d’uscita” permettono ai contratti decentrati di derogare anche in peius alla disciplina dei singoli istituti economici o normativi previsti nel contratto nazionale, qualora ciò sia funzionale al governo di situazioni di crisi o a favorire l’occupazione o lo sviluppo economico di un territorio o di un’azienda. Esse però si basano sull’autorizzazione da parte delle associazioni nazionali delle eventuali deroghe proposte dalle corrispondenti associazioni territoriali124. Si tratta di adattamenti dei

122 Infra 123

A. BOLLANI, Contratti collettivi separati e accesso ai diritti sindacali nel

prisma degli accordi Fiat del 2010 in Working Paper C.S.D.L.E. Massimo

D’Antona.it - 124/2011, p. 4. 124

Cfr. art. 5 dell’accordo interconfederale del 15 aprile 2009: “Al fine di governare direttamente nel territorio situazioni di crisi aziendali o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell'area, i contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria possono consentire che in sede territoriale, fra le associazioni industriali territoriali e le strutture territoriali delle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto medesimo, siano raggiunte intese per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi disciplinati dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria.

La capacità di modificare è esercitabile sulla base di parametri oggettivi individuati nel contratto nazionale quali, ad esempio, l'andamento del mercato del lavoro, i livelli di competenze e professionalità disponibili, il tasso di produttività, il tasso di avvio e di cessazione delle iniziative produttive, la necessità di determinare condizioni di attrattività per nuovi investimenti.

In ogni caso le intese così raggiunte per essere efficaci devono essere preventivamente approvate dalle parti stipulanti i contratti collettivi nazionali di lavoro della categoria interessata.

Sono fatte salve diverse soluzioni già definite in materia dai contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria.”

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contratti nazionali di lavoro alle specifiche esigenze territoriali e aziendali.

Ulteriore conferma della divisione tra le principali confederazioni storiche è data dalla stipulazione del contratto collettivo nazionale di categoria cosiddetto “separato” del 15 ottobre 2009, il quale viene appunto siglato soltanto dalla Fim e dalla Uilm, senza l’adesione della Fiom-Cgil. Esso da piena attuazione all’accordo interconfederale del 15 aprile, oltre a modificare il precedente contratto collettivo, del 20 gennaio 2008. Quest’ultimo però, essendo stato stipulato unitariamente da Fiom, Fim e Uilm, è efficace anche nei confronti dei lavoratori iscritti alla Fiom, comportando in tal modo la coesistenza di due diversi contratti collettivi nazionali. Ciò è dovuto alla diversa tempistica di questi contratti, infatti il contratto collettivo nazionale del 2008 aveva una durata quadriennale per la parte normativa, fino al 31 dicembre 2011, e biennale per la parte economica, fino al 31 dicembre 2009, mentre quello del 2009 prevede una decorrenza unica e triennale, dal 1° gennaio 2010 al 31 dicembre 2012. La complicazione non riguardava la parte economica, la quale sarebbe scaduta prima dell’entrata in vigore del contratto collettivo del 2009, ma bensì la parte normativa, la cui scadenza quadriennale era successiva a quest’ultima data, implicando in tal modo una sovrapposizione temporale della nuova disciplina alla vecchia. Il secondo contratto non va però a sostituire completamente il primo, ma lo richiama qua e in là per modificarlo. Esso non ri-disciplina tutta la materia, ma va semplicemente a conservare la parte che non innova. Pertanto, il contratto “unitario” rimane efficace nella sua interezza per il sindacato e per i lavoratori dissenzienti rispetto a quello “separato”; mentre il contratto “separato” diviene efficace soltanto per i sindacati e per i lavoratori consenzienti.

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60 3.2 Gli accordi separati del Gruppo Fiat e la conseguente estromissione della Fiom dal godimento dei diritti sindacali previsti dal Titolo III dello Statuto dei Lavoratori

Gli accordi descritti nel paragrafo precedente costituiscono lo scenario di fondo degli accordi collettivi separati125 conclusi dalla Fiat. Quest’ultima aveva un duplice scopo: a) liberarsi dal sistema contrattuale nazionale per sviluppare una propria strategia contrattuale al livello sia nazionale che decentrato; b) avvalersi della vigente disciplina legale delle rappresentanze sindacali in azienda per sviluppare un sistema di relazioni sindacali stabile con le sole organizzazioni sindacali disposte a condividere la suddetta strategia. Difatti, con la stipulazione del primo accordo di Pomigliano, la dirigenza della Fiat e i sindacati firmatari, hanno agito derogando sia al contratto collettivo nazionale del 2008, che a quello del 2009, i quali non prevedevano alcuna autorizzazione in tal senso. Se la Cgil avesse firmato l’accordo interconfederale sulle nuove regole del sistema contrattuale del 2009 avrebbe potuto in questo caso fondatamente invocare l’illegittimità dell’accordo di Pomigliano. Esso infatti prevedeva la preventiva autorizzazione delle deroghe al contratto collettivo nazionale da parte delle associazioni nazionali. Cosa che la Fiat non ha rispettato.

125

Con l’espressione “accordi collettivi separati” si intende quei contratti collettivi la cui stipulazione ha determinato una rottura tra le organizzazioni sindacali che, dopo aver partecipato alle trattative, si separano al momento di assumere la decisione se firmare o meno l’accordo. Quindi alla trattativa condotta congiuntamente si contrappone la firma disgiunta del contratto. L’accordo separato non viene concluso per dare un’alternativa ad un altro contratto collettivo, ma si propone come fonte esclusiva della regolamentazione collettiva della categoria. V. A. MARESCA, Accordi collettivi separati: tra libertà contrattuale e democrazia

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A seguito della stipula di tale accordo separato, il 29 settembre 2010, Federmeccanica, Fim-Cisl e Uilm-Uil pattuiscono una nuova clausola integrativa nel contratto nazionale dei metalmeccanici del 2009, l’art. 4 bis, basato sul sistema del silenzio-assenso126 proprio con la finalità di legittimare ex post il primo accordo di Pomigliano, in alcune parti peggiorativo del contratto nazionale del 2009. Tale clausola riguardava appunto le cosiddette “deroghe”. Ed è proprio in tal momento che la Fiom-Cgil poteva legittimamente contestare tale integrazione, dato che non aveva sottoscritto il rinnovo del contratto collettivo nazionale del 2009. Quindi per essa le clausole derogatorie dell’accordo di Pomigliano erano da considerarsi illegittime, anzi, inopponibili.

L’inserimento di questa clausola rappresenta l’estremo tentativo di Federmeccanica a trattenere nel sistema associativo confindustriale la Fiat. Operazione però non riuscita. Con riferimento ai contratti successivi a quello menzionato infatti non si parla più di accordi aziendali derogatori, ma bensì di veri e propri nuovi accordi aziendali o di gruppo, sostitutivi del contratto collettivo nazionale che la Fiat sostiene uscendo dalla Confindustria e quindi dal campo di applicazione degli accordi stipulati da quest’ultima, compreso il protocollo del 23 luglio 1993.

Secondo Carinci127 la vicenda Fiat si evolve quindi secondo una duplice fase. La prima, detta soft, in cui l’impresa industriale è ancora

126

Cfr. art. 4 bis inserito nella sezione terza del CCNL del 15 ottobre 2009 del settore metalmeccanico il 29 settembre 2010: “Le intese sottoscritte sono trasmesse per la loro validazione alle parti stipulanti il CCNL e, in assenza di pronunciamento, trascorsi 20 giorni di calendario dal ricevimento, acquisiscono efficacia e modificano, per le materie e la durata definita, le relative clausole del CCNL.” 127

F. CARINCI, La cronaca si fa storia: da Pomigliano a Mirafiori in Working

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orientata a rimanere nella Confindustria, data dalla sottoscrizione, il 15 giugno 2010, di un mero contratto aziendale derogatorio di quello categoriale: l’accordo separato di Pomigliano tra la Fiat Group Automobiles S.p.A., assistita dall’Unione industriale di Torino e dall’Unione degli industriali di Napoli, e Fim, Uilm e Fismic nazionali e di Napoli.

Trattandosi di un nuovo accordo, separato dal sistema contrattuale nazionale, è possibile abolire le rappresentanze sindacali unitarie elettive e sostituirle con le rappresentanze sindacali aziendali costituite soltanto dai sindacati firmatari di esso, escludendo in tal modo tutti quelli non firmatari, come la Fiom. Quest’ultima, di conseguenza, reagisce in sede giudiziale, tramite la presentazione di molteplici ricorsi ex art. 28 St. lav., rivendicando che l’unico contratto ad essa applicabile è quello del 2008, il quale non prevede la “clausola delle deroghe”. E per eludere ciò, la Fiat effettua due distinte iniziative: a) costituisce una new-co “Fabbrica Italia Pomigliano” a cui si riferiranno le disposizioni contrattuali stipulate tra Fiat e gli altri sindacati. Questa società quindi non aderirà al contratto nazionale dei metalmeccanici. In essa i singoli lavoratori vengono “riassunti” con cessione individuale del contratto di lavoro, senza periodo di prova, con il riconoscimento dell’anzianità pregressa, e con salvaguardia del trattamento economico complessivo, senza applicazione dell’art. 2112 c.c.128 in quanto nell’operazione societaria non si configurano

128

Cfr. art. 2112 c.c.: “In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti

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trasferimenti di ramo d’azienda. E’ proprio qui che si spiega l’insistenza con cui i vari accordi Fiat vengono qualificati come “contratti di primo livello” dato che gli stessi non possono che essere definiti come accordi aziendali o, al massimo, di gruppo. Alla base di questa insistenza vi è l’intenzione di dileguarsi dalla disposizione di cui al 3 comma dell’art. 2112 dove si prevede che il concessionario debba applicare i trattamenti previsti dai contratti collettivi vigenti al momento del trasferimento, a meno che non siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili, dove la sostituzione avviene solo fra contratti collettivi dello stesso livello; b) il 7 settembre 2010 disdice il contratto nazionale dei metalmeccanici stipulato nel 2008 con Cgil, Cisl e Uil. Disdetta che avviene con largo anticipo rispetto alla previsione contrattuale, per la quale sarebbe sufficiente trasmetterla tre mesi prima della scadenza. Essa rendeva operativa la scadenza del 31 dicembre 2011, trasformando da determinato a indeterminato il contratto ultrattivo, così da rendere legittimo il successivo recesso. Il problema parte dal fatto che i contratti collettivi nazionali contengono una clausola di “ultrattività” in base alla quale, in caso di loro disdetta,

collettivi applicabili all'impresa del cessionario. L'effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.

Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all'articolo 2119, primo comma.

Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento. Nel caso in cui l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d'azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all'articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. ”

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essi resteranno in vigore fino a che non siano stati sostituiti dai successivi contratti nazionali. Tuttavia, la Fiat ha cercato di sottrarsi all’applicazione di quel contratto ricorrendo ad un atto di “recesso”, basandosi sul fatto che nel diritto privato, quando i contratti sono a tempo indeterminato, da essi si può comunque recedere. Una volta tolto di mezzo il contratto collettivo unitario, sarebbe rimasto a tener campo solo il contratto collettivo nazionale del 15 ottobre 2009, così come integrato, il 29 settembre 2010, dalla clausola prevista all’art. 4 bis.

Con la seconda fase, detta hard, i cui primi segnali si possono far risalire alla costituzione della new-co e alla disdetta dal contratto collettivo del 2008, si ha invece un cambio di marcia. Qui la società è decisa ad uscire da Confindustria. Viene infatti stipulato un ulteriore accordo separato: l’accordo di Mirafiori del 23 dicembre 2010, siglato fra la Fiat Group Automobiles S.p.A., assistita dall’Unione industriale di Torino, e i rappresentanti delle segreterie nazionali e della provincia di Torino di Fim, Uilm, Fismic e Ugl Metalmeccanici e della Associazione Capi e Quadri Fiat. Nella premessa di tale accordo si precisa che la Joint Venture non aderirà al sistema confindustriale, e applicherà un proprio contratto collettivo specifico129 di primo livello, il quale non tarderà a farsi strada. Viene infatti concluso dopo nemmeno una settimana dalla firma dell’accordo di Mirafiori, il 29 dicembre 2010, tra Fiat S.p.A. e Fim-Cisl, Uilm-Uil, Fismic, Ugl metalmeccanici e l’Associazione Capi e Quadri Fiat. Esso prevede di essere applicato ad un soggetto già costituito, “Fabbrica Italia Pomigliano”, così da considerarlo, in tutto e per tutto, sostitutivo del contratto collettivo nazionale del lavoro dei metalmeccanici. Da vita

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Con il termine “specifico” in questo caso si intende l’inesistenza di un contratto nazionale di categoria sopra di lui, oltre all’inesistenza sotto di lui di un contratto aziendale.

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ad un sistema contrattuale autonomo ed autosufficiente rispetto a quello confindustriale, a cui la Fiat non appartiene più. Un sistema contrattuale che nulla ha più in comune con un modello strutturato di contrattazione articolato su due livelli. Questo contratto sarà poi esteso a tutte le società del Gruppo Fiat con il testo definitivo siglato il 13 dicembre 2011.

In tal modo, sottraendosi espressamente, entrambi quest’ultimi due contratti, alla disciplina del contratto nazionale dei metalmeccanici, essi rendono completamente inutile la previsione dell’art. 4 bis introdotta il 29 settembre 2010.

Al contratto collettivo specifico di primo livello fa poi seguito quello del 17 febbraio 2011, siglato tra Fabbrica Italia Pomigliano S.p.A. e Fim, Uilm, Fismic e Ugl-metalmeccanici, definito di secondo livello. Anch’esso separato.

Ciò che colpisce in questa vicenda è l’uso speciale dello strumento giuridico del referendum ai fini della convalidazione degli accordi separati stipulati negli stabilimenti Fiat. È la stessa azienda che lo chiede, verificandosi così uno spettacolo doloroso e avvilente: ai lavoratori viene chiesto di pronunciarsi con un si o con un no di fronte ad accordi rispetto ai quali dire di no significava perdere l’occupazione. In tal modo è stato toccato uno dei punti più bassi dell’esperienza sindacale italiana130

. I lavoratori vengono chiamati ad esprimersi su posizioni inconciliabili tra un sindacato e l’azienda. Con l’intenzione di ricompattare l’unità sindacale, il 28 giugno 2011 viene stipulato un accordo interconfederale concluso unitariamente da Cisl, Uil e Cgil con Confindustria. La Cgil torna quindi su suoi passi

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L. MARIUCCI, Back to the future: il caso Fiat tra anticipazione del futuro e

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ed accetta, con tale accordo, che i contratti decentrati, soprattutto quelli aziendali, possano derogare al contratto collettivo nazionale, ma solo nei limiti di quanto previsto dallo stesso contratto nazionale131. Nonostante questo ulteriore tentativo a risolvere la vicenda Fiat, l’impresa torinese, il 3 ottobre 2011, decide ufficialmente di uscire da Confindustria con decorrenza dal 1 gennaio 2012. In questo modo essa è svincolata da tutti gli accordi conclusi da Confindustria con i sindacati, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, con il risultato che l’unica disciplina applicabile ai dipendenti del gruppo risulta quella prevista dal contratto collettivo specifico siglato il 23 dicembre 2010. In particolare, il 21 novembre 2011 comunica alle organizzazioni sindacali del settore il recesso, dal 1 gennaio 2012, da tutti i contratti applicati nel Gruppo Fiat. A seguito di questa dichiarazione, il 13 dicembre 2011, la Fiat sottoscrive un contratto collettivo, definito “specifico”, di lavoro (CCSL) con cui si dispone l’estensione a tutte le aziende del Gruppo Fiat del “modello Pomigliano”, a partire dal 1 gennaio 2012. Tale accordo costituisce, in realtà, la stesura definitiva di un pregresso contratto collettivo separato firmato il 29 dicembre 2010.

La questione più rilevante, con la stipula di questi accordi separati, riguarda la rappresentanza sindacale aziendale all’interno dei luoghi di lavoro. Infatti uscire dal sistema confindustriale implica uscire anche dal sistema dalle rappresentanze sindacali unitarie e elettive previste dal protocollo del luglio 1993, il cui modello è stato recepito dal contratto collettivo nazionale del 2008. E l’uscita da quest’ultimo sistema comporta il ritorno all’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, il ritorno quindi alle rappresentanze sindacali aziendali, le quali, per

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essere costituite, è necessaria la firma del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, mentre la rappresentanza unitaria è costituita da tutti i sindacati che partecipano alle elezioni indipendentemente dalla firma del contratto.

L’art. 1 del contratto collettivo specifico di primo livello della Fiat stabilisce infatti che rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite, ai sensi dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori firmatarie del presente contratto collettivo. Di conseguenza, il sindacato dissenziente non firmatario di alcun contratto collettivo applicato da Fiat non potrà costituire rappresentanze sindacali aziendali. Dei diritti sindacali previsti nel titolo III dello Statuto ne fruiranno soltanto i sindacati firmatari di tali accordi in termini paritari, a prescindere dalla rappresentatività effettiva. Questo è l’aspetto più inquietante di questi accordi. A Mirafiori e a Pomigliano non vi saranno più rappresentanze elette dai lavoratori, ma soltanto cinque rappresentanze sindacali aziendali di Fim, Uilm, Fismac, Ugl e dell’associazione dei quadri, nominate dagli stessi sindacati firmatari dell’accordo. La Fiom quindi, per aver rifiutato di stipulare questi accordi per il relativo contenuto considerato peggiorativo delle condizioni di lavoro della classe operaia, resterà fuori e diventerà un’organizzazione sindacale extra ordinem, non riconosciuta e non titolare di alcun diritto sindacale, compreso quello di insediarvi proprie rappresentanze sindacali132, pur essendo uno dei sindacati più rappresentativi fra quelli presenti in azienda. Non potrà quindi rappresentare i propri lavoratori nelle unità produttive del Gruppo Fiat. In tal caso si produce l’esito paradossale di escludere dalla legislazione di sostegno prevista dallo Statuto dei lavoratori il sindacato dissenziente, e non il sindacato che non sia

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effettivamente rappresentativo. Esito, inoltre, che solleva dubbi in ordine alla legittimità costituzionale (dell’art. 19 St. Lav.) con riferimento sia all’art. 39 Cost. violato nella libertà di esprimere la propria azione sindacale di dissenso tramite la non sottoscrizione di un contratto collettivo, sia con riferimento all’art. 3 Cost. in relazione all’ingiustificata disparità di trattamento fra sindacati parimenti rappresentativi.

Da questa situazione si può intendere che la principale ragione dell’uscita di Fiat da Confindustria e della conseguente stipula di un contratto collettivo che ambisce a porsi come “contratto di primo livello” non è quella di sottrarsi alla rigidità del contratto nazionale dell’industria metalmeccanica, ma risiede nell’intenzione di scrollarsi di dosso la presenza di un attore non disponibile a condividere le scelte effettuate dall’azienda con il consenso delle altre organizzazioni sindacali. Infatti, uscendo da Confindustria, la Fiat ha voluto sottrarsi al dovere di rispettare il protocollo del 1993 che prevedeva la rappresentanza unitaria dei lavoratori, tra i quali vi sarebbero stati sicuramente anche membri eletti nella lista della Fiom.

Inoltre, un altro aspetto importante della vicenda è caratterizzato dalla condivisione, dell’esclusione della Fiom, con gli altri attori sindacali. E ciò si desume dal fatto che non vi sussiste nessuna clausola che assicuri la fruibilità dei diritti sindacali anche alla Fiom, e dal fatto che invece vi è presente una inusuale clausola che subordina l’eventuale adesione al contratto collettivo, da parte di altri soggetti sindacali, al consenso di tutti i firmatari.

A questo punto per la Fiom la via del conflitto giudiziario costituisce una via obbligata, proponendo numerosi ricorsi ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori. In essi verranno indubbiamente riproposti i problemi di

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legittimità costituzionale di un assetto che consente situazioni escludenti di questo genere, legate alla mancata firma di un accordo. La vicenda Fiat quindi mette a nudo la gravità della scelta referendaria, con il pericolo che l’art. 19 St. Lav. si presti ad essere utilizzato per costruire micro sistemi sindacali di comodo in ogni impresa, funzionali all’emarginazione delle rappresentanze più combattive, senza nessuna considerazione dell’effettiva e autentica capacità rappresentativa degli interessi dei lavoratori133.

La risposta giudiziaria si è contraddistinta per aver raggiunto conclusioni diametralmente opposte. Da un lato, rigettando la richiesta della Fiom, si è manifestata un’interpretazione aderente al testo dell’art. 19 che valorizza, come esclusivo criterio selettivo, la stipula del contratto collettivo applicato in azienda in base al quale una sindacato, anche se maggiormente rappresentativo, non può accedere ai diritti del titolo III dello Statuto qualora non risulta essere fra i soggetti stipulanti il suddetto contratto collettivo. A simili conclusioni perviene il Tribunale di Torino134 e quello di Lecce135 che affermano che la disposizione statutaria è chiara nel richiedere, per costituire rappresentanze sindacali aziendali, la sottoscrizione di contratti applicati nell’unità produttiva. Secondo il giudice torinese, in base al comma 2, art. 101 Cost136 che assoggetta il giudice alla legge, la parola “firmatarie” non può che riferirsi all’organizzazione sindacale che appone la propria firma su un documento, e che, in tal modo, vi aderisce facendolo proprio. Sulla base quindi di questa interpretazione, sono escluse dall’alveo dell’art. 19 St. Lav. condotte di partecipazione attiva alla trattativa negoziale non seguite dalla

133

F. LISO, Appunti su alcuni profili giuridici delle recenti vicende Fiat in GIORN.

DIR. LAV. e RELAZIONI IND., 2011, p. 335.

134

Tribunale di Torino, 13 aprile 2012. 135

Tribunale di Lecce, 13 aprile 2012. 136

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sottoscrizione delle ipotesi di accordo. Per questo giudice non è quindi praticabile attribuire all’art. 19 una ratio che ne eluda o ne aggiri il chiarissimo disposto letterale. Persiani137 però mette in dubbio l’interpretazione letterale. Per il giurista tale interpretazione è eccessivamente rigorosa in quanto tale giurisprudenza, applicando alla lettera l’art. 19 St. Lav., non ha preso in considerazione la mutata realtà caratterizzata dalla frattura dell’unità d’azione e dal mutamento del contesto delle relazioni industriali138. Oltretutto, si doveva prendere atto che la mancata sottoscrizione da parte della Fiom non era sicuramente conseguenza di una scarsa rappresentatività, ma frutto di una scelta di politica sindacale dalla quale non dovrebbero poter derivare conseguenze negative. Dall’altro lato, accogliendo la richiesta della Fiom, si ha invece un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione di legge (cioè l’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale con sentenze interpretative di rigetto nel corso degli anni ‘90), affermando che il diritto alla costituzione di rappresentanze sindacali aziendali ex art. 19 andrebbe non necessariamente vincolato alla sottoscrizione del contratto e quindi riconosciuto comunque, sulla base del principio di rappresentatività effettiva, laddove il sindacato abbia attivamente partecipato alle trattative e sia in grado di provare un’accertata rappresentatività in azienda. L’apripista di questo orientamento è il Tribunale di Bologna139 secondo il quale il dato formale della

137

M. PERSIANI, Ancora sul caso Fiat: eccessiva spericolatezza nel tentativo di

soddisfare le aspettative sociali ovvero eccessiva prudenza nella fedeltà alla legge

in GI, 2012, p. 3. 138

Lo scenario sindacale non era più quello a cui si era ispirato il legislatore del 1970 e che aveva condizionato il referendum del 1995 e gli stessi orientamenti della giurisprudenza costituzionale in cui tutti i sindacati sicuramente dotati di maggiore rappresentatività sottoscrivevano, a ragione dell’unità d’azione, tutti i contratti collettivi e che l’alternativa era soltanto quella che i contratti collettivi non fossero sottoscritti.

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materialità della sottoscrizione di un contratto di qualsiasi livello applicato all’unità produttiva non appare indispensabile, essendo più efficace il dato sostanziale dell’effettiva partecipazione al processo di formazione del contratto, anche se conclusa con il rifiuto di firmarlo. Anche il Tribunale di Napoli140 afferma la necessità di tale interpretazione perché consente alla norma statutaria di esplicare la funzione che essa ha, cioè quella di garantire l’esercizio dei diritti sindacali di cui al titolo III a tutte quelle associazioni sindacali che meritino tutela sulla base dell’effettività dell’azione sindacale nell’unità produttiva, evitando di farli esercitare da associazioni sindacali firmatarie ma che non possiedono quest’ultimo requisito. Persiani critica anche questo orientamento in quanto esso si muove dall’affermazione che l’art. 19 St. Lav. necessiti di un criterio sussidiario di interpretazione che consenta alla norma di esprimere la volontà del legislatore. Questa affermazione è priva di fondamento in quanto la norma in esame risulta chiarissima. Inoltre, a fondamento della propria interpretazione fragile, questi giudici hanno cercato di trarre legittimazione da alcune decisioni della Corte Costituzionale141. Quest’ultime però sono state impropriamente utilizzate, senza tener conto delle conclusioni a cui erano finalizzate. Innanzitutto queste avevano escluso un’interpretazione estensiva della norma. Questi giudici invece, dalla sentenza del 1996, estrapolano il dato dell’effettività, che la Corte utilizzava per circoscrivere il criterio legale di selezione142 previsto dalla norma (la sottoscrizione del contratto applicato in azienda), e gli conferiscono un carattere di

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Tribunale di Napoli, 12 aprile 2012. 141

Cfr. C. Cost. 4 dicembre 1995, n. 492 e C. Cost. 27 giugno 1996, n. 244. 142

La Corte Cost. faceva coincidere tale criterio con la capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale. Secondo essa non era quindi sufficiente la mera adesione formale ad un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorreva una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto.

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autosufficienza. Essi affermano che quel che conta, ai fini dell’applicazione dell’art. 19 St. Lav., è l’effettiva rappresentatività che può sussistere anche in mancanza della firma del contratto collettivo. Dando in tal modo un’ interpretazione estensiva alla norma. Per di più il giudice ordinario non può dare ad una disposizione della legge un’interpretazione “costituzionalmente orientata” diversa da quella data dai giudici costituzionali.

I giudici costituzionali avevano anche già esplicitamente statuito che, una volta che il referendum popolare ha stabilito che la rappresentatività sindacale deve essere accertata solo in base alla stipulazione del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, la possibilità di dimostrare la propria rappresentatività per altre vie diventa irrilevante ai fini del principio di uguaglianza143. Invece i giudici che hanno accolto le pretese della Fiom hanno ritenuto che la rappresentatività effettiva può essere desunta da indici differenti da quelli della mera sottoscrizione.

In sostanza per Persiani, l’alternativa di rimettere alla Corte Costituzionale la questione della sopravvenuta illegittimità costituzionale dell’art. 19 St. Lav. avrebbe costituito la soluzione più corretta per aprire la via ad una risposta generale e definitiva, evitando in tal modo il proliferare di provvedimenti giudiziari dai più disparati contenuti.

Così, dopo una certa riserva iniziale a coltivare un’eccezione di costituzionalità nei confronti dell’art. 19 St. Lav. perché si temeva una nuova bocciatura da parte della Corte, la Fiom la presenterà al

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Tribunale di Modena144 il quale la riterrà rilevante e non manifestamente infondata per contrasto con gli artt. 2, 3 e 39 Cost. Questo giudice ritiene impossibile addivenire ad un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione per l’univocità di essa che esclude che il giudice comune, attraverso gli strumenti interpretativi di cui dispone, possa forzare il dato letterale della norma fino ad attribuirle un significato volto a collegare la rappresentatività a criteri diversi dalla sottoscrizione del contratto collettivo (come quello della mera partecipazione al processo contrattuale, senza alcuna sottoscrizione, al suo termine, del contratto). I giudici di merito che avevano proposto tale interpretazione si erano dimenticati del limite invalicabile che consiste nel dischiudere il caso al giudizio della Consulta, proprio per evitare che si attribuiscano direttamente il compito di decidere creando una norma nuova e andando oltre il testo della stessa. Questo compito appartiene soltanto alla Corte Costituzionale, che l’ha esercitato con la pronuncia n. 231/2013145

. La questione di legittimità costituzionale proposta oggi si pone però in termini diversi da quelli in cui venne proposta all’indomani della modifica referendaria. Allora infatti si voleva evitare un’interpretazione della nuova norma uscita dal referendum che consentisse l’accesso alle prerogative di cui al titolo III anche a sindacati privi di effettiva rappresentatività, ma arbitrariamente accreditati dallo stesso datore di lavoro o che avessero sottoscritto un contratto collettivo che non dettava una disciplina completa ed organica dei rapporti individuali di lavoro. Oggi invece si vuole evitare che quelle prerogative siano negate ad un sindacato storicamente ed effettivamente rappresentativo soltanto per la scelta di

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Tribunale di Modena, 4 giugno 2012. 145

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non sottoscrivere un contratto collettivo considerato inidoneo a soddisfare gli interessi dei lavoratori. È quindi necessario non utilizzare, oggi, le stesse valutazioni che avevano caratterizzato le sentenze della Corte Costituzionale negli anni 1995 e 1996. Inoltre il principale motivo per il quale viene rimesso di nuovo il vaglio di costituzionalità dell’art. 19 St. Lav. alla Corte Cost. è il mutato contesto delle relazioni industriali caratterizzato, da un lato, dalla rottura dell’unità di azione dei sindacati maggiormente rappresentativi e dalla conclusione di contratti collettivi “separati”, e dall’altro, dalla realizzazione da parte delle società del Gruppo Fiat di un nuovo sistema contrattuale “auto-concluso ed auto-sufficiente”, uscendo dal sistema confindustriale e recedendo dal contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici. In presenza di tali condizioni il giudice modenese dubita che il criterio selettivo di cui all’attuale art. 19 possa essere ancora dotato di ragionevolezza e possa ancora costituire indice adeguato dell’effettiva rappresentatività di un sindacato. E proprio tale irragionevolezza dell’unico criterio esistente comporta che dalla sua utilizzazione consegua anche una discriminazione priva di ragionevole giustificazione (contrastando con l’art. 3 Cost) caratterizzata dall’esclusione di quel sindacato, che pur avendo partecipato alle trattative dimostrando in tal modo la sua effettiva rappresentatività, scelga poi di non sottoscrivere il contratto collettivo per libera scelta di libertà sindacale. E far scaturire da quest’ultima scelta la perdita del diritto alle prerogative che consentono di svolgere attività sindacale nei luoghi di lavoro viola anche l’art. 39 Cost.

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Sostanzialmente la stessa questione di legittimità costituzionale, con coincidenti argomentazioni, è stata sollevata anche dal Tribunale ordinario di Vercelli146 e dal Tribunale ordinario di Torino147.

3.3 La dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori da parte della Corte Costituzionale

“E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito delle associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiamo comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti.”

Lo ha dichiarato la Corte Costituzionale con la sentenza n. 231 del 23 luglio 2013 a seguito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Modena, Vercelli e Torino, riuniti con un’unica sentenza, avendo lo stesso oggetto. Con essa la Corte Costituzionale ha pronunciato una sentenza additiva perché ha aggiunto un dato normativo per rendere la norma costituzionalmente legittima, risultando precluso al giudice ordinario siffatta interpretazione adeguatrice148.

La Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’art. 19, co. 1, lett. b), legge n. 300/1970 nella parte in cui consente la costituzione di rappresentanze aziendali alle “sole associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità

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Tribunale di Vercelli, 25 settembre 2012. 147

Tribunale di Torino, 12 dicembre 2012. 148

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produttiva”, e non anche a quelle che abbiano comunque partecipato alla relativa negoziazione, pur non avendoli poi, per propria scelta, sottoscritti. Secondo i giudici rimettenti, il criterio previsto dall’art. 19 St. Lav., legittimando l’esclusione dal godimento dei diritti in azienda di un sindacato, pur effettivamente rappresentativo, per il solo fatto di non aver sottoscritto il contratto applicato nell’unità produttiva, si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3 e 39 Cost. a) per l’irragionevole disparità di trattamento che ne consegue tra associazioni sindacali con pari capacità rappresentativa, b) per la negativa incidenza sulla decisione dell’associazione sindacale riguardo alla sottoscrizione del contratto collettivo che ne risulta condizionata per la prospettiva di ottenere o meno i diritti di cui al titolo III, rispettivamente, firmando o non firmando, c) per l’irragionevolezza, data l’attuale condizione di rottura dell’unità sindacale, di una soluzione basata sul dato formale della sottoscrizione del contratto applicato e sganciato da qualsiasi raccordo con la misura del consenso dei rappresentanti.

Tali giudici rimettenti non ignorano le sentenze della Corte Costituzionale degli 1995 e 1996, le quali hanno escluso la fondatezza di identiche questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19 St. Lav., in riferimento agli stessi parametri (artt. 3 e 39 Cost.) ora richiamati. Però ritiene che tali pronunce vadano ripensate alla luce dei mutamenti avvenuti negli ultimi anni nelle relazioni sindacali.

Per le parti convenute la questione di incostituzionalità sarebbe inammissibile in quanto già decisa dalla Corte Costituzionale in senso di non fondatezza149, oltre ad avere un petitum incerto e complesso perché se “additivo”, omette di indicare il verso della pretesa addizione, se “demolitorio” rende la questione priva di rilevanza. In

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realtà la questione è ammissibile alla luce degli eventuali nuovi profili argomentativi a suo supporto offerti dal rimettente. Inoltre il petitum non è né incerto né perplesso perché i giudici rimettenti chiedono alla Corte una sentenza additiva che consenta di estendere la legittimazione alla costituzione di rappresentanze aziendali anche ai sindacati che abbiano attivamente partecipato alle trattative per la stipula di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, pur non avendoli sottoscritti. E non vi è invece alcuna richiesta per una decisione demolitoria perché ciò darebbe luogo ad un vuoto normativo colmabile solo dal legislatore.

Nell’accogliere le questioni costituzionali prospettate, la sentenza ricostruisce i diversi interventi della Corte succedutesi nel tempo in relazione alla norma impugnata. Le prime pronunce si hanno nei confronti della versione originaria di tale norma, prima dell’abrogazione parziale avvenuta con il referendum popolare del 1995. I dubbi di legittimità costituzionale, allora, riguardavano la mancata attribuzione ad ogni associazione sindacale esistente nel luogo del lavoro della possibilità di costituire rappresentanze sindacali aziendali. A partire dalla metà degli anni ’80, inizia a fiorire l’esigenza di elaborare nuove regole che ampliassero la cerchia dei soggetti destinatari delle prerogative previste nel titolo III dello Statuto, oltre ai sindacati maggiormente rappresentativi.

Più volte la Corte150 ha posto all’attenzione del legislatore questa necessità volta alla realizzazione di modelli di rappresentatività

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sindacale compatibili con le norme costituzionali e consoni alle trasformazioni sopravvenute nel sistema produttivo151.

A seguito della modifica referendaria, la normativa di risulta, nella sua accezione letterale, rischiava però di avere un’applicazione sbilanciata, pur essendo coerente con lo scopo di allargare le maglie dell’agire sindacale: da una parte, “in eccesso” quando l’espressione “associazioni firmatarie” veniva intesa nel senso della sufficienza di una sottoscrizione anche meramente adesiva del contratto, per diventare titolare dei diritti sindacali; dall’altra parte, “in difetto” quando invece tale espressione veniva interpretata come ostativa di tali diritti nei confronti di quelle associazioni che, se pur caratterizzate da ampio consenso dei lavoratori, avessero deciso di non sottoscrivere il contratto. In tal modo, in entrambi i casi, si avrebbe un’alterazione funzionale della norma per quanto riguarda il collegamento tra titolarità dei diritti sindacali ed effettiva rappresentatività del soggetto che ne pretende l’attribuzione. Con le pronunce successive al referendum la Corte ha preso in considerazione soltanto il primo di questi due profili. Infatti, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata, l’art. 19 ha superato il vaglio di costituzionalità, ritenendo che non è sufficiente la mera adesione formale ad un contratto, ma è necessaria una partecipazione attiva al processo di formazione di esso, oltre a doversi trattare di un contratto normativo idoneo a regolare in modo organico i rapporti di lavoro. Quindi sulla base di queste argomentazioni, per la Corte, il criterio previsto nella norma in esame corrisponde allo strumento di misurazione della forza di un sindacato, quindi, della sua rappresentatività.

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G. MARINO, Il sindacato non firma il contratto? Incostituzionale l’esclusione

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L’altro profilo viene invece ora ad esistenza con la vicenda Fiat. E nell’attuale mutato scenario delle relazioni sindacali, la Consulta ritiene necessaria una “rilettura” dell’art. 19 St. Lav. che ne riallinei il contenuto precettivo alla ratio che lo sottende. In questa nuova prospettiva, infatti, la norma censurata viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività, e si trasforma in un meccanismo di esclusione di un soggetto significativamente rappresentativo a livello aziendale, finendo per porsi in contrasto con le disposizioni costituzionali 2, 3 e 39.

Con l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo dell’irragionevolezza del criterio sotteso all’art. 19 e della disparità di trattamento che è suscettibile di ingenerare tra sindacati. Infatti, quest’ultimi sarebbero privilegiati o discriminati sulla base, non del rapporto con i lavoratori che rimanda al dato oggettivo della loro rappresentatività, ma del rapporto con l’azienda, per il rilievo attribuito al dato di aver prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa. Inoltre, se tale criterio condiziona il beneficio dei diritti sindacali solamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, risulta violato anche l’art. 39 Cost. per il contrasto con i valori del pluralismo e della libertà di azione dell’organizzazione sindacale. Ciò si traduce in una forma impropria di sanzione del dissenso che incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato riguardo la scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentanti. Sulla base di queste considerazioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità parziale della norma in esame, vanificando in tal modo gli sforzi della Fiat compiuti per superare la contrapposizione di Fiom. Quest’ultima infatti è nuovamente ammessa a costituire rappresentanze sindacali aziendali all’interno dell’impresa

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torinese perché, pur non firmandolo, aveva preso parte alle negoziazioni relative al Contratto collettivo specifico del 2010.

Pur fornendo un criterio di soluzione semplice e apparentemente esaustivo la pronuncia della Corte rivela alcune criticità. La prima riguarda il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato a cui la Corte deve attenersi nelle sue sentenze: il giudizio di quest’ultima deve vertere esattamente sulle questioni sollevate dai giudici rimettenti. Nella sentenza 231 si assiste a una parziale violazione di questo principio, in quanto le istanze di rinvio chiedevano la dichiarazione di illegittimità dell’art. 19 perché questo adottava un criterio che non teneva conto della misurazione effettiva della rappresentatività e dell’accesso e partecipazione al negoziato. Sono poste quindi due questioni, ma la Corte risponde solamente alla seconda, senza però precisare cosa si intenda per “partecipazione alle trattative”.

In secondo luogo si pone il problema dell’esaustività del criterio individuato dalla Corte per l’attribuzione dei diritti di cui al titolo III dello Statuto. Viene infatti da chiedersi se lo stesso criterio, ovvero l’effettiva attività contrattuale, sia onnicomprensivo, possa cioè applicarsi a ogni fattispecie di rapporti tra parte datoriale e lavoratori. La risposta è negativa e nella sentenza 231 la Corte stessa lo ammette. E proprio questo è il senso del monito presente nella sentenza stessa, con cui la Consulta invita il legislatore a dettare criteri selettivi della rappresentatività sindacale. Se quindi il giudizio della Corte risolve il caso Fiat – Fiom nello specifico, altrettanto non può dirsi dei problemi relativi alla disciplina della rappresentanza sindacale in azienda. Questo è d’altronde un ulteriore profilo di criticità della sentenza, che dovrebbe avere un carattere di generalità e astrattezza e risolvere eventuali aporie del diritto in un ottica differente da quella del caso in

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questione. Pare invece che in questo caso la Corte abbia ancorato la sua pronuncia al fatto concreto. E non è un caso che all’indomani della sentenza siano già stati proposti disegni di legge. Infine non si capisce quale sia l’impatto innovativo della sentenza. Forse la vera innovazione sarebbe stata una dichiarazione di incostituzionalità totale dell’articolo 19, nonostante il vuoto normativo che sarebbe risultato, in modo da obbligare l’intervento legislativo sull’assetto di una materia fondamentale che l’evoluzione dei rapporti sociali dimostra ormai obsoleto.

3.4 Il processo di “aziendalizzazione” della contrattazione collettiva

Nel bel mezzo della vicenda Fiat interviene l’accordo interconfederale unitario del 28 giugno 2011. Esso segna la ricomposizione della crisi dell’unità sindacale, e il tentativo di ricostruire un quadro certo di regole sindacali. La rapidità con cui si è raggiunto l’accordo152 dimostra che le Confederazioni sindacali e Confindustria avevano ben presente la necessità di definire regole condivise prima che il sistema fosse portato al collasso. Insita in tale accordo vi era anche la speranza di recuperare la Fiat, la cui uscita da Confindustria continuava ad essere considerata come traumatica, data la sua rilevanza d’immagine e di importanza economico-sociale.

Per la prima volta viene raggiunta un’intesa unitaria delle Confederazioni riguardo ad eventuali ipotesi di derogabilità del contratto collettivo nazionale. Anche la Cgil accetta l’ampliamento degli spazi a favore del contratto aziendale.

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Si tratta di una vera e propria rivoluzione dell’intero sistema delle fonti regolative della disciplina applicabile ai rapporti individuali di lavoro.

L’aspetto più innovativo è rappresentato dal primo punto di questo accordo. Esso riguarda la rappresentatività sindacale dell’organizzazione sindacale, che importa l’esperienza del settore pubblico153. Secondo tale punto, per accedere alle trattative di rinnovo del contratto collettivo nazionale, la rappresentatività sindacale dovrà essere verificata e misurata tramite la ponderazione dei dati associativi154 ed elettivi155 e superare le soglia del 5%156, e non più tramite mutuo riconoscimento negoziale. In questo caso si ritiene che l’accordo abbia fatto un passo avanti con riferimento alla misurazione della rappresentatività ai fini dell’ammissione al tavolo delle trattative con cui però non si obbliga a concludere il contratto157. Manca però un criterio di verifica della rappresentatività complessiva delle associazioni firmatarie dell’ipotesi di accordo ai fini della valida stipulazione del contratto collettivo158. Di conseguenza il contratto

153

Cfr. co. 1, art. 43, d. lgs. N. 165/2001: “L’ARAN ammette alla contrattazione collettiva nazionale le organizzazioni sindacali che abbiano nel comparto o nell’area una rappresentatività non inferiore al 5%, considerato a tal fine la media tra il dato associativo e il dato elettorale.”

154

Il dato associativo si calcola percentualmente rapportando le deleghe conferite dai lavoratori per il versamento dei contributi sindacali ad ogni associazione al totale delle deleghe conferite nel settore. La base di calcolo non è il totale dei lavoratori, ma il totale dei lavoratori sindacalizzati.

155

Il dato elettorale si calcola percentualmente rapportando i voti ottenuti da ogni associazione sindacale alle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie con il totale di voti espressi. La base di calcolo non è data da tutti i lavoratori, ma solo da quelli che hanno votato.

156

La soglia di rappresentatività non inferiore al 5% per l’ammissione alle trattative si ottiene sommando i valori percentuali relativi al dato associativo e al dato elettorale, e dividendo per due il risultato ottenuto.

157

G. S. PASSARELLI, Accordo interconfederale 28 giugno 2011 e art. 8 d. l. 138/2011 convertito con modifiche in l.148/2011: molte divergenze e poche convergenze in ADL, 2011, fasc. VI, p. 1228.

158

Questo sarà infatti successivamente previsto dal Testo Unico del 10 gennaio 2014. Cfr. co. 3, art. 43, d. lgs. 165/2001: “L’ARAN sottoscrive i contratti collettivi

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collettivo nazionale potrà legittimamente essere sottoscritto solo da alcune associazioni e non da altre, anche laddove l’associazione esclusa sia comparativamente più rappresentativa159.

Con riferimento al problema della contrattazione, tale accordo ribadisce la centralità e preminenza della contrattazione collettiva nazionale “con la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale” (punto 2 dell’accordo). Tuttavia valorizza la contrattazione decentrata, di livello aziendale, la quale “si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria o dalla legge” (punto 3). Si attribuisce al contratto aziendale la competenza a regolare una materia che il contratto nazionale rinuncia a disciplinare o, in relazione alla quale, detta solo una regolamentazione di principio destinata ad essere attuata ed integrata da quella di dettaglio affidata al contratto aziendale. La contrattazione aziendale non può però riproporre questioni che sono già state negoziate in altri livelli di contrattazione (cd. ne bis in idem). E in assenza di una delega espressa a regolamentare una determinata materia o “porzione di materia”, non può dettare alcuna regolamentazione.

Oltre a ciò, l’accordo configura anche ambiti di derogabilità in peius da parte dei contratti aziendali, i quali “possono infatti definire specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure

verificando previamente, sulla base della rappresentatività accertata per l’ammissione alle trattative ai sensi del comma 1, che le organizzazioni sindacali che aderiscono all’ipotesi di accordo rappresentino nel loro complesso almeno il 51 per cento come media tra dato associativo e dato elettorale nel comparto o nell’area contrattuale, o almeno il 60 per cento del dato elettorale nel medesimo ambito”. 159

Non esistendovi un obbligo alla sottoscrizione congiunta del contratto nazionale con tutte le associazioni sindacali convocate.

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previste da quest’ultimi” (punto 7). In quest’ultimo caso è lo stesso contratto nazionale che fa prevalere la disciplina derogatoria prevista dal contratto aziendale, dettando le materie derogabili. Il punto 7) prende anche in considerazione l’ipotesi in cui le modifiche al contratto nazionale non siano previste dal medesimo o in assenza dello stesso. In questi casi le deroghe peggiorative sono ammesse solo per determinate materie: la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro, e al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa. Tuttavia, non viene meno una gerarchia tra le fonti collettive, in quanto, nei casi appena menzionati, il contratto aziendale può derogare quello nazionale soltanto se le relative intese modificative siano sottoscritte dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda160 d’intesa con le associazioni territoriali delle confederazioni sindacali firmatarie dell’accordo interconfederale.

Ai sensi di tale accordo però, le deroghe contenute nei contratti aziendali non possono riguardare le norme inderogabili di legge. In conclusione l’accordo costruisce un sistema contrattuale fondato su due livelli, sotto il controllo delle confederazioni sindacali la cui rappresentatività è certificata e non presunta, sulla base di un principio gerarchico testimoniato dalla delega che sottolinea la stretta dipendenza del contratto aziendale da quello nazionale.

L’efficacia dei contratti aziendali viene presa in considerazione dalle clausole 4) e 5) dell’accordo. La prima regola l’ipotesi in cui il contratto aziendale sia sottoscritto dalla rappresentanza sindacale

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Tra queste si ricomprendono sia le rappresentanze sindacali unitarie, sia le rappresentanze sindacali aziendali.

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unitaria. In questo caso il contratto sarà efficace erga omnes per tutto il personale in forza e vincolerà tutte le associazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale operanti all’interno dell’impresa purché sia stato approvato dalla maggioranza dei componenti della rappresentanza sindacale unitaria. E’ quindi irrilevante l’appartenenza sindacale dei singoli componenti della rappresentanza ai fini dell’efficacia soggettiva dell’accordo raggiunto. L’eventuale voto contrario di un determinato sindacato non comporta la non applicazione del contratto nei confronti di questo e dei suoi iscritti. La seconda clausola disciplina invece il caso in cui il contratto aziendale sia concluso con le rappresentanze sindacali aziendali. In tal caso esso avrà pari efficacia se approvato dalle rappresentanze sindacali aziendali costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la stipulazione. Anche in questo caso il contratto aziendale produce effetti erga omnes anche nei confronti dei lavoratori iscritti ad eventuali organizzazioni sindacali dissenzienti. E ciò è confermato anche dalla stessa procedura, prevista nella clausola, volta a respingere i contratti collettivi stipulati dalle rappresentanze aziendali. Infatti se il contratto producesse effetti limitati sulla base del vincolo associativo, detta procedura non avrebbe ragione di esistere. Secondo questa procedura tali contratti approvati devono essere sottoposti al voto dei lavoratori promosso dalle rappresentanze sindacali aziendali a seguito di una richiesta avanzata, entro 10 giorni dalla conclusione del contratto, da almeno una organizzazione firmataria del presente accordo o almeno dal 30% dei lavoratori dell’impresa. Per la validità della consultazione è necessaria la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto. L’intesa è respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice dei votanti.

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Non vi è l’obbligo di procedere a consultazione se non espressamente richiesta. Inoltre, trattandosi di una consultazione volta a respingere l’intesa, il fallimento di essa o la sua mancata effettuazione non incide sulle sorti del contratto aziendale stipulato161.

Il vero elemento di novità di tale accordo interconfederale è proprio questo, quello di dare efficacia generale a tali accordi di diritto, se approvati a maggioranza, indipendentemente dall’adesione di tutte le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale. D’altra parte il nodo che la vicenda degli accordi Fiat aveva portato allo scoperto riguardava non la problematica della derogabilità dei contratti nazionali ad opera dei contratti collettivi aziendali, bensì l’effetto del dissenso di una delle organizzazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale, conseguendone la paradossale possibilità che le deroghe in peius pattuite a livello aziendale divenissero applicabili ai lavoratori aderenti alle associazioni sindacali stipulanti ma non ai lavoratori iscritti al sindacato dissenziente.

Il punto 6) invece prevede che le clausole di tregua sindacale162 contenute negli accordi aziendali, finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti, hanno effetto vincolante esclusivamente nei confronti delle associazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale e delle relative rappresentanze sindacali, e non nei confronti dei singoli lavoratori. Quest’ultima precisazione segna la distanza con l’accordo Fiat il quale al punto 12) prevede un’infrazione disciplinare sanzionabile in caso di eventuale violazione da parte dei singoli lavoratori di clausole dell’accordo.

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G. SANTORO PASSARELLI, op. cit., p. 1232. 162

Si tratta di clausole che vincolano i sindacati aziendali (rappresentanze sindacali aziendali e rappresentanza sindacali unitarie) a non indire scioperi, ma non i lavoratori, i quali conservano il diritto a partecipare a scioperi indetti dalle rappresentanze sindacali nazionali e territoriali.

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Indubbiamente possiamo quindi affermare che con questo accordo l’intento di Confindustria, Cisl e Uil era quello di ottenere una sorta di legittimazione, anche se ex post, della contrattazione aziendale svolta nei siti produttivi di Mirafiori e Pomigliano. In tal senso si può comprendere la reazione negativa del sindacato dei metalmeccanici della Cgil, che vede nell’accordo un avallo alla posizione delle associazioni sindacali che hanno stipulato le intese con il gruppo torinese. Meno comprensibile è l’insoddisfazione dell’azienda automobilistica in quanto di più l’accordo non poteva fare. Ma dietro questa reazione negativa non c’è forse una disapprovazione dell’accordo in sé, per i limiti della sua operatività, quanto il perseguimento di una linea di distacco e fuoriuscita dal sistema confederale, che non viene meno in presenza di un’intesa fra le Confederazioni che pure vorrebbe recuperare istanze di flessibilità del quadro regolamentare a livello di azienda163.

Dal punto di vista poi della rappresentanza sindacale in azienda, l’accordo interconfederale rappresenta l’unica garanzia che l’esperienza della rappresentanza unitaria non venga travolta da eventuali conflittualità intersindacali. Infatti quelli esplosi a seguito della firma degli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori dimostrano che la fonte legale, ossia la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali ai sensi dell’art. 19 St. lav., potrebbe rappresentare l’ancoraggio necessario nel caso in cui la rottura fra le associazioni sindacali aderenti alle Confederazioni determini, in alcune categorie, la crisi della rappresentanza unitaria.

Liberatesi del contratto collettivo dei metalmeccanici e degli accordi e contratti precedenti, tramite l’uscita da Confindustria, la Fiat, per

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G. FONTANA, L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 (e i suoi

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mettere in pratica il suo disegno di destrutturazione del diritto del lavoro, punta a liberarsi anche delle leggi, e a tal fine trova un buon alleato nel legislatore, il quale, interrompendo il descritto processo di ricomposizione del sistema di relazioni sindacali, prevede l’art. 8 del decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011, convertito con legge n. 148/2011, nell’evidenza di una sostanziale sfiducia nel modello previsto dall’accordo del 2011, giudicato insufficiente a comporre un’effettiva pacificazione sindacale. L’articolo in esame rappresenta un vero e proprio intervento a gamba tesa nel sistema di relazioni sindacali, il cui effetto immediato potrebbe essere quello di vanificare lo sforzo di sintesi unitaria compiuto dai più importanti protagonisti della scena sociale164. Considerato un intervento che si intromette d’autorità in una materia tradizionalmente tipica dell’autonomia collettiva, realizzando un’indebita invasione di competenze. Il legislatore poteva limitarsi a sancire l’efficacia generale degli accordi stipulati secondo i criteri e nelle materie delimitate dall’accordo del 2011, assicurando in tal modo anche gli obbiettivi di flessibilità richiesti dalla comunità internazionale, senza effettuare alcuna invasione di campo. Con questo intervento legislativo si è voluto ulteriormente rafforzare il contratto di secondo livello, attribuendogli il potere di regolare, e a prescindere da una specifica delega da parte della contrattazione collettiva nazionale di lavoro, un consistente numero di materie, con un effetto decisamente dirompente per l’intero diritto del lavoro, perché foriero di una nuova fase mirata ad un vero e proprio decentramento strutturale della disciplina.

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F. SCARPELLI, Rappresentatività e contrattazione tra l’accordo unitario di

giugno e le discutibili ingerenze del legislatore in Working Paper C.S.D.L.E.

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Esso prevede, al primo comma, che i contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale165 da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali166 operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 possono realizzare specifiche intese con efficacia generale, cioè nei confronti di tutti i lavoratori interessati, a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali. Segue poi un elenco assai ampio delle finalità perseguite e, al seconda comma, delle materie che possono essere de-regolate.

La norma però più incisiva e innovativa, diversamente dall’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, è quella contenuta nel comma 2 bis dell’articolo ove si prevede che le specifiche intese di cui al comma 1 possono derogare in peius non solo alle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali, ma anche alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 (fermo restando il rispetto della Costituzione nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro). Deviando platealmente dall’accordo interconfederale e dai principi generali, l’art. 8 accomuna sotto la stessa disciplina l’efficacia generale della contrattazione aziendale, sia questa spesa in deroga al contratto collettivo nazionale o alla legge. Una disciplina sprovvista di un’effettiva vigilanza esercitata dall’alto e provvista invece di un’area espansiva ampia ed incisiva dove la contrattazione aziendale con

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Definiti, nella rubrica della norma, contratti collettivi di prossimità. 166

Con tale termine, essendo genericamente evocate con un richiamo all’accordo del 28 giugno 2011, si intende ricomprendere sia la figura delle rappresentanze unitarie come quella delle rappresentanze aziendali di cui all’art. 19 St. Lav.

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