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IL CONTROLLO DELLA SODOMIA NELLA CRISI RELIGIOSA DEL CINQUECENTO

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Parte terza

IL CONTROLLO DELLA SODOMIA

NELLA CRISI RELIGIOSA DEL CINQUECENTO

Nella seconda metà del Cinquecento l'atteggiamento istituzionale nei confronti della sodomia e la sua repressione giudiziaria subirono, a Lucca, alcuni significativi mutamenti. Alle procedure di giustizia abbreviata degli anni '50 e '60 si sostituirono, nel corso dei decenni successivi, procedimenti penali molto più complessi. Inoltre, a partire dagli anni '70 (ma soprattutto tra gli anni '80 e '90 del Cinquecento) dal controllo di stampo trado-comunale, contraddistinto da una sorveglianza capillare ma da pene relativamente blande, si passò (come vedremo) ad un numero sempre più esiguo di imputazioni a cui però seguirono, con più frequenza che in passato, punizioni più severe. Cercare di comprendere le ragioni di questi mutamenti sarà l'oggetto di questa terza – e ultima – parte della ricerca.

Il Cinquecento era stato per Lucca un secolo di sconvolgimenti politici e sociali, nel corso dei quali la piccola Repubblica aveva dovuto più volte temere per la propria indipendenza. Sotto la minaccia costante dell'invasione medicea1,

con la caduta di Siena nel 1555 si ritrovò ad essere l'ultima repubblica cittadina a sopravvivere alla disgregazione del sistema degli antichi stati italiani, accelerato dall'infuriare delle guerre per il predominio sulla penisola che, nella prima metà del secolo, avevano contrapposto l'Impero e la Francia2. Gelosa della propria

indipendenza, Lucca fu costretta ad un costante gioco diplomatico per sopravvivere al conflitto tra le grandi potenze. Ciò che la teneva viva era l'ampiezza dei suoi traffici commerciali e le strette relazioni economiche con le città d'oltralpe (francesi, svizzere e, sul finire del secolo, soprattutto tedesche) dove i mercanti lucchesi, con le loro attività commerciali (strettamente legate agli interessi della madrepatria) avevano una lunga tradizione di insediamento.

1 Vedi Berengo, Nobili e mercanti, cit., cap. 3, Lucca e Firenze, pp. 147-234. 2 Ibid., pp. 218 e sgg.

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Il governo aveva saputo far fronte a due gravi crisi interne tra gli anni '20 e '30 del secolo. Due insurrezioni, quella dei Poggi e quella degli “straccioni”, da due estremi opposti avevano rischiato di mettere in crisi i tradizionali ideali di

“medietas” che ispiravano il ceto dirigente repubblicano. Con la sconfitta del

primo la città riuscì a scongiurare l'affermazione di un potentato familiare al di sopra degli altri casati. Con il secondo, esploso nel ceto degli artigiani tessitori, l'élite al comando si aprì, integrando parzialmente i ceti intermedi urbani e neutralizzando, attraverso il moderato riconoscimento del diritto di rappresentanza negli organi di governo, il loro potenziale sovversivo3. Fu proprio questa nuova

connotazione sociale della classe dirigente a rendere meno radicale, rispetto ad altri contesti urbani dell'Italia del Cinquecento, la serrata oligarchica impressa dalla cosiddetta Riforma martiniana del 1556. Escludendo i forestieri e gli abitanti del contado dalle cariche pubbliche, essa non ebbe, come altrove, un carattere di esclusione sociale, limitandosi ad imprimere una più netta caratterizzazione in senso cittadino del governo4.

Nonostante questa capacità di tenuta, molti furono i colpi provenienti dall'esterno che, nel Cinquecento, misero in crisi le istituzioni lucchesi. La metà del secolo segnò infatti il tramonto di un'età di relativa prosperità economica, inaugurando un decennio di grave crisi per l'esercizio della mercatura. Nel maggio 1552, dopo il crollo di alcune compagnie minori, fallì anche la «Cenami, Parensi, Saminiati» che, “con le sue tre sedi a Lucca, Lione e Anversa, era allora una delle maggiori compagnie lucchesi”5. Alla crisi economica si aggiunsero le gravi

carestie che, protraendosi per anni, prostrarono la città, suscitando nel governo la costante preoccupazione di una imminente rivolta del pane6.

Ma fu soprattutto la crisi religiosa a mettere in discussione la tenuta stessa dell'unità istituzionale e la conservazione dell'indipendenza del “pacifico et populare stato”. Nel Cinquecento, con la Riforma protestante, si rompeva per sempre la millenaria unità di fede del mondo cristiano-occidentale7. Nonostante la

3 Berengo, Nobili e mercanti, cit., pp. 83-146. 4 Ibid., pp. 243-4.

5 Adorni-Braccesi, «Una città infetta», cit., p. 220. 6 Ibid., p. 348.

7 R. Bainton, La Riforma protestante, Torino 1982; E.G. Leonard, Storia del protestantesimo, Milano 1971; H.A. Obermann, I maestri della riforma. La formazione di un nuovo clima intellettuale in Europa, Bologna 1982; Id., La Riforma protestante da Lutero a Calvino, Roma-Bari 1989; H. Schilling, Ascesa e crisi. La Germania dal 1517 al 1648, Bologna 1997; L.

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vittoria incontrastata della Chiesa cattolica romana nel definire gli steccati dell'ortodossia ne abbia per molto tempo cancellato la memoria, anche nella penisola italiana il secolo XVI fu una fucina di idee e di sperimentazioni religiose, e alla ricezione dei testi dei grandi riformatori d'oltralpe era seguita, al di qua delle Alpi, un'opera di interiorizzazione dai caratteri originali. Benché, nei suoi esiti ultimi, l'incapacità della “Riforma italiana” di sfociare in una vera e propria azione politica può essere considerata la causa del suo fallimento, proprio l'instabilità e la molteplicità delle sue forme hanno contribuito a determinarne la creatività. L'adesione alle dottrine riformate ebbe, nella penisola, un carattere essenzialmente urbano e assunse, nei diversi contesti, caratteristiche specifiche. Non è certo questa la sede per compiere una accurata ricostruzione della topografia del dissenso religioso nell'Italia del Cinquecento, ma città come Venezia, Ferrara, Modena, Cremona, Firenze, Napoli, avevano le loro “conventicole” eterodosse, in cui era vissuta una fede ricondotta all'essenziale, spogliata dal rapporto superstizioso e magico con il rituale, fortemente critica nei confronti della corruzione ecclesiastica, scettica di fronte all'arida contabilità di meriti e demeriti su cui era incentrato il magistero della Chiesa, ripulita dalle mille forme devozionali e dal proliferare di culti locali. Non è facile ridurre la pluralità delle esperienze ad una precisa matrice confessionale, tanto più che la maggior parte delle fonti che abbiamo oggi a disposizione per ricostruire le vicende del dissenso sono quelle inquisitoriali. Se il calvinismo ebbe un buon seguito, come anche correnti radicali (anabattistiche e antitrinitarie), molto peso è stato dato nella storiografia recente all'influenza del valdesianesimo89.

Schorn-Schutte, La Riforma protestante, Bologna 1998; E. Troeltsch, Il protestantesimo nella formazione del mondo moderno, Firenze 1960; M. Weber, Etica protestante e “spirito” del capitalismo, Firenze 1965.

8 Juan de Valdés era un nobile spagnolo rifugiatosi a Napoli dopo essere stato sospettato di eresia e alumbradismo. I suoi discepoli nella città partenopea contribuirono alla diffusione del suo insegnamento religioso in numerose città italiane. Si costruì una rete di accoliti della quale facevano parte anche esponenti dei ceti dirigenti, alti prelati e uomini di Chiesa. Ispirate alla ricerca di un'illuminazione interiore, di un contatto profondo con il divino nel cuore e nella coscienza del credente (anche prescindendo dal supporto diretto delle Sacre Scritture), le riflessioni del Valdés non spingevano all'azione politica rivoluzionaria, ma a riformare spiritualmente dall'interno la Chiesa istituzionale.

9 Per una sintesi sulla Riforma in Italia, M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell'Italia del Cinquecento, Roma-Bari 1993, alla cui bibliografia, fino alla data di edizione, rimando per ragioni di sintesi. Inoltre, all'oggi è ancora un fondamentale strumento di ricerca la bibliografia curata da John Tedeschi, The Italian Reformation of the Sixteenth Century and the Diffusion of renaissance Culture: a Bibliography of the Secondary Literature, Modena 2000.

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Con Venezia, considerata la “«porta» della Riforma” in Italia10, Lucca fu una

delle città che destò più preoccupazioni per il dilagare dell'eresia. La Repubblica era divisa tra i seguaci dell'ortodossia romana e gli aderenti alle nuove correnti religiose filo-riformate, gli uni raccolti intorno al convento domenicano di san Romano, gli altri a quello di San Frediano, dai pulpiti del quale i canonici lateranensi, predicando la dottrina della giustificazione ex sola fide, si erano fatti un seguito di proseliti di cui facevano parte membri tra i più illustri dell'élite mercantile e di governo, così come esponenti di famiglie “mediocri” e popolari. Le istituzioni lucchesi, formalmente sempre fedeli alla Chiesa di Roma, di fatto protessero gli eretici, istituendo propri processi tramite una magistratura secolare, l'Offitio sopra la religione, per coprire e favorire, di fatto, la fuga oltralpe dei cittadini sospetti. Da quando nel 1542 fu istituito il Tribunale del Sant'Uffizio Romano, la Repubblica respinse per oltre un trentennio i continui tentativi, da parte della Curia papale, di isituire a Lucca una sede inquisitoriale, difendendo la propria autonomia giurisdizionale e politica al prezzo di un'estenuante battaglia diplomatica11.

Resta ora da comprendere in che modo il controllo della sessualità deviante subì l'influenza di questi avvenimenti, e lo faremo procedendo in due direzioni: da un lato cercando di capire se e, nel caso, quali furono i raporti tra il controllo dell'eresia e quello della sodomia, dall'altro se il progressivo rientro nell'alveo

10 Firpo, Riforma protestante, cit., p. 11.

11 Sulla crisi religiosa a Lucca, vedi Berengo, Nobili e mercanti, cit., pp. 357-454 e soprattutto, Simonetta Adorni Braccesi, «Una città infetta», cit. Altrettanto importanti i numerosi articoli della studiosa lucchese. Ricordiamo per ora solo: La repubblica di Lucca e l'«l'aborrita Inquisizione: istituzioni e società», in L’inquisizione romana in Italia nell’età moderna. Archivi, problemi di metodo e nuove ricerche. Atti del seminario internazionale, Trieste, 18-20 maggio 1988, Roma 1991, pp. 233-262; Libri e lettori a Lucca tra Riforma e Controriforma: un'indagine in corso, in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, Ferrara-Modena 1987, pp. 39-46. Importanti anche i recenti apporti dati alla ricerca da Simone Ragagli: La repubblica e il Sant’Uffizio. Il controllo delle coscienze nella Lucca del secolo di ferro, tesi di perfezionamento presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, anno accademico 2008/2009, relatore prof. Adriano Prosperi; Il mercante come inquisitore nella libera Lucca del Cinquecento, in G. Paolin (a cura di), Inquisizioni: percorsi di ricerca, Trieste 2001, pp. 131-180. Inoltre E. Gandolfi, La riforma a Lucca: un quadro dell'origine e della diffusione del movimento riformatore, in «Actum Luce» 1980 (1-2), pp. 31-65 e Salvatore Caponetto, La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino 1997. Da segnalare, per la contestualizzazione del caso lucchese in Europa, il recente contributo di O.P. Grell, Brethern in Christ. A Calvinist Network in Reformation Europe, Cambridge 2011.

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della Controriforma abbia influito in qualche modo sul controllo dei comportamenti sessuali.

Cap. XII

Sodomiti ed eretici

Abbiamo già visto nella prima parte di questo studio come l'associazione tra devianza religiosa e non conformità sessuale fosse uno stereotipo che, affondando le sue radici in tempi molto antichi, aveva avuto ampia diffusione nel Medioevo. Per quanto nel Quattrocento il vincolo si fosse allentato, e la sessualità non procreativa, suscitando profonde preoccupazioni (e richiamando specifiche strategie di controllo), avesse assunto uno status a sé, l'esplosione nel Cinquecento dei conflitti religiosi aveva ridato nuova linfa ad antiche, e mai sopite, paure.

Cominciamo da un fatto di cronaca: il parto mostruoso di una monaca di Ravenna. L'episodio aveva destato, a cavallo dei primi due decenni del Cinquecento, curiosità e preoccupazione. Dal momento che la lettura allegorica degli eventi che rompevano il corso ordinario della natura assumeva, all'epoca, anche un connotato politico, sarebbe errato leggere dietro il moltiplicarsi delle rappresentazioni del fenomeno solo una morbosa curiosità per i prodigi. Nell'Italia sconvolta dalle guerre che opponevano Francia e Impero – tra la calata di Carlo VIII e il trauma del sacco di Roma – l'angoscia del popolo trovava infatti una catarsi nella predicazione profetica, e ogni evento straordinario era interpretato come un segno divino, come un messaggio al contempo minaccioso e salvifico: se colto nel suo significato, poteva aprire la strada alla conversione, alla penitenza e alla riconciliazione con Dio ma, ignorato o non compreso rettamente, diveniva foriero di nuove sciagure. Terremoti e carestie, pestilenze e inondazioni, ma anche le nascite mostruose di animali e infanti costituivano il tessuto di segni che i profeti e i predicatori erano chiamati a decifrare, tanto che tra Quattro e Cinquecento l'interpretazione divinatoria della deformità diede vita a un vero e

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proprio filone letterario all'interno del profetismo rinascimentale12.

L'autore di un seguito del Chronicon di Procopio di Cesarea, aggiornato al 13 giugno del 1512, aveva dedicato l'ultima pagina della sua opera alle guerre d'Italia: dopo aver ricordato i preparativi bellici di Giulio II, il sacco di Brescia e la presa di Ravenna, aveva concluso la sua trattazione proprio con la descrizione del mostro, “degno sigillo apposto da Dio alla storia che gli uomini si costruiscono con [...] le loro male opere”. La creatura era già stata descritta in questi termini nel primo documento che ci sia pervenuto sull'inquietante vicenda:

Haveva la testa grossa, con un corno nella fronte et una bocca grande; nello petto tre lettere come vedi qua: YXV, con tre peli allo petto; una gamba pelosa con una zampa de diavolo, l'altra gamba de homo con un occhio in mezzo alla gamba; mai homo se recorda simile cosa”13

Le sue deformità erano interpretate allegoricamente nella rivisitazione del

Chronicon: il corno era un simbolo della superbia, le ali dell'incostanza e

dell'instabilità della mente, l'assenza delle braccia della mancanza di buone opere, la zampa ungulata della rapacità, dell'usura e dell'avarizia, l'occhio sulla gamba dell'interesse esclusivo per le cose basse e terrene. L'autore aggiunse dei particolari assenti nella prima descrizione, uno dei quali, tuttavia, era già stato assunto come elemento stabile nella rappresentazione iconografica della creatura: la presenza di ambo i sessi, segno, a suo avviso, della diffusione della sodomia14.

Con l'esplosione dei conflitti religiosi gli opuscoli sui mostri divennero uno strumento di propaganda confessionale. L'8 dicembre del 1522 a Waltersdorf presso Freiberg, in Sassonia, fu trovato nell'utero di una vacca un feto deforme. Per i suoi oppositori, era l'immagine di Lutero, mentre per il riformatore tedesco era un'incarnazione simbolica della corruzione dei monaci cattolici15. Si riconobbe

un segno della persona del teologo sassone anche dietro ad un essere “difforme et monstruoso” nato a Castelbaldo presso Padova, nel 1526: di nuovo, nella

12 O. Niccoli, Profeti e popolo nell'Italia del Rinascimento, Roma-Bari 2007 (prima edizione 1987), capitolo II: Mostri. Divinazione e propaganda nei fogli volanti, pp. 473 sgg.

13 Sebastiano di Branca Tedalini, Diario romano dal 3 maggio 1485 al 6 giugno 1524, a cura di P. Piccolomini, RIS, tomo XXIII, parte III, p. 327, citato in Niccoli, Profeti e popolo, cit., p. 53. 14 Ibid., pp. 76-77.

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“signification” simbolica e divinatoria delle membra della creatura, al piede torto e al “brazo imperfecto”, si aggiungeva il “membro masculino [...] qual è di dreto via”, a significare “il grandissimo et spuzzolentissimo peccato contro natura che ogidì regna al mondo, per il qual Dio prometterà questo falso profeta che'l vegni a flagelar la christianitade”16.

A prestar fede alle ansie di profeti e indovini, i flagelli non si fecero attendere. Quando nel 1527 le truppe imperiali devastarono Roma per punire l'alleanza del pontefice con il sovrano francese, all'indomani del terribile sacco molti videro nello scempio delle truppe tedesche una punizione divina per i peccati della Chiesa. In una sala della Farnesina, un lanzichenecco aveva inciso con la punta della sua picca il nome di “Babilonia” su un affresco che raffigurava Roma, lasciando una cruda testimonianza di quel luogo comune che, nell'iconografia riformata, vedeva nelle sette teste del drago su cui sedeva la città biblica una prefigurazione dei sette colli di Roma17. All'indomani del sacco, un prete spagnolo

aveva descritto in una sua opera, con un tono a volte più malinconico che accusatorio, le mille nefandezze che avevano macchiato il mondo di cui aveva a lungo fatto parte. Roma era «trionfo dei ricchi, paradiso delle puttane, purgatorio dei giovani, inferno di tutti, fatica delle bestie, illusione dei poveri, covo dei furfanti»; «Roma Babilonia», «Roma meretrice», «cappa di tutti i vizi», «concubina di tuti quelli che vi arrivano»; a Roma circolavano «trentamila puttane e novemila rufiani», e “i rimedi più efficaci contro la sterilità femminile” erano «unghie di sacrestano in calore», «lenzuolo di frate», «sottana di chierico maschio»18.

Molti furono i testi satirici e irriverenti scritti contro i papi. Tra le pagine dei diari di Marin Sanudo era conservato un Soneto fato contra papa Julio Secondo, scritto da un cesenate, in occasione della sosta del pontefice nella sua città durante la spedizione militare contro Perugia e Bologna:

16 Testo anonimo cit. in Niccoli, Profeti e popolo, cit., p. 173. 17 Niccoli, La vita religiosa, cit. pp. 102-3.

18 M. Firpo, Dal Sacco di Roma all'Inquisizione. Studi su Juan de Valdes e la Riforma italiana, Alessandria 1998, pp. 32-33. L'opera citata dall'autore è la traduzione italiana, a cura di Luisa Orioli di: Francisco Delicado, La Lozana andalusa, Milano 1970.

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Bastiti esser provisto

de Corso, de Tribiam, de Malvasia, e de' bei modi assai de sodomia; menor biasmo te fia

[...] nel sacro palazo

tenir a bocha il fiasco e in cullo el cazo19

Paolo III Farnese e la sua prole furono bersagli di molte pasquinate, composizioni satiriche che denigravano con violenza i costumi corrotti della Chiesa20. Un'epistola in morte di Paolo III racconta il viaggio estatico che aveva

consentito ad un tale P. Aesquillus (evidentemente, Pasquillo, protagonista ricorrente, con Marforio, di questi graffianti componimenti poetici) di assistere alla dipartita del pontefice, di cui descriveva l'accoglienza nel regno dei demoni e il suo incontro con il figlio, che lo aveva preceduto nell'oltretomba. Mentre il suo discendente gli correva incontro – racconta il protagonista del transito “mistico” – con un fallo appeso al collo e circondato da una turba di giovani che reggevano, con il sedere scoperto, bandiere con l'effigie del membro virile, nei vestiti del pontefice nulla mancava “all'ornamento proprio di una prostituta”. Il corteo era accolto nella città di Dite, tra i cui archi trionfali era rappresentato lo stupro irruente con cui il figlio del papa si diceva avesse ucciso il giovane vescovo di Fano, Cosimo Gheri21. Altri versi descrivevano Pier Luigi Farnese come “quel

cazzo furbo e mariuolo / che volea tutti i culi per lui solo”. Ovviamente anche papa Carafa, l'inquisitore, non si salvò dalle accuse al vetriolo dei suoi detrattori, che così ne celebrarono l'ascesa al soglio pontificio:

O sia tu il benvenuto, messer Chieti, vieni al mio giardino forse per fave? Se questo è vero , n'ho delle più brave, e di quelle che piacciono a voi preti22.

19 In O. Niccoli, Rinascimento anticlericale, Roma-Bari 2005, p. 83.

20 C. Damianaki, P. Procaccioli, A. Romano (a cura di), «Ex marmore». Pasquini, pasquinisti, pasquinate nell'Europa moderna, Manziana 2006; M. Firpo, Pasquinate romane del Cinquecento, in «Rivista storica italiana» 1984 (96), pp. 600-621; A. Marzo (a cura di), Pasquino e dintorni. Testi pasquineschi del Cinquecento, Roma 1990; V. Marucci, A. Marzo, A. Romano (a cura di), Pasquinate romane del Cinquecento, 2 voll., Roma 1983.

21 Niccoli, Rinascimento anticlericale, cit., pp. 119-120.

22 Cit. in Niccoli, Rinascimento anticlericale, cit., p. 168. Anche al di fuori dell'ambito italiano le reciproche accuse di inversione sessuale sono state un luogo comune nella polemica tra

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Anche a Lucca, nel momento in cui le simpatie di una parte del ceto dirigente per le idee riformate si facevano più esplicite, aprendo una lacerazione all'interno della comunità, le accuse reciproche tra i filo-protestanti e i difensori dell'ortodossia hanno spesso contenuto allusioni più o meno esplicite alla condotta sessuale. Nella seconda metà del Cinquecento, mentre molti dei primi cittadini sceglievano di seguire la via dell'esilio, professando la fede riformata al di là delle alpi (soprattutto a Ginevra)23, intorno al convento di San Romano i partigiani della

Chiesa romana davano vita alla confraternita laicale dei Colombini, destinata a diventare il bastione dell'ortodossia lucchese. L'impegno dei laici era cementato dall'opera di predicazione di figure carismatiche come il frate francescano Antonio Giovanni da Busseto, così come dalla capacità organizzativa di San Giovanni Leonardi, fondatore a Lucca della congregazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio ed esempio dello sforzo di riorganizzazione e moralizzazione del clero militante in epoca post-tridentina. Queste nuove strutture seppero intercettare a proprio favore il disagio delle fasce sociali intermedie, minacciate dalla crisi economica, incanalando in chiave anti-protestante il loro risentimento nei confronti della classe dirigente. Quella stessa elite politica che aveva nutrito nel suo seno una adesione ampia alla riforma, e che aveva anche protetto dalle ingerenze dei tribunali ecclesiastici molti cittadini, era anche quella che custodiva gelosamente la propria gestione monopolistica del potere, mantenendone ai margini gli esponenti di famiglie integrate ormai da tempo (ma in una posizione di secondo piano) nella vita politica cittadina. Fu questo l'humus nel quale maturò,

cattolici e protestanti. Sulla Francia delle guerre di religione vedi Crompton, cit., pp. 322-4; sulla Svizzera e i territori germanici v. Puff, Sodomy, cit.; sui pregiudizi degli anglicani nei confronti del papato: Bray, Homosexuality in Renaissance England, cit., p. 19.

23 Sull'esilio a Ginevra e la comunità riformata italiana nella città svizzera è ancora fondamentale lo studio di A. Pascal, Da Lucca a Ginevra. Studi sull'emigrazione religiosa lucchese nel secolo XVI, in «Rivista storica italiana» 1932 – 1933 – 1934 – 1935; Indispensabili anche in questo campo gli apporti di S. Adorni Braccesi, Le Nazioni lucchesi nell'Europa della Riforma, in «Critica storica» 1991 (3), pp. 363-426; ead., Tra fuga e partita: Italiani a Ginevra nel Cinquecento, in A. Prosperi, M. Donattini, G.P. Brizzi (a cura di), Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, Roma 2001, pp. 23-44; ead., Strategie politiche e proselitismo religioso degli esuli lucchesi tra confessionalismi e libertà di coscienza nella seconda metà del XVI secolo, in S. Peyronel Rambaldi (a cura di), Circolazione di uomini e d’idee tra Italia ed Europa nell’età della Controriforma: Atti del XXXVI Convegno di studi sulla Riforma e i movimenti ereticali in Italia (Torre Pellice, 1-3 settembre 1996), Torre Pellice 1997.

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negli anni '70 del Cinquecento, la congiura ordita da Lorenzo dal Fabbro, un complotto “confusamente destinato a insediare a Lucca l'Inquisizione, sbaragliare i residui nuclei riformati, e compromettere davanti alle potenze cattoliche il governo lucchese”24. In occasione della visita apostolica di Giovan Batista Castelli

nella diocesi, il Dal Fabbro, “giovane mercante di seta dalle fortune recenti”25, con

l'appoggio di una decina di concittadini (tra artigiani e giovani chierici) e con il significativo appoggio del patrizio Gherardo Penitesi, denunciò come eretiche circa novanta persone. Ne scoppiò un caso giudiziario che si protrasse per alcuni anni, coinvolgendo anche l'Inquisitore della vicina città di Pisa e il tribunale del Sant'Uffizio Romano. La tenacia con cui il governo lucchese difese il diritto di giudicare da sé i propri cittadini è testimoniata dal clamoroso arresto di alcuni confidenti del Castelli, che costò al Gonfaloniere di Giustizia e a due dei Magistrati dei Segretari allora in carica l'arresto a Roma26. Negli anni '70 del

Cinquecento, dunque – scrive Simonetta Adorni Braccesi – “un'intera città venne sospettata di eresia. Ben cinquantasette persone appartenevano a famiglie già ben note alla giustizia vescovile o all'Offitio sopra la Religione per le loro simpatie eterodosse e ormai, accanto a famiglie «mezzane» e artigiane, alcuni grandi casati, soprattutto quelli che contavano tra i loro membri degli esuli in terra ginevrina, arrivavano a contare “fino a tre generazioni di «malsenzienti»”27.

Se uno dei delatori, pentito di avere ceduto alle pesanti richieste degli “spirituali”, confessò all'Inquisitore pisano di aver ricevuto forti pressioni per «far parte dei 7-8 o più che erano loro d'accordo a denunciare e accusare a Monsignor Visistatore li heretici, sodomiti e mali christiani di Lucca affinché ne risultasse l'honor di Dio sopra di ciò»28, dal canto suo il Dal Fabbro, personaggio amato

«per la sua bontà» dalle persone semplici che era riuscito a coinvolgere nel complotto, aveva fama di sodomita presso i suoi detrattori. Fedele al convento di

24 S. Adorni Braccesi, Una città “infetta”: Lucca nei contrasti religiosi del '500, tesi di dottorato, Università di Pisa e Firenze (I° ciclo, 1983-1986), p. 509.

25 Ead., «Un città infetta». La repubblica etc., cit. p. 381.

26 Sulla confraternita dei Colombini, sui Chierici regolari della Madre di Dio e sul “trattato” di Lorenzo dal Fabbro vedi Adorni Braccesi, tesi di dottorato, cit., cap. X, L'altra Controriforma: Conventi e Confraternite, e cap. XII: Il “trattato” di Lorenzo dal Fabbro. Cfr. anche S. Ragagli, tesi di specializzazione, cit., pp. 83-5 e soprattutto (per la configurazione dell'attività della Congregazione del Leonardi e la comprensione dei suoi rapporti con la Compagnia di Gesù, capitolo importantissimo della storia lucchese sul volgere del secolo) pp. 198-207. 27 Adorni Braccesi, Una città «infetta». La repubblica etc, cit. pp. 381-385.

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San Francesco, in cui affermava di comunicarsi e di confessarsi ogni settimana, Lorenzo frequentava una compagnia che fu accusata, sotto il pretesto della religione, di «sedurre dishonestamente» giovani tra i 14 e i 21 anni. I sospetti precedevano gli anni del complotto, ed erano associati agli aspetti più morbosi delle pratiche penitenziali a cui gli “zelanti” si sottoponevano29. Lo stesso

Francesco Fantucci, suo complice, dopo aver ritrattato la sua posizione, affermava che «Lorenzo dal Fabbro quando stava per ragazzo in bottega Balbani ne faceva di quelle buone e di quelle brutte, havendo cominciato da puerizia a seguitar con ispezie di carità e di santi in far quello che non si conviene a creature del mondo»30.

Se il sospetto di sodomia, in quest'ultimo scorcio del secolo XVI, accompagnava apertamente le accuse rivolte contro i rigidi difensori dell'ortodossia, nei decenni precedenti i nomi di molti eretici conclamati ricorrono tra le carte dell'Offitio.

Nel 1551 Agostino Puccini, “un oscuro cittadino [...] mai ammesso al godimento delle cariche”, aveva denunciato a Pisa, con altri tre testimoni, due illustri cittadini di stanza a Lione, Vincenzo Buonvisi e Francesco Micheli, accusandoli di rifiutare la presenza reale del Cristo nell'Eucaristia e l'esistenza del purgatorio, di professare l'inefficacia delle buone opere, della liturgia e del culto delle immagini sacre ai fini della salvezza, di contestare l'autorità del papa e, in generale, delle gerarchie ecclesiastiche. I delatori, rientrati a Lucca, furono processati e, infine, ammisero di aver montato le accuse per inimicizia personale nei confronti dei due ricchi mercanti, nella speranza di poterne incamerare, in caso di condanna, parte dei beni confiscati31. Nel momento stesso in cui le trame del

Puccini e dei suoi complici venivano alla luce, una mano anonima accusava il Consiglio per la sua tolleranza nei confronti del malcostume dilagante e della diffusione di ogni sorta di eresia: i tutori della legge erano inadempienti, i giovani erano scansafatiche e insolenti, e “molti di loro erano sessualmente depravati”; i

29 Ibid., p. 511 e p. 534, n. 30 Ibid., p. 534, n.

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soldati dei perditempo incapaci di garantire la difesa dello Stato e il governo, avido di «imposte e di angherie» era sempre pronto a «scorticare il povero et forastiero col sequitare l'usura» e non si preoccupava di arginare la diffusione dell'eresia. L'uomo da cui proveniva l'accusa, uno dei cento soldati della guardia del palazzo, concludeva la sua denuncia smascherando i mali costumi dei suoi compagni d'armi, coinvolti in omicidi, risse e crimini di ogni sorta, tutti coperti, se non incentivati, dal suo capitano (il Perugino) e dai suoi avidi figli. «Uomo senza fede», il capitano Perugino era accusato dall'anonimo delatore di aver ordito un complotto ai danni della città, allo scopo di procurare fama e onori ai suoi figli, descritti come individui privi di ogni qualità. Il capitano avrebbe infatti cercato di dare Lucca in mano ai Farnese «con l'aiuto delle galere francese». L'episodio pare avesse un fondamento di verità e lo stesso delatore aveva con ogni probabilità preso parte, inizialmente, al complotto. Tuttavia non sembra che la reputazione del Perugino sia stata in alcun modo danneggiata dalla denuncia e, quando pochi anni più tardi “fu esonerato dal suo ufficio, ricevette ancora la riconoscenza dei propri cittadini”32.

Sicuramente stupisce che un personaggio così ambiguo abbia goduto di tanta stima. Lo storico di oggi, infatti, ogniqualvolta si avvicini a studiare le congiunture più critiche della vicenda lucchese nei decenni centrali del secolo XVI, deve sempre fare i conti con lui. I costituti del processo di un suo sottoposto, il soldato Rinaldino da Verona, sono una delle principali fonti che hanno consentito di ricostruire, seppur in maniera frammentaria, le dinamiche del dissenso ereticale che si irradiava dal convento di San Frediano e la fisionomia della Ecclesia Lucensis, la conventicola di fedeli (il cui orientamento dottrinale sembra oscillare tra calvinismo e ispirazioni valdesiane) in cui erano coinvolti, in ruoli cardine, importantissimi esponenti del ceto di governo33. Il capitano Perugino

era poi sospettato di essere uno dei complici nella congiura ordita nel 1546 da Franesco Burlamacchi. Allora Gonfaloniere di giustizia, il Burlamacchi fu tradito

32 Adorni-Braccesi, «Una città infetta», cit., pp. 236-9. Il testo della delazione in ASL, CD 12, Delazioni sopra un tradimento che si asseriva tramato contro Lucca dall'appoggio dei Farnesi da uno capitano Perugino, da alcuni dei Poggi et da altri simili trattati [1550-1552], senza data, pp. 235-6 e 239. Sul Capitano Perugino vedi anche C. Sardi, I capitani luccesi del secolo XVI, Lucca 1902.

33 Vedi Adorni-Braccesi, «Una città infetta», cit., cap. IV, L'«Ecclesia Lucensis»: gli uomini e le idee, pp. 243-317.

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prima di poter realizzare l'ambizioso disegno di dirigersi in armi verso Pisa, nella speranza di chiamarla all'insurrezione e muovere così con essa contro Firenze, istituendo nella Toscana, ormai sollevata dal giogo mediceo, una confederazione di libere repubbliche sotto l'egida dell'Impero34.

Benché, nella crisi politica e diplomatica suscitata all'increscioso episodio, il governo abbia avuto buon gioco, per difendersi, ad attribuere la responsabilità dell'accaduto all'instabilità mentale del Burlamacchi, il suo progetto politico, sicuramente azzardato, non era tuttavia così alieno dalla sensibilità diffusa in buona parte del ceto dirigente. Se il modello federale era un tentativo di superare i limiti del repubblicanesimo di stampo tardo-comunale, garantendone la sopravvivenza in un nuovo equilibrio, la pace religiosa era il fine auspicato dell'ambiziosa impresa, e la speranza di ottenere un'approvazione imperiale andava di pari passo con quella di vedere finalmente estromesso il papa dal ruolo di garante dell'unità cristiana. L'esempio tedesco e soprattutto elvetico erano con ogni probabilità il punto di riferimento concreto di tale ambizione ideale35, mentre

la percezione tutt'altro che immaginaria del malcontento suscitato dal regime mediceo contribuiva a dare credibilità al piano36. Un popolano lucchese, quando lo

scandalo era ormai esploso, divenendo un delicatissimo affare di politica estera, denunciava in una lettera di accusa le connivenze del ceto dirigente con il gonfaloniere e le simpatie filo-riformate di questo «rubelle di Dio» e del suo sospetto complice, ancora una volta, il Perugino37. Al termine di una difficile

schermaglia diplomatica, il governo, pur di non abbandonare l'uomo nelle mani del duca Cosimo de Medici, lo lasciò in quelle del governatore di Milano, città nella quale il cospiratore, due anni più tardi, fu decapitato38.

L'anno pirma, quando il processo era ancora in corso e la crisi diplomatica ancora aperta, compariva tra le carte dell'Onestà il figlio del Burlamachi, Michele39. Purtroppo, il suo nome è menzionato in un repertorio di nomi

contenuto in quel sesto volume la cui povertà di informazioni non ci consente di verificare se in qualità di imputato o come semplice sospetto. Abbiamo già visto

34 Berengo, Nobili e mercanti, cit., pp. 195 e sgg.

35 Adorni-Braccesi, «Una città infetta», cit., pp. 166-167 e sgg. 36 Berengo, Nobili e mercanti, cit., p. 196 e sgg.

37 Adorni-Braccesi, «Una città infetta», cit., pp. 183-4. 38 Berengo, Nobili e mercanti, cit., p. 218.

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che, nella maggioranza dei casi in cui è stato possibile incrociare i dati contenuti in questi elenchi con il vero e proprio materiale processuale, i nomi riportati nelle rubriche corrispondano a quelli dei processati, ma la sovrapposizione non è sempre perfetta per cui, per prudenza, non si può affermare con certezza che Michele Burlamacchi sia stato formalmente imputato per sodomia: le lacune nelle fonti costituiscono, in questo caso, una gravissima mutilazione. Nel momento in cui il suo nome fu messo agli atti dal notaio dell'Offitio, il giovane aveva appena sedici anni. Secondogenito di sette fratelli, dopo una brillante carriera commerciale, sposerà nel 1566 Chiara Calandrini, per poi fuggire l'anno successivo con la famiglia di lei in Francia, nella speranza di poter professare liberamente il credo riformato a cui aveva aderito. Dichiarato eretico e ribelle nel '70, morirà vent'anni dopo, avendo vissuto anche oltralpe una vita di esilio e peregrinazione a causa della sua fede40. Egli non era solo tra le rubriche redatte

dall'Offitio negli anni che hanno preceduto il 1551 (data a partire della quale i processi dell'Onestà si sono conservati quasi integralmente): molti anni prima del processo Burlamacchi, nel '39, era stato registrato anche Francesco, proprio il figlio del Capitano Perugino41, ricordato anni dopo come uno scavezzacollo nella

denuncia anonima contemporanea alle accuse del Puccini.

Oltre al Perugino, furono accusati di complicità col Burlamacchi, tra gli altri, anche i due fratelli Bastiano e Giovambattista Carletti42. Quest'ultimo, con il

sensale Girolamo Santucci e il caciaiuolo Giuliano da Dezza, oltre dieci anni dopo (nel 1556), furono arrestati dalla giustizia vescovile nel 1556, in uno dei momenti più acuti del conflitto giurisdizionale tra il governo e la Santa Sede per il controllo dell'ortodossia. Nel 1555 il Sant'Uffizio aveva cercato ancora una volta di entrare a Lucca, dando al vescovo Alessandro Guidiccioni l'autorità a procedere in forza dell'autorità apostolica contro gli eretici pertinaci. Il breve rimase tuttavia un semplice proposito, e fu poi revocato definitivamente da Paolo IV, che sostituì le disposizioni conferendo alla sede episcopale la facoltà, e l'obbligo, di udire le confessioni delle colpe ereticali in base alla sua sola autorità ordinaria. Quando già era cominciato l'esodo di molti illustri cittadini lucchesi che avevano preso la

40 In M. Luzzati, Michele di Francesco Burlamacchi, in DBI. 41 Onestà 6, 1539.

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via dell'esilio per professare liberamente il credo riformato, a seguito di un breve del Carafa che chiedeva la collaborazione del braccio secolare per procedere contro gli eretici, il Santucci, il Carletti e Giuliano da Dezza furono arrestati43.

Benché il Consiglio Generale si riunisse di lì a poco, istituendo l'Offizio Ne

Respubblica detrimenta patiatur, incaricato di elaborare le strategie più idonee a

conservare, da allora in poi, la libertà dello Stato44, il governo decise che i tre

cittadini – tutti in possesso di discreti mezzi economici ma ben lontani dall'appartenere alla cerchia dell'élite – fossero abbandonati nelle mani della giustizia ecclesiastica45. Il 29 gennaio del 1559, mentre il podestà faceva ardere in

effigie, «come se facesse executione di qualche reo vivo», sei illustri cittadini ormai esuli a Ginevra, il Da Dezza, il Carletti e il Santucci, insieme ad altri quattro eretici penitenti, abiuravano solennemente in cattedrale le loro convinzioni eterodosse46:

Fu fatto fare un palco alto vicino all'altare maggiore dove furono condotti tutti questi in mezzo a due sbirri, con uno habitello giallo ed una candela accesa in mano, così ad uno per volta andorno a abiurare davanti al Vicario dove assisteva ancora il Podestà, leggendosi a ciascuno prima il suo processo. Fornito che ebbero tutti ad abiurare, parte di quelli tornorno in prigione per certo tempo e parte furono liberati ed a vedere tutta questa festa c'era concorso un grandissimo populo47.

Come nel caso del Burlamacchi, due dei quattro figli di Giuliano da Dezza, il diciottenne Giovan Paulo e Matteo, di 16 anni, compaiono tra le carte dell'Onestà l'anno prima dell'abiura, (quindi ancora in pieno processo), purtroppo ancora una volta menzionati solo nelle rubriche del sesto volume48.

Giuliano da Dezza era poi legato da una profonda amicizia ai fratelli Giovanni e Jacopo Quilici da Lammari, figli di quel «Michelino da Lammari filatore» che, in una denuncia del '67, era considerato, con Agostino Balbani, «l'origine di

43 Adorni-Braccesi, Giuliano da Dezza, caciaiuolo: nuove prospettive sull'eresia a Lucca nel XVI secolo, in «Actum Luce» 1980 (IX), pp. 89-139 (v. pp. 102-108).

44 Ibid., p. 108. 45 Ibid., pp. 108-109.

46 Berengo, Nobili e Mercanti, cit., pp. 446.

47 BSL, ms. n. 1550 f. 157r., ms. 837 f. 172v, cit. in Adorni Braccesi, Giuliano da Dezza, cit., p. 119.

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questa maledetta resia» in Lucca49. Genero di Michelino era un tale Marco di

Chimento da Rimini50, la cui prima comparsa tra le carte degli Officiali

dell'Onestà, ancora nella forma di una voce isolata negli elenchi di nomi, risale al 155051. Lo ritroviamo però ancora una volta nel 1553, anno la cui documentazione

ci è fortunatamente pervenuta integrale, accusato da due imputati (tra cui il già noto Vincenzo di maestro Stefano tessitore52) come parte del gruppo, perseguito in

quegli anni dall'Offitio, che si radunava sulle sponde del fiume, o lungo le mura della città, per consumare i suoi incontri proibiti. Processato il 14 di ottobre, volle scontare il suo debito con la giustizia in prigione, dopo essere stato condannato, alcune settimane dopo, a scegliere tra una multa di 18 scudi, un anno e mezzo di bando o due mesi e mezzo di carcere53. Fu denunciato ancora l'anno successivo da

Vincenzo del maestro Antonio da Fagnano, un'altra figura di spicco della socialità omoerotica intercettata dagli officiali in quel tornante di anni54, ma la sua

citazione non ebbe alcun seguito.

Figlio di una famiglia di barbieri o vetturali, rappresentata solo occasionalmente in Consiglio, il Da Rimini alla fine del decennio successivo sarebbe stato fatto oggetto, come eretico, di una vera e propria persecuzione giudiziaria. Riusciva tuttavia ad eludere la giustizia in virtù della complicità dei parenti e, soprattutto, di alcuni influenti protettori. Nelle carte dell'Offito sopra la Religione sono conservate le tracce delle sue ricerche:

alcuni fanno giudizio che questo Marco è in casa di Nicolao Diodati e di Jacopo Micheli, perché loro sono imparentati con la maggior parte di quelli che governano non lo vogliono trovare et che se fusse in casa di qualche plebeo et fosse per conto dello istato sarebbe stato trovato il primo – e ancora – fa come il lupo che sta fugato, ma so bene che non muta altro luogo che a casa de’ suoi cugnati, che sono Andrea detto il dotto e […] Pier da Sugaro testore di velluto e a casa di Nofari filatore55.

Il suo nome emergerà ancora per fatti ereticali nelle delazioni compiute nel

49 Adorni Braccesi, Giuliano da Dezza, cit., pp. 125-6. 50 Ibid., pp. 132-3.

51 Onestà 6, 1550.

52 Onestà 1, 1553, fo: 23v e fo: 26v-27r. 53 Ibid., fo: 27v.

54 Onestà 1, 1554, fo: 42r.

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1570 dal consigliere Gherardo Compagni, in cui si hanno notizie dei suoi frequenti spostamenti tra Pisa e Venezia56.

Anche uno dei figli di colui che, con Michelino da Lammari, era considerato uno dei padri fondatori del movimento ereticale lucchese, Agostino di Giovanni Balbani, fu probabilmente imputato per sodomia. Bernardino di Agostino Balbani era infatti citato nel '39, sempre in quelle rubriche in cui abbiamo visto finora comparire i nomi dei più stretti tra i congiunti di alcune figure cardine dell'eterodossia cittadina, sebbene in questo caso in tempi in cui, a Lucca, il conflitto religioso non era ancora esploso apertamente57. Suo figlio, poi, omonimo

del famigerato nonno (Agostino di Bernardino), confessò nel 1560 di aver avuto, appena quattordicenne, un rapporto consensuale e reciproco con il suo congiunto Jacopo di Jacopo Balbani, ricevendo una condanna di 5 scudi pagati per lui da uno dei Sergiusti, Vincenzo58. Jacopo era stato condannato alcuni giorni prima alla

medesima pena per diversi rapporti sessuali con più partner, nel contesto movimentato e confuso dei processi degli anni '6059. Il suo nome comparirà tra i

22 membri della famiglia Balbani sospettati di simpatie filo-riformate nel corso del secolo XVI, così come quello di Ippolito (figlio naturale di Giovanni di Francesco, un intraprendente mercante diviso tra le piazze di Anversa e Lione e investito, in patria, di numerosi incarichi pubblici di rilievo) il cui nome è riportato negli elenchi dell'Onestà in corrispondenza del 154860.

Nel medesimo anno compare anche Marcantonio di Matteo Gigli, laddove poco meno di dieci anni prima avevamo ritrovato nelle stesse rubriche Jacopo e Bastiano suoi fratelli. Anche in questo caso, per quanto scarni, dei segnali ci riportano il coinvolgimento nell'attività dell'Offitio sopra l'Onestà di ben tre figli di una delle figure di maggior spicco della Ecclesia lucensis61, il cui ruolo nel

panorama del dissenso religioso cittadino è ben descritto da una relazione del corrispondente mantovano presso la curia papale, Nino Sernini, in cui si denunciava il dilagare dell'eresia anche a Modena, Parma e Napoli. Dopo aver

56 S. Ragagli, Esami per inosservanza dei decreti sulla religione a Lucca dal 1562 al 1572, tesi di laurea, relatore prof. A. Prosperi, a.a. 1999-2000, pp. 249-252.

57 Onestà 6, 1539. 58 Onestà 1, 1560, fo: 21v. 59 Ibid., fo: 20v.

60 Onestà 6, 1548.

61 Adorni Braccesi, «Una città infetta», cit., p. 269 e pp. 271-3. La fonte sono, ancora, i costituti dei processi a Rinaldino da Verona.

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dipinto Lucca come «il luogo più corrotto di tutti», e aver elencato il compendio di eresie a cui avevano aderito «gli primi della città»...

et che già siano più di duecento uomini principali et le loro donne, le quali […] negano il libero arbitrio, et che non l’havemo se non ad malum, né vogliono che in l’oratione, s’habbi a dire se non il pater nostro, et proibiscono l’Ave Maria, sono ancora d’opinione che ogni uno possa dire messa et di pigliar il sacramento senza confessione

...il Sernini fece poi seguire un’accusa diretta contro Matteo Gigli: “gentiluomo «delli principali» – che – durante la quaresima precedente, aveva negato a Roma «il libero arbitrio nel sopraddetto modo et, perché esso è caldo in questi errori», a Lucca si era detto «praticamente che esso dice messa», affermazione alla quale si stentava a credere. Il «rumore» - riferiva tra l’incredulo e il divertito - «era nato perché a Lucca a tutti i cantoni si erano attaccate certe scritte che dicevano: fatte l’elemosina a Matteo Gigli ch’a mancamento di cervello et vol cantare la sua prima messa, esso ha moglie et figliolo»”62.

Nella primavera del 1563, fu bandito per bestemmia Jacopo di Vinecenti Guarnieri, figlio di un cittadino attivamente coinvolto nel movimento filo-protestante di quegli anni63, il cui nome compare anche nel registro dei nomi

dell'Onestà, nel '58 e nel '62. Giuseppe Guazzelli, già schedato dagli Officiali nel 1548, fu poi bandito per sodomia nel 1561, quando ormai era ben noto per la sua propensione alle idee ereticali. Nel maggio dell'anno successivo gli fu concesso un salvacondotto di cinque mesi, mentre nel 1563 fu definitivamente graziato64. Tre

foglietti anonimi indirizzati all'Offitio sopra la Religione tra il 1567 e il '68, probabilmente vergati dagli “zelanti” vicini al convento di San Romano e alla confraternita laicale dei Colombini, denunciavano i nomi di molti sospetti eretici, tra i quali quello di Tommaso di Lazzaro Fondora, schedato anch'egli negli elenchi dell'Onestà, ma nel 1539, quando la diffusione dell'eresia non aveva ancora suscitato scandali; in corrispondenza della stessa data compare tra le rubriche anche Vincenti di Alessandro Diodati, fratello dell'arcieretico Michele65, il quale

62 Adorni Braccesi, «Una città infetta», cit., p.124-6. 63 Ragagli, tesi di specializzazione, cit., p. 122. 64 Ibid., pp. 122-123.

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nel 1562 fu accusato dal gentiluomo Antonio Lamberti di avere, in compagnia del notaio Lorenzo Capini, mangiato carne, e fattane mangiare ai contadini, nella villa dei Buonvisi a Forci in un giorno in cui il calendario liturgico lo impediva66.

Tratteggiato brevemente questo mosaico, cerchiamo di trarne delle conclusioni. I figli di alcuni personaggi centrali del dissenso ereticale lucchese sono inclusi nei repertori di nomi dell'Offitio in anni in corrispondenza dei quali, tuttavia, non è sopravvissuta la documentazione processuale. Alcuni di essi, compaiono in tempi che precedevano l'esplosione del conflitto religioso a Lucca. La data cardine fu infatti l'estate del 1542 quando, dopo l'istituzione del Sant'Offizio romano, il priore di San Frediano, Pietro Martire Vermigli, informato dei sospetti alimentati dalla sua attiva propaganda e dalle molte conversioni suscitate dalla sua appassionata predicazione, fu aiutato a fuggire con dei confratelli, lasciando il suo incarico e l'Italia per aderire definitivamente oltralpe al credo calvinista67, di cui diventò un fervente apostolo. Tanto la menzione del

figlio del Capitano Perugino, di Bernardino di Agostino Balbani, di Jacopo e Bastiano di Matteo Gigli, di Tommaso di Lazzaro Fondora e di Vincenti di Alessandro Diodati precedono questa data. Successiva (ma non ancora collocabile nel pieno dei conflitti che, dal momento dell'istituzione dell'Offitio sopa la Religione nel 1545, divideranno potere civile, autorità religiose locali e Curia romana) la presenza di Marcantonio di Matteo Gigli e di Ippolito Balbani. Più significativa quella dei figli del Burlamacchi e dei due figli di Giuliano da Dezza, la cui collocazione temporale, in contemporanea dei processi dei rispettivi padri e poco prima della loro conclusione, può far nascere il fondato sospetto di un'accusa infamante ai danni dei familiari di due personaggi che, indipendentemente dalla

Diodati fu convocato a Roma il 28 marzo del 1558, dove fu incarcerato nelle famigerate prigioni di Tor di Nona, nelle quali il Gigli si trovava già dal settembre dell'anno precedente. Quest'ultimo era stato accusato nell'ambito del processo a Rinaldino da Verona e in quello, ben più importante, contro il cardinale Morone, uno dei più insigni rappresentanti della corrente degli “spirituali” in seno alla Chiesa. Al termine del processo, entrambi avevano purgato gli indizi a loro carico (Adorni Braccesi, «Una città infetta», cit., p. 368). In una ricerca recente la Adorni Braccesi ha studiato parte delle carte del processo Diodati, finora sconosciute, aggiungendo interessanti elementi ai fini della comprensione dei rapporti tra la curia vescovile e il Sant'Uffizio Romano: S. Adorni-Braccesi, Le carte lucchesi del processo inquisitoriale di Michele di Alessandro Diodati (aprile 1559-1560), in Inquisizioni, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», serie 5, 2009 (1-2), pp. 363-386. 66 Ragagli, tesi di specializzazione, cit., p. 121.

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stima e dall'appoggio di cui godevano presso una parte della classe dirigente, per motivi diversi si erano trovati ad incarnare l'infelice ruolo del capro espiatorio.

Sono invece coinvolti in processi attualmente conservati presso il fondo dell'Onestà sia il sospetto Jacopo Balbani, sia l'arcieretico Marco da Rimini. In nessun caso, è bene sottolinearlo, le fonti dell'Onestà hanno esplicitato un nesso tra comportamenti sessuali illeciti e eterodossia religiosa. Se attraverso l'imputazione per sodomia si fosse cercato di peggiorare la posizione dei sospetti eretici, tali connessioni tra l'aspetto religioso e la devianza sessuale sarebbero sicuramente emerse nei processi; al contrario, fatti salvi forse i casi dei figli del Burlamacchi e di Giuliano da Dezza (sui quali comunque proponiamo un'ipotesi non verificabile), la giustizia cittadina non ha mai utilizzato, contro i dissidenti religiosi, l'imputazione di sodomia a scopo diffamatorio. Solo nelle accuse contro Lorenzo Dal Fabbro, cattolico fervente, l'ambiguità sessuale era esplicitamente collegata, come una conseguenza, agli aspetti più morbosi delle sue pratiche devozionali. E' assai probabile, altresì, che le accuse di sodomia contro i filo-protestanti, come abbiamo già detto, fossero il frutto di denunce anonime sporte da quei zelanti difensori dell'ortodossia cattolica che, negli anni '70, arrivarono ad incriminare l'intera città, e l'assenza di un nesso esplicito tra sodomia ed eresia potrebbe testimoniare, in questi casi, la volontà delle istituzioni di smorzare i toni di una campagna diffamatoria.

Resta ora da chiedersi se, in qualche modo, l'adesione all'eterodossia possa aver coinciso realmente con dei comportamenti devianti. Sicuramente, stando ai dati numerici, non si verifica, tra i filo-protestanti, una propensione ad indulgere in comportamenti sessuali non convenzionali maggiore rispetto all'insieme della popolazione lucchese, né sembra si sia verificato nei loro confronti un particolare accanimento giudiziario. Oltre all'ipotesi dell'accusa infamante da parte dei difensori della Chiesa romana, è anche possibile che in alcuni casi le imputazioni fosse realmente fondate, ma non tanto in virtù di una particolare sregolatezza degli eterodossi, quanto, e più semplicemente, per la loro partecipazione ad un costume che, abbiamo visto, prima dei 20 – 25 anni era abbastanza diffuso nella gioventù cittadina. In un contesto in cui una parte minoritaria ma non trascurabile dei giovani si cimentava in sperimentazioni sessuali che conducevano oltre gli

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steccati imposti dalla morale cristiana, eretici e figli di eretici potrebbero aver condiviso con altri, tanto membri della classe dirigente quanto dei ceti mediani e popolari, esperienze erotiche che non avevano nessun collegamento con le loro convinzioni religiose. Non si può infatti trascurare il fatto che una parte consistente del movimento filo-protestante lucchese abbia scelto di aderire al calvinismo, una confessione in cui il controllo della morale sessuale fu rigidissimo68.

Certo, non è da escludersi che il desiderio di liberarsi dalla mole di precetti a cui si era ridotta la morale cristiana inducesse in alcuni una simpatia istintiva per le nuove confessioni che, conosciute attraverso lo specchio deformante della propaganda anti-luterana, potevano essere erroneamente interpretate, sul piano sessuale, come portatrici di libertà. D'altronde, nella voce dei polemisti, Lutero era dipinto come un maiale sodomita o, nella migliore delle ipotesi, come uno che aveva voluto innovare per potersi “fottere le monache” senza troppi sensi di colpa. E' quindi possibile che, agli occhi di chi si trovava al di qua delle Alpi, ci fossero dei margini per travisare l'interpretazione individuale del Vangelo professata da luterani e calvinisti, forzandola in questa direzione69. Ma nessun segnale ci può

portare ad ipotizzare l'esistenza a Lucca di una simile declinazione del pensiero riformato, né di altro genere di “eresie sessuali” che giustificassero dottrinalmente la libertà, o quantomeno l'indifferenza, dei comportamenti sessuali70.

68 M.E. Wiesner-Hanks, Christianity and Sexuality in the Early Modern World. Regulating Desire, reforming Practice, Londra-New York 2000; Sulle similitudini tra mondo cattolico e mondo protestante (“circoscrivere la sessualità legittima nei confini del vincolo matrimoniale fu un [...] obbiettivo condiviso da protestanti e cattolici”, p. 116-17) cfr. D. Lombardi, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, Bologna 2008, pp. 115-130; una comparazione tra il controllo della sessualità nel mondo cattolico e in quello protestante anche in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), I tribunali del matrimonio (sec. XV-XVIII), Bologna 2007. Sulla durezza della repressione della sodomia nella Ginevra calvinista, patria di accoglienza di molti esuli lucchesi, v. Crompton, cit., pp. 324-328; sul disprezzo per il “vizio innominabile” nella Germania e nella Svizzera riformate v. l'indispensabile studio di H. Puff, Sodomy in Reformation Germany and Switzerland, cit.

69 La Svizzera e Ginevra occupavano uno spazio particolare nell'immaginario italiano come terre di libertà sessuale. Una testimonianza molto divertente di queste visioni proiettive in G. Romeo, Amori proibiti. I concubini tra Chiesa e Inquisizione, Roma-Bari 2008, pp. 89-91. 70 Sulle eresie sessuali, vedi: Romeo, Amori proibiti, cit., pp. 63-111. Un caso importante è stato

studiato da G. Dall'Orto, “Adora più presto un bel putto, che Domenedio”. Il processo a un libertino omosessuale: Francesco Calcagno (1550), in «Sodoma», 1993 (5), pp. 43-55. Famosa anche la figura di Antonio Rocco, interprete eterodosso del naturalismo aristotelico, che ne L'Alcibiade fanciullo a scola, rendeva di dominio publico le sue preferenze sessuali per i ragazzi (v. R. Canosa, La restaurazione sessuale, cit., pp. 185-6; Martini, cit., pp. 106-109. Betteridge, cit., pp. 71-74; Del Col, cit., pp. 554-557). Ma non furono solo i libertini ad elaborare una morale sessuale spregiudicata: anche alcuni movimenti mistici del Cinque e

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Il caso di Marco da Rimini è l'unico su cui ci sentiamo di poter avanzare delle ipotesi diverse. La sua estrazione sociale potrebbe infatti averlo accomunato a quelle forme di dissenso dissacrante, scarsamente elaborato sul piano dottrinale e potenzialmente sovversivo di cui non sono mancati esempi tra i ceti medi e bassi della società lucchese71. Francesco Baroncini, processato dall'Offitio sopra la

religione nel 1558, è una delle voci emerse con più chiarezza dalle fonti a testimoniare questa 'flessione' del sentire non ortodosso. I contadini di Vorno, dove l'uomo aveva una piccola proprietà, erano scandalizzati per la spregiudicatezza di quella «bestia» che, dicevano, disprezzava in questi termini la loro onesta devozione paesana:

guarda quelle bestie dei contadini in Vorno che vedono alzare un poco di pasta al prete et si credono che sia Christo et non vedono che puzza che la ha il prete. L'altro giorno la smastichò et cacha – e ancora – bisogna havere fede in Dio che governa ogni cosa: che credete quell'ostia che per il prete si mangia la mattina, la sera la getta per secessum72.

Come non è da escludere che anche Marco da Rimini abbia potuto condividere un approccio così violento e sprezzante, si può ipotizzare, senza alcuna possibilità di prova, che a tale incontrollata libertà di espressione, si fosse accompagnata, in

Seicento, sulla base di presupposti molto diversi, furono pervasi da un erotismo che sconfinò spesso nell'eterodossia. Molti sospetti aveva suscitato, ad esempio, l'alumbradismo spagnolo degli anni '60 e '80 del Cinquecento: v. F. Alfieri, Nella camera degli sposi. Tomas Sanchez, il matrimonio, la sessualità (sec. XVI-XVII), Bologna 2010, pp. 299-310; l'autrice si rifà agli studi di S. Pastore, Il vangelo e la spada. l'Inquisizione di Castiglia e i suoi critici, Roma 2003, p. 427 e A. Huerga, Historia de los Alumbrados, 1570-1630, Madrid 1978; simili connessioni tra misticismo e sessualità deviante sono note anche nell'eresia secentesca del quietismo: cfr. R. Canosa, I. Colonnello, L'ultima eresia. Quietisti e Inquisizione in Sicilia tra Seicento e Settecento, Palermo 1986; A. Malena, Inquisizione, finte sante, nuovi mistici. Ricerche sul Seicento, in L'Inquisizione e gli storici, un cantiere aperto, Roma 2000, pp. 289-306; ead., L'Eresia dei perfetti. Inquisizione romana ed esperienze mistiche nel Seicento, Roma 2003; ead., La costruzione di un'eresia. Note sul quietismo italiano del Seicento, in R. Michetti, B. Pellegrino, G. Zarri (a cura di), Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e Nuovo Mondo (sec. XV-XVII), Galatina 2009, vol I, pp. 165-184.

71 L'ingresso in Consiglio delle famiglie «mediocri», tra le quali si registrava lo stesso grado di commistione e consanguineità che abbiamo visto caratterizzare il ceto dirigente, era stato l'esito principale della rivolta degli Straccioni. La loro stessa esistenza politica era frutto del desiderio di erodere il potere dei grandi casati, ma la loro integrazione rimase sempre parziale. Inoltre le misurate fortune di medici, notai, giuristi, bottegai, e di tanti altri piccoli professionisti, non godendo della stessa mobilità del capitale mercantile, rendeva impossibile a molti filo-riformati di imboccare la via dell'esilio. Tale clima di disagio è la causa della tonalità – verbalmente – eversiva assunta dell'eresia in queste fasce sociali.

72 Adorni Braccesi, «Una città infetta», cit., citazione a p. 295. Sul caso Francesco Baroncini v. pp. 291-299.

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alcuni esponenti del dissenso popolare come lui e il Baroncini, una rivendicazione altrettanto spregiudicata di libertà sessuale.

Ben più che semplici congetture ci conducono invece a credere che uno dei più rilevanti esponenti del movimento filo-riformato lucchese abbia potuto giustificare alla luce delle proprie elaborazioni intellettuali, almeno nei primi decenni del Cinquecento, quindi prima dell'aperta adesione al protestantesimo, un comportamento sessualmente eterodosso. Negli elenchi dell'Onestà compare infatti, nel 1548, il nome di Giuseppe Jova. Il giovane letterato lucchese era stato segretario di Vittoria Colonna e ben introdotto nel sodalizio spirituale che, negli anni trenta, si raccoglieva a Napoli intorno a Juan de Valdès. Si trovò coinvolto nella fitta rete di relazioni che in questa prima metà del Cinquecento legavano la città partenopea, «assai infetta», e la sua patria natale73. Il soggiorno della

marchesa di Pescara a Lucca aveva segnato profondamente le coscienze cittadine, che ebbero modo di beneficiare, tra la primavera e l'estate del 1538, anche della presenza di uomini carismatici come il Carnesecchi e Bernardino Ochino74. La sua

nomina a rettore delle scuole lucchesi75 nel '46 è una testimonianza della tacita

accondiscendenza della classe dirigente lucchese agli ideali di umanesimo religioso e civile incarnati da questa prima fase della riforma italiana, così come la sua fuga all'estero è un segno tangibile del repentino mutamento di clima impresso dalle politiche papali a partire dagli anni '40 del secolo. Si trovò infatti assai presto a raggiungere Ferrante Sanseverino (la cui corte aveva frequentato in passato76), il quale si era rifugiato in Francia nei primi anni cinquanta sotto la

protezione di Caterina de' Medici. Il principe salernitano dovette infatti fuggire alla giustizia vicergia di Napoli, tacciato di ribelle ed eretico per aver tentato di sovvertire l'intero assetto politico dell'Italia alleandosi con i francesi per cacciare

73 Ibid., pp. 74 e 96-7. 74 Ibid., pp. 97 e sgg.

75 S. Tabacchi, Giuseppe Giova, DBI. Il sistema del pubblico insegnamento in Lucca, affidato integralmente alle istituzioni civili, rappresenta un caso unico nell'Italia del tempo. Molti degli uomini che negli anni '40 del secolo si impegnarono in un programma di riforma delle scuole lucchesi erano implicati nel movimento filo-riformato, i cui indirizzi furono resi espliciti dalla chiamata di Aonio Paleario, già sospetto di eresia e destinato a morire sul rogo, come docente di “Lettere umane”. A proposito vedi S. Adorni Braccesi, «Una città infetta», cit., pp. 190-220; ead., Maestri e scuole nella Repubblica di Lucca tra Riforma e Controriforma, in «Società e storia» 1986 (33), pp. 559-594; ancora valido lo studio di P. Barsanti, Il pubblico insegnamento a Lucca, Lucca 1905, mentre sul Paleario cfr. S. Caponetto, Aonio Paleario (1503-1570) e la Riforma protestante in Toscana, Torino 1979.

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gli spagnoli dal sud Italia, tentativo che gli guadagnò le lodi tanto di Aonio Paleario che di Ortensio Lando. L'effimera alleanza del cristianissimo re di Francia Enrico II con i protestanti tedeschi aveva forse acceso nei cuori di molti la speranza che il Sanseverino potesse giocare per l'Italia un ruolo paragonabile a quello svolto in Germania da Maurizio di Sassonia. Pur di riuscire nel suo intento, aveva auspicato uno sbarco nelle coste napoletane non solo delle truppe francesi ma anche delle armate di Solimano77. La sua disponibilità ad allearsi con il Turco

deve aver confermato molti stereotipi agghiaccianti sul potenziale demoniaco della sovversione politica e religiosa. Se di questo non abbiano testimonianze, quello che è certo è che nel '52 era già stato dichiarato ribelle e accusato di eresia, ricetto di banditi e, anche lui, di sodomia78.

Se le scelte religiose avevano condotto infine lo Jova all'esilio, e il suo nome compare nell'elenco degli eretici ginevrini condannati in contumacia alla «morte et confiscatione» intorno alla fine degli anni '60, in tempi non sospetti, quando ancora l'esplosione dell'infezione ereticale non aveva sconvolto gli equilibri politici della città, «l'ameno Giovio da Lucca» faceva parte, negli anni '30, dell'Accademia romana dei Vignaioli79. Il cenacolo letterario, più un gruppo

informale che un'associazione raccolta intorno ad uno statuto, era “la più appariscente manifestazione aggregativa” della corrente letteraria e poetica del “bernismo romano”80. Il tema omosessuale, nella versione dell'amore pederastico,

era ricorrente in questo genere di componimenti. “L'impudente e aggressiva omosessualità” e “la scanzonata misoginia” erano infatti temi portanti fin nella prima produzione poetica del Berni; “l'eros maschile era perfettamente legittimato sul versante della poesia classica – dunque candidamente esibito – nei Carmina, forti di una solenne autorizzazione catulliana; ma non mancavano i precedenti neppure sul versante della tradizione volgare, specie quando la complicità maschile si specchiava nell'acre detestazione della donna [...]. La 'noia' misogina

77 Ibid., pp. 221-222.

78 S. Caponetto, La repubblica di Lucca nelle orazioni di Aonio Paleario, in «Actum Luce», 1986 (1-2), pp. 7-16 (pp. 15-16).

79 D. Romei, Da Leone X a Clemente VII. Scrittori toscani nella Roma dei papati medicei (1513-1534), Roma 2007, pp. 206 e 238. Ringrazio Simonetta Adorni Braccesi per questa importante segnalazione.

80 “Poesia di un dopoguerra disastroso” (quello della Roma che era sopravvissuta al sacco del '27), sembrava “voler cancellare le piccole angustie del presente [...] in una sorta di carnevale riparatorio e dai toni un po' lividi”, ibid., pp. 233-234.

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era, anche in questo caso, il recupero disinvolto di uno stilema tradizionale, congiunto a costumi spregiudicati, tranquillamente tollerati in quell'ambiente”. Nelle Rime bernesche, “a conferma della tolleranza che lo circondava, il motivo omosessuale sarà replicato senza pudori”81. Anche la biografia dell'autore sembra

nascondere, dietro l'esilio da Roma nel 1523, uno scandalo omosessuale:

se egli avesse saputo governarsi con un po' di cortigianeria, in quei tempi e fra quegli uomini la cosa gli passava liscia come l'olio. Il male fu che dove gli altri questi panni sudici [...] se li lavavano in casa, egli invece prese proprio la tromba, facendosi [...] banditore [di se stesso]82.

Tale milieu culturale, condiviso dallo Jova con molti intellettuali ed umanisti del tempo, è tuttavia molto distante dal clima in cui stavano maturando i semi dell'eterodossia nella sua madrepatria. La matrice erasmiana era la cifra fondamentale dell'umanesimo lucchese nei primi decenni del Cinquecento: se la casa del mercante Antonio Buonvisi, servitore dei Tudor, accoglieva nella capitale inglese esponenti della vita politica, religiosa e culturale inglese del calibro di Tommaso Moro e Reginald Pole, il grande umanista olandese aveva avuto rapporti diretti con alcuni lucchesi nella Londra di Enrico VIII, sopratutto con il vescovo di Worcester Silvestro Gigli e col suo colto entourage; al contempo, una relazione epistolare lo legava al giovane letterato lucchese Andrea della Rena, noto con lo pseudonimo di Ammonio83. L'educazione e lo studio delle lettere

erano visti dall'elite di governo come uno strumento indispensabile per costruire la concordia civile. “Letterati di gusti erasmiani ed inclini alla Riforma come Ortensio Lando e Aonio Paleario [...] individuavano nella pietas del patriziato lucchese, cioè nel sentimento di rispetto religioso da questo nutrito verso la comunità affidata alle sue responsabilità di governo, il fondamento della

concordia civium, origine a sua volta della libertas di cui godevano allora i

lucchesi”84. Per quel che riguarda l'opinione di Erasmo sulla sodomia, l'umanista

olandese, nel De Ratione Studii (1511), un trattato sull'insegnamento dei classici,

81 D. Romei (a cura di), Introduzione, in F. Berni, Rime, Milano 1985, pp. 5-18

82 A. Virgili, Francesco Berni per Antonio Virgili con documenti inediti, Firenze 1881, p. 76. 83 Adorni Braccesi, «Una città infetta», cit., pp. 53-55.

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