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Capitolo 2 – Il codice del 1988 e gli interventi degli anni ’90: modello accusatorio o inquisitorio?

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Capitolo 2 – Il codice del 1988 e gli interventi degli

anni ’90: modello accusatorio o inquisitorio?

Sommario

2.1 La disciplina originaria del codice Vassalli 37 2.2 Gli interventi della Corte costituzionale sulla disciplina del nuovo codice 52 2.3 La disciplina delle contestazioni durante la legislazione d’emergenza 66

2.1 La disciplina originaria del codice Vassalli

La decisione di passare ad un sistema sostanzialmente accusatorio, che accompagnava la nascita del nuovo codice, implicava il doversi riconoscere alle parti, a parità di condizioni, un vero e proprio diritto alla prova e, allo stesso tempo, il rispetto, da parte del giudice, di un impianto di norme che garantissero lo svolgimento del nuovo procedimento probatorio, improntato all’oralità. «Non è esagerato dire», sostiene Vassalli, «che il riconoscimento [del diritto alla prova] segna uno dei più significativi elementi della transizione da un regime processuale autoritario ad un regime processuale democratico: il che è quanto dire ad un maggiore avvicinamento del giudizio alla verità» (1). Eliminato, fra le

varie, il riferimento all’ormai vetusto art. 299 c.p.p. 1930 del dovere del giudice istruttore di ricercare ogni atto necessario all’accertamento della verità, il codice Vassalli mostrava un’impronta manifestamente derivante dall’ideale illuministico del pensiero moderno. «Il senso culturale» (2) del

1 VASSALLI, Il diritto alla prova nel processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., cit.,

57.

2 L’espressione è di DEVOTO, Corte costituzionale e principio di verità nel processo

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38 nuovo codice sorge dal confronto dell’art. 299 c.p.p. 1930 e il nuovo art. 328: il giudice per le indagini preliminari provvede «nei casi previsti dalla legge, sulle richieste» formulate dalle parti. Nel sistema previgente l’accertamento della verità poteva, invero, essere definito come il fil rouge che guidava l’intero sistema procedurale penale. Al contempo, l’art. 190 c.p.p. 1988 instituiva un duplice principio: da un lato, il diritto delle parti di ottenere la prova; dall’altro, all’iniziativa e al potere di disporre circa il materiale probatorio. In tale modo, «la disposizione incide sul precedente regime con una svolta netta: segno notevole di quanto il nuovo codice si sia mosso verso un modello d’impronta accusatoria» (3). È bene sottolineare che con la disposizione in esame,

l’iniziativa d’ufficio diviene residuale: le prove sono ammesse di regola, a richiesta di parte e solo in via eccezionale ex officio, possibilità prevista «per supplire ad un’inerzia e ad una carenza di iniziativa delle parti stesse» (4). Inoltre, il potere di esclusione del giudice si riduce a tre

fattispecie: 1) superfluità della prova, cioè quando questa serve a dimostrare cose già accertate; 2) irrilevanza della prova, cioè quando questa è non pertinente al caso; 3) nei casi di prove vietate dalla legge. Non si può non ricordare che, «opportunatamente, vengono però affidati poteri suppletivi all’organo giudicante: dunque […] il rapporto

3 NOBILI, Art. 190, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di

Chiavario, vol. II, Torino, 1991, 401.

4 AMATO – D’ANDRIA, Organizzazione e funzioni della polizia giudiziaria nel nuovo

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39 eccezione si rovescia rispetto al passato. Proprio queste eccezioni [previste al comma 2 dell’art. 190 c.p.p. 1988] escludono comunque la configurazione di un vero e proprio potere dispositivo delle parti al riguardo» (5).

Ancora e forse più di ogni altra cosa, la finalmente raggiunta separazione fra la fase d’indagine preliminare, volta solo alla ricerca di elementi utili all’impianto accusatorio, e il dibattimento, destinato invece alla formazione della prova vera e propria, garantita dall’art. 526, risultava la reale novità del sistema processualistico. Impedire che il giudice potesse utilizzare gli atti investigativi ai fini della sua decisione era la dimostrazione dell’effettiva trasformazione, per così dire, del modello processuale da inquisitorio ad accusatorio. Si è d’altronde ben detto che «il processo è una vicenda che ha un passato di indagini: il problema sta nell’isolare il giudice, non il processo, da questo passato» (6). L’acquisizione dell’atto compiuto prima del dibattimento sarebbe

avvenuta comunque attraverso le contestazioni, ma «abissale è la differenza rispetto al sistema del codice abrogato in cui il giudice dibattimentale, che conosceva previamente l’atto compiuto prima del dibattimento, poteva limitarsi a chiedere una generica conferma delle dichiarazioni in precedenza rese dal testimone o dalla parte. La riforma

5 NOBILI, Art. 190, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di

Chiavario, cit., 403-404.

6 IACOVIELLO, Prova e accertamento del fatto nel processo penale riformato dalla

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40 processuale ha inteso innovare profondamente rispetto a questa inaccettabile situazione» (7). Così, si spiegava, poi, anche la ragione della

distinzione tra mezzi di ricerca della prova e mezzi di prova; dove solo i secondi sarebbero stati utilizzabili dal giudice come fondamento della sua convinzione e decisione, mentre i primi consistevano in tutte le attività svolte per scoprire l’elemento probatorio. Ecco che la fase dell’indagine si metteva al servizio di quella dibattimentale, giacché quest’ultima, da sola, non avrebbe potuto raggiungere realisticamente lo scopo dell’accertamento della verità. È però vero che «dal processo inquisitorio o misto al processo accusatorio il cammino è lungo e faticoso. L’inquisitorio e il misto garantiscono se stessi, sono come una porta sbarrata sull’esterno, dalla quale si esce solo abbattendola» (8).

Ad onor del vero, il nuovo codice non venne accolto, come si potrebbe immaginare, con troppo entusiasmo. Esso spaccò in due i giuristi: da un lato, chi finalmente festeggiava per il superamento del sistema inquisitorio; dall’altro, chi sosteneva che il processo era ormai divenuto pregno di ideali che, per la sua nuova farraginosità, non poteva raggiungere. Fra questi ultimi, Devoto, in particolar modo, risulta assai critico: «le nuove norme cancellano il criterio fondamentale della ricerca

7 LUPO, Il principio della separazione delle fasi, in Cass. Pen., 1993, 1573.

8 FERRUA, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992: declino del processo

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41 della verità, come valore fondante dell’intera giurisdizione»; «la norma non è più strumentale ad una concezione culturale della realtà, ma alla limitata visione di un confronto tra parti contrapposte, in cui consacrare il vincitore, comunque egli sia arrivato a vincere»; ecc. (9). Seppur

possiamo accettare e ritenere altresì condivisibile che lo scopo primario di un qualsivoglia processo sia quello di accertare la verità fattuale, non siamo d’altro canto d’accordo con la “sentenza” di Devoto; se il fine è il medesimo, è il modus operandi che, col nuovo sistema, cambia: il rispetto della persona dell’imputato tramite le garanzie addotte dal nuovo codice. E se è forse vero che con la disciplina originaria del codice Vassalli la «verità è l’esito di uno scontro, qualunque esito sia; verità è quella del vincitore» (10), rimane la considerazione che, almeno, lo scontro avviene

secondo regole certe, stringenti, poste per mettere a pari condizioni “gli sfidanti” che hanno lo scopo di dimostrare la realtà oggettiva. D’altro canto, «tutti siamo o dovremmo essere consapevoli degli abusi, delle mistificazioni e dei misfatti che in nome della verità – e della pretesa di una sua consacrazione normativa – si sono compiuti. Tutti siamo o dovremmo essere convinti che oggi e domani, così come è stato ieri, una delle tentazioni più forti e più pericolose del potere è quella che si fonda sulla presunzione di sentirsi investito di un compito di ricerca della verità

9 Le espressioni sono di DEVOTO, Corte costituzionale e principio di verità nel

processo penale, in Giur. Mer., cit., 1149.

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42 “ad ogni costo”, anche con spregio della dignità umana e delle regole di civiltà» (11). Nondimeno, per tornare al tema centrale in discussione,

proprio con le contestazioni al testimone si consentiva una sorta di ricostruzione veritiera del passato. Si ritiene allora preferibile un codice che, sia pur con i suoi limiti (complessità, rigidità e assolutezza, nonché costo economico) e con le sue necessità di future riforme, nonché interventi di incostituzionalità, abbia comunque, nella sua disciplina originaria, tentato, e in questo senso riuscito, di superare il problema principale che connotava il codice previo, e cioè lo stampo inquisitorio autoritario, piuttosto che proseguire per ulteriore tempo con le disposizioni fasciste, che ormai, invero, erano divenuto una sorta di “bricolage” per i vari interventi subiti.

Per capire però se effettivamente la traslazione del tipo di processo fosse avvenuta, è doveroso analizzare, come abbiamo capito, l’ambito della formazione della prova e, in particolare, per i nostri interessi, la possibilità di trasfusione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero alla fase dibattimentale, al fine di evincere l’indipendenza (12)

o meno di quest’ultima rispetto alla fase antecedente delle indagini. Veniamo, dunque, alle contestazioni durante l’esame testimoniale

11 CHIAVARIO, Il processo penale dopo la nuova decretazione d'emergenza: ancora

una volta alla ricerca di una bussola, in Legis. Pen., 1993, 343.

12 Sull’importanza dell’«originalità» del dibattimento, DALIA, Il giudizio, in Aa. Vv., Il

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43 nella disciplina originale dell’88. L’art. 500, al comma 1, consentiva, fermi i divieti di lettura e di allegazione, alle parti di servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero, per «contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione». Le contestazioni servivano, dunque, per far rilevare le difformità che si avevano fra quanto ammesso dal teste nella fase ante-dibattimentale e quanto questi sosteneva durante l’esame innanzi al giudice. Tale meccanismo aveva quindi come presupposto questa differenza di dichiarazioni, in assenza della quale l’istituto non aveva ragion d’essere e, quindi, non poteva essere utilizzato. L’art. 500 c.p.p. diveniva «tema cruciale» (13) di discussione, poiché era il nodo (14)

che permetteva di ricollegare gli atti di indagine, documentati e contenuti nel fascicolo del p.m., alla fase dibattimentale. Ammesso infatti che il fine ultimo del processo sia la ricerca della verità, risultava, persino al legislatore, troppo eccessivo separare nettamente le due fasi processuali, in quanto il dibattimento, da solo, non sarebbe riuscito a ricostruire proficuamente la realtà storica. Ecco che si consentiva, in determinate situazioni, il filtrare nella fase dibattimentale di elementi estranei alla stessa ma al sol fine, previsto dal comma 3, di valutare la «credibilità del testimone»; giacché il primo periodo del medesimo comma sanciva che

13 Così LATTANZI, La formazione della prova nel dibattimento, in Cass. Pen., 1989,

2203.

14 In termini di «punto di raccordo» tra le due fasi si esprime NAPPI, Considerazioni in

tema di contestazioni nel corso dell’esame dei testimoni o delle parti private, in Cass. Pen., 1992, 2487.

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44 «la dichiarazione utilizzata per la contestazione […] non può costituire prova dei fatti in essa affermati». «In realtà, importa sottolineare come – da qualunque prospettiva si guardi il problema della ricerca della verità nel processo – attraverso l’operazione delle contestazioni, un atto di indagine – che normalmente il giudice non avrebbe potuto conoscere perché inserito nel fascicolo del pubblico ministero – sarebbe potuto essere reso noto al giudice e, legittimamente, utilizzato dal medesimo, sia pur solo per una critica della dichiarazione resa oralmente in dibattimento. La contestazione costituiva, in sostanza, un peculiare strumento per la formazione della prova, all’interno dell’esame dibattimentale» (15). Certo è, però, che il legislatore aveva ormai ben

chiaro che il perno su cui ruota il sistema accusatorio era il contraddittorio svolto nel dibattimento, quindi impose dei limiti stringenti per evitare che, abusando dell’istituto in esame, si consentisse una incontrollata conoscenza del giudice di quanto svolto nella fase delle indagini dall’accusa. Tanto per cominciare, già dalla ratio dell’istituto, desumibile dal primo comma dell’art. 500, si poteva far discendere un suo limite intrinseco: se la contestazione poteva utilizzarsi per contestare, per l’appunto, in tutto o in parte il contenuto della deposizione, essa doveva servire a far cadere in contraddizione il teste e spronarlo a fornire spiegazioni al riguardo, e null’altro. Nonché, solo ed esclusivamente su

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45 quanto egli stesso avesse dichiarato: sono da escludersi, invero, le contestazioni «su dichiarazioni rese da altri testi o elementi di prove risultanti aliunde» (16). Ai sensi del comma 2, inoltre, la contestazione

«può essere esercitata solo se sui fatti e sulle circostanze da contestare il testimone abbia già deposto». «Sicché, non potrà aversi, sotto la veste di una contestazione, la richiesta di confermare una precedente dichiarazione, che il testimone non abbia rinnovato o ribadito. E tuttavia, quando, a seguito di una contestazione, permanga un qualche contrasto tra la versione dibattimentale e la versione predibattimentale dei fatti, non si può certo escludere che sia legittimo richiedere al dichiarante di risolvere la contraddizione, precisando quale delle due versioni intenda confermare» (17). Invero, dato che il testimone è lì che depone, la

contestazione doveva essere utilizzata dopo che questi, con le sue affermazioni, avesse fatto notare, all’accusa o alla difesa, difformità rispetto a quanto già dichiarato; ciò doveva servire «a salvaguardare in qualche modo il principio dell’oralità, con riferimento sia alla formazione del convincimento del giudice […] sia alla ricostruzione dei fatti da parte del soggetto esaminato (che non deve limitarsi ad una pedissequa ripetizione del precedente atto)» (18). La locuzione «già», al comma 2, dà

però da pensare: tale termine stava forse a significare che si sarebbe

16 PLOTINO, Il dibattimento nel nuovo codice di procedura penale, Milano, 1996, 122. 17 NAPPI, Considerazioni in tema di contestazioni nel corso dell’esame dei testimoni o

delle parti private, in Cass. Pen., cit., 2487.

18 AMATO – D’ANDRIA, Organizzazione e funzioni della polizia giudiziaria nel nuovo

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46 dovuto attendere la fine dell’esame oppure chi voleva contestare avrebbe potuto interrompere il testimone? Che la contestazione debba avvenire a fine esame, scrive Manzione, «ci sembra, farebbe perdere gran parte dell’efficacia della contestazione medesima che, psicologicamente potrebbe rivelarsi ben più incisiva se incalzante sui singoli “punti” della deposizione. Soprattutto, però, non vorremmo che il ritenere possibile la contestazione soltanto alla fine dell’esame – in un contesto nel quale la lettera della norma ne limita la portata allo “stabilire la credibilità nella persona esaminata” – inducesse alla conclusione che alla contestazione stessa non debba esser fornita risposta alcuna» (19). Giustamente, una

cosa è contestare a esame finito al sol fine di screditare il testimone; altra cosa è contestare durante l’esame, con l’ulteriore fine di chiedere ulteriori chiarimenti al teste che può rispondere nell’immediato. Per evitare che l’intero verbale filtrasse all’interno del dibattimento, peraltro, la parte contestante doveva limitarsi, leggendo, a ciò che, in maniera difforme, era stato previamente dichiarato; questo limite era però, da un punto di vista oggettivo, più difficilmente rispettabile: chi contestava doveva, in buona fede, auto-limitarsi a riferire al testimone quanto già dichiarato solo ed esclusivamente su quel punto, per evitare che il giudice venisse a conoscere elementi ulteriori, giacché l’escussione sarebbe proseguita; al contempo, il giudice doveva svolgere una sorta di controllo immediato

19 MANZIONE, Art. 500, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di

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47 circa il rapporto di quanto dichiarato dal teste e di quanto contestato dalla parte. «Tale quadro normativo già lasciava intravedere la difficoltà di contenere, entro limiti circoscritti, un fenomeno talmente complesso come quello delle contestazioni; cosicché, fin da allora, potevano sorgere seri dubbi sulla riuscita del tentativo posto in essere con l’introduzione di tale istituto. Troppe cautele, troppe disposizioni rimesse all’applicazione di una prassi abituata ai canoni inquisitori, la quale, da poco tempo, sperimentava, in concreto, l’attuazione di un modello accusatorio, estraneo alla sua cultura» (20): e in questo senso si possono meglio

comprendere le critiche di Devoto già riportate. V’è però da ricordare che, in ogni caso, la dichiarazione usata per la contestazione non può costituire prova dei fatti in essa affermati: l’art. 500 comma 3 non poneva dubbi circa il valore dell’uso delle contestazioni come «prova indiretta» (21).

Come poteva reagire il teste alla contestazione e che idea se ne poteva fare il giudice quindi? Occorre distinguere: il testimone avrebbe potuto ribadire la dichiarazione dibattimentale oppure confermare la precedente versione. Nel secondo caso, «riteniamo, nulla vieta al giudice di ritenere attendibile il “mutamento di rotta” operato dal teste (e quindi, stavolta, la contestazione neutralizzerebbe solo le prime e non conformi dichiarazioni dibattimentali e non “la persona” [del testimone]): né si

20 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 29.

21 Il termine è utilizzato da MANZIONE, Art. 500, in Commento al nuovo codice di

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48 dovrebbe necessariamente concludere per una “ontologica” inaffidabilità del teste che rende, nello stesso dibattimento (e sia pur a seguito di contestazioni) due differenti versioni» (22), cioè nel primo caso. Rimane

il fatto che, comunque, la valutazione che il giudice poteva avere era, esclusivamente, in negativo, in quanto egli non avrebbe potuto usare positivamente la contestazione ai fini decisivi; invero, nella sentenza non ci sarebbe dovuto esser traccia di riferimenti alla stessa.

Dopo aver dettato la regola per l’uso della contestazione, l’art. 500 poneva, al comma 4, una evidente eccezione. Invero, «le dichiarazioni assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell’immediatezza del fatto sono acquisite nel fascicolo per il dibattimento, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dai commi precedenti». Queste dichiarazioni, dunque, se usate per le contestazioni, potevano essere acquisite al fascicolo del dibattimento e, quindi, avere valore di prova piena. La disposizione pone alcune problematiche che è d’uopo analizzare. Già la ratio del comma quarto faceva discutere la dottrina. Alcuni giustificavano il regime alternativo in base alla maggior spontaneità delle dichiarazioni fatte al p.m. o alla polizia durante la perquisizione, che avviene senza preavviso e con sorpresa di chi la subisce, oppure nell’immediatezza del fatto, in quanto l’imputato difficilmente ha il tempo per inventare versioni

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49 divergenti dalla realtà ovvero i testimoni non avrebbero potuto dimenticare i fatti, giacché il lasso temporale era istantaneo. Per altri, in maniera più condivisibile, «non c’è alcun motivo che giustifichi la metamorfosi in prove di queste dichiarazioni, prive di qualsiasi garanzia difensiva; né può ragionevolmente ammettersi una presunzione di genuinità, ché anzi il fatto d’essere raccolte nel clima febbrile delle primissime indagini o nella concitazione delle perquisizioni le rende semmai meno affidabili, anche per quanto riguarda la fedeltà del verbale» (23). Verbale che, peraltro, si concordava potesse essere redatto anche

successivamente: «devono ritenersi rese alla polizia giudiziaria sul luogo e nell’immediatezza del fatto, ai sensi dell’art. 500 comma 4, le dichiarazioni testimoniali verbalizzate in caserma dai Carabinieri poco dopo il fatto, essendo detta verbalizzazione atto necessariamente consequenziale e non eseguibile sul posto per evidenti ragioni di ordine materiale e di sicurezza» (24). Decisione che fece assai discutere, poiché

si consentiva, in fin dei conti, a dar valore di prova piena a dichiarazioni che difettavano, in un certo senso, dell’elemento dell’immediatezza, il quale sta alla base della ratio legis, e potevano, così, essere “sistemate” ad hoc per ogni eventuale esigenza. Di conseguenza, il codice, seppure nei limiti della eccezionalità del caso, entrava in contraddizione con i suoi

23 FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, in Studi sul processo penale, Vol. 2,

Torino, 1992, 83.

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50 principi ispiratori, nonché, soprattutto, col sistema accusatorio che, finora, sembrava sposare appieno ed in maniera quasi ossessiva. Infatti, «pur così limitato l’ambito applicativo della norma è tuttavia sembrato che il vulnus arrecato al principio di oralità fosse tutt’altro che trascurabile, aggravato com’è dal fatto “che si tratta di dichiarazioni raccolte all’infuori di ogni controllo difensivo”» (25). Disquisizioni

ulteriori sorgevano, inoltre, circa il valore ermeneutico da darsi all’ultima parte del periodo. Il problema interpretativo si aveva, invero, per quanto riguarda la locuzione «e»: doveva essere interpretata come un’effettiva congiunzione e quindi bisognava pretendere che entrambi gli elementi costitutivi (sul luogo e immediatezza del fatto) fossero presenti o meno? Secondo la dottrina maggioritaria, nonché a mio avviso la preferibile, il concorso di entrambi gli elementi richiesti era necessario. Vi era però chi sosteneva l’idea opposta, andando incontro alle esigenze pratiche e criticando l’espediente di un’interpretazione letterale-stringente al fine di limitare l’uso del quarto comma. Questa dottrina minore era, d’altro canto, la più seguita dalla giurisprudenza: «la formulazione del comma 4 dell’art. 500 c.p.p., attraverso l’uso della congiunzione “e”, posta tra le parole “luogo” e “immediatezza del fatto”, non consente dubbi in ordine alla necessità che concorrano entrambe queste condizioni. Le espressioni

25 MANZIONE, Art. 500, in Commento al nuovo codice di procedura penale, a cura di

Chiavario, cit., 291; FERRUA, Imputato e difensore nel nuovo processo penale, in

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51 adoperate dal legislatore debbono però essere intese non in senso strettamente rigoroso e letterale, bensì in senso logico e relativo; e quindi, come riferite non solo alla coincidenza vera e propria, ma anche alla contiguità e continuità di ordine spaziale e temporale tra il fatto e l’assunzione delle informazioni, purché la continuità e contiguità siano circoscritte in termini tali da soddisfare l’esigenza di attribuire efficacia probatoria alle sole dichiarazioni rese nelle primissime fasi delle indagini preliminari e in condizioni di tempo e luogo che possano garantire che le stesse siano spontanee e genuine» (26). In conclusione, «le eccezioni

contenute nell’ultimo comma dell’art. 500, più che un taglio rispetto al passato, erano, invece, proprio il risultato di un ennesimo compromesso destinato a far riemergere, nel processo, il principio della ricerca della “verità materiale”» (27). Il sodalizio fra il nuovo codice e il sistema

accusatorio, forse, non era così idilliaco come si potrebbe pensare.

26 Trib. Napoli, 5 dicembre 1990, Cerbone, in Cass. Pen., 1991, 299. 27 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 36.

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52 2.2 Gli interventi della Corte costituzionale

sulla disciplina del nuovo codice

La vita iniziale del modello accusatorio non fu, come facilmente comprensibile, semplice. Ciò è vero già dai primi anni in cui era entrato in vigore il nuovo codice e questo poiché, sebbene larga parte della dottrina auspicasse il superamento del sistema inquisitorio misto, una parte minore persisteva nel preferire quest’ultimo, giacché sembrava più efficiente per la ricerca della verità. Erano due, invero, le spine nel fianco che il processo accusatorio immetteva al tentativo di ricerca della verità materiale: in primis, la formazione della prova, che ormai avveniva nel contraddittorio tra le parti davanti al giudice (28); in secundis, la

separazione tra le fasi processuali, che, logicamente, ne era il corollario più importante. Non solo; resistenze si avevano anche dal punto di vista giudiziario. La cultura inquisitoria, infatti, era ben radicata nei magistrati di allora, sicché questi tendevano a ritenere che tutto il materiale raccolto nella fase delle indagini doveva essere posto al vaglio del giudice. D’altro canto non si può pretendere di cambiare agilmente la mentalità di operatori esperti che, fino ad allora, avevano lavorato con ed in un sistema totalmente differente. Il codice Vassalli non era un traguardo, ma un inizio; ancora lungo sarebbe stato il percorso di abbandono definitivo dei

28 Sui timori della dottrina circa la centralità del dibattimento come momento di

formazione della prova a lesione della ricerca della verità si veda GIARDA, Due

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53 concetti inquisitori. Non devono, così, passare molti anni per aversi le prime richieste di pronuncia costituzionale sul testo originale dell’88. Il 1992 risulterà essere un anno tragico per l’impianto accusatorio del nuovo codice. Con tre sentenze dello stesso anno (nn. 24, 254 e 255), la Corte costituzionale demolisce il perno su cui ruota il codice Vassalli.

La sentenza n. 24 del 1992, «giunta improvvisa, come una fucilata sul processo accusatorio» (29), dichiara illegittimo l’art. 195, comma 4,

c.p.p., il quale prevedeva che «gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni», cioè il c.d. divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria. Per i giudici a quo il rilievo d’illegittimità, era formulato in relazione all’art. 3 Cost., che risulterebbe, nel caso di specie, «manifestamente leso da un’asserita, irrazionale discriminazione, operante tra la testimonianza indiretta del funzionario di polizia giudiziaria, comunque preclusa, e l’analoga situazione del quivis de populo che, deponendo de relato, rende dichiarazioni non in egual misura inutilizzabili» (30). La norma, vietando la testimonianza indiretta della

polizia, garantiva l’escussione diretta del teste informato sui fatti. Nel caso in cui a deporre fosse un ufficiale di polizia giudiziaria, quindi,

29 La suggestiva metafora è di FERRUA, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992:

declino del processo accusatorio, cit., 1456.

30 PERONI, La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria al vaglio della Corte

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54 l’alternativa che si veniva a creare era la seguente: o il testimone viene sentito oppure le sue conoscenze vanno perse, non potendo sopperire l’eventuale testimonianza dell’ufficiale. Questo poiché neppure forzando il dato normativo con fantasiose interpretazioni si potrebbe recuperare quanto perduto con ad es. letture in dibattimento o tramite le contestazioni. Comunque sia, una volta definita come eccezione, quella prevista dal comma 4 viene altresì dichiarata «sfornita di ragionevole giustificazione». Per la Corte, infatti, «non si comprende perché» agli ufficiali di polizia giudiziaria «debba essere inibita quella particolare forma di testimonianza, che è la testimonianza indiretta, ammessa dall'art. 195 con la previsione di limiti e garanzie ben specificate. Non si può certo sostenere, nemmeno in via di mera astrazione, che gli appartenenti alla polizia giudiziaria siano da ritenersi meno affidabili del testimone comune; a prescindere dalla palese assurdità di una ipotesi siffatta, essa risulterebbe poi in insanabile contraddizione col ruolo e la funzione che la legge attribuisce alla polizia giudiziaria» (31). Le conclusioni della

Corte non sembrano essere totalmente convincenti. Da un primo angolo visuale, se si considera la norma impugnata come speciale, come eccezione rispetto alla regola generale della testimonianza de relato, non dovrebbe individuarsi nessun vulnus all’art. 3 Cost. Nondimeno, già la testimonianza indiretta come istituto generico crea problematiche da un

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55 punto di vista del rispetto del principio del contraddittorio, giacché «privando la parte della possibilità di sottoporre all’esame incrociato l’autore della dichiarazione originaria, la testimonianza de auditu sacrifica il diritto di difesa dell’imputato o i diritti dell’accusa, secondo che si tratti di elementi probatori a carico o a discarico» (32). E ad una

conclusione del genere avrebbe potuto giungere la stessa Consulta, «limitandosi tutt’al più ad una declaratoria d’illegittimità parziale», ritiene Peroni, «sol che avesse rinunziato ad inquadrare il divieto in discorso come mero limite soggettivo della testimonianza, non cogliendone così la vera natura di preclusione oggettiva» (33). Questo lo

si comprende bene in rapporto al poliziotto poiché il cittadino comune non partecipa all’attività di indagine. Tuttavia, in riferimento al rapporto tra divieto ex art. 195 comma 4 e principio dell’oralità, la Corte ritiene che «con tale principio non solo non contrasta ma anzi si conforma pienamente la testimonianza degli appartenenti alla polizia giudiziaria su fatti conosciuti attraverso dichiarazioni loro rese da altre persone, testimonianza da assumersi nei modi e nelle forme prescritte dell'esame diretto e del controesame. Non appare quindi convincente l'affermazione contenuta nella relazione al progetto preliminare a proposito dell'art. 195, secondo cui, nella parte che qui interessa, "il disposto del comma 4 dà

32 AMODIO, Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza, in Riv.

it. dir. proc. pen., 1973, 222.

33 PERONI, La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria al vaglio della Corte

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56 attuazione alla direttiva 31 della legge-delega che mira a garantire, ad un tempo, l'oralità della prova e il diritto di difesa". L'oralità della prova è fuori discussione, mentre il diritto di difesa è comunque tutelato attraverso l'interrogatorio diretto e il controinterrogatorio del testimone» (34). Ma questo è vero solo quando è possibile sentire il testimone.

«Caduto quel divieto, le informazioni segretamente raccolte durante le indagini di polizia giudiziaria penetrano nel dibattimento attraverso la testimonianza del verbalizzante, sia o no possibile l’esame della fonte diretta; infatti, anche quando la parte chieda ed ottenga l’esame del teste diretto, le dichiarazioni da costui rese in contraddittorio non si sostituiscono ma si accompagnano a quelle indirette della polizia giudiziaria, e il giudice valuta liberamente le une e le altre» (35). Si aggira

in questo modo il diaframma frapposto tra indagini e dibattimento, attentando al sistema del processo accusatorio. Non solo; con la scomparsa del comma 4 dell’art. 195, si finiva paradossalmente per privilegiare l’impiego processuale delle dichiarazioni raccolte dalla polizia rispetto a quelle acquisite dal p.m., giacché quest’ultimo è impossibilitato a testimoniare. «Ma era proprio irragionevole il divieto di testimonianza indiretta imposto alla polizia giudiziaria?», si chiede retoricamente Ferrua; «niente affatto perché rappresentava semplicemente il corollario dell’irrilevanza probatoria delle dichiarazioni

34 CORTE COSTITUZIONALE, sent. 22 gennaio 1992, n. 24. 35 FERRUA, Il giusto processo, Bologna, 2012, 4.

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57 raccolte dalla polizia giudiziaria. Se è vietata l’acquisizione dei verbali che le contengono, deve anche essere vietata la testimonianza di chi le ha ricevute; ammettere quest’ultima equivale di fatto a vanificare il divieto di acquisizione dei verbali» (36). Così, la declaratoria d’incostituzionalità

lasciava dietro di sé dei risvolti sistematici, alla cui soluzione il suggerimento più comune fu quello di un rimedio tempestivo tramite intervento del legislatore. Non fosse che, lo stesso anno, la mannaia della Corte costituzionale si abbatté nuovamente sul codice Vassalli.

Invero, una volta eliminato il divieto di testimonianza indiretta per la polizia giudiziaria, quindi ammesso il recupero di materiale raccolto dalla polizia durante le indagini preliminari, la giurisprudenza e la dottrina principale si chiedeva se non fosse illogico che non fosse consentito anche per le dichiarazioni raccolte dal pubblico ministero; ovviamente tramite le letture, poiché il p.m. non può testimoniare. La prevedibile risposta arriva con due sentenze costituzionali del maggio del 1992.

La sent. cost. 254 del 1992 dichiarava illegittimo l’art. 513, comma 2, c.p.p. «nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni di cui al comma 1 del medesimo articolo rese dalle persone indicate nell’art. 210, qualora

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58 queste si avvalgano della facoltà di non rispondere» (37). Ancora una volta

si faceva leva su di una discutibile lesione dell’art. 3 Cost., in quanto vi era per la Consulta «disparità di trattamento» (38) rispetto alla disciplina

di cui al primo comma dello stesso art. 513, il quale consente la lettura delle dichiarazioni precedentemente rese dal coimputato in procedimento non separato che rifiuti di sottoporsi all'esame. La Corte non riusciva a concepire la diversità di trattamento fra il coimputato nello stesso procedimento e l’imputato in procedimento connesso.

La sentenza n. 255 del 1992 dichiarava illegittimo l’art. 500, comma 3 e 4, c.p.p. «nella parte in cui non prevede l’acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dai commi 1 e 2, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero» (39). Per il giudice a quo

era irrazionale che l’art. 500 prevedesse l’utilizzabilità delle contestazioni al sol fine di far valutare la credibilità del teste da parte del giudice e non anche come prova a fondamento della sua decisione: nel caso di specie, data la mancanza di prove ulteriori, utilizzare le contestazioni come prove piene avrebbe garantito una decisione del giudice più corrispondente alla (dimenticata?) verità materiale. Ad avviso del remittente, i commi 3 e 4 dell’art. 500 si ponevano in contrasto con le garanzie costituzionali dei

37 CORTE COSTITUZIONALE, sent. 18 maggio 1992, n. 254. 38 Idem.

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59 diritti fondamentali (art. 2 della Costituzione), del diritto di azione (art. 24, primo comma, della Costituzione, con particolare riferimento ai diritti delle vittime del delitto) e della giurisdizione penale (art. 101, secondo comma, della Costituzione, in relazione al principio di legalità posto dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione), le quali postulano strumenti giuridici che integrino un processo giusto ma al contempo non impediscano al giudice la piena cognizione del fatto-reato. Senza dimenticare che, ancora una volta, si sottolineava un vulnus dell’art. 3 Cost., in riferimento, questa volta, alla disparità di trattamento per quanto riguardava il giudizio abbreviato. Singolare, ed assai criticabile, è, però, il ragionamento che fa la Consulta per arrivare alla declaratoria di incostituzionalità. Anzitutto, elenca tutte le deroghe al contraddittorio disposte dal codice stesso: «che la volontà del legislatore esprima anche un principio di non dispersione dei mezzi di prova emerge con evidenza da tutti quegli istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di essere surrogati (o compiutamente e genuinamente surrogati) da una prova dibattimentale: in tal senso depongono le disposizioni sugli atti irripetibili (art. 431, il quale dispone l'allegazione al fascicolo dibattimentale dei verbali degli atti non ripetibili compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria), sugli atti assunti nell'incidente probatorio (art. 392), sulla lettura degli atti assunti dal pubblico ministero o dal giudice nel corso dell'udienza preliminare, quando per fatti o circostanze

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60 imprevedibili ne è divenuta impossibile la ripetizione (art. 512, configurato dalla dottrina come una sorta di necessario correttivo, avente carattere generale, al principio dell'oralità), sulla lettura di dichiarazioni rese dall'imputato (o dall'imputato in procedimento connesso o collegato) qualora sia contumace, assente, ovvero si rifiuti di rispondere (art. 513, come risulta a seguito della recente sentenza n. 254 del 1992), sull'acquisizione di dichiarazioni rese da testi ("nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto"), o dall'imputato ("alle quali il difensore aveva il diritto di assistere") se utilizzate per le contestazioni nell'esame (artt. 500, quarto comma, e 503, quinto comma). Siffatti istituti derogano chiaramente al principio dell'oralità e dell'immediatezza dibattimentale che, come si è detto, non è regola assoluta bensì criterio-guida del nuovo processo contemperare il rispetto del metodo orale con l'esigenza di evitare la "perdita", ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede» (40). Questa premessa serviva ai giudici della Corte per

dimostrare che sebbene il legislatore avesse sollevato il contraddittorio a principio cardine per la ricerca della verità, era lo stesso legislatore che prevedeva poi numerosissime deroghe al principio di cui sopra. Facendo leva su questo, risultavano irragionevoli tutte le altre limitazioni all’utilizzo delle dichiarazioni preprocessuali come prova dei fatti: a

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61 fronte delle eccezioni, si riteneva irragionevole la regola (41). Non solo;

la Corte rilevava da ciò un principio di “non dispersione della prova” che, anche se la carta costituzionale non ne fa menzione alcuna, sembrerebbe intrinseco al nuovo modello processuale: principio di matrice assai inquisitoria, a dimostrazione di come il sistema previgente risultava superato solo formalmente. «Anziché partire dai principi generali del sistema e verificare la compatibilità delle singole disposizioni con i medesimi, la Corte costituzionale, nella sentenza in oggetto, faceva esattamente il contrario: verificava la legittimità della regola […] sulla base delle rispettive norme derogatorie, per poi arrivare a dichiarare l’illegittimità» (42). La metodologia della Consulta risulta senza dubbio

errata. C’è peraltro una frase significativa della Corte laddove sostiene l’irragionevolezza del quarto comma dell’art. 500 (l’eccezione già ampiamente discussa e altresì criticata nel paragrafo precedente) in ragione della regola generale; «si direbbe», commenta Ferrua, «che la Corte abbia intravisto la via giusta e si accinga a dichiarare incostituzionali le eccezioni […]. È un lapsus, poiché subito dopo essa distrugge la regola di esclusione probatoria, generalizzando le eccezioni, diversamente irragionevoli. Nell’universo dell’irrazionale tutte le soluzioni sono razionali» (43).

41 Così FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, cit., 165. 42 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 46.

43 FERRUA, La sentenza costituzionale n. 255 del 1992: declino del processo

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62 V’è un fil rouge che lega queste tre sentenze che val la pena di commentare. Esse si fondano sull’errato presupposto che il contraddittorio sia avverso alla ricerca della verità. E qui parte della colpa va anche data ai sostenitori del sistema accusatorio stesso: giusto è stato concentrarsi sull’importanza della tutela della persona in tutte le fasi procedimentali, ma si sarebbe dovuto sottolineare più visibilmente il fatto che non sarebbero comunque venuto meno l’aspetto dell’ordine pubblico e di tutela della società e dei consociati (44). Il sistema basato sul principio

del contraddittorio è, come ogni forma di processo, comunque volto alla scoperta della verità; certo, con un modus operandi alternativo e più garantistico dei principi e diritti fondamentali della persona rispetto al modello avutosi col codice del 1930. Il fulcro su cui dibattere doveva divenire questo: «la ‘ricerca della verità’, avvertita dalla coscienza sociale come valore irrinunciabile, è agevolata e non ostacolata dal contraddittorio; non perché esso garantisca la genuinità della prova, ma perché è il miglior mezzo per verificarla, per scoprire se difetti» (45). È

vero quanto viene reclamato circa la tipologia di verità: il modello accusatorio ricerca una verità formale, quello accusatorio una verità materiale. È quest’ultima però ad essere ambiziosamente irraggiungibile. Ma, «nella ricerca della verità, tanto è realistico l’accusatorio con le sue

44 Ibidem, 1466. 45 Ibidem, 1467.

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63 oneste ammissioni di fallibilità, quanto è pericolosamente utopico l’inquisitorio, con le sue metafisiche aspirazioni» (46). Col pretesto di

raggiungere una verità oggettiva, si stava espungendo pian piano ogni sistema diretto alla tutela della difesa dell’imputato, che era ora garanzia costituzionale.

L’effetto delle suddette sentenze costituzionali è sconvolgente: addirittura da far ritenere l’indagine preliminare una specie di «gigantesca istruzione sommaria» (47), quindi ben peggio che un ritorno

al passato (48). Era ormai chiara la necessità di trovare un punto d’incontro

fra il laissez-faire del nuovo sistema processuale e l’estremismo inquisitorio del sistema passato. Riconoscere valore probatorio ad atti unilateralmente raccolti dall’accusa nel segreto dell’indagine, ma soprattutto in assenza di partecipazione del difensore, veniva per molti ad integrare un vulnus al diritto di difesa (49). Peraltro, l’operato della Corte

costituzionale non è da criticarsi solamente nel merito, ma anche nel metodo. Il criterio da applicarsi in questi casi non è quello “atomistico”, dovendosi preferire quello “logico-sistematico” (50). Invece i giudici

46 Ibidem 1466.

47 La definizione è di PEPINO, Legalità e diritti di cittadinanza nella democrazia

maggioritaria, Relazione al X Congresso nazionale di Magistratura democratica,

Chianciano 29 ottobre - 1 novembre, 1993, in Questione giustizia, 1993, 282.

48 In questo senso FERRUA, Il giusto processo, cit., 7.

49 Su tutti FERRUA, La testimonianza nel “nuovo” dibattimento: dalla sentenza

costituzionale n. 255/1992 alla legge n. 356/1992, in Dif. pen., 1992, n. 36, 57.

50 Sebbene l’art. 12 delle preleggi non faccia espresso richiamo all’interpretazione

sistematica, è desumibile dallo stesso che «il singolo enunciato deve essere interpretato tenendo conto che esso si inserisce in un sistema normativo, e dunque non può non avere un significato che lo renda coerente, sul piano logico, con gli enunciati che sono stati redatti contestualmente ad esso», PASSAGLIA, Le fonti del diritto e gli organi di

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64 costituzionali hanno valutato le norme in maniera isolata, non considerando il collegamento complessivo con la disciplina della formazione della prova nel modello accusatorio. Non solo ed altresì più grave: è sul presupposto del principio dell’indipendenza del magistrato giudicante, secondo la Corte costituzionale leso nel momento in cui questi non era libero di utilizzare come prova quanto riferito come contestazione, che la Corte stessa decide per l’incostituzionalità. Checché se ne discuta, il ragionamento è pretestuoso, giacché l’art. 101, comma 2, Cost. non stabilisce un’indipendenza assoluta del giudice perché questo è «soggetto» alla legge. Tale soggezione significa che il giudice deve applicare le norme anche nei casi in cui queste contrastino con la sua opinione. La disposizione è volta a tutelare la magistratura da possibili insediamenti degli altri poteri di Stato, ma di certo non garantisce ai giudici il potere di legiferare. «È vero che in situazioni normativamente critiche, quando il legislatore non sa, non può o non vuole intervenire la Corte finisce con lo svolgere un ruolo di supplenza» (51). Il che, sebbene

non stupisca, poiché spesso se ne sente la necessità, dovrebbe comunque ed almeno far discutere. Ciò però che fa “meraviglia” (52) è che la Corte

costituzionale non si sia limitata nel caso di specie a questo, ma che sia andata oltre pretendendo di delineare principi processual penalistici che

garanzia giurisdizionale, in Aa. Vv. Manuale di diritto costituzionale italiano ed europeo, a cura di ROMBOLI, vol. III, Torino, 2009, 43.

51 LATTANZI, Un processo riformato o rivoluzionato?, in Legis. pen., 1993, 355. 52 Il termine è di LATTANZI, Ibidem, 354.

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65 non hanno, invero, alcuna base costituzionale. «Si assisterebbe ad una perversione interna del sistema laddove si consentisse ai giudici di sostituirsi, a tutti gli effetti, al legislatore, delineando i principi-guida del processo» (53). Eppure la Consulta costituzionale pare aver agito in questi

sensi, scardinando le fondamenta del modello accusatorio e «manda[ndo] in frantumi l’intero sistema» (54). È la débâcle del codice Vassalli.

53 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 50.

54 ILLUMINATI, Principio di oralità e ideologie della Corte costituzionale nella

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66 2.3 La disciplina delle contestazioni

durante la legislazione d’emergenza

Il 1992, purtroppo, non verrà ricordato solo per gli interventi della Corte costituzionale sul nuovo codice. Lo stesso anno, infatti, il 23 maggio nei pressi di Capaci e il 19 luglio a Palermo, si avranno due attentati di stampo mafioso nei quali perderanno la vita, rispettivamente, i magistrati del pool antimafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con buona parte delle relative scorte (55). Esso risulterà come uno dei periodi

più cupi nella storia della Repubblica italiana, poiché ci si renderà conto dell’effettiva sussistenza di poteri forti organizzati e radicati sul territorio, troppo a lungo ignorati. Non solo; è sempre nel medesimo periodo che si sviluppano le indagini passate alla storia con la locuzione «Mani pulite» (56) e la scoperta di «Tangentopoli», le quali porteranno al disfacimento

di alcuni dei più importanti partiti politici italiani fra i quali spiccano la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano. La questione a noi interessa specificatamente poiché da tali episodi ne deriverà una legislazione ad hoc che abbraccerà in particolar modo il diritto processual

55 Per un approfondimento sul tema la bibliografia è vasta. Si prenda a mero titolo

esemplificativo BOLZONI, Uomini soli: Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa,

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Milano, 2012; BOLZONI – D’AVANZO, Il capo dei capi: Vita e carriera criminale di Totò Riina, Milano, 2011; BALDO –

BONGIOVANNI, Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino: Dalla strage di Capaci a via

D’Amelio, Reggio Emilia, 2010.

56 Il termine nacque da Giorgio Amendola, deputato del PCI, durante un'intervista

pubblicata a Il Mondo nel 1975 in cui affermava: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta. Come se non si potessero avere dei grandi affari amministrando l'opposizione in una certa maniera». Sarà poi ripreso negli anni ’90 facendo riferimento alle indagini delle procure sulla collusione “politica-imprenditoria”.

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67 penale tutto, ed in specie anche l’istituto delle contestazioni. Fine di tal legiferare è sicuramente il combattere Cosa Nostra, andando ad inasprire il diritto penale sostanziale e soprattutto il diritto penitenziario, ma altresì recepire i dettami della Corte costituzionale espressi nelle sentenze 24, 254 e 255 del 1992, per rendere più sistematica la disciplina del codice di procedura penale. «Spicca [tuttavia] in questo quadro la debolezza del potere legislativo, sulle cui iniziative grava un permanente sospetto di autotutela, spesso non ingiustificato» (57).

Così, il d.l. n. 306/1992 veniva convertito con l’approvazione della legge di conversione n. 356 dell’agosto dello stesso anno. Checché ne dicesse l’allora Ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli (58), è

abbastanza evidente che tale legislazione sia stata più o meno direttamente influenzata dalla pressione emergenziale dell’epoca. Inoltre, nel clima delineatosi a seguito delle sentenze della Corte costituzionale, era prevedibile una riforma che tornasse a riequilibrare il sistema. Invece, la nuova disciplina avalla gli stessi interventi della Corte facendo discutere appunto sul disfacimento del modello accusatorio. Se non altro, col suo intervento in disposizioni di diritto processuale, penale e penitenziario, la riforma ha avuto almeno il pregio di richiamare

57 FERRUA, Il giusto processo, cit., 8.

58 Il Ministro escludeva che il d.l. 306/1992 fosse «il frutto di scelte emozionali ed

emergenziali quanto piuttosto il risultato di valutazioni attente e d studi già da tempo operati in materia di criminalità organizzata»; così MARTELLI in una intervista rilasciata ne Il Sole 24 Ore, documenti, 10 giugno, 1992.

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68 l’attenzione sulla complessità del procedimento penale: «un congegno delicato sul quale dovrebbero effettuarsi operazioni di alta precisione e che invece troppo spesso subisce interventi affrettati e grossolani, approntati sotto l’influenza dell’emozione o dell’ideologia piuttosto che con lucida visione dei fini e dei mezzi» (59).

La legge n. 356/1992 aggiungeva all’art. 500 c.p.p., dopo i primi due commi rimasti invariati, il comma 2-bis. Secondo tale disposizione «le parti possono procedere alla contestazione anche quando il teste rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle circostanze riferite nelle precedenti dichiarazioni». Al riguardo, la dottrina si spaccò immediatamente: per alcuni, l’utilizzo del termine contestazione anche nei casi di rifiuto del teste di rispondere era una mera accessorietà volta a chiarire l’istituto (60); secondo altri, invece, era un’operazione

assolutamente non sistematica ed incoerente (61). Ma che valore possono

avere delle contestazioni sollevate nei confronti di un teste reticente, dato che manca una dichiarazione difforme? In apparenza, si dovrebbero ritenere valevoli solo a minare l’affidabilità e la credibilità del testimone; ma è difficile credere che tale comma sia stato aggiunto per questo: «non è dubbio, infatti, che […] la finalità della contestazione non possa affatto ipotizzarsi, ove si consideri che, da un punto di vista materiale, manca

59 LATTANZI, Un processo riformato o rivoluzionato?, cit., 353.

60 In questo senso CORDERO, Procedura penale, 7° ed., Milano, 2003, 705. 61 Così FRIGO, La formazione della prova nel dibattimento, in Dif. pen., 1992, 330.

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69 uno dei presupposti stessi, [cioè] la duplicità di dichiarazioni, perché possa svolgersi il giudizio di attendibilità» (62). Già si denota una

illogicità e incoerenza di fondo: come un grimaldello la disposizione del comma 2-bis si insinua in un contesto che, per vero, pare non appartenerle per scardinarne il concetto di fondo. «Non potendosi valutare la credibilità della dichiarazione dibattimentale, tale giudizio si svolgerebbe su quella resa in indagini preliminari ed introdotta in dibattimento in forza d un meccanismo che, a questo punto, non sarebbe più quello contestativo, ove si consideri identica a quella propria di una fonte di prova a risultato positivo, donde l’insussistenza di qualsivoglia funzione di valutazione dell’attendibilità» (63). L’unico modo per trovare senso alla

nuova disposizione, allora, è leggerla in combinato al nuovo comma 4°, cosicché le contestazioni fatte al teste possono essere acquisite al fascicolo del dibattimento ed essere valutate come prova se confortate da altri elementi (64). In sostanza, il comma aggiuntivo si risolveva in una

ulteriore ipotesi di recupero di dichiarazioni rese in fase d’indagine. È però nel nuovo comma 3 dell’art. 500 c.p.p. che si nota il vero e proprio cambio di rotta legislativo. Con tale disposizione vengono recepiti i dicta della Corte costituzionale eliminandosi la regola

62 DIDDI, Processo di parti ed esigenze dell’accertamento penale, in Giust. Pen., 1994,

III, 165.

63 Idem.

64 In questa logica FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità

organizzata, in Processo penale e criminalità organizzata, a cura di GREVI, Bari, 1993,

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70 dell’esclusione probatoria: «la dichiarazione non può costituire prova dei fatti in essa affermati». La nuova norma recitava semplicemente che le contestazioni potevano essere utilizzate per valutare la credibilità del teste, ma, di fatto, espungendo la parte in cui si faceva divieto di valutazione probatoria, si arrivava, interpretando in negativo, ad utilizzare il materiale contestato come prova (65). L’eliminazione del

limite formale faceva da spiraglio al proliferare di quella giurisprudenza passata che riteneva che il giudice dovesse essere a conoscenza e quindi poter valutare tutto ciò che era conosciuto dalle parti durante la fase dell’indagine. Invero, il comma 3 si risolveva in un dettato essenzialmente vuoto, di facciata: il “necrofobico” legislatore, timorato dalla possibilità di un ritorno ad un sistema inquisitorio ritenuto “sepolto”, e coerentemente con la sua originale idea di fasi processuali separate a centralità di quella dibattimentale in contraddittorio, salvava solo apparentemente il criterio originario d’uso della contestazione.

Tale rilievo veniva evidenziato, inoltre, dal nuovo comma 4° secondo il quale: «quando, a seguito della contestazione, sussiste difformità rispetto al contenuto della disposizione, le dichiarazioni per la contestazione sono acquisite nel fascicolo per il dibattimento e sono valutate come prova dei fatti in esse affermati se sussistono altri elementi

65 Di parere avverso FASSONE ove ritiene che il nuovo 3° comma ripristina la

disposizione dichiarata illegittima «che ora si sottrae a censura essendo contornata da una serie di altre disposizioni più flessibili; […] continua ad avere la sola efficacia negativa o screditante che le era stata assegnata dall’impianto originario del codice». FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità organizzata, cit., 239.

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71 di prova che ne confermano l'attendibilità». Il nuovo istituto è non più solo strumento di valutazione dell’attendibilità della prova testimoniale, ma vera prova a sé. Prima facie, si potrebbe ritenere che la norma, seppur preveda l’utilizzabilità probatoria del materiale contestato, serva a limitarne l’uso, giacché essa lo prevede solo quando vi sia difformità; ma questo, come sottolinea Ferrua, è un mero lapsus del legislatore poiché la sussistenza di difformità «è appunto il presupposto della contestazione» (66) stessa. Sicché questo primo limite veniva ad auto-sconfessarsi. Il

secondo limite, dato invece dal fatto che per ritenersi il materiale contestato come provante doveva essere accompagnato da altri elementi di prova che ne confermavano l’attendibilità, creava più problemi di quanti ne risolvesse. Invero, il nuovo dettato sembrava confermare la dichiarazione resa durante la fase delle indagini come mero indizio, il quale necessita di concorrere con altre prove indiziarie per poter essere utilizzato dal giudice nella sua decisione, concedendosi così «margini irriducibili di discrezionalità» (67) al giudice. Così, tra il meccanismo del

comma 3 e quello del comma 4 vi è un «rapporto di reciproca esclusione quanto a presupposti ed efficacia» (68). Quindi, laddove con la

contestazione non derivi permanenza di difformità si avrà effettivamente una valutazione dell’attendibilità del teste, come vuole il comma 3;

66 FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, cit., 177. 67 Ibidem, 178.

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72 viceversa, al di fuori di questa situazione, «parrebbe che la portata dell’art. 500, comma 3, c.p.p., sia assolutamente marginale, giacché nell’ipotesi in cui la difformità persista, scatta la regola acquisitiva, e si rileva la presenza di due prove, quella acquisita oralmente e l’altra introdotta mediante contestazione» (69). È però vero che di due

dichiarazioni difformi non sempre una deve essere vera e l’altra falsa: possono essere false entrambe o comunque parzialmente vere ambedue. Ma tale problema non può che essere risolto sulla scorta del comma 4 stesso, con la valutazione di altre prove indiziarie da parte del giudice. Guardando però al tenore letterale della norma, prevedendosi la necessità di indizi ulteriori, si stava chiedendo al giudice di valutare quel tipo di prova c.d. “logica” che dai più era stata già criticata (70). Risolvendosi «in

una pura deduzione di carattere formale partendo da premesse» (71), la

prova logica è eccessivamente pericolosa nel processo penale dove, ex art. 27, comma 2, Cost., l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, raggiungibile solo con la piena prova della sua responsabilità personale. È questo il c.d. sistema della corroboration, dove più elementi indiziari concorrono corroborandosi fra loro per far rilevare come provato un fatto che, in effetti, provato non è. Un simile procedimento, «in quanto utilizza una tecnica combinatoria di elementi

69 Idem.

70 Su tutti CARNELUTTI, La prova civile, Milano, 1992, 72 ss. 71 MANNARINO, La prova nel processo, Padova, 2007, 114.

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73 di varia natura, non garantisce la “fedeltà” del risultato, giacché tutto ciò determina […] una deroga all’oralità intesa appunto quale ‘metodo’ di ricostruzione del fatto, apparendo di matematica evidenza che il sistema risulterà improntato a quel criterio in misura proporzionalmente inferiore in relazione ad ogni aumento delle potenzialità probatorie degli atti d indagine preliminare e, conseguentemente, del contraddittorio» (72).

Certo, non può parlarsi di un ritorno vero e proprio al sistema inquisitorio (73), poiché il giudice deve comunque valutare la credibilità

dell’affermazione del teste e di quanto contenuto nella contestazione; inoltre, è la prima, cioè l’affermazione raccolta nel contraddittorio del dibattimento, che risulta comunque più attendibile: è tuttavia una presunzione relativa, quindi superabile. E qui v’è il problema già segnalato dalla dottrina: l’eccessivo potere valutativo dato al giudice. D’altro canto, almeno inizialmente, la giurisprudenza criticava aspramente la nuova disposizione poiché pareva reintrodurre la previa disciplina valutata dalla sentenza 255/1992 come incostituzionale. Per meglio dire, era proprio il principio di corroboration che veniva ritenuto incostituzionale poiché limitativo della libertà valutativa del giudice. Insomma, da un lato, la dottrina riteneva la disciplina del comma 4°

72 DIDDI, Processo di parti ed esigenze dell’accertamento penale, cit., 171.

73 Per un approfondimento sul perché non può trattarsi di un ritorno al sistema

inquisitorio si veda FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità

organizzata, cit., 242 ss.; cfr. altresì LATTANZI, Un processo riformato o rivoluzionato?, cit., 358, dove si ammette che la mantenuta separazione fra la fase delle

indagini preliminari e quella del dibattimento è garanzia sufficiente per scongiurare il sistema inquisitorio.

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74 eccessiva nel dare troppe facoltà valutative al giudice; dall’altro lato, la giurisprudenza risentiva di un ritorno al passato, giacché preferiva il momento di vuoto derivante dalla sentenza 255/1992 che, fino all’entrata in vigore della norma in discussione, garantiva l’utilizzo del contenuto della contestazione come prova, senza necessità di elementi ulteriori alcuni. Al riguardo si espresse la Corte costituzionale qualche anno dopo (74) che dopo aver chiarito che, sebbene la testimonianza inquinata fosse

inutilizzabile, questo non garantiva per mero automatismo la veridicità del contenuto della dichiarazione ante dibattimento, essa confermava la necessità di quegli elementi ulteriori richiesti dal nuovo comma quarto. Respingendo le censure d’illegittimità, si riconosceva tuttavia come idoneo elemento di riscontro qualsiasi elemento estrinseco, il quale pur non corroborando il fatto specifico, confermasse anche il solo quadro generale del racconto. A mio avviso, la norma ampliava a dismisura i margini valutativi del giudice che, in sostanza, su mere probabilità poteva arrivare a ritenere utilizzabile come prova piena una dichiarazione precedentemente resa dal teste e, magari, condannare l’imputato.

Sicuramente più finalizzato alla lotta alla mafia era il comma 5 dell’art. 500 c.p.p. Questi prevedeva che: «le dichiarazioni acquisite a norma del comma 4 sono valutate come prova dei fatti in esse affermati quando, anche per le modalità della deposizione o per altre circostanze

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75 emerse dal dibattimento, risulta che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga o deponga il falso ovvero risultano altre situazioni che hanno compromesso la genuinità dell'esame». La disposizione risultava opportuna nel contesto di processi alla criminalità organizzata poiché quest’ultima è solita inquinare la prova testimoniale corrompendo o subornando ovvero eliminando anche fisicamente il teste. Invero, in tali situazioni «la deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova appariva ragionevole, essendo la dialettica probatoria, come tecnica di ricerca della verità, inutile in partenza. Il contraddittorio […] non poteva proprio corrispondere alla sua finalità euristica, perché esso presuppone che il teste sia libero di parlare e che, attraverso il confronto diretto con le parti, nell’esame dibattimentale, scaturisca al più esatta ricostruzione dei fatti» (75). Ora, ammessa la necessità e l’utilità della

norma in questione, dobbiamo analizzare il problema che ne derivava e cioè la prova della corruzione del teste. Viene meno, anzitutto, ai sensi del comma 5, l’onere della corroboration: la norma si limita a far riferimento alle dichiarazioni «acquisite a norma del comma 4»; la corroboration non rientra nel concetto di acquisizione, ma in quello successivo di valutazione, sicché non si trasferisce al comma successivo (il quinto per l’appunto) (76). Inoltre, essendo la norma estremamente

75 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 66.

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76 generica non permetteva di trovare parametri per verificare l’esistenza dell’inquinamento della testimonianza. «La logica voleva, tuttavia, che non si cadesse nell’errore di assumere alcuna delle due posizioni estreme: né quella secondo cui sarebbe stato sufficiente un mero sospetto del giudice […]; né quella che riteneva necessario raggiungere una probabilità, risultante dalla pienezza del contraddittorio, tale da equivalere all’ammissione, da parte dello stesso teste, di essere stato corrotto» (77). In conclusione, tutto veniva rimesso al prudente

apprezzamento del giudice, il quale doveva considerare parametri apprezzabili solo da un punto di vista di esperienza e coerenza logica, «al limite della percezione soggettiva» (78).

Infine, il sesto ed ultimo comma del nuovo art. 500 c.p.p. prevedeva che le dichiarazioni assunte nel corso dell’udienza preliminare «costituiscono prova dei fatti in esse affermati, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dal presente articolo». Si noti come anche qui venga meno il criterio della corroboration per la valutabilità delle dichiarazioni come prova: questo perché viene a rilievo la sede, l’udienza preliminare, dinnanzi ad un organo giurisdizionale, con la presenza di entrambe le parti che potevano esercitare, con le domande, il contraddittorio; come fosse «un incidente probatorio ritardato ma

cit., 250.

77 FANUELE, Le contestazioni nell’esame testimoniale, cit., 67.

78 FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità organizzata, cit.,

(41)

77 elastico, immune da anticipazioni se sapientemente indotto» (79).

Le critiche in materia non si fecero attendere. Queste però sono dipese, anche e soprattutto, dai (de)meriti del legislatore per «l’evidente “corto circuito” […] tra la dichiarata intenzione di limitarsi ad adottare misure rassicuranti per il Paese (e deterrenti per la criminalità) e la concreta fisionomia degli strumenti adottati, talora palesemente debordanti dagli scopi proclamati» (80). Se è vero che la legislazione del

1992 aveva come fine il ripudio dell’eccessiva formalizzazione del processo penale, poiché questa era in antitesi rispetto alla lotta al crimine organizzato, non ritengo altresì corretta la conclusione di chi sostiene che «l’abbandono del modello accusatorio […] è un effetto di tale progetto più ampio, piuttosto che l’oggetto diretto d’una volontà in tal senso» (81),

giacché il risultato della lotta antimafia sarebbe stato raggiungibile per altre vie. D’altro canto, è lo stesso Fassone che ammette che il decreto legge e la relativa legge di conversione del 1992 sono «nati sull’onda di una grande commozione, e quindi probabilmente non immuni da sbilanciamenti correggibili»; è però solo un lapsus, in quanto, proseguendo, egli ammette che «hanno, in fondo, semplicemente fatto

79 FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità organizzata, cit.,

251.

80 CHIAVARIO, Il processo penale dopo la nuova decretazione d'emergenza: ancora

una volta alla ricerca di una bussola, cit., 341.

81 FASSONE, La valutazione della prova nei processi di criminalità organizzata, in

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